La Globalizzazione realizzata: il caso Europa

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La Globalizzazione realizzata: il caso Europa
1 LA GLOBALIZZAZIONE REALIZZATA: IL CASO UNIONE EUROPEA
L’esperienza dell’Unione Europea rappresenta un interessantissimo case study del processo di
globalizzazione. Mentre vi sono state e vi sono tutt’ora delle esperienze di creazione di un mercato
integrato a livello sovrannazionale (ad esempio, il Nafta nell’America del Nord, la CEE, nell’Europa del
recente passato) ottenute eliminando buona parte delle barriere tariffarie e non tariffarie che impediscono
la libera circolazione delle merci, quello europeo rappresenta un caso estremo nel quale il processo di
integrazione si è spinto tanto avanti da aver creato un unione monetaria allo scopo di eliminare anche la
barriera rappresentata dal tasso di cambio e dall’uso di valute differenti. Per questo l’esperienza europea
rappresenta una esperienza interessantissima - seppure non globale in senso stretto - nel quale il processo
di globalizzazione ha avuto come obiettivo primario, se non esclusivo, quello di creare un mercato unico
anche a costo di erodere tutti gli strumenti nazionali di politica economica (a cominciare dalla valuta e
quindi dalla politica monetaria) che potevano ostacolare la libera circolazione delle merci e dei fattori
produttivi e la competizione fra le imprese e i cittadini.
Ovviamente vi sono precedenti storici importanti anche di unioni monetarie; per rimanere a casi a noi più
vicini pensiamo all’unione monetaria italiana e tedesca dell’ottocento e a quella tedesca degli anni novanta
del secolo scorso1. In tutti i casi precedenti, tuttavia, l’unificazione monetaria, ovvero l’adozione di una
valuta comune, seguiva da presso o era contemporanea al processo di unificazione politica. Il caso europeo,
invece, è del tutto anomalo e unico nella storia: l’unificazione monetaria non solo non si è accompagnata
con l’unione politica ma non vuole neanche esplicitamente precederla.
La lingua, la bandiera e la moneta sono sempre stati fra i contrassegni più evidenti di una comunità
nazionale. Mentre la prima vive di vita propria e segue dinamiche di lungo periodo non sempre e non tanto
influenzabili politicamente e la seconda è quel che appare, ovvero un mero simbolo per quanto pieno di
significanza, più o meno retorica, la moneta è tutt’altra cosa: è un importante strumento di politica
economica a cui può essere molto costoso rinunciare specialmente quando non è sostituita da strumenti di
equale efficacia. A meno che non si intenda esplicitamente rinunciare agli strumenti di politica economica
nell’idea che essi siano ridondanti, se non addirittura negativi, vista la capacità dei mercati di autoregolarsi.
1.1 L’EUROPA INDOSSA LA CAMICIA DI FORZA
Usando il trilemma di Rodrik presentato nel capitolo precedente, appare abbastanza evidente che il
modello usato in Europa è quello della camicia di forza. Rimangono pienamente in essere le prerogative
degli Stati nazionali, tanto che il ruolo effettivo del Parlamento Europeo è assolutamente marginale e il vero
organo decisionale è il Consiglio Europeo, espressione diretta dei Governi nazionali, mentre l’integrazione
dei mercati, dei beni e dei fattori produttivi, diviene in linea teorica pressoché perfetta.
In nome del mercato unico e della libera competizione di merci e fattori produttivi all’interno dell’unione, si
sono sottratte agli Stati nazionali tutta una serie di prerogative in termini di politica economica, dalla
politica commerciale alla politica industriale, dalla politica monetaria alla politica del tasso di cambio.
Grazie ad accordi ad hoc come il “Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell'unione
1
Per un’interessante lettura eterodossa della recente unificazione tedesca si veda Giacchè 2013
economica e monetaria”, maggiormente noto come Fiscal Compact, anche buona parte della politica fiscale
è stata, almeno parzialmente, sottratta all’autonomia nazionale. Il Fiscal Compact è un accordo nel quale i
Paesi sottoscrittori si impegnano a legarsi le mani in termini di politica fiscale, accettando di attenersi a dei
limiti prefissati per quanto attiene al rapporto deficit/PIL e al rapporto debito/PIL2. Particolarmente
indicativo è l’inserimento del principio del pareggio di bilancio in una legge di stampo costituzionale. La
cessione della sovranità nazionale in termini di politica fiscale non solo doveva essere effettiva ma doveva
essere ulteriormente rafforzata attraverso uno strumento giuridico (una legge di rilevanza costituzionale)
superiore a quello delle leggi ordinarie. Usando la metafora della camicia di forza, veniva chiesto alle
autorità fiscali nazionali non solo di legare la camicia con un lucchetto ma di porre un’eventuale chiave
particolarmente lontano dal soggetto per rendere ancora più complicato procedere allo slegamento.
La questione cruciale, tuttavia, è un’altra. Solo una parte di questa sovranità veniva, infatti, trasferita verso
un organo superiore di tipo comunitario, la componente principale di questa sovranità semplicemente
svaniva. La maggior parte degli strumenti di politica micro e macro economica veniva rimessa
semplicemente nella scatola degli attrezzi per non essere usata più. Fra gli strumenti che venivano trasferiti
al livello comunitario, due sono i più rilevanti: la politica commerciale e la politica monetaria. La prima ha
radici antiche ed è nata con l’unione doganale: dal 1° gennaio 1970 le decisioni relative alla politica
commerciale comune vengono adottate dal Consiglio Europeo a maggioranza qualificata3.
L’altra è, come noto, più recente. I paesi dell’eurozona hanno perso qualsiasi autonomia di politica
monetaria e hanno consegnato la gestione della stessa alla Banca Centrale Europea. Tale cessione di
sovranità, tuttavia, non è stata per nulla neutrale: lo strumento di politica economica si è andato, infatti,
depotenziando nel passaggio. Il primo indebolimento passa attraverso la natura stessa della BCE che non è
un organismo politico-democratico che direttamente o indirettamente risponda alla volontà popolare, ma
un organismo tecnico, formalmente autonomo dalla sfera politica. Il principio della autonomia della Banca
Centrale rispetto al Governo è ampiamente diffuso a livello mondiale e risponde a un esigenza, in parte
condivisibile, di separazione fra gli obiettivi di medio lungo periodo della Banca Centrale e quelli del
Governo con la finalità implicita di evitare che la politica monetaria possa essere piegata a massimizzare il
consenso politico del partito in carica col rischio di indebolire la stabilità monetaria e finanziaria4. In Italia,
ad esempio, la banca centrale regolava in autonomia la politica monetaria dai tempi del famoso divorzio
Tesoro-Banca d’Italia del 19815. Tuttavia l’esperienza dell’eurozona ha una singolarità che non può non
essere notata: mentre negli Stati Uniti la Federal Reserve ha di fronte un governo e un presidente forte,
eletto democraticamente dalla popolazione americana, e quindi le decisioni, seppur formalmente
2
Tre sono gli elementi principali del trattato:
– l’inserimento del principio del pareggio di bilancio (cioè un sostanziale equilibrio tra entrate e uscite) nelle
costituzioni nazionali (in Italia, questo quando con la legge del 17/4/2012 si è modificato l’articolo 81 della
Costituzione);
– il limite al deficit pubblico pari al 3,0 % del PIL per il deficit generale e del 0.5 % (dell’1%) per il deficit strutturale –
che non tiene conto degli effetti del ciclo economico – per i Paesi con un rapporto debito/PIL superiore al 60% (per gli
Stati con rapporto debito/PIL inferiore al 60%).
Come è oramai notto a tutti questi valori soglia sono del tutto arbitrari e non sono il precipitato di alcuno studio
economico sia teorico che empirico.
3
Si potrebbe aggiungere che le competenze passano da un organo a piena rappresentatività democratica, il
parlamento nazionale, a un organo di democrazia di secondo livello come il Consiglio europeo. Quest’ultimo peraltro
non è neanche vincolato dal parere del Parlamento Europeo nel decidere di modificare la politica commerciale così
come di stipulare nuovi accordi commerciali con Paesi terzi. Su questi aspetti torneremo in seguito.
4
In termini semplicistici potremmo dire che è l’applicazione del sano principio di divisione dei poteri nel campo della
politica economica.
5
Nel 1981 con una famosa lettera l’allora ministro Andretta comunicò al Governatore che la Banca d’Italia era liberata
dalla consuetudine/obbligo di acquistare i titoli di Stato rimasti invenduti all’asta e quindi non sottoscritti dal mercato
privato. La politica monetaria diventava in quel momento pienamente separata dalla politica fiscale (Ciampi, 2001).
indipendenti, nascono comunque dalla dialettica fra due istituzioni autonome ma non separate e
conflittuali, la banca centrale europea non ha di fronte un governo federale dotato della stessa
autorevolezza e in grado di mandargli segnali non ambigui.
Il secondo fattore di indebolimento è ancora più importante: fin dall’inizio la Banca Centrale Europea nasce
depotenziata, in altre parole non conserva tutti i poteri e le prerogative che avevano molte banche centrali
nazionali. In ossequio alla dottrina economica dominante quando fu fondata, il monetarismo, a essa fu
assegnato statutariamente un solo obiettivo: difendere la stabilità dei prezzi (art. 2 dello Statuto della
BCE)6.
Conformemente all'articolo 105, paragrafo 1, del trattato, l'obiettivo principale del SEBC è il
mantenimento della stabilità dei prezzi. 7
In base al paradigma monetarista, la politica monetaria è inefficace in termini reali, ovvero non è in grado di
modificare, nemmeno nel brevissimo periodo con politiche attese, il livello del reddito e dell’occupazione e
quindi non può essere usata come politica anticiclica per contrastare gli effetti negativi di una recessione
(Barro e Gordon, 1983). L’unico effetto di una politica monetaria è l’aumento della inflazione. Se ciò fosse
vero, l’unica politica monetaria saggia sarebbe quella che mantiene basso il livello d’inflazione garantendo
quindi la stabilità dei prezzi.
Appare particolarmente rilevante il paragone con il testo dello statuto della Federal Reserve americana che
recita nella sezione 2A, Obiettivi della Politica monetaria (enfasi mia):
The Board of Governors of the Federal Reserve System and the Federal Open Market committee shall
maintain long run growth of the monetary and credit aggregates commensurate with the economy's
long run potential to increase production, so as to promote effectively the goals of maximum
employment, stable prices, and moderate long-term interest rates 8.
Questo ovviamente non implica che la politica della Fed sia stata sempre rivolta a ottenere il risultato della
piena occupazione, anzi vi sono stati periodi nei quali la Banca Centrale americana ha adottato politiche di
forte contrazione monetaria ben consapevole dei loro effetti recessivi sul reddito e l’occupazione. Significa
invece che essa stessa aveva sempre, almeno formalmente, la discrezionalità, in rapporto dialettico con il
Presidente in carica, di definire quale fosse il miglior compromesso fra i due obiettivi principali della sua
azione. Questo potere discrezionale - che aveva anche la Banca d’Italia e molte delle banche centrali europee
- non è invece per statuto nelle mani della BCE.
Questo diverso atteggiamento si è concretizzato nel recente passato in un diverso comportamento della BCE
rispetto alla Federal Reserve: la prima appare aver avuto un atteggiamento molto più “conservatore” negli
ultimi vent’anni rispetto alla seconda, in altri termini sembra aver assegnato un peso maggiore alla stabilità
dei prezzi e aver avuto un comportamento molto più cauto nel contrastare i movimenti del ciclo economico
(De Grauwe, 2014).
Un altro e importante ruolo che le banche centrali nazionali possedevano e che invece alla BCE viene
formalmente vietato di svolgere è quello di fungere di prestatore di ultima istanza per il governo in carica (De
Grauwe, 2015). Anche dopo il divorzio del 1981 la Banca d’Italia aveva a facoltà di acquistare titoli emessi,
anche sul mercato primario, dallo Stato o da altri organi dell’amministrazione pubblica qualora lo valutasse
6
In realtà il trattato non esclude il perseguimento di altri obiettivi (ad esempio un elevato livello di occupazione), ma
essi sono visti sempre come secondari e non devo pregiudicare l’obiettivo principale.
7
Lo Statuto della Banca Centrale Europea può essere consultato sul sito della BCE
https://www.ecb.europa.eu/ecb/legal/pdf/it_statute_2.pdf
8
Consultabile all’indirizzo http://www.federalreserve.gov/aboutthefed/fract.htm
opportuno. La possibilità di finanziare i propri debiti attraverso la stampa di nuova moneta viene definita
signoraggio per l’ovvia ragione che solo un Sovrano o un Signore appunto, ha questa opportunità.
Nello Statuto della BCE, invece, viene esplicitamente vietata la concessione di scoperti di conto o qualsiasi
altra forma di facilitazione creditizia da parte della BCE o da parte delle banche centrali nazionali, a
istituzioni o agli organi della Comunità, alle amministrazioni statali, agli enti regionali, locali o altri enti
pubblici, ad altri organismi di settore pubblico o a imprese pubbliche degli Stati membri, così come
l'acquisto diretto presso di essi di titoli di debito da parte della BCE o delle banche centrali nazionali (art. 21
comma 1 dello statuto).
Va da sé che il potere di signoraggio, formalmente infinito, nella realtà ovviamente non lo è. Se il sovrano
esagera, la moneta che emette perde rapidamente di valore e il suo prezzo relativo rispetto ai prodotti che
permette di acquistare diminuisce, ovvero aumenta il livello dei prezzi dei beni e dei servizi. Avere però
l’istituto di emissione come prestatore di ultima istanza fa sì che un Governo che emetta titoli di debito
nella valuta nazionale tecnicamente non possa fallire o fare default usando il termine anglosassone più di
moda. Gli Stati sovrani che hanno dichiarato insolvenza, come ad esempio l’Argentina nel 2001, sono stati
costretti a farlo perché avevo il debito emesso non nella valuta nazionale ma in valuta estera per la quale
ovviamente non avevano alcun potere di signoraggio.
La creazione dell’Unione Monetaria e l’adozione dello statuto della Banca Centrale sovra ricordato ha posto
i Paesi dell’Unione in una situazione non del tutto diversa da quella dell’Argentina. Il Governo italiano è
infatti indebitato in una valuta che non è formalmente una valuta estera ma che è come se lo fosse perché
il Governo non ne controlla l’emissione, neanche indirettamente9.
In conclusione è del tutto evidente che la creazione del mercato unico europeo e dell’Unione monetaria
europea, ovvero della globalizzazione in stile europeo, è avvenuta a spese della possibilità delle comunità
nazionali di realizzare le loro preferenze in termini di politica industriale, politica del cambio, di politiche
sociali10. Il mercato unico e la presenza di Stati nazionali ha fortemente depotenziato la democrazia. Mentre
è indubbio che l’Europa abbia tentato negli ultimi decenni di darsi una qualche forma di governance
comunitaria, questi tentativi sono stati fortemente penalizzati sia da resistenze di tipo nazionalistico che
dalla ideologia imperante che ritiene tale governance sia inutile se non dannosa vista la capacità dei
mercati di autoregolarsi al meglio. All’interno di una ideologia che ritiene che i mercati funzioni sempre in
maniera efficiente, il sistema politico-economico europeo è uno dei sistemi migliori possibili in quanto la
maggior parte della governance economica non è tesa a regolare i mercati o a correggere i loro fallimenti
quanto a “legare le mani dei governi” per impedir loro di interferire con le magnifiche sorti e progressive
del mercato unico11.
1.2 L’EURO AL PASSO DELL’OCA
Il titolo del capitolo non vuole maliziosamente richiamare i tempi nei quali la supremazia germanica si
concretizzava con la ritmica marcia tradizionale del suo esercito e con il rumore dei loro stivali che
echeggiava in molte capitali europee e OCA non sta neanche per l’animale noto, a torto o a ragione, per la
sua colpevole ingenuità, ma è l’acronimo di Optimal Currency Areas (in italiano AVO: aree valutare
9
All’improvviso lo Stato italiano si è trovato nelle stesse condizioni del comune di Pescasseroli con la differenza non da
poco che il Comune di Pescasseroli è inserito nella unione fiscale dello Stato Italiano, mentre, come vedremo meglio in
seguito, non esiste un unione fiscale europea e gli elettori del comune di Pescasseroli sono anche elettori dello
Governo Italiano mentre gli italiani non eleggono, se non in maniera del tutto indiretta, il Consiglio europeo.
10
Il caso della Grecia sta lì a ricordarlo.
11
Il pessimismo anti-retorico dell’ultimo Leopardi della Ginestra sarebbe un ottimo antidoto naturale all’attuale
bulimia ideologica.
ottimali). Sviluppata in origine dall’economista Robert Mundell (Mundel, 1961) – per la quale fu insignito
del premio Nobel nel 1999 – e poi arricchita anche dall’opera di altri economisti, la teoria vuole mettere in
evidenza quali siano le caratteristiche che un gruppo di Paesi deve possedere per formare un area valutaria
ottimale, ovvero una unione monetaria nella quale i vantaggi dell’unione siano superiori ai costi12. In altre
parole vuole rispondere alla domanda: dato un gruppo di Paesi conviene loro adottare una sola valuta?
La teoria nella sua essenza è abbastanza semplice. Se consideriamo per facilità due soli Paesi (G e I)13, il
costo principale del formarsi fra loro di un unione monetaria è la perdita della strumento variazione del
tasso di cambio. Questo strumento risulta utile quando i due Paesi siano colpiti da uno shock esterno
asimmetrico – ovvero che colpisce solo, o maggiormente, uno dei due o quando essi fossero tanto dissimili
da reagire in modo del tutto differente allo stesso shock esterno14. Se, per esempio, aumentasse il grado di
competitività dei prodotti di G e diminuisse quello dei prodotti di I, il reddito e l’occupazione di I
diminuirebbero mentre il reddito e l’occupazione di G varierebbero in senso opposto. Inoltre si creerebbe
uno sbilancio commerciale a favore di G; la bilancia commerciale, la differenza in valore fra le esportazioni e
le importazioni, di I peggiorerebbe, quella di G migliorerebbe.
In riposta a questo shock, il Paese I potrebbe svalutare (e quindi il Paese G rivalutare) il tasso di cambio.
Questo farebbe automaticamente aumentare il prezzo dei beni prodotti da G e diminuire il prezzo dei beni
prodotti da I, riportando, almeno nel breve periodo, la competitività ai livelli pre-shock e riequilibrando la
bilancia commerciale.
Se il Paese I e il Paese G facessero parte di un’unione monetaria, il riaggiustamento tramite la svalutazione
non sarebbe chiaramente possibile.
E’ abbastanza ovvio che il costo della perdita di tale strumento è relativamente basso quando:
a) i due Paesi siano talmente integrati fra loro e così simili per quanto riguarda la struttura economica
che l’occorrenza di un shock che incammini le due economie su sentieri divergenti abbia una
probabilità molto scarsa di verificarsi.
b) esistano degli strumenti alternativi che possano svolgere la stessa funzione svolta dal tasso di
cambio.
Se quindi l’analisi empirica dovesse suggerire che nell’Unione Europea uno dei due presupposti - a) o b) - o
magari entrambi risultassero verificati, allora i Paesi dell’area Euro potrebbero godersi i vantaggi
dell’unione monetaria senza pagare dei costi eccessivi.
I vantaggi di un unione monetaria possono essere analizzati da due prospettive diverse: quella politica che
sarà in parte oggetto del prossimo paragrafi e quella economica. Per quanto attiene a quest’ultima, essi
provengono principalmente da tre fonti: dai minori costi di transazione che gli operatori economici devono
sostenere quando operano su Paesi differenti, dal risparmio sui costi della copertura del rischio di cambio
quando si realizzano scambi o investimenti transfrontalieri, dalla maggiore trasparenza del sistema dei
prezzi che dovrebbe aumentare il grado di concorrenza e quindi i flussi commerciali fra i diversi Paesi15. A
12
La letteratura riferimento è abbastanza vasta. I lettori curiosi di saperne di più possono leggere De Grauwe, 2014.
Interessanti per il caso europeo sono anche le considerazioni di Bagnai, 2012
13
Le lettere sono assegnate in modo del tutto casuale senza pensare a nessun Paese in particolare, diciamo.
14
In realtà le stesse considerazioni sono valide se ad esempio i due Paesi avessero un sentiero di crescita
dell’economia e della competitività differente nel tempo
15
In teoria questo avrebbe dovuto condurre a una minore dispersione dei prezzi dei prodotti fra i Paesi dell’Euro-zona.
La cosa curiosa è che sembra essere accaduto il contrario (Wolszczak-Derlacz, 2008). Uno studio recente ad esempio
ha mostrato come l’avvento della moneta unica non abbia diminuito la dispersione del prezzo degli autoveicoli (Dnir e
Strasser, 2013). In parte la stessa cosa avviene a livello nazionale. Il permanere di una forte dispersione dei prezzi
testimonia come i mercati siano molto lontani dal quel grado di perfezione ed efficienza che spesso la teoria
mainstream in modo ideologico assume.
questi qualcuno aggiungerebbe l’effetto disciplinatorio della unione monetaria che impedisce ai governi di
risolvere problemi economici strutturali attraverso la scorciatoia dell’inflazione e della svalutazione. La
perdita dell’autonomia monetaria può quindi essere vista sia come un costo che come un vantaggio a
seconda del background teorico o ideologico. Ma questo appare più un vantaggio di tipo politico, su cui
torneremo più avanti.
L’effetto positivo della moneta unica avrebbe dovuto condurre a un aumento del commercio intraeurozona. Studi recenti, tuttavia, stimano che l’impatto dell’unione monetaria sul commercio sia stato
relativamente modesto (Glick e Rose, 2015). La cosa non sorprende se si tiene conto del fatto che
l’incidenza dei costi di transazione visti prima può essere notevole per piccoli importi - per il turista che
passi un fine settimana a Londra - ma diventa risibile per i grandi operatori. D’altra parte a livello mondiale
il commercio internazionale ha mostrato una crescita esponenziale negli ultimi decenni sebbene a livello
mondiale dominino i tassi di cambio flessibili (Bagnai, 2012).
I vantaggi strettamente economici dell’Unione monetaria sembrano essere quindi sufficientemente
modesti; e questo appariva chiaro fin dall’inizio16. Gli svantaggi invece non sembrano essere parimenti
trascurabili. I due presupposti che avrebbe permesso di minimizzare il costo dell’unione monetaria non
appaiono essere applicabili al caso europeo. Ad esempio, gran parte dell’analisi empirica, suggerisce che la
condizione a) richiamata in precedenza non è verificata (De Grauwe, 2014). Mentre un sotto insieme dei
Paesi dell’Euro ha una struttura economica relativamente simile, questo non si può dire per il complesso
dell’area. E’ quindi abbastanza probabile che i Paesi vengano colpiti in modo asimmetrico da shock esterni
o possano mantenere nel tempo percorsi di crescita della competitività divergenti, come in realtà è
accaduto.
Per tenere sotto controllo i costi dell’unione monetaria allora, sarebbe necessario che il presupposto b)
fosse almeno verificato, cioè che esistessero meccanismi di riequilibrio alternativi al tasso di cambio. I
meccanismi che possono essere usati in alternativa alla variazione del tasso di cambio sono principalmente
di due tipi; il primo è di natura strutturale, il secondo di politica economica.
Se il mercato dei beni e del lavoro fossero sufficientemente flessibile, sia in termini di prezzi che di mobilità
dei lavoratori, la variazione del tasso di cambio non sarebbe necessaria. La contrazione della domanda nel
Paese I porterebbe a una diminuzione del livello dei prezzi e dei salari mentre l’opposto accadrebbe in G.
Il prezzo relativo dei prodotti del Paese I rispetto ai prodotti del Paese G, valutato in termini della valuta di
G, è infatti pari a
E PI
PG
dove E è il tasso di cambio nominale17 e PI e PG sono i livello dei prezzi nei Paesi I e G rispettivamente. Nella
letteratura economica questo valore viene anche chiamato il tasso reale di cambio. Per riassorbire lo shock
iniziale, occorre che questo rapporto diminuisca (il tasso reale di cambio si deprezzi), per rendere i prodotti
di I relativamente più a buon mercato rispetto a quelli di G, ridistribuendo la domanda fra i due Paesi in
senso opposto rispetto allo shock iniziale18. Se siamo in un’unione monetaria, ovviamente E è fisso. Perché
16
Nel 1990 uno studio finanziato dalla Commissione europea, parte in qualche modo interessata, lo quantificava in
appena lo 0.4 per cento del Pil europeo, cifra a pensarci bene alquanto modesta (Emerson, 1990).
17
Il tasso di cambio nominale ci dice quale è la quantità di valuta straniera (in questo caso del Paese G) si può
acquistare con un’unita della valuta del Paese interno (Paese I). Se E decresce il tasso di cambio si svaluta (un’unità
della valuta di I acquista meno unità della valuta di G), se E cresce il tasso di cambio si rivaluta.
18
Se il tasso di cambio euro-dollaro, ad esempio, passasse da 1.1 (un euro compra un dollaro e dieci centesimi) a 1, il
prezzo di una bottiglia di Brunello di Montalcino (che costa 30 euro in Italia) negli Stati Uniti passerebbe da 33 dollari a
30 dollari con una diminuzione del 10%. Un discorso analogo ma rovesciato nel segno avverrebbe per i beni americani
si deprezzi il tasso reale di cambio occorre quindi che PI diminuisca e/o PG aumenti. Questa è anche
chiamata svalutazione interna (opposta alla svalutazione esterna che è quella che si basa sulla variazione
del tasso di cambio nominale). La logica quindi è in linea di principio semplice: se l’unione monetaria rende
impossibile una svalutazione esterna occorre che sia praticabile una svalutazione interna attraverso la
variazione del livello dei prezzi interni.
Perché un meccanismo del genere funzioni occorre ovviamente che l’aggiustamento sia simmetrico: i prezzi
e i salari nel Paese I diminuiscono mentre i prezzi e i salari nel Paese G aumentano. Se ad esempio il Paese
G decidesse di adottare politiche tese ad impedire la crescita di prezzi e salari, ciò da una parte
comporterebbe la necessità che la diminuzione del livello di prezzi e salari nel Paese I fosse maggiore in
termini assoluti (per ottenere lo stesso effetto relativo), dall’altra diminuirebbe la domanda aggregata
dell’area aumentando l’effetto recessivo dello shock iniziale. Inoltre la politica del Paese G avrebbe anche
l’effetto di trasformare l’effetto dello shock iniziale sulla bilancia commerciale da temporaneo a
permanente.
In aggiunta è possibile immaginare che sia anche la mobilità della forza lavoro ad agevolare
l’aggiustamento. La forza lavoro di I, dove è diminuita la domanda di lavoro si potrebbe spostare in G dove
invece la domanda di lavoro è cresciuta. E lo shock sarebbe in parte riassorbito.
Nei Paesi Europei tuttavia non esiste questo livello di flessibilità dei prezzi e dei salari e la mobilità del
lavoro è relativamente scarsa a causa delle barriere linguistiche e di altri costi non monetari. Tenendo
questo in considerazione, vanno interpretate le continue richieste da parte dell’establishment comunitario
di effettuare “riforme strutturali”. Queste riforme dovrebbero servire a rendere più flessibile il mercato del
lavoro e quindi più flessibile, specialmente verso il basso, il salario dei lavoratori e più competitivo il
mercato dei beni e dei servizi attraverso il processo di liberalizzazione e privatizzazione. Nella mente di
qualcuno il ruolo disciplinatorio della moneta unica era il suo atout principale: costringere i governi a fare
delle riforme che la comunità nazionale non avrebbe altrimenti fatto. L’euro quindi come camicia di forza
imposta alle comunità nazionali. L’altro punto che va notato è che raramente è stato reso possibile dare
concreta e totale simmetria all’aggiustamento e come succedeva ai tempi del gold standard tutto l’onere
dell’aggiustamento tendeva a ricadere sui paesi in disavanzo.
L’altro possibile strumento alternativo al tasso di cambio è invece di natura politica. Se all’unione
monetaria fosse affiancata anche un’unione di bilancio, quest’ultima potrebbe in parte mitigare gli effetti
dello shock iniziale e sostituirsi quindi alla variazione del tasso di cambio. Se vi fosse un bilancio comune
all’area dell’Euro con delle entrate e delle spese di tipo comunitario, questo potrebbe in primo luogo
fungere da stabilizzatore automatico; il prelievo fiscale che dipende positivamente dal reddito
diminuirebbero nel Paese I e aumenterebbero in G, mentre le spese che sono o indipendenti dal reddito (la
spesa sanitaria, ad esempio) o dipendono negativamente da questo (i sussidi di disoccupazione, ad
esempio) aumenterebbe in I diminuendo o al più rimanendo costanti in G. Questo meccanismo automatico
sarebbe in grado quindi di assorbire almeno in parte gli effetti dello shock iniziale ridistribuendo il potere
d’acquisto fra i due Paesi19. In secondo luogo, una variazione discrezionale della spesa pubblica o della
in Europa il cui prezzo aumenterebbe del 10%. Questo accadrebbe, ovviamente, se il pass-through del tasso di cambio
nei prezzi locali fosse completo ovvero se una variazione del tasso di cambio si trasformasse meccanicamente in una
variazione proporzionale nel livello dei prezzi locali. Il tema è ovviamente complesso e il pass-through non è quasi mai
pieno (Goldberg e Knetter, 1997).
19
Questo meccanismo viene spesso definito come una sorta di meccanismo assicurativo pubblico (De Grauwe, 2014)
ed è ampiamente praticato all’interno di tutte o quasi le economie nazionali, anche ovviamente dei Paesi aderenti
all’Unione Europea. Come tutti i meccanismi assicurativi stipulati in regime di asimmetria informativa un tale
meccanismo può essere criticato in quanto può stimolare comportamenti di azzardo morale da parte del Paese
negativamente colpito che potrebbe preferire fare dello svantaggio una professione evitando di fare quegli
aggiustamenti strutturali che sarebbero necessari.
tassazione potrebbe svolgere lo stesso ruolo. Il Paese colpito dalla shock negativo sarebbe oggetto o di un
aumento delle spesa pubblica o di una diminuzione della tassazione con finalità anticicliche ovvero allo
scopo di assorbire in parte gli effetti dello shock avverso. In questo caso, la redistribuzione della domanda
fra i due Paesi avverrebbe attraverso una riallocazione della domanda pubblica e non di quella privata.
Non occorre un’analisi particolarmente complicata dei dati per capire che l’Euro-zona non rispetta neanche
questo ultimo criterio. Nel 2013 la spesa pubblica complessiva dell’area Euro era pari al 49.7% del PIL (dati
EUROSTAT), mentre la spesa effettuata dagli organi comunitari era pari all’1% (il 2% della spesa
complessiva). Il paragone con gli Stati Uniti è eloquente. Nello stesso anno la spesa pubblica complessiva
equivaleva a 38.7% del PIL, di cui il 13.5 % del PIL (il 35%) era effettuata dal Governo federale (dati OECD).
Con queste cifre è difficile immaginare un qualsiasi effetto stabilizzante del bilancio comunitario. Studi più
approfonditi mostrano in modo abbastanza inequivocabile che mentre negli Stati Uniti il Governo Federale
svolge una funzioni redistributiva significativa fra gli stati americani, questo in Europa non avviene. La
funzione assicurativa della politica fiscale funziona solo all’interno di ciascuno dei Paesi europei (Barba e De
Vivo, 2013).
Da quanto detto nei paragrafi precedenti appare abbastanza chiaro che le ragioni che spinsero i Paesi
Europei a imboccare la strada dell’Unione monetaria non possono essere ricondotte a valutazioni di natura
strettamente economica. Da un punto di vista economico erano abbastanza evidenti i rischi dell’operazione
che molti economisti specie d’oltre oceano posero all’attenzione dei politici20. La teoria delle OCA arrivava
alla conclusione che fosse molto difficile garantire la stabilità di un’unione monetaria senza un’unificazione
politica (Goodhart, 1998, Cesaratto, 2015). Questa avrebbe portato con sé l’unione di bilancio (necessaria
per riassorbire shock asimmetrici), un’uniformità delle legislazioni e delle regole sul mercato del lavoro e sul
sistema pensionistico (che avrebbe favorito la mobilità intra-unione dei lavoratori), un unione bancaria che
avrebbe reso più facile il trasferimento delle risorse necessarie per evitare crisi della bilancia dei pagamenti
(che all’interno di un singolo Paese perdono d’importanza), un governo federale che avrebbe permesso di
rappresentare le preferenze della comunità per ridare solidità democratica al progetto europeo (risolvendo
il trilemma di Rodrik con il superamento dello Stato Nazionale).
La spiegazione del perché ciononostante i Paesi europei abbiano scelto il percorso dell’unificazione
monetaria è da ricercarsi in un altro ambito: quello più propriamente politico.
Come abbiamo visto, la moneta rappresenta uno dei simboli di una comunità nazionale. Appare quindi
evidente che molti vedessero nella creazione dell’unione monetaria una precondizione per una maggiore
unione politica. Il sogno di un’Europa federale più simile agli Stati Uniti d’Europa che a una semplice unione
economico-doganale sembrava dover o poter transitare attraverso il passaggio intermedio ma necessario
dell’Unione Monetaria21. Se pensiamo alla politica monetaria quest’idea non suonava del tutto peregrina.
Occorre considerare che l’unione monetaria nacque come fisiologica evoluzione della sistema monetario
europeo (un sistema di cambi fissi ma, almeno in un primo periodo, aggiustabili fra le varie valute europee)
nel quale la Bundesbank svolgeva un ruolo egemone e centrale. Era la Bundesbank che determinava la
politica monetaria per l’intera zona. Se i governanti europei, a torto o ragione, ritenevano che non vi
fossero alternative a un regime di cambi fissi all’interno dell’Europa, si può facilmente notare come il
passaggio all’unione monetaria eliminasse l’asimmetria e il ruolo centrale della Germania assegnando la
20
Una citazione su tutte: l’articolo sull’Economist dello studioso di Harvard, Martin Feldstein, già presidente del
Council of Economic Advisers che esplicitamente invitava i Paesi europei ad abbandonare il progetto dell’unione
monetaria, (Feldstein, 1992).
21
Non sfuggirà al lettore attento l’inversione del nesso logico: la teoria economica suggerisce, al contrario, che la
unificazione politica sia una precondizione per una unificazione monetaria.
condotta della politica monetaria a un’istituzione comunitaria come la BCE22. Sicuramente il grado
d’integrazione politica e di collegialità decisionale nella condotta della politica monetaria, almeno
formalmente, aumentò con la creazione dell’unione monetaria. Questo può spiegare ad esempio perché
Paesi come la Francia furono fra gli sponsor maggiori dell’Euro (De Grauwe, 2013).
Ci si potrebbe chiedere a questo punto perché i governanti europei fossero così convinti che la flessibilità
del cambio fosse incompatibile con una maggiore integrazione dei mercati. La storia del mercato comune
europeo, cosi come di forti unioni commerciali sviluppatesi altrove (vedi il NAFTA), sembrerebbe
dimostrare il contrario (Feldestein, 1992). Anche qui forse potremmo immaginare una motivazione
principalmente politico-ideologica.
Alcuni Paesi, Germania in testa, volevano eliminare la possibilità che Nazioni con economia più debole e
minore crescita della produttività, usassero la svalutazione della valuta che misura opportunistica, come
politica beggar-thy-neighbor, cioè una politica in grado di produrre effetti positivi su chi la adotta a spese
degli altri. Occorre tuttavia ricordare che lo stesso atteggiamento non vi fu per altre possibili forme di
politiche opportunistiche, come ad esempio le politiche di competizione fiscale (vedi il Luxleaks discusso nel
capitolo 6.1) o la deregolamentazione del mercato del lavoro. Più in generale appare non spiegata la
ragione per la quale la svalutazione esterna vada etichettata come politica beggar-thy-neighbor mentre la
svalutazione interna, la diminuzione dei salari interni non lo sia.
Altri Paesi, come l’Italia, godendo di scarsissima fiducia nelle proprie istituzioni economico-politiche,
pensavano di poter acquisire la credibilità di altre autorità politiche e monetarie legando le mani alla
propria Banca Centrale e delegando completamente la condotta della politica monetaria o a un ente
straniero, la Bundesbank ai tempi dello SME, o a ente terzo al di fuori della giurisdizione nazionale, la BCE
nell’unione monetaria. Se la politica monetaria ha effetti solo nominali, cioè fa unicamente aumentare
l’inflazione, un’autorità monetaria non credibilmente consapevole di ciò o subordinata al potere politico
autogenera inflazione perché i soggetti economici si aspettano adotti una politica monetaria espansiva
(Giavazzi e Pagano, 1988).
Collante necessario della Unione Monetaria fu l’ideologia monetarista che fornì ai governanti europei due
diverse motivazioni. La prima già in parte discussa riguarda l’inefficacia della politica monetaria per
contrastare le fasi negative del ciclo economico. La seconda riguarda le virtù taumaturgica del mercato
unico, o meglio della competizione libera fra le imprese e i lavoratori dell’economie dell’Unione. Le
perplessità della teoria dell’OCA veniva superate nella fiducia che da una parte il mercato unico avrebbe
ridotto le differenze e aumentato il grado di simmetria fra le economie dei diversi Paesi e dall’altra avrebbe
aumentato la competizione anche nel campo delle politiche economiche costringendo i Paesi più riottosi a
fare quelle riforme strutturali che avrebbero reso più flessibile il mercato dei beni e del lavoro permettendo
di sostituire alla svalutazione esterna il meccanismo della svalutazione interna.
Che questo collante ideologico fosse necessario emerse chiaramente in seguito alla crisi del 2008, quando
molti Paesi al di fuori dell’area euro abbandonarono rapidamente il paradigma adottando politiche
monetarie e fiscali fortemente espansive mentre l’Euro-zona scelse una politica monetaria molto più
prudente e in virtù del fiscal compact una politica fiscale addirittura restrittiva almeno negli anni successivi
allo scoppio della crisi23. L’abbandono del paradigma liberista al momento non appare possibile in Europa
22
Questo ovviamente spiega le forti resistenze all’interno della banca centrale tedesca al progetto dell’Euro.
Resistenze in parte vinte grazie alla fatto che l’impianto istituzionale della BCE, come abbiamo visto, era molto simile a
quello della Bundesbank.
23
Esisto oramai ben pochi dubbi sul fatto che la teoria della cosiddetta austerità espansiva fosse ben poco fondata.
Blanchard e Leigh (2013) mostrano come Fondo Monetario e Commissione Europea abbiano drammaticamente
sottovalutato gli effetti negativi delle politiche di austerità. Rannenberg e altri (2015) concludono che queste politiche
son in gran arte responsabili della caduta del PIL nel periodo 2010-13.
perché questo significherebbe, ovviamente, rimettere completamente in discussione e riformare l’intero
impianto istituzionale. Per ragioni di opportunità politica infatti l’interazione fra le collettività nazionali
immaginate nei trattati europei è molto più improntata al meccanismo della competizione che a quello
della cooperazione e della solidarietà.
1.3 LA CRISI DELL’EUROZONA
In base a quanto detto nei capitoli e nei paragrafi precedenti non dovrebbe destare alcuna meraviglia la
crisi in versa l’Eurozona: era in qualche modo tutta già scritta nel meccanismo istituzionale approntato al
momento della sua costituzione. Così come dovrebbe apparire più chiaro come mai il caso europeo, a cui
abbiamo dedicato tanta attenzione, sia una storia particolarmente interessante e per certi versi unica. E’ un
caso paradigmatico degli effetti che si ottengono separando i mercati dalla politica, la competizione dalla
cooperazione, adottando uno schema ideologico che ritiene che l’efficienza del mercato possa sopperire al
deficit istituzionale.
La crisi dell’Eurozona presenta vari aspetti e diverse intensità ed è complessiva riguardando non solo
aspetti economici ma anche sociali, politici e culturali. Per rendersi conto di quanto sia seria è sufficiente
dare uno sguardo al crollo verticale – mostrato nelle indagini demoscopiche - della fiducia nelle istituzioni
europee da parti dei cittadini di quasi tutti i Paesi, compresi quelli più tradizionalmente europeisti come
l’Italia24. I partiti e movimenti politici dichiaratamente anti-europei non sono mai stati così forti in
moltissimi Paesi europei compresi i Paesi fondatori (Francia e Italia in primo luogo) o fra i Paesi che sono in
Europa da tanto tempo come il Regno Unito.
Da un punto di vista squisitamente economico, invece, la fase acuta della crisi sembrerebbe passata. Essa
inizia nell’estate del 2010 e si aggrava fino all’estate del 2012. Viene definita la crisi dei debiti sovrani
perché si manifesta con l’aumento molto elevato dei differenziali (spread) fra i tassi d’interesse pagati sui
titoli pubblici a lungo termine di alcuni Paesi (Grecia, Spagna Portogallo, Irlanda, Italia) e quelli pagati sul
titolo di Stato tedesco (Bund). In realtà ciò non significa affatto, che la causa della crisi sia ricercabile in un
aumento inatteso e/o massiccio del debito pubblico dei Paesi in questione25; al contrario il debito pubblico
veniva da un periodo di ridimensionamento e in alcuni Paesi (la Spagna) i conti pubblici prima della crisi
erano più che in ordine (il caso della Grecia come è noto fa storia a sé). Anche se è vero che la crisi del 2008
aveva richiesto un aumento della spesa in debito, sia per contrastare la caduta della domanda sia per
impiegare risorse pubbliche per il salvataggio delle banche di alcuni Paesi (emblematico il caso spagnolo),
questo non aveva modificato più di tanto i fondamentali che determinano la solvibilità di un Paese, ossia la
sua capacità di restituire il debito contratto dallo Stato con gli agenti economici. Quello che era cresciuto in
termini macroscopici era infatti il debito privato (Bagnai, 2012, Corsetti, 2010) che seguiva da anni una
direzione precisa e costante: dai Paesi in surplus commerciale (in primo luogo la Germania) ai Paesi in
deficit della bilancia dei pagamenti, Spagna, Grecia, Portogallo (Cesaratto, 2012, Baldwin e Giavazzi, 2015).
Questo flusso di capitale non venne impiegato per finanziare investimenti e incrementare la capacità
produttiva dei Paesi e con questo rendere più facile e plausibile la restituzione di quanto preso in prestito
quanto per finanziare la spesa per consumi o per investimenti nel settore immobiliare (di nuovo
24
Un indagine Demopolis mostra come la fiducia degli italiani nell’Unione europea si è quasi dimezzata in 15 anni
passando dal 53 % del 2000 al 28 % del 2015 (http://www.demopolis.it/?p=2176). L’indagine Eurobarometer segnala
che nella primavera del 2015 il 43% degli italiani ha una visione totalmente pessimistica del futuro della EU
(http://ec.europa.eu/public_opinion/archives/eb/eb83/eb83_first_en.pdf) e questo è uno dei valori più alti fra i Paesi
dell’Unione.
25 “La crisi dell’Eurozona non fu, alla base, una crisi del debito sovrano. La colpa era dei grandi flussi di capitale interni
all’Eurozona emersi prima della crisi.” Baldwin e Giavazzi, 2015 pag. 24 (traduzione mia)
emblematico il caso spagnolo)26. Quando lo scoppio della crisi del 2008 determinò un crollo della fiducia nel
settore interbancario e nella solvibilità di tutti i debitori, questo flusso di risorse improvvisamente si bloccò
spingendo rapidamente i tassi d’interesse alle stelle.
E’ curioso notare come una crisi che nell’immaginario collettivo viene giudicata come una crisi determinata
dal cattivo funzionamento della politica (debito pubblico eccessivo) sia in realtà determinata dal fallimento
dei mercati finanziari e bancari (una esposizione eccessiva del sistema bancario privato verso il settore
privato di alcuni Paesi) al pari della crisi internazionale del 2008 che l’aveva in parte favorita.
La crisi era aggravata dal fatto che alla BCE non era concesso di svolgere il ruolo di prestatore di ultima
istanza dei governi. Che la mancanza di questa importante funzione della banca centrale fosse un problema
in grado di mettere in pericolo la stessa stabilità dell’Unione Monetaria, è provato dal fatto che quello che
era stato cacciato dal portone dell’ideologia degli estensori dello Statuto è rientrato dalla finestra del
pragmatismo, pieno di buon senso, del suo presidente. Nel luglio del 2012 pochi giorni prima dell’inizio dei
Giochi olimpici, nel pieno della crisi, Mario Draghi in una conferenza di investitori a Londra, rilascia una
famosa dichiarazione nella quale impegna la BCE ha fare tutto quel che fosse necessario per preservare
l’Euro27. Nel settembre del 2012, poi, la BCE vara il piano chiamato OMT (Outright Monetary Transaction)
nel quale si impegna ad acquistare, se necessario, una quantità illimitata di titoli pubblici dei Paesi che
fossero incorsi in gravi crisi di liquidità28. La cosa non passò senza resistenze e polemiche29; questo
nonostante il fatto che il piano imponesse al paese che lo avesse richiesto un fortissimo inasprimento delle
politiche di austerità fiscale. Il solo annuncio della politica – finora il piano non è stato mai realmente
applicato – sortì l’effetto sperato e fece in breve tempo crollare lo spread fra i tasso d’interesse dei titoli
pubblici di molti Paesi dell’area nei confronti del Bund tedesco; il che peraltro fa pensare che gli spread non
fossero tanto indotti dai quelli che vengono chiamati i fondamentali del mercato (in questo caso, rapporto
deficit/PIL o debito/PIL, fra gli altri) ma semplicemente dal panico indotto e dalla paura che l’unione
monetaria potesse venir meno (De Grauwe e Ji, 2013)30 – un altro esempio di cattivo funzionamento del
mercato finanziario.
A un osservatore attento e scevro da condizionamenti ideologici non sfuggirà il fatto che una crisi
determinata dal fallimento del mercato sia stata, almeno per il momento, risolta con un semplice
intervento politico istituzionale, o meglio con il mero annuncio di un cambiamento nello Statuto materiale
della BCE. Una ulteriore esempio della necessaria complementarietà fra mercati e istituzioni, fra
competizione e cooperazione di cui si è spesso discusso nei capitoli precedenti.
Ma se la crisi acuta dell’Eurozona sembra essere per il momento passata, la crisi cronica dell’area rimane
ancora tutta lì. La figura 11 mostra chiaramente come negli ultimi 15 anni la crescita del PIL nella Euro-zona
sia stata sensibilmente minore che nei dieci Paesi dell’Unione che non fanno parte dell’unione monetaria
(UE-10) e che hanno conservato la loro valuta così come degli Stati Uniti. Ancora più interessante il fatto
che mentre sia il gruppo degli Euro 10 e gli Stati Uniti sono riusciti a recuperare tutto il terreno perso in
termini di PIL reale in seguito alla crisi del 2008 e sono tornati a crescere rispetto ad allora, l’Eurozona non
26
C’è quindi in fondo del vero nella vulgata diffusa da politici e mass media: alcuni Paesi vissero realmente al di sopra
dei propri mezzi, ma questo non fu dovuto a un eccessivo indebitamento pubblico quanto a un eccessivo
indebitamento privato e cioè a un cattivo funzionamento del mercato del credito.
27
"Within our mandate, the ECB is ready to do whatever it takes to preserve the euro. And believe me, it will be
enough,": queste parole di Draghi da sole tranquillizzarono I mercati, facendo scendere i tassi d’interesse.
28
Diventando quindi prestatore di ultima istanza dei governi nei fatti se non nello Statuto.
29
Il rappresentante tedesco nel board della BCE votò contro e la questione fu successivamente condotta di fronte alla
Corte Costituzionale Tedesca che a sua volta sollevò davanti alla Corte di Giustizia Europea dubbi di legittimità rispetto
al trattato dell’Unione. Nel giugno del 2015 la Corte si espressa in favore dell’OMT giudicato legalmente compatibile
con i Trattati Europei
30
Dal luglio 2012 al ottobre 2015 lo spread italiano è diminuito del 500% mentre il rapporto debito/PIL è addirittura
aumentato.
ha ancora completamente recuperato il reddito perso con la crisi. L’Euro-zona è ancora nella palude della
crisi del 2008 sette anni dopo. L’unione monetaria quindi non sembra aver soddisfatto quelle che erano le
promesse al momento della fondazione: garantire più crescita e più occupazione (De Grauwe, 2015). Anzi
sembra aver ottenuto il risultato opposto: meno crescita e minor occupazione.
Questo risultato è stato ottenuto grazie al combinato composto di due politiche: l’austerità, ovvero la
politica di contrazione fiscale in un periodo di recessione ha avuto l’effetto di acuire gli effetti della crisi in
modo fortemente pro-ciclico; le politiche di liberalizzazione del mercato del lavoro (la più importante e
reclamata riforma strutturale) hanno ulteriormente indebolito la componente interna della domanda
aggregata redistribuendo regressivamente il reddito e rendendo più incerto il futuro hanno aumentato il
risparmio e diminuito i consumi privati. E questo ha reso le prospettive di crescita tutte dipendenti dalla
domanda estera; il rallentamento delle economie emergenti ha reso ancora più incerto il futuro.
Figura 1 PIL reale (2000=100)
PIL reale (prezzi 2010)
135
130
125
120
115
110
105
100
Eurozona
95
UE-10
USA
90
2000
2002
2004
2006
2008
2010
2012
2014
Fonte: De Grauwe (2015) pag. 102
Alla base di tutto questo c’è che il peccato originale del progetto Europa, l’errore di fondo dell’impianto
istituzionale europeo. L’unione e ancor più la unione monetaria è stata costruita all’insegna della
diminuzione del ruolo delle istituzioni e dello Stato Nazionale nel controllo dell’economia. Tutta una serie di
strumenti di politica sia micro che macro-economica (politica industriale, politica monetaria, politica fiscale)
sono stati sottratti ai Governi nazionali senza essere peraltro trasferiti ad alcuna autorità sovranazionale,
facendo ideologicamente fede sulle capacità del mercato unico di aggiustare ogni squilibrio e garantire
sviluppo diffuso e omogeneo. La crisi del 2008 ha dimostrato in modo inequivocabile, qualora ve ne fosse
ancora bisogno, che i mercati son ben lungi dal funzionare sempre in modo corretto ed efficiente; l’Unione
monetaria europea si è così trovata quasi completamente disarmata davanti alla crisi e ha rischiato di
soccombere.
La crisi dell’Eurozona è decisamente strutturale in quanto è la crisi di un modello economico-politico e della
ideologia che lo ha ispirato. L’Unione Europea si palese sempre più come il gigante dai piedi d’argilla nel
panorama sempre più complesso e competitivo della globalizzazione in quanto si deve scontrare con
competitor (USA, Cina e molti paesi emergenti) che sono più efficienti perché in grado di fare sistema
coniugando competizione e cooperazione all’interno di una forte struttura istituzionale: è questo dà loro un
forte vantaggio competitivo nei confronti dell’EU che si è invece affidata solo al meccanismo concorrenziale