La vita, quella che conta

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La vita, quella che conta
La vita, quella che conta
Anna si svegliò nel buio della sua casa. Era mattina, una mattina come tante o forse come poche.
Nella campagna mantovana tutto taceva, c’era solo la voce dei grilli a tenerle compagnia. Scese le
scale in punta di piedi, senza far rumore…un’abitudine che aveva fin da piccina, quando la
domenica presto si svegliava e scendeva giù, dove trovava la sua adorata nonna Giuseppina intenta
a preparare il formaggio. Allora si nascondeva dietro lo stipite e la osservava di nascosto… la
sicurezza dei suoi gesti la faceva star bene e rimaneva lì a fissarla tutto il tempo che poteva, fin
quando la nonna non la scorgeva e le diceva “Vieni bimba mia. Ti preparo il latte caldo, come piace
a te…”. Il latte non le piaceva, ma non gliel’aveva mai detto. La felicità che vedeva negli occhi
della nonna quando pronunciava quelle parole, riusciva a cambiare per qualche istante anche la
natura delle sue papille gustative. Quella mattina però quando scese giù, nella cucina rustica,
arredata in modo molto spartano, non c’era nessuno ad aspettarla. Carlo se ne era andato il giorno
prima, con tutte le sue cose. Le aveva detto che la vita di campagna non gli piaceva più, gli stava
“stretta” …cosa significa alla fine questa espressione? La vita, così larga, piena, alle volte
meravigliosamente struggente, può mai star stretta? Le scarpe sono strette, un corpetto può essere
stretto.
Una camera d’albergo, rifugio di due amanti, può essere stretta. Ma non una vita. Era tornato
dall’ufficio, il suo ufficio pieno di mobili moderni, e di aggeggi tecnologici, luminoso, animato da
colori chiari, fintamente leggeri e fintamente allegri, aveva posato la borsa sul tavolo, quella color
cuoio che Anna gli aveva regalato il Natale scorso, quella che aveva trovato nel negozio vintage in
una stradina di Bologna…. Quella che aveva nella tasca interna ancora il biglietto che recitava “ A
te Carlo, che hai illuminato d’amore una vita che fino ad ora era stata quasi al buio….con amore la
tua Anna”……. L’aveva guardata negli occhi e aveva semplicemente detto “ Non mi piace la
campagna, questa vita mi sta stretta. Non sento più ciò che sentivo prima. penso che me ne andrò un
po’ da Giacomo. Ti dispiace?”. Anna si era voltata, e l’aveva guardato con aria curiosa, e con un
mezzo sorriso aveva detto” Giornata complicata amore?”. Aveva spento il gas sotto il brodo di
carne e si era seduta al tavolo rosa con i fiori incollati su, aveva allungato le lunghe gambe olivastre
mentre pensava banalmente “ Dovrei chiedergli il perché di tutto ciò, se ha un’altra, se mi ama
ancora, queste robe qui. Ma invece io vorrei solo mangiare, ho una maledetta fame.” Carlo la
fissava, si sentiva un magone allo stomaco, un senso di nausea… aveva come la sensazione che
sarebbe svenuto da lì a poco.
Si aspettava una valanga di domande, accuse velate e non, insinuazioni varie…e invece Anna lo
fissava con aria assente. Aveva le sue cose forse? Gli sembrava di no, anche se era stato distratto
ultimamente …da quando ..beh, lasciamo stare. Aveva deciso di lasciare star quell’argomento,
l’argomento. I due occhi chiari che lo turbavano mattina, giorno e sera, non dovevano riguardare
Anna. E non l’avrebbero riguardata. Anna fece uno sforzo e pronunciò le parole che un eventuale
pubblico che non c’era si sarebbe aspettato da lei. Come da copione, finse, alternando i vari stati,
dispiacere, tristezza, curiosità, finta comprensione, finta partecipazione. Tutto più o meno finto,
come i fiori incollati al tavolo di plastica che aveva decorato lei, in un momento di piena creativa,
post corso di decoupage organizzato dal Comune. Si era divertita in quel mese di corso, avere a che
fare con quelle donne per lo più anziane, così diverse da lei, l’aveva molto entusiasmata... Anna era
così.
Sempre alla ricerca di emozioni nuove, avida di nozioni, di poesia, di cucina, di arte… nella sua
libreria l’occhio ora cadeva su Neruda e ora cadeva su “101 modi per cucinare il riso”. Del resto,
tutto fa brodo. Si dice. A proposito di brodo, il profumo della cena si era espanso velocemente,
facendo pensare ad Anna gli agnolotti che tanto amava. La settimana prossima avrebbe invitato a
casa Deborah, a lei piacevano molto. Tanto ora avrebbe avuto a disposizione sette sere su sette per i
suoi inviti. Carlo ancora parlava, dei quarant’anni, di Milano che gli mancava, del divorzio dei
genitori mai superato (anche Carlo si era forse dato alla visione dei talk-show pomeridiani?), degli
anni bellissimi passati con lei (bellissimi?), della casa in campagna che faceva “troppo ritiro
spirituale” (ma come parlava? Bah), della sua laurea in filosofia che non l’avrebbe mai portata da
nessuna parte (le lauree erano dei mezzi di locomozione? Interessante), dell’alienazione
(addirittura) provata in quei 4 anni con lei, in quella casa. “Bella, ma cavolo troppo distante dalla
vita, la vita, Anna, virgola, quella che conta! Non quella in cui credi tu, piena di nozioni new-age e
verdure coltivate con proprie mani”. Ah già, perché nella vita “quella che conta, non si mangia. Si
sopravvive, annaspando tra giorni lavorativi, brunch, e riunioni con il capo. Senza verdure coltivate
da sé. Perché quelle fanno troppo “new age”. Sorrise, neanche troppo di nascosto. Povero Carlo,
non avrebbe fatto prima dirle che si era innamorato di un altro respiro? Lo avrebbe apprezzato di
più. Può capitare a tutti, poteva capitare anche a lei. Ma lei si nutriva di un respiro per volta. Era
stato sempre così. E lo sarebbe stato anche da domani in poi. Anna lo ascoltò pazientemente
distante, prestava attenzione più o meno solo alla parte iniziale dei concetti che lui esprimeva, la
parte centrale e quella finale erano facilmente intuibili. Almeno per lei. Pregò che quel noiosissimo
monologo fosse finito, e quando finalmente Carlo pronunciò la frase che generalmente chiude quel
genere di discorsi” Mi dispiace”, si alzò sollevata e gli disse” Va bene, ho capito. Tu mangi? Io
sono molto affamata. E sono già le 21 15, sai che odio mangiare troppo tardi”.
Erano le 7:40, e nella sua casa c’era silenzio. E questo ora era silenzio autentico. Come i profumi
della campagna, la sua campagna. Autentico come il sorriso di Deborah o come di quello di Giulia,
ancora più bella dopo che era nata la sua splendida bambina. Aprì la finestra e vide come un’ombra:
era certa di sapere chi fosse. Si nonna, io sto bene. Non come prima. Più di prima.
Meravigliosamente bene. L’aria fresca le solleticava il viso, il viso bruno e fiero. Ora poteva andare
a fare il caffè, era pronta. Chiuse la finestra e sorrise. Un nuovo giorno si era schiuso per lei. Pieno
di luce, e di amore. Quello infinito per la vita.
Maddalena Volpe