La Globalizzazione realizzata: il caso Europa
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La Globalizzazione realizzata: il caso Europa
1 LA GLOBALIZZAZIONE REALIZZATA: IL CASO UNIONE EUROPEA L’esperienza dell’Unione Europea rappresenta un interessantissimo case study del processo di globalizzazione. Mentre vi sono state e vi sono tutt’ora delle esperienze di creazione di un mercato integrato a livello sovrannazionale (ad esempio, il Nafta nell’America del Nord, la CEE, nell’Europa del recente passato) ottenute eliminando buona parte delle barriere tariffarie e non tariffarie che impediscono la libera circolazione delle merci, quello europeo rappresenta un caso estremo nel quale il processo di integrazione si è spinto tanto avanti da aver creato un unione monetaria allo scopo di eliminare anche la barriera rappresentata dal tasso di cambio e dall’uso di valute differenti. Per questo l’esperienza europea rappresenta una esperienza interessantissima - seppure non globale in senso stretto - nel quale il processo di globalizzazione ha avuto come obiettivo primario, se non esclusivo, quello di creare un mercato unico anche a costo di erodere tutti gli strumenti nazionali di politica economica (a cominciare dalla valuta e quindi dalla politica monetaria) che potevano ostacolare la libera circolazione delle merci e dei fattori produttivi e la competizione fra le imprese e i cittadini. Ovviamente vi sono precedenti storici importanti anche di unioni monetarie; per rimanere a casi a noi più vicini pensiamo all’unione monetaria italiana e tedesca dell’ottocento e a quella tedesca degli anni novanta del secolo scorso1. In tutti i casi precedenti, tuttavia, l’unificazione monetaria, ovvero l’adozione di una valuta comune, seguiva da presso o era contemporanea al processo di unificazione politica. Il caso europeo, invece, è del tutto anomalo e unico nella storia: l’unificazione monetaria non solo non si è accompagnata con l’unione politica ma non vuole neanche esplicitamente precederla. La lingua, la bandiera e la moneta sono sempre stati fra i contrassegni più evidenti di una comunità nazionale. Mentre la prima vive di vita propria e segue dinamiche di lungo periodo non sempre e non tanto influenzabili politicamente e la seconda è quel che appare, ovvero un mero simbolo per quanto pieno di significanza, più o meno retorica, la moneta è tutt’altra cosa: è un importante strumento di politica economica a cui può essere molto costoso rinunciare specialmente quando non è sostituita da strumenti di equale efficacia. A meno che non si intenda esplicitamente rinunciare agli strumenti di politica economica nell’idea che essi siano ridondanti, se non addirittura negativi, vista la capacità dei mercati di autoregolarsi. 1.1 L’EUROPA INDOSSA LA CAMICIA DI FORZA Usando il trilemma di Rodrik presentato nel capitolo precedente, appare abbastanza evidente che il modello usato in Europa è quello della camicia di forza. Rimangono pienamente in essere le prerogative degli Stati nazionali, tanto che il ruolo effettivo del Parlamento Europeo è assolutamente marginale e il vero organo decisionale è il Consiglio Europeo, espressione diretta dei Governi nazionali, mentre l’integrazione dei mercati, dei beni e dei fattori produttivi, diviene in linea teorica pressoché perfetta. In nome del mercato unico e della libera competizione di merci e fattori produttivi all’interno dell’unione, si sono sottratte agli Stati nazionali tutta una serie di prerogative in termini di politica economica, dalla politica commerciale alla politica industriale, dalla politica monetaria alla politica del tasso di cambio. Grazie ad accordi ad hoc come il “Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell'unione 1 Per un’interessante lettura eterodossa della recente unificazione tedesca si veda Giacchè 2013 economica e monetaria”, maggiormente noto come Fiscal Compact, anche buona parte della politica fiscale è stata, almeno parzialmente, sottratta all’autonomia nazionale. Il Fiscal Compact è un accordo nel quale i Paesi sottoscrittori si impegnano a legarsi le mani in termini di politica fiscale, accettando di attenersi a dei limiti prefissati per quanto attiene al rapporto deficit/PIL e al rapporto debito/PIL2. Particolarmente indicativo è l’inserimento del principio del pareggio di bilancio in una legge di stampo costituzionale. La cessione della sovranità nazionale in termini di politica fiscale non solo doveva essere effettiva ma doveva essere ulteriormente rafforzata attraverso uno strumento giuridico (una legge di rilevanza costituzionale) superiore a quello delle leggi ordinarie. Usando la metafora della camicia di forza, veniva chiesto alle autorità fiscali nazionali non solo di legare la camicia con un lucchetto ma di porre un’eventuale chiave particolarmente lontano dal soggetto per rendere ancora più complicato procedere allo slegamento. La questione cruciale, tuttavia, è un’altra. Solo una parte di questa sovranità veniva, infatti, trasferita verso un organo superiore di tipo comunitario, la componente principale di questa sovranità semplicemente svaniva. La maggior parte degli strumenti di politica micro e macro economica veniva rimessa semplicemente nella scatola degli attrezzi per non essere usata più. Fra gli strumenti che venivano trasferiti al livello comunitario, due sono i più rilevanti: la politica commerciale e la politica monetaria. La prima ha radici antiche ed è nata con l’unione doganale: dal 1° gennaio 1970 le decisioni relative alla politica commerciale comune vengono adottate dal Consiglio Europeo a maggioranza qualificata3. L’altra è, come noto, più recente. I paesi dell’eurozona hanno perso qualsiasi autonomia di politica monetaria e hanno consegnato la gestione della stessa alla Banca Centrale Europea. Tale cessione di sovranità, tuttavia, non è stata per nulla neutrale: lo strumento di politica economica si è andato, infatti, depotenziando nel passaggio. Il primo indebolimento passa attraverso la natura stessa della BCE che non è un organismo politico-democratico che direttamente o indirettamente risponda alla volontà popolare, ma un organismo tecnico, formalmente autonomo dalla sfera politica. Il principio della autonomia della Banca Centrale rispetto al Governo è ampiamente diffuso a livello mondiale e risponde a un esigenza, in parte condivisibile, di separazione fra gli obiettivi di medio lungo periodo della Banca Centrale e quelli del Governo con la finalità implicita di evitare che la politica monetaria possa essere piegata a massimizzare il consenso politico del partito in carica col rischio di indebolire la stabilità monetaria e finanziaria4. In Italia, ad esempio, la banca centrale regolava in autonomia la politica monetaria dai tempi del famoso divorzio Tesoro-Banca d’Italia del 19815. Tuttavia l’esperienza dell’eurozona ha una singolarità che non può non essere notata: mentre negli Stati Uniti la Federal Reserve ha di fronte un governo e un presidente forte, eletto democraticamente dalla popolazione americana, e quindi le decisioni, seppur formalmente 2 Tre sono gli elementi principali del trattato: – l’inserimento del principio del pareggio di bilancio (cioè un sostanziale equilibrio tra entrate e uscite) nelle costituzioni nazionali (in Italia, questo quando con la legge del 17/4/2012 si è modificato l’articolo 81 della Costituzione); – il limite al deficit pubblico pari al 3,0 % del PIL per il deficit generale e del 0.5 % (dell’1%) per il deficit strutturale – che non tiene conto degli effetti del ciclo economico – per i Paesi con un rapporto debito/PIL superiore al 60% (per gli Stati con rapporto debito/PIL inferiore al 60%). Come è oramai notto a tutti questi valori soglia sono del tutto arbitrari e non sono il precipitato di alcuno studio economico sia teorico che empirico. 3 Si potrebbe aggiungere che le competenze passano da un organo a piena rappresentatività democratica, il parlamento nazionale, a un organo di democrazia di secondo livello come il Consiglio europeo. Quest’ultimo peraltro non è neanche vincolato dal parere del Parlamento Europeo nel decidere di modificare la politica commerciale così come di stipulare nuovi accordi commerciali con Paesi terzi. Su questi aspetti torneremo in seguito. 4 In termini semplicistici potremmo dire che è l’applicazione del sano principio di divisione dei poteri nel campo della politica economica. 5 Nel 1981 con una famosa lettera l’allora ministro Andretta comunicò al Governatore che la Banca d’Italia era liberata dalla consuetudine/obbligo di acquistare i titoli di Stato rimasti invenduti all’asta e quindi non sottoscritti dal mercato privato. La politica monetaria diventava in quel momento pienamente separata dalla politica fiscale (Ciampi, 2001). indipendenti, nascono comunque dalla dialettica fra due istituzioni autonome ma non separate e conflittuali, la banca centrale europea non ha di fronte un governo federale dotato della stessa autorevolezza e in grado di mandargli segnali non ambigui. Il secondo fattore di indebolimento è ancora più importante: fin dall’inizio la Banca Centrale Europea nasce depotenziata, in altre parole non conserva tutti i poteri e le prerogative che avevano molte banche centrali nazionali. In ossequio alla dottrina economica dominante quando fu fondata, il monetarismo, a essa fu assegnato statutariamente un solo obiettivo: difendere la stabilità dei prezzi (art. 2 dello Statuto della BCE)6. Conformemente all'articolo 105, paragrafo 1, del trattato, l'obiettivo principale del SEBC è il mantenimento della stabilità dei prezzi. 7 In base al paradigma monetarista, la politica monetaria è inefficace in termini reali, ovvero non è in grado di modificare, nemmeno nel brevissimo periodo con politiche attese, il livello del reddito e dell’occupazione e quindi non può essere usata come politica anticiclica per contrastare gli effetti negativi di una recessione (Barro e Gordon, 1983). L’unico effetto di una politica monetaria è l’aumento della inflazione. Se ciò fosse vero, l’unica politica monetaria saggia sarebbe quella che mantiene basso il livello d’inflazione garantendo quindi la stabilità dei prezzi. Appare particolarmente rilevante il paragone con il testo dello statuto della Federal Reserve americana che recita nella sezione 2A, Obiettivi della Politica monetaria (enfasi mia): The Board of Governors of the Federal Reserve System and the Federal Open Market committee shall maintain long run growth of the monetary and credit aggregates commensurate with the economy's long run potential to increase production, so as to promote effectively the goals of maximum employment, stable prices, and moderate long-term interest rates 8. Questo ovviamente non implica che la politica della Fed sia stata sempre rivolta a ottenere il risultato della piena occupazione, anzi vi sono stati periodi nei quali la Banca Centrale americana ha adottato politiche di forte contrazione monetaria ben consapevole dei loro effetti recessivi sul reddito e l’occupazione. Significa invece che essa stessa aveva sempre, almeno formalmente, la discrezionalità, in rapporto dialettico con il Presidente in carica, di definire quale fosse il miglior compromesso fra i due obiettivi principali della sua azione. Questo potere discrezionale - che aveva anche la Banca d’Italia e molte delle banche centrali europee - non è invece per statuto nelle mani della BCE. Questo diverso atteggiamento si è concretizzato nel recente passato in un diverso comportamento della BCE rispetto alla Federal Reserve: la prima appare aver avuto un atteggiamento molto più “conservatore” negli ultimi vent’anni rispetto alla seconda, in altri termini sembra aver assegnato un peso maggiore alla stabilità dei prezzi e aver avuto un comportamento molto più cauto nel contrastare i movimenti del ciclo economico (De Grauwe, 2014). Un altro e importante ruolo che le banche centrali nazionali possedevano e che invece alla BCE viene formalmente vietato di svolgere è quello di fungere di prestatore di ultima istanza per il governo in carica (De Grauwe, 2015). Anche dopo il divorzio del 1981 la Banca d’Italia aveva a facoltà di acquistare titoli emessi, anche sul mercato primario, dallo Stato o da altri organi dell’amministrazione pubblica qualora lo valutasse 6 In realtà il trattato non esclude il perseguimento di altri obiettivi (ad esempio un elevato livello di occupazione), ma essi sono visti sempre come secondari e non devo pregiudicare l’obiettivo principale. 7 Lo Statuto della Banca Centrale Europea può essere consultato sul sito della BCE https://www.ecb.europa.eu/ecb/legal/pdf/it_statute_2.pdf 8 Consultabile all’indirizzo http://www.federalreserve.gov/aboutthefed/fract.htm opportuno. La possibilità di finanziare i propri debiti attraverso la stampa di nuova moneta viene definita signoraggio per l’ovvia ragione che solo un Sovrano o un Signore appunto, ha questa opportunità. Nello Statuto della BCE, invece, viene esplicitamente vietata la concessione di scoperti di conto o qualsiasi altra forma di facilitazione creditizia da parte della BCE o da parte delle banche centrali nazionali, a istituzioni o agli organi della Comunità, alle amministrazioni statali, agli enti regionali, locali o altri enti pubblici, ad altri organismi di settore pubblico o a imprese pubbliche degli Stati membri, così come l'acquisto diretto presso di essi di titoli di debito da parte della BCE o delle banche centrali nazionali (art. 21 comma 1 dello statuto). Va da sé che il potere di signoraggio, formalmente infinito, nella realtà ovviamente non lo è. Se il sovrano esagera, la moneta che emette perde rapidamente di valore e il suo prezzo relativo rispetto ai prodotti che permette di acquistare diminuisce, ovvero aumenta il livello dei prezzi dei beni e dei servizi. Avere però l’istituto di emissione come prestatore di ultima istanza fa sì che un Governo che emetta titoli di debito nella valuta nazionale tecnicamente non possa fallire o fare default usando il termine anglosassone più di moda. Gli Stati sovrani che hanno dichiarato insolvenza, come ad esempio l’Argentina nel 2001, sono stati costretti a farlo perché avevo il debito emesso non nella valuta nazionale ma in valuta estera per la quale ovviamente non avevano alcun potere di signoraggio. La creazione dell’Unione Monetaria e l’adozione dello statuto della Banca Centrale sovra ricordato ha posto i Paesi dell’Unione in una situazione non del tutto diversa da quella dell’Argentina. Il Governo italiano è infatti indebitato in una valuta che non è formalmente una valuta estera ma che è come se lo fosse perché il Governo non ne controlla l’emissione, neanche indirettamente9. In conclusione è del tutto evidente che la creazione del mercato unico europeo e dell’Unione monetaria europea, ovvero della globalizzazione in stile europeo, è avvenuta a spese della possibilità delle comunità nazionali di realizzare le loro preferenze in termini di politica industriale, politica del cambio, di politiche sociali10. Il mercato unico e la presenza di Stati nazionali ha fortemente depotenziato la democrazia. Mentre è indubbio che l’Europa abbia tentato negli ultimi decenni di darsi una qualche forma di governance comunitaria, questi tentativi sono stati fortemente penalizzati sia da resistenze di tipo nazionalistico che dalla ideologia imperante che ritiene tale governance sia inutile se non dannosa vista la capacità dei mercati di autoregolarsi al meglio. All’interno di una ideologia che ritiene che i mercati funzioni sempre in maniera efficiente, il sistema politico-economico europeo è uno dei sistemi migliori possibili in quanto la maggior parte della governance economica non è tesa a regolare i mercati o a correggere i loro fallimenti quanto a “legare le mani dei governi” per impedir loro di interferire con le magnifiche sorti e progressive del mercato unico11. 1.2 L’EURO AL PASSO DELL’OCA Il titolo del capitolo non vuole maliziosamente richiamare i tempi nei quali la supremazia germanica si concretizzava con la ritmica marcia tradizionale del suo esercito e con il rumore dei loro stivali che echeggiava in molte capitali europee e OCA non sta neanche per l’animale noto, a torto o a ragione, per la sua colpevole ingenuità, ma è l’acronimo di Optimal Currency Areas (in italiano AVO: aree valutare 9 All’improvviso lo Stato italiano si è trovato nelle stesse condizioni del comune di Pescasseroli con la differenza non da poco che il Comune di Pescasseroli è inserito nella unione fiscale dello Stato Italiano, mentre, come vedremo meglio in seguito, non esiste un unione fiscale europea e gli elettori del comune di Pescasseroli sono anche elettori dello Governo Italiano mentre gli italiani non eleggono, se non in maniera del tutto indiretta, il Consiglio europeo. 10 Il caso della Grecia sta lì a ricordarlo. 11 Il pessimismo anti-retorico dell’ultimo Leopardi della Ginestra sarebbe un ottimo antidoto naturale all’attuale bulimia ideologica. ottimali). Sviluppata in origine dall’economista Robert Mundell (Mundel, 1961) – per la quale fu insignito del premio Nobel nel 1999 – e poi arricchita anche dall’opera di altri economisti, la teoria vuole mettere in evidenza quali siano le caratteristiche che un gruppo di Paesi deve possedere per formare un area valutaria ottimale, ovvero una unione monetaria nella quale i vantaggi dell’unione siano superiori ai costi12. In altre parole vuole rispondere alla domanda: dato un gruppo di Paesi conviene loro adottare una sola valuta? La teoria nella sua essenza è abbastanza semplice. Se consideriamo per facilità due soli Paesi (G e I)13, il costo principale del formarsi fra loro di un unione monetaria è la perdita della strumento variazione del tasso di cambio. Questo strumento risulta utile quando i due Paesi siano colpiti da uno shock esterno asimmetrico – ovvero che colpisce solo, o maggiormente, uno dei due o quando essi fossero tanto dissimili da reagire in modo del tutto differente allo stesso shock esterno14. Se, per esempio, aumentasse il grado di competitività dei prodotti di G e diminuisse quello dei prodotti di I, il reddito e l’occupazione di I diminuirebbero mentre il reddito e l’occupazione di G varierebbero in senso opposto. Inoltre si creerebbe uno sbilancio commerciale a favore di G; la bilancia commerciale, la differenza in valore fra le esportazioni e le importazioni, di I peggiorerebbe, quella di G migliorerebbe. In riposta a questo shock, il Paese I potrebbe svalutare (e quindi il Paese G rivalutare) il tasso di cambio. Questo farebbe automaticamente aumentare il prezzo dei beni prodotti da G e diminuire il prezzo dei beni prodotti da I, riportando, almeno nel breve periodo, la competitività ai livelli pre-shock e riequilibrando la bilancia commerciale. Se il Paese I e il Paese G facessero parte di un’unione monetaria, il riaggiustamento tramite la svalutazione non sarebbe chiaramente possibile. E’ abbastanza ovvio che il costo della perdita di tale strumento è relativamente basso quando: a) i due Paesi siano talmente integrati fra loro e così simili per quanto riguarda la struttura economica che l’occorrenza di un shock che incammini le due economie su sentieri divergenti abbia una probabilità molto scarsa di verificarsi. b) esistano degli strumenti alternativi che possano svolgere la stessa funzione svolta dal tasso di cambio. Se quindi l’analisi empirica dovesse suggerire che nell’Unione Europea uno dei due presupposti - a) o b) - o magari entrambi risultassero verificati, allora i Paesi dell’area Euro potrebbero godersi i vantaggi dell’unione monetaria senza pagare dei costi eccessivi. I vantaggi di un unione monetaria possono essere analizzati da due prospettive diverse: quella politica che sarà in parte oggetto del prossimo paragrafi e quella economica. Per quanto attiene a quest’ultima, essi provengono principalmente da tre fonti: dai minori costi di transazione che gli operatori economici devono sostenere quando operano su Paesi differenti, dal risparmio sui costi della copertura del rischio di cambio quando si realizzano scambi o investimenti transfrontalieri, dalla maggiore trasparenza del sistema dei prezzi che dovrebbe aumentare il grado di concorrenza e quindi i flussi commerciali fra i diversi Paesi15. A 12 La letteratura riferimento è abbastanza vasta. I lettori curiosi di saperne di più possono leggere De Grauwe, 2014. Interessanti per il caso europeo sono anche le considerazioni di Bagnai, 2012 13 Le lettere sono assegnate in modo del tutto casuale senza pensare a nessun Paese in particolare, diciamo. 14 In realtà le stesse considerazioni sono valide se ad esempio i due Paesi avessero un sentiero di crescita dell’economia e della competitività differente nel tempo 15 In teoria questo avrebbe dovuto condurre a una minore dispersione dei prezzi dei prodotti fra i Paesi dell’Euro-zona. La cosa curiosa è che sembra essere accaduto il contrario (Wolszczak-Derlacz, 2008). Uno studio recente ad esempio ha mostrato come l’avvento della moneta unica non abbia diminuito la dispersione del prezzo degli autoveicoli (Dnir e Strasser, 2013). In parte la stessa cosa avviene a livello nazionale. Il permanere di una forte dispersione dei prezzi testimonia come i mercati siano molto lontani dal quel grado di perfezione ed efficienza che spesso la teoria mainstream in modo ideologico assume. questi qualcuno aggiungerebbe l’effetto disciplinatorio della unione monetaria che impedisce ai governi di risolvere problemi economici strutturali attraverso la scorciatoia dell’inflazione e della svalutazione. La perdita dell’autonomia monetaria può quindi essere vista sia come un costo che come un vantaggio a seconda del background teorico o ideologico. Ma questo appare più un vantaggio di tipo politico, su cui torneremo più avanti. L’effetto positivo della moneta unica avrebbe dovuto condurre a un aumento del commercio intraeurozona. Studi recenti, tuttavia, stimano che l’impatto dell’unione monetaria sul commercio sia stato relativamente modesto (Glick e Rose, 2015). La cosa non sorprende se si tiene conto del fatto che l’incidenza dei costi di transazione visti prima può essere notevole per piccoli importi - per il turista che passi un fine settimana a Londra - ma diventa risibile per i grandi operatori. D’altra parte a livello mondiale il commercio internazionale ha mostrato una crescita esponenziale negli ultimi decenni sebbene a livello mondiale dominino i tassi di cambio flessibili (Bagnai, 2012). I vantaggi strettamente economici dell’Unione monetaria sembrano essere quindi sufficientemente modesti; e questo appariva chiaro fin dall’inizio16. Gli svantaggi invece non sembrano essere parimenti trascurabili. I due presupposti che avrebbe permesso di minimizzare il costo dell’unione monetaria non appaiono essere applicabili al caso europeo. Ad esempio, gran parte dell’analisi empirica, suggerisce che la condizione a) richiamata in precedenza non è verificata (De Grauwe, 2014). Mentre un sotto insieme dei Paesi dell’Euro ha una struttura economica relativamente simile, questo non si può dire per il complesso dell’area. E’ quindi abbastanza probabile che i Paesi vengano colpiti in modo asimmetrico da shock esterni o possano mantenere nel tempo percorsi di crescita della competitività divergenti, come in realtà è accaduto. Per tenere sotto controllo i costi dell’unione monetaria allora, sarebbe necessario che il presupposto b) fosse almeno verificato, cioè che esistessero meccanismi di riequilibrio alternativi al tasso di cambio. I meccanismi che possono essere usati in alternativa alla variazione del tasso di cambio sono principalmente di due tipi; il primo è di natura strutturale, il secondo di politica economica. Se il mercato dei beni e del lavoro fossero sufficientemente flessibile, sia in termini di prezzi che di mobilità dei lavoratori, la variazione del tasso di cambio non sarebbe necessaria. La contrazione della domanda nel Paese I porterebbe a una diminuzione del livello dei prezzi e dei salari mentre l’opposto accadrebbe in G. Il prezzo relativo dei prodotti del Paese I rispetto ai prodotti del Paese G, valutato in termini della valuta di G, è infatti pari a E PI PG dove E è il tasso di cambio nominale17 e PI e PG sono i livello dei prezzi nei Paesi I e G rispettivamente. Nella letteratura economica questo valore viene anche chiamato il tasso reale di cambio. Per riassorbire lo shock iniziale, occorre che questo rapporto diminuisca (il tasso reale di cambio si deprezzi), per rendere i prodotti di I relativamente più a buon mercato rispetto a quelli di G, ridistribuendo la domanda fra i due Paesi in senso opposto rispetto allo shock iniziale18. Se siamo in un’unione monetaria, ovviamente E è fisso. Perché 16 Nel 1990 uno studio finanziato dalla Commissione europea, parte in qualche modo interessata, lo quantificava in appena lo 0.4 per cento del Pil europeo, cifra a pensarci bene alquanto modesta (Emerson, 1990). 17 Il tasso di cambio nominale ci dice quale è la quantità di valuta straniera (in questo caso del Paese G) si può acquistare con un’unita della valuta del Paese interno (Paese I). Se E decresce il tasso di cambio si svaluta (un’unità della valuta di I acquista meno unità della valuta di G), se E cresce il tasso di cambio si rivaluta. 18 Se il tasso di cambio euro-dollaro, ad esempio, passasse da 1.1 (un euro compra un dollaro e dieci centesimi) a 1, il prezzo di una bottiglia di Brunello di Montalcino (che costa 30 euro in Italia) negli Stati Uniti passerebbe da 33 dollari a 30 dollari con una diminuzione del 10%. Un discorso analogo ma rovesciato nel segno avverrebbe per i beni americani si deprezzi il tasso reale di cambio occorre quindi che PI diminuisca e/o PG aumenti. Questa è anche chiamata svalutazione interna (opposta alla svalutazione esterna che è quella che si basa sulla variazione del tasso di cambio nominale). La logica quindi è in linea di principio semplice: se l’unione monetaria rende impossibile una svalutazione esterna occorre che sia praticabile una svalutazione interna attraverso la variazione del livello dei prezzi interni. Perché un meccanismo del genere funzioni occorre ovviamente che l’aggiustamento sia simmetrico: i prezzi e i salari nel Paese I diminuiscono mentre i prezzi e i salari nel Paese G aumentano. Se ad esempio il Paese G decidesse di adottare politiche tese ad impedire la crescita di prezzi e salari, ciò da una parte comporterebbe la necessità che la diminuzione del livello di prezzi e salari nel Paese I fosse maggiore in termini assoluti (per ottenere lo stesso effetto relativo), dall’altra diminuirebbe la domanda aggregata dell’area aumentando l’effetto recessivo dello shock iniziale. Inoltre la politica del Paese G avrebbe anche l’effetto di trasformare l’effetto dello shock iniziale sulla bilancia commerciale da temporaneo a permanente. In aggiunta è possibile immaginare che sia anche la mobilità della forza lavoro ad agevolare l’aggiustamento. La forza lavoro di I, dove è diminuita la domanda di lavoro si potrebbe spostare in G dove invece la domanda di lavoro è cresciuta. E lo shock sarebbe in parte riassorbito. Nei Paesi Europei tuttavia non esiste questo livello di flessibilità dei prezzi e dei salari e la mobilità del lavoro è relativamente scarsa a causa delle barriere linguistiche e di altri costi non monetari. Tenendo questo in considerazione, vanno interpretate le continue richieste da parte dell’establishment comunitario di effettuare “riforme strutturali”. Queste riforme dovrebbero servire a rendere più flessibile il mercato del lavoro e quindi più flessibile, specialmente verso il basso, il salario dei lavoratori e più competitivo il mercato dei beni e dei servizi attraverso il processo di liberalizzazione e privatizzazione. Nella mente di qualcuno il ruolo disciplinatorio della moneta unica era il suo atout principale: costringere i governi a fare delle riforme che la comunità nazionale non avrebbe altrimenti fatto. L’euro quindi come camicia di forza imposta alle comunità nazionali. L’altro punto che va notato è che raramente è stato reso possibile dare concreta e totale simmetria all’aggiustamento e come succedeva ai tempi del gold standard tutto l’onere dell’aggiustamento tendeva a ricadere sui paesi in disavanzo. L’altro possibile strumento alternativo al tasso di cambio è invece di natura politica. Se all’unione monetaria fosse affiancata anche un’unione di bilancio, quest’ultima potrebbe in parte mitigare gli effetti dello shock iniziale e sostituirsi quindi alla variazione del tasso di cambio. Se vi fosse un bilancio comune all’area dell’Euro con delle entrate e delle spese di tipo comunitario, questo potrebbe in primo luogo fungere da stabilizzatore automatico; il prelievo fiscale che dipende positivamente dal reddito diminuirebbero nel Paese I e aumenterebbero in G, mentre le spese che sono o indipendenti dal reddito (la spesa sanitaria, ad esempio) o dipendono negativamente da questo (i sussidi di disoccupazione, ad esempio) aumenterebbe in I diminuendo o al più rimanendo costanti in G. Questo meccanismo automatico sarebbe in grado quindi di assorbire almeno in parte gli effetti dello shock iniziale ridistribuendo il potere d’acquisto fra i due Paesi19. In secondo luogo, una variazione discrezionale della spesa pubblica o della in Europa il cui prezzo aumenterebbe del 10%. Questo accadrebbe, ovviamente, se il pass-through del tasso di cambio nei prezzi locali fosse completo ovvero se una variazione del tasso di cambio si trasformasse meccanicamente in una variazione proporzionale nel livello dei prezzi locali. Il tema è ovviamente complesso e il pass-through non è quasi mai pieno (Goldberg e Knetter, 1997). 19 Questo meccanismo viene spesso definito come una sorta di meccanismo assicurativo pubblico (De Grauwe, 2014) ed è ampiamente praticato all’interno di tutte o quasi le economie nazionali, anche ovviamente dei Paesi aderenti all’Unione Europea. Come tutti i meccanismi assicurativi stipulati in regime di asimmetria informativa un tale meccanismo può essere criticato in quanto può stimolare comportamenti di azzardo morale da parte del Paese negativamente colpito che potrebbe preferire fare dello svantaggio una professione evitando di fare quegli aggiustamenti strutturali che sarebbero necessari. tassazione potrebbe svolgere lo stesso ruolo. Il Paese colpito dalla shock negativo sarebbe oggetto o di un aumento delle spesa pubblica o di una diminuzione della tassazione con finalità anticicliche ovvero allo scopo di assorbire in parte gli effetti dello shock avverso. In questo caso, la redistribuzione della domanda fra i due Paesi avverrebbe attraverso una riallocazione della domanda pubblica e non di quella privata. Non occorre un’analisi particolarmente complicata dei dati per capire che l’Euro-zona non rispetta neanche questo ultimo criterio. Nel 2013 la spesa pubblica complessiva dell’area Euro era pari al 49.7% del PIL (dati EUROSTAT), mentre la spesa effettuata dagli organi comunitari era pari all’1% (il 2% della spesa complessiva). Il paragone con gli Stati Uniti è eloquente. Nello stesso anno la spesa pubblica complessiva equivaleva a 38.7% del PIL, di cui il 13.5 % del PIL (il 35%) era effettuata dal Governo federale (dati OECD). Con queste cifre è difficile immaginare un qualsiasi effetto stabilizzante del bilancio comunitario. Studi più approfonditi mostrano in modo abbastanza inequivocabile che mentre negli Stati Uniti il Governo Federale svolge una funzioni redistributiva significativa fra gli stati americani, questo in Europa non avviene. La funzione assicurativa della politica fiscale funziona solo all’interno di ciascuno dei Paesi europei (Barba e De Vivo, 2013). Da quanto detto nei paragrafi precedenti appare abbastanza chiaro che le ragioni che spinsero i Paesi Europei a imboccare la strada dell’Unione monetaria non possono essere ricondotte a valutazioni di natura strettamente economica. Da un punto di vista economico erano abbastanza evidenti i rischi dell’operazione che molti economisti specie d’oltre oceano posero all’attenzione dei politici20. La teoria delle OCA arrivava alla conclusione che fosse molto difficile garantire la stabilità di un’unione monetaria senza un’unificazione politica (Goodhart, 1998, Cesaratto, 2015). Questa avrebbe portato con sé l’unione di bilancio (necessaria per riassorbire shock asimmetrici), un’uniformità delle legislazioni e delle regole sul mercato del lavoro e sul sistema pensionistico (che avrebbe favorito la mobilità intra-unione dei lavoratori), un unione bancaria che avrebbe reso più facile il trasferimento delle risorse necessarie per evitare crisi della bilancia dei pagamenti (che all’interno di un singolo Paese perdono d’importanza), un governo federale che avrebbe permesso di rappresentare le preferenze della comunità per ridare solidità democratica al progetto europeo (risolvendo il trilemma di Rodrik con il superamento dello Stato Nazionale). La spiegazione del perché ciononostante i Paesi europei abbiano scelto il percorso dell’unificazione monetaria è da ricercarsi in un altro ambito: quello più propriamente politico. Come abbiamo visto, la moneta rappresenta uno dei simboli di una comunità nazionale. Appare quindi evidente che molti vedessero nella creazione dell’unione monetaria una precondizione per una maggiore unione politica. Il sogno di un’Europa federale più simile agli Stati Uniti d’Europa che a una semplice unione economico-doganale sembrava dover o poter transitare attraverso il passaggio intermedio ma necessario dell’Unione Monetaria21. Se pensiamo alla politica monetaria quest’idea non suonava del tutto peregrina. Occorre considerare che l’unione monetaria nacque come fisiologica evoluzione della sistema monetario europeo (un sistema di cambi fissi ma, almeno in un primo periodo, aggiustabili fra le varie valute europee) nel quale la Bundesbank svolgeva un ruolo egemone e centrale. Era la Bundesbank che determinava la politica monetaria per l’intera zona. Se i governanti europei, a torto o ragione, ritenevano che non vi fossero alternative a un regime di cambi fissi all’interno dell’Europa, si può facilmente notare come il passaggio all’unione monetaria eliminasse l’asimmetria e il ruolo centrale della Germania assegnando la 20 Una citazione su tutte: l’articolo sull’Economist dello studioso di Harvard, Martin Feldstein, già presidente del Council of Economic Advisers che esplicitamente invitava i Paesi europei ad abbandonare il progetto dell’unione monetaria, (Feldstein, 1992). 21 Non sfuggirà al lettore attento l’inversione del nesso logico: la teoria economica suggerisce, al contrario, che la unificazione politica sia una precondizione per una unificazione monetaria. condotta della politica monetaria a un’istituzione comunitaria come la BCE22. Sicuramente il grado d’integrazione politica e di collegialità decisionale nella condotta della politica monetaria, almeno formalmente, aumentò con la creazione dell’unione monetaria. Questo può spiegare ad esempio perché Paesi come la Francia furono fra gli sponsor maggiori dell’Euro (De Grauwe, 2013). Ci si potrebbe chiedere a questo punto perché i governanti europei fossero così convinti che la flessibilità del cambio fosse incompatibile con una maggiore integrazione dei mercati. La storia del mercato comune europeo, cosi come di forti unioni commerciali sviluppatesi altrove (vedi il NAFTA), sembrerebbe dimostrare il contrario (Feldestein, 1992). Anche qui forse potremmo immaginare una motivazione principalmente politico-ideologica. Alcuni Paesi, Germania in testa, volevano eliminare la possibilità che Nazioni con economia più debole e minore crescita della produttività, usassero la svalutazione della valuta che misura opportunistica, come politica beggar-thy-neighbor, cioè una politica in grado di produrre effetti positivi su chi la adotta a spese degli altri. Occorre tuttavia ricordare che lo stesso atteggiamento non vi fu per altre possibili forme di politiche opportunistiche, come ad esempio le politiche di competizione fiscale (vedi il Luxleaks discusso nel capitolo 6.1) o la deregolamentazione del mercato del lavoro. Più in generale appare non spiegata la ragione per la quale la svalutazione esterna vada etichettata come politica beggar-thy-neighbor mentre la svalutazione interna, la diminuzione dei salari interni non lo sia. Altri Paesi, come l’Italia, godendo di scarsissima fiducia nelle proprie istituzioni economico-politiche, pensavano di poter acquisire la credibilità di altre autorità politiche e monetarie legando le mani alla propria Banca Centrale e delegando completamente la condotta della politica monetaria o a un ente straniero, la Bundesbank ai tempi dello SME, o a ente terzo al di fuori della giurisdizione nazionale, la BCE nell’unione monetaria. Se la politica monetaria ha effetti solo nominali, cioè fa unicamente aumentare l’inflazione, un’autorità monetaria non credibilmente consapevole di ciò o subordinata al potere politico autogenera inflazione perché i soggetti economici si aspettano adotti una politica monetaria espansiva (Giavazzi e Pagano, 1988). Collante necessario della Unione Monetaria fu l’ideologia monetarista che fornì ai governanti europei due diverse motivazioni. La prima già in parte discussa riguarda l’inefficacia della politica monetaria per contrastare le fasi negative del ciclo economico. La seconda riguarda le virtù taumaturgica del mercato unico, o meglio della competizione libera fra le imprese e i lavoratori dell’economie dell’Unione. Le perplessità della teoria dell’OCA veniva superate nella fiducia che da una parte il mercato unico avrebbe ridotto le differenze e aumentato il grado di simmetria fra le economie dei diversi Paesi e dall’altra avrebbe aumentato la competizione anche nel campo delle politiche economiche costringendo i Paesi più riottosi a fare quelle riforme strutturali che avrebbero reso più flessibile il mercato dei beni e del lavoro permettendo di sostituire alla svalutazione esterna il meccanismo della svalutazione interna. Che questo collante ideologico fosse necessario emerse chiaramente in seguito alla crisi del 2008, quando molti Paesi al di fuori dell’area euro abbandonarono rapidamente il paradigma adottando politiche monetarie e fiscali fortemente espansive mentre l’Euro-zona scelse una politica monetaria molto più prudente e in virtù del fiscal compact una politica fiscale addirittura restrittiva almeno negli anni successivi allo scoppio della crisi23. L’abbandono del paradigma liberista al momento non appare possibile in Europa 22 Questo ovviamente spiega le forti resistenze all’interno della banca centrale tedesca al progetto dell’Euro. Resistenze in parte vinte grazie alla fatto che l’impianto istituzionale della BCE, come abbiamo visto, era molto simile a quello della Bundesbank. 23 Esisto oramai ben pochi dubbi sul fatto che la teoria della cosiddetta austerità espansiva fosse ben poco fondata. Blanchard e Leigh (2013) mostrano come Fondo Monetario e Commissione Europea abbiano drammaticamente sottovalutato gli effetti negativi delle politiche di austerità. Rannenberg e altri (2015) concludono che queste politiche son in gran arte responsabili della caduta del PIL nel periodo 2010-13. perché questo significherebbe, ovviamente, rimettere completamente in discussione e riformare l’intero impianto istituzionale. Per ragioni di opportunità politica infatti l’interazione fra le collettività nazionali immaginate nei trattati europei è molto più improntata al meccanismo della competizione che a quello della cooperazione e della solidarietà. 1.3 LA CRISI DELL’EUROZONA In base a quanto detto nei capitoli e nei paragrafi precedenti non dovrebbe destare alcuna meraviglia la crisi in versa l’Eurozona: era in qualche modo tutta già scritta nel meccanismo istituzionale approntato al momento della sua costituzione. Così come dovrebbe apparire più chiaro come mai il caso europeo, a cui abbiamo dedicato tanta attenzione, sia una storia particolarmente interessante e per certi versi unica. E’ un caso paradigmatico degli effetti che si ottengono separando i mercati dalla politica, la competizione dalla cooperazione, adottando uno schema ideologico che ritiene che l’efficienza del mercato possa sopperire al deficit istituzionale. La crisi dell’Eurozona presenta vari aspetti e diverse intensità ed è complessiva riguardando non solo aspetti economici ma anche sociali, politici e culturali. Per rendersi conto di quanto sia seria è sufficiente dare uno sguardo al crollo verticale – mostrato nelle indagini demoscopiche - della fiducia nelle istituzioni europee da parti dei cittadini di quasi tutti i Paesi, compresi quelli più tradizionalmente europeisti come l’Italia24. I partiti e movimenti politici dichiaratamente anti-europei non sono mai stati così forti in moltissimi Paesi europei compresi i Paesi fondatori (Francia e Italia in primo luogo) o fra i Paesi che sono in Europa da tanto tempo come il Regno Unito. Da un punto di vista squisitamente economico, invece, la fase acuta della crisi sembrerebbe passata. Essa inizia nell’estate del 2010 e si aggrava fino all’estate del 2012. Viene definita la crisi dei debiti sovrani perché si manifesta con l’aumento molto elevato dei differenziali (spread) fra i tassi d’interesse pagati sui titoli pubblici a lungo termine di alcuni Paesi (Grecia, Spagna Portogallo, Irlanda, Italia) e quelli pagati sul titolo di Stato tedesco (Bund). In realtà ciò non significa affatto, che la causa della crisi sia ricercabile in un aumento inatteso e/o massiccio del debito pubblico dei Paesi in questione25; al contrario il debito pubblico veniva da un periodo di ridimensionamento e in alcuni Paesi (la Spagna) i conti pubblici prima della crisi erano più che in ordine (il caso della Grecia come è noto fa storia a sé). Anche se è vero che la crisi del 2008 aveva richiesto un aumento della spesa in debito, sia per contrastare la caduta della domanda sia per impiegare risorse pubbliche per il salvataggio delle banche di alcuni Paesi (emblematico il caso spagnolo), questo non aveva modificato più di tanto i fondamentali che determinano la solvibilità di un Paese, ossia la sua capacità di restituire il debito contratto dallo Stato con gli agenti economici. Quello che era cresciuto in termini macroscopici era infatti il debito privato (Bagnai, 2012, Corsetti, 2010) che seguiva da anni una direzione precisa e costante: dai Paesi in surplus commerciale (in primo luogo la Germania) ai Paesi in deficit della bilancia dei pagamenti, Spagna, Grecia, Portogallo (Cesaratto, 2012, Baldwin e Giavazzi, 2015). Questo flusso di capitale non venne impiegato per finanziare investimenti e incrementare la capacità produttiva dei Paesi e con questo rendere più facile e plausibile la restituzione di quanto preso in prestito quanto per finanziare la spesa per consumi o per investimenti nel settore immobiliare (di nuovo 24 Un indagine Demopolis mostra come la fiducia degli italiani nell’Unione europea si è quasi dimezzata in 15 anni passando dal 53 % del 2000 al 28 % del 2015 (http://www.demopolis.it/?p=2176). L’indagine Eurobarometer segnala che nella primavera del 2015 il 43% degli italiani ha una visione totalmente pessimistica del futuro della EU (http://ec.europa.eu/public_opinion/archives/eb/eb83/eb83_first_en.pdf) e questo è uno dei valori più alti fra i Paesi dell’Unione. 25 “La crisi dell’Eurozona non fu, alla base, una crisi del debito sovrano. La colpa era dei grandi flussi di capitale interni all’Eurozona emersi prima della crisi.” Baldwin e Giavazzi, 2015 pag. 24 (traduzione mia) emblematico il caso spagnolo)26. Quando lo scoppio della crisi del 2008 determinò un crollo della fiducia nel settore interbancario e nella solvibilità di tutti i debitori, questo flusso di risorse improvvisamente si bloccò spingendo rapidamente i tassi d’interesse alle stelle. E’ curioso notare come una crisi che nell’immaginario collettivo viene giudicata come una crisi determinata dal cattivo funzionamento della politica (debito pubblico eccessivo) sia in realtà determinata dal fallimento dei mercati finanziari e bancari (una esposizione eccessiva del sistema bancario privato verso il settore privato di alcuni Paesi) al pari della crisi internazionale del 2008 che l’aveva in parte favorita. La crisi era aggravata dal fatto che alla BCE non era concesso di svolgere il ruolo di prestatore di ultima istanza dei governi. Che la mancanza di questa importante funzione della banca centrale fosse un problema in grado di mettere in pericolo la stessa stabilità dell’Unione Monetaria, è provato dal fatto che quello che era stato cacciato dal portone dell’ideologia degli estensori dello Statuto è rientrato dalla finestra del pragmatismo, pieno di buon senso, del suo presidente. Nel luglio del 2012 pochi giorni prima dell’inizio dei Giochi olimpici, nel pieno della crisi, Mario Draghi in una conferenza di investitori a Londra, rilascia una famosa dichiarazione nella quale impegna la BCE ha fare tutto quel che fosse necessario per preservare l’Euro27. Nel settembre del 2012, poi, la BCE vara il piano chiamato OMT (Outright Monetary Transaction) nel quale si impegna ad acquistare, se necessario, una quantità illimitata di titoli pubblici dei Paesi che fossero incorsi in gravi crisi di liquidità28. La cosa non passò senza resistenze e polemiche29; questo nonostante il fatto che il piano imponesse al paese che lo avesse richiesto un fortissimo inasprimento delle politiche di austerità fiscale. Il solo annuncio della politica – finora il piano non è stato mai realmente applicato – sortì l’effetto sperato e fece in breve tempo crollare lo spread fra i tasso d’interesse dei titoli pubblici di molti Paesi dell’area nei confronti del Bund tedesco; il che peraltro fa pensare che gli spread non fossero tanto indotti dai quelli che vengono chiamati i fondamentali del mercato (in questo caso, rapporto deficit/PIL o debito/PIL, fra gli altri) ma semplicemente dal panico indotto e dalla paura che l’unione monetaria potesse venir meno (De Grauwe e Ji, 2013)30 – un altro esempio di cattivo funzionamento del mercato finanziario. A un osservatore attento e scevro da condizionamenti ideologici non sfuggirà il fatto che una crisi determinata dal fallimento del mercato sia stata, almeno per il momento, risolta con un semplice intervento politico istituzionale, o meglio con il mero annuncio di un cambiamento nello Statuto materiale della BCE. Una ulteriore esempio della necessaria complementarietà fra mercati e istituzioni, fra competizione e cooperazione di cui si è spesso discusso nei capitoli precedenti. Ma se la crisi acuta dell’Eurozona sembra essere per il momento passata, la crisi cronica dell’area rimane ancora tutta lì. La figura 11 mostra chiaramente come negli ultimi 15 anni la crescita del PIL nella Euro-zona sia stata sensibilmente minore che nei dieci Paesi dell’Unione che non fanno parte dell’unione monetaria (UE-10) e che hanno conservato la loro valuta così come degli Stati Uniti. Ancora più interessante il fatto che mentre sia il gruppo degli Euro 10 e gli Stati Uniti sono riusciti a recuperare tutto il terreno perso in termini di PIL reale in seguito alla crisi del 2008 e sono tornati a crescere rispetto ad allora, l’Eurozona non 26 C’è quindi in fondo del vero nella vulgata diffusa da politici e mass media: alcuni Paesi vissero realmente al di sopra dei propri mezzi, ma questo non fu dovuto a un eccessivo indebitamento pubblico quanto a un eccessivo indebitamento privato e cioè a un cattivo funzionamento del mercato del credito. 27 "Within our mandate, the ECB is ready to do whatever it takes to preserve the euro. And believe me, it will be enough,": queste parole di Draghi da sole tranquillizzarono I mercati, facendo scendere i tassi d’interesse. 28 Diventando quindi prestatore di ultima istanza dei governi nei fatti se non nello Statuto. 29 Il rappresentante tedesco nel board della BCE votò contro e la questione fu successivamente condotta di fronte alla Corte Costituzionale Tedesca che a sua volta sollevò davanti alla Corte di Giustizia Europea dubbi di legittimità rispetto al trattato dell’Unione. Nel giugno del 2015 la Corte si espressa in favore dell’OMT giudicato legalmente compatibile con i Trattati Europei 30 Dal luglio 2012 al ottobre 2015 lo spread italiano è diminuito del 500% mentre il rapporto debito/PIL è addirittura aumentato. ha ancora completamente recuperato il reddito perso con la crisi. L’Euro-zona è ancora nella palude della crisi del 2008 sette anni dopo. L’unione monetaria quindi non sembra aver soddisfatto quelle che erano le promesse al momento della fondazione: garantire più crescita e più occupazione (De Grauwe, 2015). Anzi sembra aver ottenuto il risultato opposto: meno crescita e minor occupazione. Questo risultato è stato ottenuto grazie al combinato composto di due politiche: l’austerità, ovvero la politica di contrazione fiscale in un periodo di recessione ha avuto l’effetto di acuire gli effetti della crisi in modo fortemente pro-ciclico; le politiche di liberalizzazione del mercato del lavoro (la più importante e reclamata riforma strutturale) hanno ulteriormente indebolito la componente interna della domanda aggregata redistribuendo regressivamente il reddito e rendendo più incerto il futuro hanno aumentato il risparmio e diminuito i consumi privati. E questo ha reso le prospettive di crescita tutte dipendenti dalla domanda estera; il rallentamento delle economie emergenti ha reso ancora più incerto il futuro. Figura 1 PIL reale (2000=100) PIL reale (prezzi 2010) 135 130 125 120 115 110 105 100 Eurozona 95 UE-10 USA 90 2000 2002 2004 2006 2008 2010 2012 2014 Fonte: De Grauwe (2015) pag. 102 Alla base di tutto questo c’è che il peccato originale del progetto Europa, l’errore di fondo dell’impianto istituzionale europeo. L’unione e ancor più la unione monetaria è stata costruita all’insegna della diminuzione del ruolo delle istituzioni e dello Stato Nazionale nel controllo dell’economia. Tutta una serie di strumenti di politica sia micro che macro-economica (politica industriale, politica monetaria, politica fiscale) sono stati sottratti ai Governi nazionali senza essere peraltro trasferiti ad alcuna autorità sovranazionale, facendo ideologicamente fede sulle capacità del mercato unico di aggiustare ogni squilibrio e garantire sviluppo diffuso e omogeneo. La crisi del 2008 ha dimostrato in modo inequivocabile, qualora ve ne fosse ancora bisogno, che i mercati son ben lungi dal funzionare sempre in modo corretto ed efficiente; l’Unione monetaria europea si è così trovata quasi completamente disarmata davanti alla crisi e ha rischiato di soccombere. La crisi dell’Eurozona è decisamente strutturale in quanto è la crisi di un modello economico-politico e della ideologia che lo ha ispirato. L’Unione Europea si palese sempre più come il gigante dai piedi d’argilla nel panorama sempre più complesso e competitivo della globalizzazione in quanto si deve scontrare con competitor (USA, Cina e molti paesi emergenti) che sono più efficienti perché in grado di fare sistema coniugando competizione e cooperazione all’interno di una forte struttura istituzionale: è questo dà loro un forte vantaggio competitivo nei confronti dell’EU che si è invece affidata solo al meccanismo concorrenziale