donne e cooperazione
Transcript
donne e cooperazione
MASTER “ESPERTI FORMATORI IN PARI OPPORTUNITA’” Anno Accademico 2003-2004 Tina Modotti, Donna che porta acqua, Messico 1928 IL CONTRIBUTO DELLE DONNE NELLA TEORIA E NELLE PRATICHE DI COOPERAZIONE INTERNAZIONALE ALLO SVILUPPO Un excursus sui differenti approcci dagli anni 50 ad oggi Professoressa Francesca Brezzi Studentessa Nadia Angelucci INTRODUZIONE L’idea di sviluppare questo lavoro analizzando i vari approcci al concetto di sviluppo e alla pianificazione di genere, nell’ambito della cooperazione internazionale allo sviluppo per le donne, è nata perché, per alcuni anni, ho vissuto in Ecuador e ho lavorato nelle comunità indigene dell’altopiano Andino. E’ stata indubbiamente un’esperienza interessante e appassionante, soprattutto per la relazione che si è stabilita con le donne. Proprio in questa circostanza è sorta in me l’esigenza di fare qualcosa di più per approfondire la questione e dotarmi di alcuni strumenti che potessero essermi utili per continuare il lavoro con le donne. Questo è il motivo che mi ha spinto a frequentare un master in “Esperti in Pari Opportunità”. In questa relazione analizzerò i vari approcci che, nel corso degli anni, sono stati elaborati, in particolare da studiose, per pianificare interventi di cooperazione internazionale diretti principalmente alle donne nei PVS – Paesi in Via di Sviluppo -, che potessero valorizzare il loro lavoro e prospettare scenari di sviluppo sostenibile. Tutti gli approcci, che illustrerò rispettando il più possibile un criterio temporale, sono stati influenzati delle differenti situazioni politiche, economiche, culturali e dalle relazioni internazionali. Tentare di dare un ordine cronologico a tutto il fermento di idee e pratiche che sono state messe in campo è senz’altro una semplificazione della materia1 che serve solamente ad avere una maggiore comprensione dell’argomento. Nella realtà le politiche e gli approcci che presenterò sono nati quasi contemporaneamente e sono stati usati dalle Agenzie internazionali e dagli operatori di cooperazione senza seguire necessariamente un ordine: a volte sono stati messi in campo differenti 1 Come base di questa tesina seguirò il lavoro di Moser e Buvinic che hanno tentato una classificazione sistematica dei diversi approcci dello sviluppo alle donne. 2 approcci contemporaneamente, proprio per rispondere ad esigenze diverse; alcune Agenzie hanno preferito e quindi privilegiato nei propri interventi, uno solo dei criteri che esporrò; infine alcuni operatori, all’interno del medesimo programma, hanno modificato la metodologia applicata, tra le fasi di pianificazione e realizzazione del progetto. Mentre raccoglievo materiale per scrivere questa tesina mi sono imbattuta in uno studio che avevo realizzato durante un lavoro di pianificazione per un progetto agricolo in Ecuador, e mi è parso utile, proprio per rendere chiaro e ‘visibile’ il lavoro delle donne nel Sud del Mondo, cominciare questa tesina riportando i risultati di un esercizio realizzato in una comunità indigena con donne e uomini. ************************ 3 Il contributo delle donne nella teoria e nelle pratiche di cooperazione internazionale allo sviluppo Un excursus sui differenti approcci dagli anni ’50 ad oggi 1. Lo schema che riporterò qui di seguito è il risultato di un’attività di campo che viene utilizzata, nella pianificazione di un progetto di intervento, in questo caso di cooperazione, per approfondire l’analisi delle quantità di lavoro, sia per genere che nella sfera produttiva, riproduttiva e comunitaria. L’attività è stata svolta, nell’ambito del lavoro di pianificazione di un progetto agricolo, dalla ONG italiana CICa – Comunità Internazionale di Capodarco – insieme alla ONG ecuadoriana COMEDECU – Corporaciòn para el Mejoramiento Educativo y Desarrollo Cultural -, tra gennaio e marzo del 2001 nella comunità indigena di San Miguel de Tumbalò, sul paramo2 andino, nella provincia del Tungurahua, in Ecuador. Orologio di routine quotidiana di una donna contadina 4.00-6.00 – Svegliarsi, accendere il fuoco, lavarsi, vestirsi, preparare la colazione3, svegliare i bambini, prepararli, servire la colazione per la famiglia, mettere ordine la choza4. 2 3 Il paramo è l’altopiano delle Ande, tra i 3 500 e i 4 000 metri sopra il livello del mare. Solitamente consiste in una colada, una specie di semolino di mais con frutta. 4 6.00-7.00 – Accompagnare gli animali al pascolo, accompagnare i bambini a scuola e dirigersi al campo. 7.00-11.30 – Lavorare nel campo, occuparsi dei bambini più piccoli che ancora non frequentano la scuola, e, una volta alla settimana partecipare alla minga5. 11.30-13.00 – Rientrare a casa e preparare il pasto. 13.00 – Servire il pranzo, mangiare e mettere in ordine. 14.00- 17.30 – Andare al fiume a lavare i panni, raccogliere la legna per il fuoco, prendere l’acqua, andare a riprendere gli animali al pascolo, tutto questo occupandosi anche dei bambini. 17.30 – Preparare la merienda6 18.00 – Servire la merienda, rimettere ordine 19.00 – Mettere a letto i bambini. 19.30-21.00 – Cucire o tessere. 21.00 – 4.00 – Dormire Orologio di routine quotidiana di un uomo contadino 5.00 – Svegliarsi e fare colazione 6.00–13.00 -Attività differenti a seconda della giornata: lavoro comunitario (una volta alla settimana), andare nei campi solo nel caso di lavoro pesanti come ad esempio l’aratura, andare al mercato a vendere i prodotti (il giorno di mercato), riunirsi con il Consiglio della comunità. 13.00-14.00 – Mangiare. 4 La choza è una tipica costruzione indigena costruita con fango e paglia. In un ambiente molto freddo come l’altopiano – siamo sui 3000-3500 metri- è preferibile alle costruzioni di cemento e mattoni perché ha la capacità di mantenere di più il calore. 5 La minga è il lavoro comunitario nelle terre che appartengono alla comunità intera e i cui utili si ripartiscono tra tutti gli abitanti compresi quelli che impossibilitati a lavorare per diverse ragioni (disabili o anziani) non avrebbero altrimenti un reddito sufficiente. . 5 14.00-16.00 – Riposare. 16.00-18.00 – Occuparsi di questioni che riguardano la comunità. 18.00 – Mangiare. 19.00-21.00 – Riposare. 21.00-5.00 – Dormire. Da questo semplice esercizio si deduce chiaramente quanto il carico di lavoro di una donna contadina sia superiore rispetto a quello di un uomo. Anche altri dati, raccolti in maniera più completa perché frutto di una serie di studi in differenti realtà del mondo, come quelli del UNDP – United Nation Development Program - nel suo Rapporto Annuale7 del 1995, ci dicono la stessa cosa e confermano che questa realtà è diffusa in tutto il mondo. Sintetizzando, il Human Development Report 1995: Gender and Development, riporta che: • il numero di ore di lavoro delle donne è maggiore rispetto a quello degli uomini in quasi tutti i paesi del mondo, sia in quelli sviluppati che in quelli in via di sviluppo, in aree urbane e in aree rurali. Le donne si fanno carico del 53% del lavoro totale nei paesi in via di sviluppo e del 51% nei paesi sviluppati; • nei paesi sviluppati il lavoro degli uomini riguarda per i 2/3 attività remunerate e 1/3 attività non remunerate. Nel caso delle donne le percentuali si invertono; • nei paesi in via di sviluppo gli uomini dedicano 3/4 del proprio tempo ad attività remunerate. 6 Non è un vero e proprio pasto ma piuttosto quello che noi consideriamo una merenda; consiste in un tè, un caffè o una colada con un poco di pane. E’ l’ultimo pasto della giornata. 7 UNDP, Human Development Report 1995: Gender and Development, Oxford University Press, New York, 1995. 6 Anche altre statistiche di Organizzazioni delle Nazioni dimostrano che nei Paesi in Via di Sviluppo il carico di lavoro delle donne è superiore rispetto a quello degli uomini. Infatti il lavoro agricolo, anche se con differenza tra paesi e regioni, è svolto, per oltre il 50%, dalle donne; in particolare il 40-50% in America Latina e fino al 60-80% in Asia e Africa. Centrando l’attenzione nell’Africa Sub-sahariana le differenze si fanno ancora più profonde: la donna è impegnata nei lavori agricoli fino a 7-8 ore al giorno contro le 6 ore dell’uomo; è inoltre impegnata in attività economiche non agricole (soprattutto per la famiglia) fino a 6 ore al giorno contro le 2 ore dell’uomo. Nel dettaglio l’apporto del lavoro femminile in agricoltura nei PVS è il seguente (dati 1995): aratura 25%, semina 50%, allevamento di animali da cortile e pascolo, acquacoltura 50%, sarchiatura, irrigazione e raccolta 60-70%, conservazione, preparazione e commercializzazione delle derrate 85%, preparazione dei cibi, ricerca di materiale combustibile, prelievo di acqua potabile e accudimento dei figli 95%. Un altro elemento davvero impressionante si riferisce al confronto tra il peso trasportato (legna, acqua, raccolti, derrate al mercato) in un anno per 1 chilometro: le donne rurali nei paesi in via di sviluppo trasportano mediamente più di 80 tonnellate e gli uomini 108. Dagli anni ’70 in poi, soprattutto grazie all’azione stessa del movimento femminista e di alcune studiose, si è sollevato un velo sul ruolo e la condizione della donna, in particolare nei PVS, e si è avviato e imposto all’attenzione mondiale il dibattito sui diritti, sull’esigenza di riconoscere il lavoro e sulla promozione di prassi che andassero nella direzione di migliorare lo stato sociale delle donne nei paesi più poveri, rafforzando proprio le loro capacità e peculiarità. In poche parole venne alla luce l’esigenza di includerle nello ‘sviluppo’. 8 Tutti questi dati sono stati tratti da Giantommaso Scarascia Mugnozza, Relazione alla Giornata mondiale sull’alimentazione 1998, Le Donne nutrono il mondo. 7 2. Durante gli anni ’50 e ‘60 la strategia di sviluppo che era stata messa in atto nei confronti dei PVS era quella classica, basata essenzialmente sulla tecnica degli investimenti nell’industria che, nelle speranze degli economisti, avrebbero agito da volano per tutta l’economia. I programmi di aiuto quindi erano essenzialmente programmi di investimento produttivo, che avevano come scopo quello di industrializzare, appunto, il paese, e di rompere il circolo della sottoccupazione rurale. Nei confronti delle donne, invece, si mettevano in atto soprattutto strategie di tipo ‘assistenziale’. Nei programmi di cooperazione erano prese in considerazione unicamente per le funzioni riproduttive che svolgevano all’interno della famiglia. Tre gli stereotipi fondamentali: le donne sono delle beneficiarie passive nel processo di sviluppo; il ruolo sociale più importante per una donna è quello materno; il ruolo economico più importante per una donna è quello di allevare i figli. I programmi, quindi, erano indirizzati soprattutto a garantire, attraverso la donna, la sopravvivenza fisica della famiglia, a combattere la malnutrizione e, solo più tardi, a controllare la crescita della popolazione attraverso la pianificazione familiare. Proprio in questo periodo, i decenni ’50, e soprattutto ’60, i paesi del Sud del Mondo furono caratterizzati da profondi cambiamenti politici ed economici dovuti principalmente alla nascita dei vari movimenti di decolonizzazione e all’inizio delle lotte di liberazione nazionale. Il processo di decolonizzazione ha rappresentato indubbiamente uno tra gli eventi più rilevanti del secolo scorso, che ha ridisegnato, innanzitutto, i rapporti internazionali, ma sicuramente anche quelli sociali. La forte presenza delle donne in queste organizzazioni e la partecipazione, in vari ruoli, dell’elemento femminile fu determinante e fondamentale per l’ingresso delle stesse nella scena politica, che, da quel momento non vorranno più abbandonare. 8 3. E’ in questo periodo che le Nazioni Unite, coscienti del profondo cambiamento sociale in atto, cominciano a guardare con interesse ai paesi del Sud, come a contesti sociali in evoluzione, e incaricano economiste ed antropologhe di studiare questi ambiti in cui, il completo rivolgimento degli schemi politici, economici, sociali e la comunicazione più fitta con i movimenti occidentali, danno luogo ad elaborazioni e riflessioni che rivendicano l’indipendenza non solo politica ed economica, ma anche culturale. Questa la ragione della promozione di una serie di studi, come quello di Ester Boserup9, che, come vedremo, diede un forte impulso agli studi sulle donne nei PVS, e dell’”investimento” che le Nazioni Unite fecero sulle donne con la proclamazione dell’Anno Internazionale della Donna e l’organizzazione della prima delle Conferenze sulla Donna, a Città del Messico, nel 1975. Gli anni ’70, dunque, segnano la nascita di un vero e proprio sistema, all'interno delle agenzie di sviluppo multilaterali e bilaterali, chiamato ‘Donne e sviluppo' WID - Women in Development10. Ispiratore di questo approccio fu lo studio di Ester Boserup Il lavoro delle donne, che mise in evidenza il ruolo delle donne nei processi di sviluppo dimostrando che il genere sessuale è un fattore di base nella divisione del lavoro e che tale divisione varia nei diversi luoghi e nelle diverse regioni. Tale approccio mise in dubbio quello che fino a quel momento era stato un assioma e cioè che gli uomini si occupassero dell’approvvigionamento del cibo e le donne si dedicassero esclusivamente a lavori di tipo domestico. Per la prima volta venne riconosciuto, in termini quantitativi e qualitativi, il lavoro svolto dalle donne. In un certo senso le donne diventarono visibili. Sulla base delle informazioni ed 9 Ester Boserup, Women’s Role in Economic Development, St. Martin’s Press, New York, 1970; edizione italiana Il lavoro delle donne. La divisione sessuale del lavoro nello sviluppo economico, Torino, Rosenberg & Sellier, 1982. 9 elaborazioni fatte, l’approccio WID, nella cooperazione internazionale allo sviluppo, riconosceva la necessità di integrare le donne nel processo produttivo e promuoveva il loro accesso all’occupazione e al mercato del lavoro. Riteneva le donne come un insieme uniforme che doveva essere trattato separatamente rispetto agli uomini nella programmazione economica dello sviluppo e che era necessario valorizzare. A partire da queste considerazioni sono state predisposte, per molti anni, una serie di strategie per la realizzazione di progetti di sviluppo volti, prevalentemente, ad aiutare le donne a partecipare alle economie nazionali per migliorare la loro posizione e aiutare il processo di sviluppo. Il successo di questo modello fu dovuto anche al fatto che venne rapidamente adottato dall’Agenzia di Cooperazione statunitense USAID – United States Agency for International Development. Tuttavia quello che viene genericamente definito approccio WID, nel corso degli anni ebbe delle applicazioni differenti che si svilupparono principalmente in tre filoni di lavoro. L’approccio WID originale, detto di equità, si era dato come scopo quello di raggiungere l’equità con gli uomini e riconosceva la necessità di integrare le donne nel processo produttivo per creare reddito. Riconoscendo la partecipazione delle donne e il contributo essenziale al processo di sviluppo delle stesse questo criterio di pianificazione si poneva in una posizione tanto avanzata da mettere in discussione i ruoli sociali, pertanto ebbe molte difficoltà nella sua applicazione, soprattutto per l’opposizione dei governi locali. Un’altra applicazione in cui si manifestò l’approccio WID fu quella chiamata anti-povertà, il cui scopo era quello di garantire alle donne povere un 10 Il termine WID Women in Development fu coniato all’inizio degli anni ’70 da una Commissione di economiste ed antropologhe della SID – Society for International Development – influenzate dal lavoro di Ester Boserup. 10 incremento della loro produzione. In questo caso la povertà era vista più come un risultato del sottosviluppo che non della subordinazione agli uomini. Infine, l’ultima espressione dell’approccio WID, fu quella chiamata dell’efficienza che si sviluppò a partire dagli anni ’80, in seguito all’instaurarsi delle politiche neoliberiste, e che puntava a soddisfare i bisogni basilari in un contesto in cui i servizi sociali andavano riducendosi sempre più, e, per raggiungere tali scopi, si affidava appunto alla versatilità delle donne e all’elasticità del loro tempo. Le critiche all’approccio WID emersero quando ci si rese conto che “i vari fondi speciali per le donne venivano utilizzati, nella gran parte, come un modo per impedire l’accesso agli aiuti destinati agli uomini e per dare preferenza ad interventi di tipo assistenziale, in completa segregazione sessuale, in modo da eliminare ogni possibilità di competizione con gli uomini sia all’interno della struttura domestica che all’esterno”11; in sostanza si tendeva a replicare la segregazione delle donne confinandole in progetti volti alla sussistenza più che alla produzione e replicando quindi il ruolo riproduttivo classico. Alcune studiose12 sostennero che questi progetti raggiungevano solo lo scopo di chiedere la partecipazione delle beneficiarie, che erano spinte ad offrire gratuitamente il proprio tempo e la propria forza lavoro, accrescendo così, ancora di più, la pesantezza delle loro mansioni quotidiane senza che avessero la possibilità di accedere ad alcun reddito aggiuntivo. 4. Negli anni seguenti, in occasione della preparazione della Conferenza Mondiale delle Donne, organizzata a Nairobi dalle Nazioni Unite nel 1985, 11 Bianca Maria Pomeranzi, Per uno sviluppo a misura di donna, articolo contenuto in Coordinamento ONG Donne e Sviluppo, Tempi e luoghi della produzione: donne, reddito, cooperazione internazionale. 12 Mayra Buvinic, Progetti per le donne del Terzo Mondo: analisi del loro mancato funzionamento, International Center for Research on Women. 11 alcune studiose nordamericane iniziarono ad introdurre, con la terminologia di “genere”, un nuovo approccio. L’attenzione al ‘genere’ piuttosto che alle donne è dovuta principalmente ad alcune ricercatrici femministe, preoccupate di come i problemi delle donne fossero percepiti rispetto all’appartenenza al sesso, e quindi alle differenze biologiche con gli uomini, piuttosto che con l’appartenenza al genere, e cioè ai rapporti sociali. Il concetto di genere sta ad indicare, infatti, non tanto le differenze biologiche tra uomini e donne, quanto il fatto che uomini e donne rivestono ruoli differenti nella società e che questi ruoli sono determinati dalle condizioni storiche, religiose, culturali, etniche ed economiche. Inoltre, applicando l’analisi di genere, emerge chiaramente che le donne vengono sistematicamente subordinate. La pianificazione di ‘genere’ nei programmi di cooperazione internazionale, dunque, si basa su un presupposto teorico che è quello secondo cui uomini e donne svolgono ruoli e azioni diverse all’interno della società e quindi hanno bisogni diversi. Ad elaborare nella maniera più completa il concetto di “Pianificazione di Genere” fu, nel 198913, l’antropologa Caroline Moser14, della London School of Economics and Political Science, alla quale va anche attribuita la creazione del concetto del ‘triplo lavoro delle donne’: riproduttivo, produttivo e comunitario e di conseguenza il riconoscimento del fatto che abbiano bisogni diversi dagli uomini. Secondo la Moser, le donne hanno in comune degli interessi generali, definiti come ‘interessi di genere’, che distingue in “bisogni pratici di genere” e “bisogni strategici di genere” delle donne. I primi sono “quelli identificati sulla base delle condizioni concrete in cui le donne vivono”15; sono una risposta a necessità percepite in modo immediato, nell’ambito di un contesto specifico (es. l’approvvigionamento di acqua o 13 Caroline O. Moser, Gender Planning in the Third World: Meeting Practical and Strategic Gender Needs, in “World Development”, vol. 17, n. 11, Londra, 1989. 14 Caroline O.N. Moser, Pianificazione di genere e sviluppo, Rosemberg eSellier, Torino, 1996. 15 Ivi. 12 l’assistenza sanitaria); i secondi sono “i bisogni formulati sulla base dell’analisi della subordinazione delle donne rispetto agli uomini”16, quelli che le donne identificano come causa della loro posizione subordinata nella società. Soddisfare i ‘bisogni strategici di genere’ significava aiutare le donne a raggiungere maggiore uguaglianza e a modificare i ruoli esistenti. I programmi di cooperazione, quindi, per essere realmente efficaci dovevano essere in grado di soddisfare entrambi i tipi di bisogni. Sulla scia del successo che ebbero le teorie di Caroline Moser, le organizzazioni ed istituzioni che si occupavano di sviluppo passarono dalla denominazione WID a GAD ovvero “Gender and Development” (Genere e Sviluppo). L’approccio GAD ritiene che focalizzare l’attenzione sulla donna come contesto sociale isolato e completamente separato rispetto agli uomini ignori il reale problema che è quello della subordinazione rispetto all’uomo. Per questo nella pianificazione dei programmi bisogna innanzitutto analizzare la disparità di questa situazione e cioè le relazioni tra uomini e donne in un dato contesto, ovvero le relazioni di genere. Ma, come sottolinea Bianca Maria Pomeranzi è “ormai evidente che proprio la parte più politica dell’approccio GAD, ovvero del dare effettivamente autorità alle donne, è quella che rimane non risolta nella pratica perché l’analisi antropologica è insufficiente ad introdurre il cambiamento in una sfera che è eminentemente politica”17. 5. Dalla Conferenza di Nairobi del 1985 inizia un decennio durante il quale l’ottica e la pianificazione di genere prendono forma e si sviluppano sempre più. Il Documento finale di Nairobi, che fu adottato all’unanimità da 158 governi, tracciava le linee fondamentali per le Strategie Future e cioè i tre obiettivi del 16 Ivi. Bianca Maria Pomeranzi, Prospettiva Pechino, in DWF/ Pechino e Dintorni – 1995, 1 (25) gennaio marzo. 17 13 Decennio – uguaglianza, sviluppo e pace. Dopo la Conferenza delle donne di Nairobi, apparve chiaro, però, che il processo di deterioramento nelle relazioni tra Stati metteva in serio pericolo le ‘strategie di intervento future’18 e furono proprio le donne del Sud che, per prime, evidenziarono la minaccia rappresentata dalle emergenti tendenze economiche. Le politiche economiche degli anni ’80, infatti, incisero, con il prevalere del credo liberista, in maniera molto negativa sui PVS, che, accettando i programmi di aggiustamento strutturale imposti dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale, videro aumentare la percentuale di ricchezza nazionale prodotta per pagare gli interessi sul proprio debito estero, accrescere il divario con i paesi del Nord, ridimensionare il settore pubblico e il Welfare. Questo decennio, inoltre, è stato caratterizzato da grandi mutamenti nello scenario geopolitico internazionale; questi cambiamenti hanno portato ad una maggiore interdipendenza tra i Paesi del Nord e del Sud, accompagnata però, dall’aumento delle disuguaglianze, dell’emarginazione delle fasce sociali più deboli e dalla crescita del divario tra paesi ricchi e paesi poveri. Purtroppo, malgrado l’impegno delle organizzazioni internazionali e degli operatori di cooperazione, gli anni ’80 sono ricordati come il ‘decennio perduto’ per lo sviluppo. Nel 1987, DAWN19, una rete di donne del Sud del mondo, pubblicò un libro che conteneva un attacco al principio di uguaglianza così come era venuto fuori dalla Conferenza di Nairobi - “l’uguaglianza con gli uomini che soffrono la disoccupazione, i bassi salari, le misere condizioni di lavoro e il razzismo all’interno delle strutture socioeconomiche esistenti, non sembra un obiettivo 18 Il documento finale della Conferenza di Nairobi si chiamava “Forward Looking Strategies”, Strategie guardando al futuro. 19 DAWN – Development Alternatives whit Women for a New Era - è una rete di attiviste politiche e ricercatrici, provenienti da diversi paesi del Sud, che si prefigge di scambiare 14 degno e adeguato”20 - ponendo, in questo modo, fortemente, le basi per una critica femminista allo sviluppo. Questo lavoro è particolarmente interessante e degno di attenzione perché introduce una nuova prospettiva e cioè quella di leggere le crisi macropolitiche a partire dalle esperienze pratiche delle donne e suggerisce che per superarle occorre dare autorità – empower – alle donne a partire dal livello locale. In questa fase il primo scopo del femminismo, che era stato quello di garantire alle donne uguali diritti rispetto agli uomini, si trasforma progressivamente, attraverso l’introduzione del concetto di genere e poi di quello empowerment, per arrivare all’assunzione di un’ottica di genere che sarà la base programmatica per gli interventi di sviluppo. 6. In generale, si può dire che dalla seconda metà degli anni ’80, le critiche delle femministe dei PVS nei confronti del corrente concetto di sviluppo, così come inteso dai principali paesi donatori e della Agenzie delle Nazioni Unite, si sono fatte sempre più intense. In questa discussione hanno avuto un ruolo sicuramente di primo piano le donne appartenenti alla corrente definita ‘ecofemminismo’, la cui esponente più conosciuta in Italia è l’indiana Vandana Shiva. Shiva, a partire anzitutto dal rispetto per la vita degli esseri umani, e degli esseri viventi in generale, ed apprezzando, anziché svalutare, il sapere pratico e l'esperienza delle donne delle comunità indigene, rilancia un discorso sul rapporto con la natura fonte di vita e sussistenza e sul diritto all'autodeterminazione e al rifiuto del modello capitalistico di sviluppo. Vede all’interno della rete le proprie esperienze e di confrontarle con le politiche e le strategie dello sviluppo. 20 G. Sen - C. Grown, Development, Crises and Alternative Vision, Monthly Review Press, 1987. 15 nella idea stessa di sviluppo, e nell'apparato scientifico e conoscitivo che la sostiene, un prodotto della razionalità mercantile occidentale e dei suoi presupposti riduzionistici: il ‘patriarcato’ occidentale ignora le radici della vita e ciecamente le distrugge. Da qui la necessità di recuperare il principio femminile insito nella Terra Madre. L'obiettivo non è più svilupparsi ma "sopravvivere allo sviluppo"21.Molto significativo è il discorso condotto da Vandana Shiva che usa le categorie del principio femminile contro la scienza riduzionista maschile. Nella sua nota opera “Sopravvivere allo sviluppo” questa studiosa illustra in modo estremamente efficace la sistematica e grave perdita di risorse per la sussistenza e per la salute rappresentata dall'eliminazione della diversità di specie vegetali e animali imposta alle popolazioni dell'India dalle politiche agricole degli ultimi decenni e la dipendenza e la povertà create dall'imposizione dei nuovi ibridi di laboratorio. Alla sua opera fanno riscontro numerose altre della corrente ecofemminista, anzitutto quelle di Maria Mies e della stessa con Vandana Shiva. L'analisi critica di queste femministe si interroga centralmente sul rapporto umanità-natura e sul rapporto Nord-Sud del mondo guardando anzitutto alle forme di lotta e resistenza nel Terzo Mondo. Le pratiche politiche che è necessario mettere in atto per la ‘sopravvivenza’ sono quelle tipiche del movimento femminista: alleanza tra i gruppi di attivisti del Nord e del Sud del pianeta, creazione di una rete di solidarietà Nord-Sud, unione delle energie, condivisione delle esperienze e rispetto delle differenze22. Le istanze di questo movimento, composto di donne di diversa provenienza, soprattutto dai gruppi ambientalisti e con un passato di militanza, emersero già nelle conferenze ONU del 1992 di Rio de Janeiro sull’ambiente e in quella del 21 Vandana Shiva, Sopravvivere allo sviluppo, Torino, ISEDI, 1990. Intervista di FRANCESCA PILLA con la fisica indiana Vandana Shiva sul sito web www.ilmanifesto.it 22 16 Cairo del 1994 sulla popolazione, come riferisce anche Paola Melchiori: “Al summit della Terra (Rio 1992) nella ormai storica ‘tenda delle donne’ si è espresso un punto di vista sul mondo, un giudizio sulla civiltà prodotta dagli uomini, sulle logiche che la governano, si sono articolate delle proposte di valori possibilmente alternativi a quelli di una organizzazione sociale che sta andando, con le sue mani, all’autoannientamento”23. Questa influenza si riflette, ancora una volta, anche dentro le Nazioni Unite, e precisamente UNDP – United Nation Development Fund – comincia, in questi anni, a mettere in dubbio la nozione di sviluppo legata solo al concetto di crescita e si chiede cosa sia lo sviluppo nell'età dell'interdipendenza e della globalità e con quali indicatori si possa misurare. L'UNDP, con la creazione di un indice di sviluppo umano, ha segnato pubblicamente la fine del paradigma della modernizzazione che vedeva nel sottosviluppo un ritardo congiunturale che i paesi poveri avrebbero potuto colmare imitando i paesi del ricco e industrializzato occidente. L'indicatore tipico di questa concezione di sviluppo legato al solo dato economico era stato per decenni il PIL – Prodotto Interno Lordo – misurabile attraverso il tasso di crescita annuo di un paese. Ebbene, il primo rapporto UNDP (1990) ha completamente cancellato tale indicatore proponendone uno nuovo chiamato ‘human development index’ (HDI, in italiano "indice di sviluppo umano" - ISU). Per sviluppo umano l' UNDP intende "il processo che permette alle persone di ampliare la propria gamma di scelte. Il reddito è una di queste scelte, ma non rappresenta la somma totale delle esperienze umane. La salute, l'istruzione, l'ambiente salubre e la libertà di azione e di espressione sono fattori altrettanto importanti. La sviluppo umano, di conseguenza, non può essere promosso da una ricerca a senso unico della sola crescita economica. La quantità della crescita è fondamentale (...) ma altrettanto importante è la distribuzione della crescita, vale a dire se le 23 Paola Melchiori, Pechino. E il resto, in DWF/ Pechino e Dintorni – 1995,1 (25) gennaio marzo. 17 persone partecipano pienamente al processo di crescita"24. Le Conferenze internazionali sullo sviluppo degli anni novanta hanno, a questo proposito, riconosciuto la necessità di intervenire per ridurre tali ineguaglianze, che hanno generato il moltiplicarsi di conflitti e di grandi flussi migratori. Le strategie che sono state individuate per risolvere questi fenomeni si strutturano attraverso la promozione delle popolazioni alla partecipazione attiva nella sfera economica, sociale e politica; tali indicazioni sono sempre più considerate e messe in atto anche da chi si occupa direttamente di cooperazione allo sviluppo. Nel 1995 l’UNDP pubblica il suo sesto Rapporto sullo sviluppo umano dedicato ad analizzare e valorizzare il ruolo delle donne nei processi di sviluppo. In quell’occasione, veniva sottolineato il fatto che, tra le tante forme di discriminazione esistenti al mondo, quella che più di ogni altra accomuna tutti i paesi, da quelli più ricchi a quelli poveri, dal mondo occidentale a quello orientale, è proprio quella di genere: “In nessuna società le donne godono delle stesse opportunità di cui dispongono gli uomini”25. Per cercare di valutare l’ampiezza che questo fenomeno assume nei diversi paesi, l’UNDP ha creato l’indice di sviluppo umano correlato al genere (ISG) e la misura di attribuzione di potere (empowerment) correlata al genere (MEG)26. Tutte queste istanze, che dalla fine degli anni ’80 in poi hanno caratterizzato il dibattito sulle donne e lo sviluppo, confluiranno nel 1995 nella Conferenza di Pechino sulle donne, nella quale questi principi emergono con l’affermazione “che la piena e attiva partecipazione delle donne è determinante per uno 24 UNDP – United Nation Development Program, Rapporto sullo sviluppo umano 1990, Rosemberg & Sellier, 1990. 25 UNDP – United Nation Development Program, Rapporto sullo sviluppo umano 1995, Rosemberg & Sellier, 1995. 26 L’Indice di Sviluppo di Genere (ISG) non è altro che l’Indice di Sviluppo Umano (ISU) corretto in base alla disuguaglianza di genere: impiega le stesse variabili incluse nell’ISU ma ne corregge i valori medi e le procedure di calcolo per tenere conto delle diversità tra la situazione maschile e femminile. La Misura di Empowermewnt di Genere (MEG) si propone 18 sviluppo realmente sostenibile e che tale partecipazione richiede una trasformazione delle relazioni tra uomini e donne. (….) E dunque dopo Pechino la proposta politica nuova è: non più parità, ma piuttosto una rinegoziazione tra soggetti differenti per dare vita a modelli di sviluppo alternativi”27. Le “parole chiave” di Pechino sono: empowerment: “rafforzamento”, dare autorità alle donne, vale a dire il raggiungimento del potere decisionale ed il riassetto dei poteri tra uomini e donne; mainstreaming: “collocare nella corrente principale”, guidare il processo di nuova impostazione della società e dei rapporti uomo-donna a tutti i livelli. La Conferenza Di Pechino e il Forum delle ONG, che si svolse parallelamente, sono state l’occasione per mettere in pratica le prassi già consolidate nel movimento femminile di lavoro in rete, con la novità che questo lavoro è stato portato avanti, insieme con i governi e con le ONG che hanno lavorato congiuntamente più che per qualsiasi altra conferenza delle Nazioni Unite. La consapevolezza della necessità di coinvolgere le ONG nelle consultazioni preparatorie, anche se solo come osservatrici, ha portato una serie di nuovi attori sulla scena internazionale e le organizzazioni delle donne hanno dimostrato capacità di comunicazione e di lobby, hanno imparato a negoziare con il sistema delle Nazioni Unite, con gli organismi regionali e con i rispettivi governi, a "interpretare" le convenzioni internazionali, a studiare le loro implicazioni e potenzialità e a mettere in campo strumenti di pressione sui governi. invece di misurare, attraverso tre gruppi di indicatori, il potere che gli uomini e le donne esercitano nella sfera politica, professionale ed economica. 27 Bianca Maria Pomeranzi, Una relazione trasformata fra uomini e donne. Appunti a margine della IV conferenza mondiale di Pechino sulle donne, in Democrazia e Diritto, La legge e il corpo, gennaio-marzo 1996. 19 Il risultato conclusivo della Conferenza di Pechino è stato la stesura di una “Piattaforma di Azione” basata sui principi chiave citati, sottoscritta da più Paesi che si sono anche impegnati a redigere delle proprie Linee Guida per la valorizzazione del ruolo delle donne e la promozione dell’ottica di genere nella cooperazione allo sviluppo. Tra i punti di maggiore interesse di questo documento c’è l’invito a spostare l’attenzione da donne come “gruppo beneficiario” “all’uguaglianza di genere” come motore dello sviluppo; a porre l’accento sull’uguaglianza di genere in tutte le fasi della cooperazione allo sviluppo, dalla formulazione, alla pianificazione e valutazione dei programmi di aiuto; a stabilire una vera partnership con i rappresentanti locali, in modo che le popolazioni arrivino ad impossessarsi del loro sviluppo. 7. Nell’ultimo decennio il femminismo ha preso due strade diverse, come sostiene Luciana Castellina28 – “quella della ricerca teorica e quella che l'ha invece portato ad incontrarsi con nuovi soggetti femminili (...) che sono andati a reinterpretare la differenza di genere a partire dai loro specifici bisogni. Si tratta, soprattutto, della nascita di gruppi comunitari, nelle zone rurali e nei quartieri, spesso impegnati in azioni di self help, di auto-organizzazione, che hanno dato alle donne consapevolezza e peso politico. Si tratta dell'esito di un processo iniziato già da qualche decennio su un terreno inizialmente molto istituzionale: la 1° Conferenza di Nairobi, nel 1985, alla chiusura del decennio dedicato dall'Onu alle donne, dove si ritrovarono organizzazioni molto governative (...) ma che nell'incontrarsi scoprirono il concetto di genere come griglia di lettura della loro condizione sociale e umana. L'ipotesi ufficiale era di 28 Luciana Castellina, Un altro forum è già stato possibile, La rivista del Manifesto - numero 34 dicembre 2002. 20 integrarle nel modello di sviluppo sollecitato dalle istituzioni internazionali; ne risultò invece una messa in discussione di quella modernizzazione: e per effetto dell'incontro con il femminismo occidentale si sviluppò nei successivi incontri (Cairo `94 sulla popolazione, Copenaghen `95 sullo sviluppo sociale, Pechino '95: Conferenza mondiale delle donne) una critica al patriarcato”. La corrente del femminismo che, come afferma la Castellina, ha aperto una critica alla modernizzazione e al concetto di sviluppo, negli anni più recenti, ha generato ed al tempo stesso è confluita in un movimento più vasto. Il contributo delle donne, in particolare quelle del Sud, sulla scia delle ecofemministe e delle studiose più critiche verso il concetto di sviluppo, si è manifestato nella costruzione dell’alternativa e del cosiddetto ‘Movimento dei Movimenti’29. Non esiste ancora una letteratura organica su questo tema, ma vari articoli, e anche interventi a Convegni, soprattutto da parte di femministe storiche stanno cominciando ad innestare un dibattito. Innanzitutto bisogna definire i livelli in cui questo contributo si esprime. Un piano su cui sicuramente, e c’è praticamente l’accordo di tutte le donne, si può riconoscere l’apporto del movimento femminista è quello della pratica della relazione e dell’ascolto; il lavoro in gruppi ristretti, la creazione di reti e la tendenza a mettere in contatto Nord e Sud del mondo, la pratica del consenso, la non violenza e anche la disobbedienza civile30. 29 La dicitura “Movimento dei Movimenti” riferita al movimento no global o new global è di Naomi Klein, autrice di NoLogo. 30 Queste prassi sono tipiche del movimento delle donne. Gandhi ha ripreso dalle suffragiste inglesi le forme della lotta nonviolenta. Anche le suffragiste facevano manifestazioni, sit-in, si legavano alle colonne dei palazzi del potere. E intervenivano facendo della disobbedienza civile molto attiva. Una delle prime cose che fecero, fu di occupare le tribune di Whitehall, il Parlamento inglese, in un giorno in cui si discuteva la Legge elegantemente intitolata "Legge sui bastardi". Le suffragiste americane sono segnalate invece per aver fatto una catena di disobbedienza: avevano ospitato gli schiavi neri che scappavano dagli Stati del Sud. Generalmente, questi schiavi avevano il nome e l'indirizzo di una donna bianca, che li accoglieva. E dava l'indirizzo di un'altra donna bianca, fino a quando non arrivavano negli Stati del nord. 21 Un altro grande contributo, che sarebbe necessario approfondire, viene dall’essere, come donne e femministe, portatrici per eccellenza della differenza, e quindi in grado di individuare, svelare e criticare i meccanismi alterati della società e sforzarsi di individuare, la possibile alternativa. Sul piano della partecipazione, malgrado la presenza di donne, anche in posizioni molto in vista, sia numericamente forte, il rischio, riconosciuto da molte, è quello che a prendere il sopravvento sia la politica ‘maschile’ come questione del potere, che penetra anche la politica antagonista e le sue pratiche, con la tendenza a riprodurre ordini gerarchici e a riconsegnare il potere a chi già lo possiede, trappola a cui il femminismo si è sempre sottratto facendo corrispondere, al contrario, l’esercizio dell’alternativa in uno spazio altro. Provando a disegnare la nuova frontiera del pensiero delle donne anche nella pratica dello sviluppo e della cooperazione internazionale, si può pensare ad un futuro in cui gli interventi siano fondati sulla messa in rete di diversi saperi e competenze, per favorire progetti di sviluppo autocentrato, fondamento della conservazione della biodiversità e della valorizzazione delle risorse locali, nella relazione prioritaria umanità e ambiente. L’elemento fondante di questo nuovo approccio è la pratica della relazione di scambio, che si realizza con il coinvolgimento, nei diversi progetti, di tutti gli attori sociali, economici ed istituzionali, in una interazione che garantisce a tutti i soggetti di essere protagonisti del proprio sviluppo e di accrescere le capacità di accoglienza, di competenze e i saperi altri. Per chiudere, le parole di Rosa Calderazzi, nella presentazione del libro La luna severa maestra31: “Del movimento dei movimenti, che è poi la politica diventata 31 Lidia Cirillo, La luna severa maestra. Il contributo del femminismo ai movimenti sociali e alla costruzione dell'alternativa, Il dito e la luna, 2003. 22 donna, non si deve dimenticare il suo essere l'espressione nello stesso tempo di una sconfitta e di una reazione alla sconfitta, attraverso un moto convergente teso a superare (ma solo talvolta e nella misura del possibile) la frammentazione. Quel che il femminismo può insegnare al movimento non è quanto sia bella la frammentarietà, cioè una delle costanti della politica delle donne, ma come nonostante questa costante e soprattutto nello sforzo permanente di superarla, le donne abbiano continuato ad andare avanti”. 23 BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE - AAVV, Strumenti metodologici per integrare la prospettiva di genere nella cooperazione italiana allo sviluppo. Bibliografia, Roma, AIDOS, 1992. - AAVV, Diritti e rovesci. I diritti umani dal punto di vista della donne, Roma, AIDOS, 2001. - Commissione nazionale parità, I diritti delle donne sono diritti umani. La Conferenza Mondiale di Pechino del 1995 e il Pechino +5, Dipartimento informazione ed editoria, Roma, 2003. - Democrazia e diritto, La legge e il corpo, gennaio-marzo 1996. - Anna Maria Donnarumma, Guardando il mondo con occhi di donna, EMI, Bologna, 1998. - Stefania Bartoloni, a cura di, A volto scoperto. Donne e diritti umani, Manifestolibri, 2002. - Ester Boserup, Women’s Role in Economic Development, St. Martin’s Press, New York, 1970; edizione italiana Il lavoro delle donne. La divisione sessuale del lavoro nello sviluppo economico, Torino, Rosenberg & Sellier, 1982. - Rosi Braidotti, Development: Women, the Towards Environment a and Sustenainable Theoretical Synthesis, INSTRAW/ZedBooks, London, 1994. - Mayra Buvinic, Progetti per le donne del Terzo Mondo: analisi del loro mancato funzionamento, International Center for Research on Women. - Nadia De Mond, Donne in movimento, BFS Edizioni, 2002. 24 - FAO – Food and Agriculture Organization, ASEG. Analisis SocioEconòmico y de Género. Manual para el nivel de campo, FAO, Roma, 2001. - Paola Melchiori, Pechino. E il resto, in DWF, Pechino e dintorni, gennaio-marzo 1995. - Caroline O.N. Moser, Pianificazione di genere e sviluppo, Rosemberg eSellier, Torino, 1996. - Martha C. Nussbaum, Diventare persone, il Mulino, 2001. - Bianca Maria Pomeranzi, Prospettiva Pechino, in DWF, Pechino e dintorni, gennaio-marzo 1995. - Bianca Maria Pomeranzi, Per uno sviluppo a misura di donna, articolo in Coordinamento ONG Donne e Sviluppo, Tempi e luoghi della produzione: donne, reddito, cooperazione internazionale. - Bianca Maria Pomeranzi, Una relazione trasformata fra uomini e donne. Appunti a margine della IV conferenza mondiale di Pechino sulle donne, in Democrazia e Diritto, La legge e il corpo, gennaiomarzo 1996. - Wolfgang Sachs (a cura di), Dizionario dello sviluppo, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 1998. - Giantommaso Scarascia Mugnozza, Relazione alla Giornata mondiale sull’alimentazione 1998, Le Donne nutrono il mondo. - G. Sen - C. Grown, Development, Crises and Alternative Vision, Monthly Review Press, 1987 - Vandana Shiva, Monoculture della mente. Biodiversità, biotecnologia e agricoltura ‘scientifica’, Bollati Boringhieri, Torino, 1995. - Vandana Shiva, Terra Madre. Sopravvivere allo sviluppo, UTET, Torino 2002. 25 - UNDP – United Nation Development Program, Rapporto sullo sviluppo umano 1990, Rosemberg & Sellier, 1990. - UNDP, Human Development Report 1995: Gender and Development, Oxford University Press, New York, 1995. 26