dispensa lingue slave
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Alberto Alberti Gli slavi Materiali per un corso di formazione 2008 Il mondo umano costituisce una molteplicità, una totalità di processi interconnessi, e [...] le indagini che scompongono questa totalità in elementi individuali, senza poi essere in grado di ricomporla, falsificano la realtà. (WOLF 1990: 30) In tutti gli occhi Una briciola di comprensione la troveremo in tutti gli occhi. Gli occhi sono ponti d’arcobaleno e allacciano i segreti degli uomini in muta fecondazione Non demolite il ponte rischieremmo di restar soli sopra queste sponde davanti al fiume gobbo minaccioso furioso nel suo indomito tumulto. Quand’eravamo bimbi ci ammonivano: non andate soli al fiume non andate soli al fiume. (in ZLOBEC Gogo Ivanovski 1966: 393; trad. it. di Giacomo Scotti) Gli slavi Chi sono gli slavi? Molto banalmente, si tratta di quei popoli che parlano una lingua appartenente al ceppo slavo; il termine quindi designa anzitutto una comunità linguistica, culturalmente ed etnicamente differenziata al suo interno, tanto che parlare di una «cultura slava», malgrado la presenza di certe costanti, finisce con l’essere azzardato; ancora più fuorviante – per ragioni più generali – è l’espressione «razza slava», in particolare dopo secoli di storia che hanno visto gli slavi espandersi, interagire e mescolarsi con le più svariate popolazioni europee, asiatiche e perfino africane! Tra i popoli con i quali gli slavi sono venuti a contatto, un parallelo calzante è rappresentato dai Rom della ex-Jugoslavia: non si tratta certo di popolazioni slave, in quanto la loro lingua appartiene al ramo indo-iranico dell’indoeuropeo, ma questo non toglie che esse abbiano subìto una profonda influenza da parte degli slavi dei Balcani, in particolare quei gruppi che optarono per una vita sedentaria nel secondo dopoguerra (tanto per sfatare l’ennesimo luogo comune che vuole che «zingari» sia sinonimo di «nomadi»); si può parlare in questi casi di popolazioni almeno parzialmente «slavizzate», come pure i Romeni o gli Albanesi. Risulta molto difficile, in casi siffatti, affibbiare un etnonimo all’uno o all’altro popolo senza cadere nel semplicistico: i Romeni parlano una lingua neolatina, eppure la loro cultura è più debitrice nei confronti delle tradizioni slave che di quelle romanze, per una evidente questione di prossimità geografica e di evoluzione storica. Basta che una persona o un intero popolo abbandoni la propria lingua per quella del paese in cui vive, ed ecco che, nel giro di poche generazioni, si ha una vera e propria fusione: non sono certo i tratti somatici a far sì che un italiano venga visto come tale, ma tutto l’insieme di codici culturali di cui è in possesso e che sono condivisi dalla comunità di appartenenza; la manifestazione più evidente di tali codici, oltre che veicolo per la loro espressione, è la lingua. Per questa ragione sarà bene partire dall’analisi delle lingue slave nel nostro breve viaggio all’interno del mondo centro- ed est-europeo. Le lingue slave Le lingue slave fanno parte della famiglia linguistica indoeuropea: questo significa che esse hanno molti elementi in comune con lingue apparentemente piuttosto diverse, come l’italiano, l’inglese o l’hindi; per esempio, al latino vidi domum novam ‘ho visto una casa nuova’ corrisponde il russo ja videl novyj dom; in questo caso, come si può ben vedere, le parole sono pressoché le stesse, con leggere modificazioni. Somiglianze siffatte vengono fatte risalire dagli studiosi ad una lingua preistorica (l’indoeuropeo, per l’appunto) dalla quale discenderebbero le lingue antiche, a loro volta punto di partenza per lo sviluppo delle lingue moderne. A questo primo strato di materiale linguistico in comune, evidentemente molto antico, bisogna aggiungere i cosiddetti «prestiti», i termini cioè che sono passati da una lingua all’altra, come il russo d´javol, parola accolta dal greco (δι βολος) al momento della conversione al Cristianesimo degli slavi orientali. I prestiti continuano a tutt’oggi, come il russo kompjuter, di evidente provenienza inglese; a sua volta, l’italiano non è immune da contaminazioni siffatte: si pensi al termine stravizio, che sembrerebbe un composto di stra + vizio, mentre in realtà deriva dallo slavo (sloveno zdravìca, serbocroato zdràvica ‘brindisi’), o a parole come sovietico e bolscevico, entrate nel lessico dell’italiano in seguito alla rivoluzione russa. Un altro esempio di parola mutuata dallo slavo, stavolta agli inizi del ’700, è vampiro (serbocroato vàmpir). Insomma, le lingue slave non sono così incomprensibili come potrebbe sembrare a prima vista; certo, esistono differenze anche marcate con l’italiano, ma in minor numero rispetto a lingue di ceppo non indoeuropeo come l’arabo, l’ungherese o il turco. Inoltre, le lingue slave presentano l’indiscutibile vantaggio di essere debolmente differenziate tra di loro: un russo e uno sloveno, pur con qualche difficoltà, riescono comunque ad accordarsi sui punti fondamentali della conversazione anche senza conoscere la lingua dell’altro; analogamente, un insegnante in possesso dei rudimenti della grammatica di una lingua slava non faticherà ad entrare nel sistema linguistico e concettuale di un bambino che parli un altro idioma slavo. Esistono tre gruppi distinti di lingue slave (il segno † indica che una lingua non è più parlata): Le lingue slave 5 SLAVO OCCIDENTALE SLAVO MERIDIONALE SLAVO ORIENTALE ceco slovacco paleoslavo † sloveno serbocroato macedone bulgaro russo bielorusso ucraino sorabo superiore sorabo inferiore lechitico: polacco casciubo polabo † slovinzo † Stando agli storici della lingua, questa tripartizione è il risultato della frammentazione della comunità slava, avvenuta nel corso del primo millennio della nostra èra in seguito ai grandi movimenti migratori dei Goti (II sec.), degli Unni (IV sec.) e degli Àvari (VII sec.); gli slavi, stanziati fino a quel momento nelle pianure polacco-ucraine a nord dei Carpazi, si diffusero verso ovest (nell’ex Repubblica Democratica Tedesca vi sono ancora oggi popolazioni che parlano una lingua slava, il sorabo o serbo-lusaziano), verso est e verso sud (la discesa degli slavi nei Balcani viene fatta risalire al VI sec.). Nel corso della storia, a questa diversificazione linguistica corrisposero ibridazioni etniche con i popoli confinanti, per lo più germanici a ovest, turchi a sud e mongolici a est. Con la cristianizzazione (IX-X sec.) gli slavi uscirono dalla preistoria; ciò non avvenne tanto in virtù di una funzione «civilizzatrice» intrinseca alla religione, quanto per il fatto che, con essa, le varie popolazioni slave accolsero la scrittura. Se fino al basso Medioevo tutte le notizie in nostro possesso sugli slavi ci vengono da fonti greche, latine o arabe, con l’alfabetizzazione e la successiva fioritura di scuole letterarie questi popoli cominciano a parlarci in prima persona. Questo è vero in particolare per quegli stati slavi che accolsero il Cristianesimo nella variante bizantinoortodossa (slavi orientali, Serbi, Macedoni e Bulgari): potendo celebrare la liturgia in lingua slava, diversamente dai paesi di rito cattolico (dove la lingua di culto rimase obbligatoriamente il latino), fin da subito questi stati favorirono lo sviluppo di tradizioni letterarie locali, sulla base dell’antico slavo ecclesiastico o paleoslavo. Questa lingua, codificata sul finire del IX secolo dai missionari bizantini Cirillo e Metodio, nativi di Tessalonica (Salonicco), divenne lingua di culto per gli slavi ortodossi; dato che la fonetica delle lingue slave si differenziava notevolmente da quella delle lingue classiche, si rese necessaria la creazione di un nuovo alfabeto, capace di rendere le sfumature di quegli idiomi ancora sprovvisti di un metodo di scrittura: si elaborò così l’alfabeto glagolitico (dalla parola glagolŭ ‘verbo’), Gli slavi 6 soppiantato quasi subito dal cirillico, ricalcato sulla scrittura onciale greca e quindi più maneggevole nei rapporti diplomatici con l’impero. Non a caso fu in un paese di rito cattolico, la Croazia, che il glagolitico sopravvisse fino al XVII sec. Per renderci conto di quanto detto, vediamo come appariva nei vangeli dell’epoca la nota frase (Giovanni, 2, 16) “non fate della casa del Padre mio un luogo di mercato”: ne tvorite domu otqca moego domu kuplqnaego íå òâîðèòå îòüöà ìîéãî äîìg êgïëüíàéãî äîìg Il cirillico (seconda riga) è rimasto pressoché invariato fino ai giorni nostri, naturalmente con qualche modificazione, ed è ancora utilizzato da Russi, Bielorussi, Ucraini, Serbi, Bulgari e Macedoni. Gli slavi cattolici dovettero aspettare ancora qualche secolo per avere un alfabeto adeguato alle loro lingue; quello latino infatti, così com’era, mancava di numerosi segni e il papato era tutt’altro che interessato alla questione, forte dell’utilizzo esclusivo del latino come lingua di culto. Sarà il riformatore boemo Jan Hus (1369-1415) a modificare l’alfabeto con quelli che oggi chiamiamo «segni diacritici», ovvero accenti e simboli vari posti sopra le lettere per cambiarne il valore fonetico: per esempio il segno c sta per la «z» di ‘pizza’, il segno č per la «ci» di ‘ciao’; z rende la «s dolce» di ‘esame’, mentre ž sta per la «j» francese di ‘jour’. In generale, il segno soprascritto indica che il suono in questione è palatale. Su questo sistema si basano gli alfabeti ceco, slovacco, croato e sloveno; un discorso a parte merita l’alfabeto polacco, che, pur usando qualche diacritico, rende le palatali con la combinazione di più lettere (in modo simile all’italiano gli, gni, chi, ghi, sci dove la g, la h e la c non rappresentano un suono a sé stante, ma modificano il suono seguente o precedente): si ha così cz per la «ci» di ‘ciao’, rz per la «j» francese, ecc. In polacco si possono usare fino a quattro lettere per un suono semplice, come szcz per la «sc» di ‘scimitarra’! Attualmente, il russo è al quinto posto tra le lingue più diffuse nel mondo, con 279 milioni di parlanti, preceduto dal cinese mandarino (1 miliardo e 25 milioni), dall’inglese, dall’hindi e dallo spagnolo; subito dopo il russo viene l’arabo, con 235 milioni di parlanti (LF 1999: 398). I dati probabilmente si riferiscono ai «parlanti» nell’accezione più ampia del termine, senza limitarsi a coloro per i quali le lingue in questione rappresentano la madrelingua; infatti, un’altra recente pubblicazione (CUISENIER 1994: 94) fornisce dati notevolmente inferiori: Le lingue slave lingua polacco ceco slovacco sloveno serbo-croato bulgaro russo bielorusso ucraino 7 n° parlanti 38 milioni 10,5 milioni 4,5 milioni 4 milioni 15 milioni 9 milioni 137 milioni 9 milioni 42 milioni Un tale divario (quasi 150 milioni di parlanti!) diviene comprensibile se si pensa che, oltre ad essere la lingua nazionale della repubblica russa, “il russo è stato anche la lingua ufficiale per i 260 milioni di abitanti che componevano l’Unione Sovietica prima del 1991, e fino al 1989 la prima lingua straniera obbligatoria nelle scuole dei paesi dell’Est europeo.” (CUISENIER 1994: 96) Ora, per un primo approccio all’universo linguistico slavo, serviamoci della versione multilingue delle indicazioni presenti sulla confezione di un giocattolo: I: Attenzione, leggere e conservare: Giocattolo non adatto a minori di 3 anni. Le parti piccole potrebbero essere ingerite o aspirate. PL: Uwaga, Przeczytaj i zachovaj: Zabawka nie nadaje się dla dzieci poniżej 3 lat. Małe części mogą zostać połknięte lub wchłonięte. CZ: Pozor, čtěte a uschovejte: Hračka není vhodná pro děti do 3 let. Mohly by spolknout nebo vdechnout malé části. SK: Pozor, prečítať a odložiť: Hračka nie je vhodná pre deti do 3 rokov. Drobné časti by mohli prehltnúť alebo vdýchnuť. RUS: Внимание прочтите и сохраните: Игрушку не давать детям младше 3-х лет во избежание попадания мелких частей в рот или дыхательные пути. UKR: Увага, прочитайте та збережіть: Іграшка не призначена дітям віком до 3 років. Діти можуть проковнути чи вдихнути маленькі деталі. SLO: Pozor, preberite in shranite: Igračka ni primerna za otroke mlajše od treh let, ker bi lahko vdihnili ali pogoltnili drobne sestavne dele. Gli slavi 8 BG: Внимание, моля запомнете: Играчката не е подходяща за деца под 3 години. тъи като те быха могли да глътнат или вдишат малките парченца. MK: Внимание, прочитај и зачувај: Играчката е несоодветна за деца помали од 3 години, зашто можат да ја голтнат или да ги вдишат нејзините ситни делови. Un discorso a parte merita la questione del serbo-croato: questa lingua, parlata in Croazia, Bosnia-Erzegovina e nella «mini-Jugoslavia» (Serbia - inclusi Kosovo e Vojvodina - e Montenegro1), viene sempre più spesso giudicata inesistente nella sua unitarietà; si sente parlare ogni giorno di «lingua croata» o di «lingua serba» e si stampano perfino vocabolari con queste diciture; ebbene, questo è assurdo, completamente antiscientifico, un semplice riflesso ideologico dei conflitti che hanno attraversato la ex-Jugoslavia negli ultimi anni. Le differenze, certo, ci sono; ma chi parlerebbe, ad esempio, dell’italiano meridionale e di quello settentrionale come di due lingue diverse? Badate bene, non alludo ai dialetti, ma al modo di usare l’italiano standard: sono andato (nord) vs. andai (sud); séra (n) vs. sèra (s); va tutto béne (n) vs. va tuttobbène (s), ecc. Di questo spessore sono le differenze che si riscontrano tra le varietà locali del serbo-croato (che, tra l’altro, sono ben più di due); proviamo a rendercene conto continuando a leggere le nostre istruzioni: HR: Pozor, pročitati i sačuvati: Igračka neprikladna za djecu mlađu od 3 godine, jer bi mogla progutati ili udahnuti sitne dijelove. YU: Пажљиво прочитати и сачувати: Играчку не давати деци млађој од 3 године да не би прогутала или удахнула ситне комадиће. Apparentemente, i due alfabeti diversi (legati alla differente versione del cristianesimo accolta nei due stati) danno l’impressione di una grande distanza tra le due lingue, ma se traslitteriamo la versione cirillica in caratteri latini otteniamo: Pažljivo, pročitati i sačuvati: Igračku ne davati deci mlađoj od 3 godine da ne bi progutala ili udahnula sitne komadiće. Le parole sottolineate sono le stesse della versione «croata», con qualche variazione nelle desinenze, fenomeno che si spiega con la diversità delle costruzioni impiegate (come nell’it. anda-i 1 L’ultimo decennio ha naturalmente ‘rimescolato le carte’: esemplare a tal proposito è il caso del Kosovo, dove una totale scomparsa del serbo-croato sembra tutt’altro che improbabile. Le lingue slave 9 vs. sono anda-to); per il resto, si tratta di aver scelto una parola anziché un’altra: le parole Pažljivo, davati, ne, da, komadiće esistono tranquillamente anche in «croato». Con buona pace degli ultranazionalisti di entrambe le parti (come l’ex presidente croato Tuđman, che fin dal ’67 perseguì la separazione formale tra le due lingue, cfr. BIANCHINI 1996: 112), la lingua serbo-croata è una e, come tutte le lingue del mondo, presenta variazioni locali anche notevoli2 (per le quali si veda BANFI 1985: 58, 156sg). Veniamo ora alle difficoltà linguistiche che i parlanti una lingua slava possono incontrare a contatto con gli italiani e viceversa. Come abbiamo visto, le somiglianze non mancano: si pensi alla negazione (ne, net, ni), che richiama subito non solo l’italiano no, non, né, ma anche l’inglese no, il tedesco nein, il francese ne (pas), ecc.; oppure al pronome di seconda persona ty, ti, analogo a tu, Du; al suffisso riflessivo -sja, się, se, si, ecc. (serbo-cr. oblàčiti se, russ. odevàt´sja, cfr. it. vestirsi); a parole come more ‘mare’, volja ‘volontà, voglia’, ecc. Ma accanto a queste somiglianze, che giocano indubbiamente un ruolo importante nelle prime fasi dell’apprendimento di una lingua straniera, vi sono differenze strutturali notevoli, che ora passeremo brevemente in rassegna: a. fonologia 1. Assenza nelle lingue slave dei fonemi consonantici geminati e caratteristiche di quantità e accento. In parole povere, le lingue slave «non hanno le doppie» (come la quasi totalità delle lingue europee): per un ceco non c’è praticamente nessuna differenza tra le parole italiane pappa e papa, tra palla e pala. Noi, in compenso, ci troviamo in difficoltà anche maggiori quando, posti di fronte ai termini cechi kosti e kostí, dobbiamo capire quale dei due significhi ‘nell’osso’ e quale ‘con l’osso’. Non lasciatevi trarre in inganno da quello che sembra un accento: il segno sopra la i della seconda parola indica che la vocale in questione è lunga, mentre l’accento in ceco cade necessariamente sulla prima sillaba, e come tale non ha mai un’espressione grafica. La lunghezza vocalica è un tratto presente nel ceco e nello slovacco, oltre che nel serbo-croato e nello sloveno; in queste due lingue è inoltre presente un accento melodico3: le parole slovene svét ‘mondo’ e svèt ‘consiglio’ (cfr. russo sovet) si distinguono infatti unicamente per la curva 2 Vi è chi considera varianti di una sola lingua letteraria anche il ceco e lo slovacco, data l’assenza di confini netti tra le due parlate (VAN WIJK 1956: 76sg.); fino a non molto tempo fa, inoltre, chi diceva ‘russo’ intendeva ‘slavo orientale’, con l’ucraino e il bielorusso trattati alla stregua di dialetti (ENTWISTLE AND MORISON, 1974: 291). 3 In modo indipendente, l’accento melodico si è sviluppato anche in casciubo, lingua parlata a nord del territorio polacco, nella regione a sud-ovest di Danzica. (ENTWISTLE AND MORISON, 1974: 291). Gli slavi 10 intonativa, analogamente a quanto avviene in cinese: a titolo puramente esemplificativo e fatte le debite proporzioni, la differenza nell’intonazione di svét e svèt può essere assimilata a quella esistente tra le espressioni italiane davvero? e davvero! Per quanto riguarda l’accento dinamico (quello dell’italiano, per intenderci), in alcune lingue esso è fisso (slavo occidentale: ceco e slovacco sulla prima sillaba, polacco sulla penultima), nelle altre è perlopiù mobile; anche in casi di accento mobile la sillaba accentata può trovarsi molto distante dalla fine della parola, addirittura dieci sillabe, come nel russo výlitografirovavšiesja ‘essenti stati litografati’. 2. Opposizione tra consonanti palatalizzate e non-palatalizzate. Questa distinzione (quasi assente in slavo meridionale) svolge una funzione analoga alle «doppie» nel sistema consonantico italiano: il russo stròit´ ‘costruire’ si differenzia da stròit ‘costruisce’ per la «mollezza» della t finale (segnata dal segno ´ nella traslitterazione, corrispondente al cirillico ь); per pronunciare queste consonanti, la lingua va ritratta leggermente all’indietro, verso il palato (da cui il nome di «palatalizzate»): il suono t´ è all’incirca intermedio tra t e la ‘ci’ di ciao. Questo crea agli slavi qualche problema nella pronuncia delle consonanti «palatali» italiane, che sono notevolmente più ritratte delle «palatalizzate» slave, nelle quali la lingua si situa comunque in prossimità dei denti: il russo bànja ‘bagno’ (stavolta è la presenza della j a indicare la mollezza della consonante) si pronuncia quasi come il suo equivalente italiano; sentirete spesso slavi che si sforzano di dire ‘bagno’, pronunciando questa parola ed altre simili «alla veneta», con un suono intermedio tra bano e bagno. b. morfologia 3. Morfologia sintetica (flessiva). Diversamente dall’italiano (ma come il tedesco, il latino, l’arabo, ecc.), le lingue slave non esprimono le relazioni tra le parole unicamente mediante preposizioni (il libro di Janina) o con il posto che le parole stesse occupano nella frase (la donna ha ucciso la vipera vs. la vipera ha ucciso la donna): esse ricorrono alle cosiddette «desinenze», ai «casi»; ciò significa che una parola si «flette» secondo un paradigma; ne diamo un esempio, limitandoci al singolare della parola polacca żona ‘donna’: Le lingue slave Caso Nominativo Genitivo Dativo Accusativo Vocativo strumentale locativo 11 Significato żon-a żon-y żon-ie żon-ę żon-o żon-ą żon-ie ‘la donna’SOGG ‘della donna’ ‘alla donna’ ‘la donna’OGG ‘o, donna’ ‘con la donna’ ‘nella donna’ Le frasi cui accennavamo prima suonano quindi così: ‘La donna ha ucciso la vipera’ żona zabijała żmiję ‘la donna’ ‘ha ucciso’ ‘la vipera’ ‘La vipera ha ucciso la donna’ żonę zabijała żmija ‘la donna’ ‘ha ucciso’ ‘la vipera’ SOGGETTO OGGETTO OGGETTO SOGGETTO Come si vede, l’ordine delle parole è lo stesso in entrambe le frasi, uccisore e ucciso sono infatti identificati inequivocabilmente dalle desinenze, rispettivamente -a e -ę; per questo motivo, possiamo anche dire żmija zabijała żonę, zabijała żmija żonę, żmija żonę zabijała, ecc., a seconda della parola che vogliamo porre in evidenza, collocandola in principio di frase. Analogamente ‘il libro di Janina’ sarà książka Janiny, con la desinenza -y del genitivo. Da questo punto di vista, il bulgaro e il macedone sono le uniche lingue slave che si comportano in modo simile all’italiano: esse hanno infatti perso, nel corso della loro storia, la capacità di flettere le parole secondo i casi, sviluppando in compenso l’articolo, categoria altrimenti assente in àmbito slavo (BANFI 1985: 53, 65sgg.). 4. Assenza dell’articolo. Consideriamo ora un’altra grande differenza tra lingue slave e italiano: le prime, con le eccezioni poc’anzi indicate, non ricorrono all’articolo per determinare il sostantivo (cfr. italiano il ragazzo vs. un ragazzo); una tale distinzione viene spesso affidata alla forma dell’aggettivo che si accompagna al nome, come nel serbo-croato DOBRI otac ‘IL buon padre’ vs. DOBAR otac ‘UN buon padre’. Ma anche dove l’articolo è presente, il suo uso si discosta da quello cui siamo abituati: anzitutto, esso non precede ma segue il nome che determina, unendosi a quest’ultimo in una sola parola: bulgaro град (grad) ‘città’, ma градът (gradĂT) ‘la città’. Se il nome è preceduto da un aggettivo, l’articolo si lega al primo dei due: Вечният град (VečniJAT grad) ‘LA città eterna’ (lett. Gli slavi 12 eterna-la città), българският език (bălgarskiJAT ezik) ‘LA lingua bulgara’; analogamente, in macedone si ha македонскиот јазик (makedonskiOT jazik) ‘LA lingua macedone’. 5. Sistema verbale incentrato sulla categoria dell’aspetto. In generale, le lingue slave mostrano un paradigma verbale piuttosto ridotto, se paragonato a quanto si osserva nell’italiano o del francese. Di solito uno studente straniero incontra parecchie difficoltà nello studio dei verbi italiani, soprattutto per il considerevole numero di tempi e modi impiegati, oltre che per le immancabili irregolarità. Anche il sistema verbale slavo ha tuttavia le sue insidie: nelle lingue neolatine, infatti, l’azione verbale viene definita principalmente nel tempo, vale a dire contemporanea all’enunciazione (presente), precedente o successiva rispetto ad essa (passato, futuro), precedente rispetto ad un’altra azione passata (trapassato), ecc.; nelle lingue slave il sistema dei tempi è ridotto, mentre la categoria centrale è quella dell’aspetto: un’azione può essere vista come momentanea o conclusa (perfettivo), oppure come durativa o ricorrente (imperfettivo). I problemi che ciò comporta sono fondamentalmente due: 1. L’opposizione perfettivo ~ imperfettivo (nel passato) può essere assimilata a quella passato prossimo ~ imperfetto dell’italiano: ‘ho letto’ indica infatti un’azione conclusa, laddove ‘leggevo’ indica un processo, un’azione raffigurata nel suo svolgersi; sfortunatamente, però, i due sistemi coprono insiemi diversi e non si ha sempre una corrispondenza biunivoca: infatti, prendendo il russo come termine di paragone, la frase ‘ieri HO LETTO un romanzo’ può essere resa in due modi: a) я ja ‘io вчера včerá ieri читал čitál ho letto b) я ja ‘io роман román un romanzo’ Вчера Včerá Ieri прочитал pročitál ho letto роман román un romanzo’ IMPERFETTIVO PERFETTIVO = ieri ho letto (parte di) un romanzo = ieri ho letto un romanzo (fino alla fine) 2. Malgrado esistano certe costanti morfologiche (soprattutto la presenza o meno di prefissi, come il pro- dell’esempio precedente che rende perfettivo il verbo), l’aspetto slavo è una categoria dall’espressione molto variabile: questo significa che, dato un verbo perfettivo, non c’è nessuna «regola» che ci permetta di risalire con precisione all’imperfettivo corrispondente (e viceversa): partendo dall’imperfettivo ljubit´ ‘amare’, per esempio, non possiamo derivare un inesistente **pro-ljubit´, ma dobbiamo ricorrere al prefisso po- (poljubit´) o ad altri, ciascuno con la sua particolare sfumatura di significato, come vljubit´(sja) ‘innamorar(si), razljubit´ ‘disinnamorarsi’. Altri verbi usano suffissi anziché prefissi, come dat´ (perf.) ~ da-va-t´ (imperf.) Le lingue slave 13 ‘dare’; in certi casi la differenza di aspetto può essere espressa da verbi diversi, come perejtì (perf.) ~ perechodìt´ (imperf.) ‘attraversare’. 6. Un solo ausiliare. Anche nella formazione dei tempi composti incontriamo qualche differenza: per prima cosa notiamo che le lingue slave utilizzano un solo ausiliare, il corrispondente dell’italiano essere, laddove l’italiano ne usa due, essere e avere; avere, in questo caso, si usa per lo più con i verbi transitivi attivi (ho portato), ma anche con certi intransitivi (‘i piccioni hanno tubato tutto il giorno’) e con i servili (a certe condizioni: ‘ha dovuto comprare un libro’ ma ‘è dovuto uscire per comprare un libro’). Bene, in tutti questi casi le lingue slave utilizzano l’ausiliare essere: slovacco doniesol som ‘ho portato’ (lett. ‘portatoattivo sono’). Se ci pensiamo bene, questo modo di procedere non è poi così strano: anche in spagnolo, per esempio, l’unico ausiliare del passato è haber. Il punto è che, per marcare la differenza tra passivo e attivo, le lingue slave ricorrono ad una diversa forma participiale, piuttosto che a un diverso ausiliare, come invece accade in italiano. Riassumendo (questa volta servendoci del ceco): Attivo passivo ceco nesL jsem nesEN jsem italiano HO portato SONO portato Quanto detto vale in misura minore per il russo, che praticamente non possiede un verbo ‘essere’ (e che, paradossalmente, usa le poche forme di questo verbo in costruzioni che spesso significano ‘avere’!): in russo, infatti, frasi come ‘io sono allegro’, ‘siete musicisti?’ si ottengono mediante la semplice giustapposizione di soggetto e attributo: я - весёл (ja - vesël, lett. ‘io allegro’); вы - музыканты? (vy - muzykanty? lett. ‘voi musicisti?’). Questo uso marginale del verbo ‘essere’ si riflette nel paradigma dei tempi composti, di fatto assenti in russo; l’uso dell’ausiliare, così come lo conosciamo nelle lingue romanze, si limita infatti ad alcune forme del futuro. Ortodossia Se dal punto di vista della loro lingua gli slavi sono ripartiti in tre gruppi - orientali, occidentali e meridionali -, sono fondamentalmente due i raggruppamenti che si ottengono sulla base della religione da essi professata: al tempo della conversione, infatti, alcune popolazioni abbracciarono la fede cattolica mentre altre optarono per il rito bizantino; naturalmente, si tratta comunque di cristiani, con ideali, testi sacri e sacramenti per lo più in comune, ma va ricordato che “per alcuni (in genere molto più spesso in Polonia e Croazia) il confine tra il cristianesimo romano e quello ortodosso è «ancor oggi una delle barriere culturali più resistenti del mondo»” (HOBSBAWM 1997: 259). Dando per scontato che il contesto culturale cattolico sia noto, procediamo all’analisi di quello ortodosso. 1. Storia La cristianità, fin dai primi secoli, è stata animata da varie correnti di pensiero, da interpretazioni delle scritture ed esigenze politiche spesso contrapposte. Tutto il primo millennio è attraversato dai tentativi di risolvere questi contrasti (che presero la forma di un dibattito circa la natura del Cristo), alla ricerca di un paradigma dottrinale unitario. In epoche diverse, a tale scopo furono indetti i cosiddetti concilî ecumenici (per i quali si veda ALBERIGO 1978); di questi, i primi sette in particolare mantengono un carattere universale: si tratta dei concilî di Nicea I (325 d.C., con condanna dell’arianesimo), Costantinopoli I (381), Efeso (431, con condanna della dottrina nestoriana), Calcedonia (451, contro le posizioni monofisite), Costantinopoli II (553), Costantinopoli III (680-81, contro la dottrina monotelita), Nicea II (787, con condanna dell’iconoclasmo4). Le due riunioni seguenti ci mostrano un’ecumene ormai solcata da profonde 4 Proibizione del culto - allora molto diffuso nell’Impero Bizantino - delle immagini sacre. Questo tentativo di riforma della chiesa (che coinvolse anche il culto delle reliquie e della vergine, nonché il potere monastico, cfr. ALZATI 2000: 461sg; FEDALTO 1991: 61sgg) si protrasse in Oriente dal 727 al 787, per riprendere poi nel secolo successivo (815843). L’inizio della crisi viene talora retrodatato al 717, anno di incoronazione dell’imperatore Leone III Isaurico (717741); in seguito, durante il regno di Costantino V (figlio di Leone III, 741-775), la riforma raggiunse il suo momento culminante (in particolare con il concilio di Hiereia - pron. Hierìa - del 754). Cultura e società 15 divisioni, dal carattere prevalentemente politico: il IV concilio di Costantinopoli (869-70) si chiuse su posizioni ostili al patriarca Fozio, che tuttavia riuscì ad avere la meglio nel concilio successivo (879-80); questo, in Oriente, rimpiazzò di fatto il concilio dell’869-70, mentre in Occidente si giunse alla situazione opposta: riconoscimento del concilio antifoziano con conseguente oblio del successivo (per i latini, infatti, il nono concilio ecumenico è rappresentato dal Lateranense I del 1123). Ancora prima della questione foziana, Oriente e Occidente della cristianità si erano trovati divisi nel periodo 482-518, in seguito alla scomunica del patriarca Acacio da parte del papa. È in questo clima generale di tensione che si colloca l’evangelizzazione degli slavi ad opera di Costantino-Cirillo e del fratello Metodio (l’opera dei quali, dopo una serie di vicissitudini, fu condannata dal papa romano Stefano V): gli interessi dei due centri della cristianità, infatti, non divergevano soltanto in sede teologica, ma anche e soprattutto in àmbito territoriale, in primo luogo per quanto riguarda l’espansione delle rispettive giurisdizioni nei Balcani. Un’ulteriore fattore di instabilità era rappresentato dalla monarchia franca e dalle crescenti spinte autonomiste del clero germanico. La separazione ufficiale e definitiva tra le Chiese di Roma e di Bisanzio avvenne nel 1054, con il cosiddetto Scisma d’Oriente5 o - dal nome del patriarca di Costantinopoli che diede avvio alla diatriba - Scisma di Michele Cerulario; in seguito anche i patriarcati di Antiòchia, Alessandria e Gerusalemme si separarono dalla Chiesa romana. I motivi ufficiali risiedevano in complesse questioni dottrinali, alcune delle quali avevano già diviso i due centri della cristianità nel V secolo (per lo «scisma» del 484-491, cfr. PRICOCO 2000: 93) e ai tempi del patriarca Fozio, ma la vera causa della separazione va cercata nel primato del vescovo di Roma, inaccettabile per Costantinopoli; anche questa contrapposizione affondava le sue radici nella tarda antichità: la qualifica di totius Ecclesiae princeps, infatti, era stata assunta già da Leone I, papa dal 440 al 461 (PRICOCO 2000: 78). I rapporti tra le due Chiese peggiorarono ulteriormente quando, durante la IV crociata (1204), i veneziani saccheggiarono Costantinopoli; a poco valsero i successivi concilî d’unione di Lione (1274) e Ferrara-Firenze (1438-39). Con la conquista di Costantinopoli da parte dei turchi (1453) le relazioni tra oriente ed occidente della cristianità si interruppero definitivamente. La Chiesa russa si ritrovò così erede spirituale del patriarcato di Costantinopoli, con Mosca «terza Roma» innalzata a baluardo della «retta fede» (sl. eccl. pravověrie, russ. pravovernost´: il termine riproduce il significato del greco ρθοδοξ α, composto di ρθ ς ‘retto’ e δ ξα ‘opinione’, che 5 I reciproci anatemi del 1054 sono stati aboliti solo nel 1965, in seguito all’incontro di papa Paolo VI e del patriarca ecumenico Atenagora I a Gerusalemme (1964); questo non significa che la ferita sia “rimarginata” (RICCA 2000: 565): il pontificato di Karol Wojtyła, per giunta, rappresenta una chiusura, un passo indietro rispetto alla stagione di dialoghi Gli slavi 16 ritroviamo inalterato nell’it. ortodossia). La teoria della «Terza Roma» viene associata prevalentemente al nome del monaco Filofej, che attorno al 1523 scrisse: “Tutti gli imperi cristiani sono giunti alla fine e si sono riuniti, secondo i libri profetici, in uno solo: l’impero del nostro sovrano; e questo è impero romano, poiché due Rome caddero, la terza - Mosca - sta, e una quarta non vi sarà” (cit. in ALZATI 2000: 498). La Chiesa russa, strettamente subordinata allo Stato fin dai tempi di Pietro il Grande (in particolare con la soppressione del patriarcato, nel 1721), mantenne un atteggiamento di neutralità nei confronti del governo sovietico e, malgrado le indubbie difficoltà, giunse al 1991 con decine di milioni di battezzati. Secondo fonti sovietiche, nel 1984 i credenti praticanti (non soltanto i cristiano-ortodossi) avrebbero rappresentato il 26% della popolazione dell’URSS (SCHERRER 1993: 776). Il XX secolo è trascorso all’insegna di un duplice compromesso: nel timore di vedersi annientate, le gerarchie ecclesiastiche appoggiarono il governo comunista già negli anni ’20 (con il patriarca Tichon); d’altro canto, per resistere all’avanzata nazista, Stalin dovette accantonare il terrore per fare ricorso a tutte le forze disponibili, ortodossia compresa. Di fatto, con la destalinizzazione i problemi per la chiesa russa aumentarono anziché diminuire (in particolare negli anni 1959-64); si calcola che tra il 1960 e il 1964 siano state chiuse circa 10.000 chiese, mentre altre 1.300 lo furono nel periodo 1965-85. Bisogna tuttavia tenere in considerazione il fatto che ad essere colpito fu più l’insieme dei fedeli che non i vertici ecclesiastici, sempre più legati al potere politico: ancora negli anni ’80, a patire i lavori forzati per motivi religiosi erano semmai gli ortodossi dissenzienti, quanti cioè si opponevano alla linea «ufficiale» del Patriarcato (SCHERRER 1993: 766-769, 774). Riportiamo di seguito le tappe salienti del processo di cristianizzazione degli slavi: Russia 860 ca Penetrazione del cristianesimo tra gli slavi orientali (stando alle fonti arabe e bizantine del tempo). 944 Esistenza di una chiesa cristiana (S. Elia) a Kiev (stando ad un trattato russo-bizantino, riportato nel Racconto dei tempi passati - sub anno 945). 955 Battesimo della principessa Ol´ga (stando al Racconto dei tempi passati; datazione incerta: 957?). 980-88 Tentativo di riforma del paganesimo slavo-orientale in senso «nazionale» e monoteista, con il dio della folgore Perun elevato al rango di divinità suprema. 988 Conversione ufficiale della Rus´ al cristianesimo (ad opera di Vladimir I, lo stesso sovrano che aveva tentato la riforma del paganesimo). bilaterali inaugurata in Occidente dal Concilio Vaticano II (1962-65) e in Oriente dalle Conferenze panortodosse (1961, 1963, 1964, 1968). Cfr. GALIMBERTI 2000: 133-136. Cultura e società 1448 Autonomia della Chiesa russa. 1589 Istituzione del patriarcato. 1721 Soppressione del patriarcato ad opera di Pietro il Grande e sua sostituzione con un Santo Sinodo (riconosciuto nel 1723 dagli altri patriarcati orientali). 1917-18 Ripristino del patriarcato. Serbia IX sec. Penetrazione del cristianesimo di rito bizantino; la conversione dei serbi è attribuita all’imperatore bizantino Basilio I (867-86) 1219 Autocefalia della Chiesa serba. 1346-75 Primo patriarcato. 1557-1766 Secondo patriarcato. 1879 Ripristino dell’autocefalia. 1920 Ripristino del patriarcato. Bulgaria 864 Conversione al cristianesimo di rito bizantino (primo regno slavo cristiano) durante il regno (852-889) del khān Boris I (che prese il nome di battesimo di Michele). 870 Autonomia della Chiesa ortodossa bulgara (e abbandono del paese da parte del clero latino); attività dei discepoli di Metodio (in particolare Clemente a Devol e Naum a Preslav), scacciati dalla Moravia nell’865. 919 Autocefalia. 927-65 Primo patriarcato (dopo il 1018 la Bulgaria viene sottoposta all’arcivescoveto di Ochrid). 1187 Nuova autocefalia 1235-1393 Secondo patriarcato (Tărnovo). Durante la dominazione turca la Bulgaria sarà sottomessa come esarcato al patriarcato di Costantinopoli. 1870 Ripristino dell’autocefalia (riconosciuta da Costantinopoli nel 1971). 1870 Ripristino del patriarcato (riconosciuto da Costantinopoli nel 1971). Ma chiese ortodosse sono presenti anche in stati a maggioranza cattolica: 17 Gli slavi 18 Polonia XIII sec. Prime diocesi ortodosse. 1924 Autocefalia (riconoscimento da parte del patriarca di Costantinopoli). 1948 Riconoscimento da parte di Mosca. (ex) Cecoslovacchia IX sec. Penetrazione del rito bizantino (missione cirillo-metodiana in Moravia e Pannonia). 1951 Riconosciuta come Chiesa autocefala di Cecoslovacchia dal patriarcato di Mosca ma non da quello di Costantinopoli. 1993 In seguito allo smembramento dello stato cecoslovacco, la Chiesa si è suddivisa in due province metropolitane unificate sotto un Santo Sinodo. 1998 Riconoscimento dell’autocefalia da parte di Costantinopoli. Veniamo ora agli stati di tradizione cattolico-romana: Croazia 641-42 Invio di un abate da parte di papa Giovanni VIII. 800ca Battesimo di Višeslav, principe dei Croati di Dalmazia; in seguito (tra l’805 e l’811) battesimo di Vojnomir, principe dei Croati di Pannonia. 860ca Creazione a Nin di un vescovato legato a Roma; frattanto missioni franche in Pannonia. 1094 Fondazione del vescovato di Zagabria ad opera del re Ladislao I il Santo (1043ca-1095). XV sec. L’alfabeto latino soppianta il glagolitico. Slovacchia 833ca Consacrazione di una chiesa a Nitra. fine X sec. Conversione del popolo magiaro al cristianesimo (durante il regno di Géza e del successore Stefano); l’attuale Slovacchia si trovava allora in territorio ungherese. Cultura e società 19 Boemia - Moravia 835 Battesimo a Salisburgo del principe moravo Pribina. 845ca Battesimo a Ratisbona di quattordici nobili cechi. 852 Il Sinodo di Magonza dichiara convertito il popolo moravo. 862-63 Il duca moravo Rastislav si rivolge all’imperatore d’Oriente chiedendo l’invio di sacerdotimissionari (cfr. missione cirillo-metodiana, 863-64). 884 Papa Stefano V proibisce la liturgia slava; i discepoli di Metodio cercano rifugio in Bulgaria (nascita della scrittura cirillica). 906 Il regno di Moravia crolla sotto la spinta dell’invasione ungara; la liturgia slava (di carattere romano) sopravvive in Croazia (liberatasi dalla dominazione franca). 973 Fondazione del vescovato di Praga (legato a Magonza). Polonia 965 Mieszko I (966-92) sposa la principessa ceca Dobrava (della dinastia già cristianizzata dei Přemyslidi). 966 Adozione del cristianesimo occidentale da parte del sovrano Mieszko I (il cristianesimo era già penetrato un secolo prima dalla Moravia). 985-92 Donazione esplicita della Polonia alla S. Sede. 1000 Boleslao Chrobry (successore di Miezsko I) istituisce il primo vescovato a Gniezno. 2. Le Chiese ortodosse oggi Ai quattro antichi patriarcati orientali di Costantinopoli, Antiòchia, Alessandria e Gerusalemme altri se ne sono aggiunti nei secoli; la suddivisione fondamentale all’interno del mondo ortodosso è quella tra Chiese autocefale e Chiese autonome; queste ultime, pur funzionando come organismi indipendenti, mantengono un legame privilegiato con una Chiesa madre: il capo di una Chiesa autonoma deve infatti essere confermato nel suo ufficio dai vertici di una Chiesa autocefala. Le Chiese ortodosse autocefale sono attualmente: la Chiesa ortodossa di Albania (1937)6, di America (riconosciuta nel 1970 da Mosca ma non da Costantinopoli)7, di Bulgaria, di 6 Le date si riferiscono al conferimento della dignità di patriarcato o di Chiesa autonoma. Per quanto riguarda i paesi slavi si rimanda alla sintesi cronologica, supra. 7 Ricordiamo che “nell’America del nord si è avuta dalla fine del secolo scorso una notevole presenza ortodossa, sempre legata alla migrazione dall’Europa orientale e meridionale verso il Nuovo Mondo e anche alla cessione Gli slavi 20 Cipro (431), di Georgia (definita cattolicato, ovvero autocefala sotto un proprio katholikós), di Grecia (1850), di Polonia, delle repubbliche Ceca e Slovacca, di Romania (patriarcato dal 1925), di Russia (o Patriarcato di Mosca) e di Serbia; completano la lista i summenzionati patriarcati di Alessandria, di Antiochia, di Gerusalemme e il Patriarcato ecumenico di Costantinopoli. Si definiscono autonome la Chiesa ortodossa di Cina (1957), di Finlandia (1921), del Giappone (1972) e del Sinai (1575); a partire dal 1990, inoltre, il patriarcato di Mosca ha dovuto concedere un certo grado di autonomia alle Chiese ortodosse di Bielorussia e Ucraina (quest’ultima riconosciuta, pur con qualche limitazione, come autocefala), procedimento esteso nel 1991 anche alle Chiese di Estonia, Lettonia e Moldavia. Esistono inoltre varie comunità ortodosse facenti riferimento a Chiese irregolari (non canoniche o in aperto scisma): la setta dei Vecchi credenti (per i quali cfr. infra), la Chiesa ortodossa ucraina del Canada, la Chiesa ortodossa russa fuori dalla Russia (zarubežnaja cerkov´, in conflitto col patriarcato di Mosca dai tempi del sodalizio di questi con il governo sovietico), il patriarcato di Kiev (separatosi nel 1993 dalla Chiesa autocefala ucraina), la Chiesa autocefala bielorussa e la Chiesa ortodossa macedone, autoproclamatasi autocefala nel 1967. 3. Struttura della Chiesa La base su cui poggia l’organizzazione della Chiesa Ortodossa è la comunità dei cristiani battezzati guidata dal vescovo, circondato dal collegio dei presbiteri e assistito dai diaconi. Il ruolo del vescovo differisce dal suo equivalente cattolico, in quanto a) il vescovo ortodosso è sempre legato ad una comunità, è sempre «il vescovo di un dato luogo» e mai un individuo isolato; b) in quanto «immagine di Cristo», ogni vescovo ortodosso è uguale agli altri. Malgrado al patriarca di Costantinopoli venga data la qualifica onorifica di primus inter pares, si tratta appunto di un primato di onore e non di giurisdizione: se “il governo della Chiesa cattolica è monarchico con il temperamento dell’episcopato (di diritto divino) e di una pratica aristocrazia (che forma il consiglio del papa) [...], il sistema «ortodosso» è invece diventato a poco a poco parlamentare e democratico” (KOROLEVSKIJ 1949: 631). Questo «ugualitarismo» si riflette anche nelle relazioni tra le varie Chiese ortodosse, che non avvertono l’esigenza di darsi una struttura ecclesiastica unitaria e gerarchizzata: come ogni vescovo ha la piena autorità sulla sua diocesi, così ogni Chiesa «nazionale» (con le opportune dell’Alaska agli Stati Uniti. All’inizio del 1965 vi erano negli Stati Uniti circa 3.500.000 cristiani ortodossi, divisi in 26 chiese o gruppi.” (ALBERIGO 1979: 367). Cultura e società 21 distinzioni tra patriarcati, chiese autocefale e chiese autonome) costituisce un’unità giurisdizionale separata. Questo stato di cose, che risale all’epoca bizantina e alla dottrina della «pentarchia» (la suddivisione nei cinque patriarcati di Costantinopoli, Antiòchia, Alessandria, Gerusalemme e Roma, la symphōnía - ‘accordo’ - dei quali doveva garantire l’unità al mondo cristiano), ricevette un impulso determinante ai tempi del nazionalismo ottocentesco, quando, con il progressivo sfaldamento dell’Impero ottomano, i popoli ortodossi dei Balcani rivendicarono l’autocefalìa (questa sorta di nazionalismo religioso è nota come filetismo). 4. Particolarità dogmatiche I punti «classici» di divergenza tra ortodossia e cattolicesimo sono cinque; più precisamente, la Chiesa ortodossa rifiuta: a) il primato del pontefice romano su tutta la Chiesa e la sua infallibilità nelle questioni di fede e di morale; b) la processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio («questione del Filioque»), anziché soltanto dal Padre; c) la consacrazione eucaristica con pane azimo anziché fermentato; d) l’esistenza del purgatorio, così come la dottrina e la pratica delle indulgenze; e) l’interpretazione della ricompensa o della pena eterna come aventi luogo immediatamente dopo la morte, e non dopo il giudizio universale. Ulteriori punti di divergenza sono, ad esempio, la negazione dell’Immacolata Concezione di Maria (della quale si accetta la verginità, ma non l’esenzione dal peccato originale) e il rifiuto della distinzione cattolica tra chiesa docente (il clero) e chiesa discente (i fedeli); a quest’ultima dicotomia la teologia ortodossa ha risposto con la teoria della sobornost´ (termine russo che sta per ‘comunione’), stando alla quale la Chiesa rappresenta un unico organismo che non necessita di autorità infallibili, siano esse papi o concilî, dato che è la Chiesa stessa nel suo insieme ad essere illuminata dallo Spirito Santo. Vi sono inoltre divergenze di minor grado, come il battesimo, che in àmbito ortodosso viene effettuato per triplice immersione anziché per aspersione; la cresima, amministrata dal sacerdote anziché dal vescovo; la possibilità per i sacerdoti ortodossi di sposarsi prima dell’ordinazione (l’obbligo del celibato per il clero latino risale al 1074); ecc. Gli slavi 22 5. Caratteristiche peculiari Tipica dell’orizzonte spirituale ortodosso è una forma di monachesimo profondamente (se non esclusivamente) ascetico-contemplativa, cui è ignota la ripartizione in ordini caratteristica della cristianità occidentale, ma dove una forte influenza religiosa e morale è giocata dai singoli monasteri (si pensi al monte Athos, o al Monastero delle Grotte di Kiev). Il rifiuto delle vanità del mondo tocca il suo culmine nella figura, cara alla letteratura russa ottocentesca (si pensi al principe Myškin nell’Idiota di Dostoevskij), del «folle in Cristo», talvolta interpretata come un sincretismo di ascesi cristiana e sciamanesimo pagano: in sostanza si tratta di individui che, vestiti di stracci e sotto l’apparenza della pazzia, manifestavano quel culto della semplicità riscontrabile, pur se in grado minore, anche nell’ideale monastico. Numerose sono le fonti testamentarie di questa tradizione, cfr. I Cor. III, 18, “Se qualcuno fra voi s’immagina d’esser savio in questo secolo, diventi pazzo affinché diventi savio; perché la sapienza di questo mondo è pazzia presso Dio.” Per capire quanto questo concetto non sia del tutto estraneo alla spiritualità occidentale, basti pensare alla figura di Francesco d’Assisi, o a Jacopone da Todi (XIII sec.), quando esclama, misticamente rivolto all’annientamento di sè: “13Gelo, granden, tempestate, / fulgure, troni e oscuritate: / non sia nulla avversitate / che me non àja en sua balia. // 14Glie demonia enfernali / sì mi sian dati a ministrali, / che m’eserciten li mali / c’ho lucrati a mia follia. // [...] 16Elègome en sepoltura / ventre de lupo en voratura, / e l’arliquie en cacatura / en spineta e rogarìa” (Lauda XLVIII). Un altro aspetto della religiosità ortodossa riconducibile agli ideali di semplicità e carità è il fenomeno russo dei «Vecchi Credenti»: si tratta di quei fedeli che, non approvando le innovazioni introdotte nella liturgia dal patriarca Nikon (metà del XVII sec.), abbandonarono la Chiesa ufficiale per proseguire secondo la tradizione. Trattandosi, in definitiva, di combattere la crescente subordinazione della chiesa allo stato, una parte considerevole del clero si oppose al «tradimento» nikoniano; tra questi, principale interprete del sentimento popolare fu l’arciprete Avvakum, il quale ci ha lasciato un’autobiografia scritta in toni accesi e spesso «coloriti» (l’arciprete morirà sul rogo nel 1682). Tornando alle forme che contraddistinguono il cristianesimo orientale, degna di nota è la solenne teatralità dell’ufficio liturgico (i vespri possono durare anche tre ore!); quando la Rus´ kieviana dovette decidere «a che santo votarsi» (fine sec. X), gli emissari inviati a Bisanzio dal principe Vladimir, dopo aver assistito alla messa nella cattedrale di Santa Sofia a Costantinopoli, rimasero così strabiliati dal meticoloso rituale orientale, da riceverne un vero e proprio «shock estetico»; così si esprime a tal riguardo il cronista medievale: “E dai Greci andammo, e vedemmo dove officiavano in onore del loro Dio, e non sapevamo se in cielo ci trovavamo oppure in terra: Cultura e società 23 non v’è sulla terra uno spettacolo di tale bellezza, e non riusciamo a descriver[lo]; solo questo sappiamo: che là Dio con l’uomo coesiste, e che il rito loro è migliore [di quello] di tutti i paesi. Ancora non possiamo dimenticare quella bellezza, ogni uomo che gusta il dolce, poi non accetta l’amaro...” (Povest´ vremennych let, cit. in CONTE 1991: 463sg). La centralità della liturgia nella fede ortodossa si mantenne inalterata e crebbe addirittura d’importanza per motivi storici: la conquista turca di Costantinopoli e le limitazioni successivamente imposte da Pietro il Grande e dal governo sovietico privarono di fatto la Chiesa ortodossa di ogni strumento di espressione che non fosse quello liturgico; dopo la caduta dell’Impero Romano d’Oriente, l’ufficio divino “è stato per secoli l’unica scuola di fede in una chiesa priva di libri, di scuole e di organizzazione esterna” (ALBERIGO 1979: 366sg.). Ancora, il cristianesimo orientale può dirsi caratterizzato dalla “realtà della «comunità» in quanto predominante sull’individuo. [...] L’uomo deve essere accostato principalmente come «persona», cioè come un’identità costituita attraverso la comunione, e non come un individuo concepibile in se stesso, o come parte di una totalità collettivistica.” Inoltre, “l’ortodossia celebra la redenzione del cosmo e non semplicemente dell’uomo.” (ZIZIOULAS 1980: 17, grassetto mio). Proprio nel primato della comunità sull’individuo risiederebbe, secondo alcuni, il vero spartiacque tra oriente e occidente della cristianità; nel cattolicesimo, infatti, l’individualità trova la sua giustificazione direttamente, senza mediazione comunitaria, nel concetto di «anima» (GALIMBERTI 2000: 132). Per finire, ricordiamo che se il continuo richiamo ai precetti dei Padri della Chiesa spesso “ha evitato [alla Chiesa ortodossa] la tentazione del potere politico e temporale”8 (ALBERIGO 1979: 366), non le ha però evitato la tentazione della proprietà: “la regola dell’astinenza finì spesso infranta e i monasteri si arricchirono in misura considerevole fino al secolo XVIII, al punto di figurare in Russia fra i proprietari più ricchi. [...] Migliaia di ettari si concentravano in non più di duecento monasteri, alcuni dei quali potevano contare su immensi possedimenti, su migliaia di servi, su saline e su mulini.” (CONTE 1991: 487). 8 Questa affermazione necessita, tuttavia, di una precisazione: fin dai tempi di Costantino, Chiesa e Stato (e quindi religione e politica, potere spirituale e temporale) si sono compenetrati vicendevolmente; il primo imperatore bizantino a ricevere la corona dalle mani del patriarca di Costantinopoli fu Leone I (457-474). Potrà apparire paradossale, ma è soltanto con la legge (del 1990) sulla libertà di religione che la Chiesa russa perde la possibilità di ricoprire - in quanto tale - cariche pubbliche (SCHERRER 1993: 788). Gli slavi 24 Cultura e società Prima di passare in rassegna gli elementi caratteristici delle culture slave sarà bene premettere qualche osservazione di carattere metodologico: in primo luogo nessuna cultura si presenta come un insieme assolutamente omogeneo; questo sembra valere anche e soprattutto per gli slavi: il linguista polacco Baudoin de Courtenay, noto per aver dato una prima definizione di ‘fonema’ nell’Ottocento e certo non propenso alle formulazioni affrettate, affermò che “una cultura specificamente slava non c’è, non c’è stata, non ci sarà mai” (cit. in CACCAMO 2001: 85); il tono è perentorio e non ammette repliche di sorta: significa forse che dobbiamo abbandonare l’analisi prima ancora di averla cominciata, rassegnandoci al caleidoscopio delle differenze? No di certo, dobbiamo semplicemente trarre dall’ammonimento del Courtenay un invito alla precauzione: gli slavi, infatti, fin dalla preistoria hanno convissuto con popolazioni diverse; quando entrarono a contatto con le civiltà antiche e altomedievali si trovarono spesso inseriti in ampie confederazioni militari, per esempio quella sarmatica (popolazione indoiranica) per gli antenati degli slavi orientali, e quella avara (popolazione mongolica) per gli slavi meridionali; gli antichi bulgari (o protobulgari) erano un popolo turcico proveniente dal bacino del Volga che, giunto nell’attuale Bulgaria verso la metà del VII sec., sottomise le popolazioni slave presenti ma finì con l’adottarne la lingua (slava). In seguito vediamo degli scandinavi a capo del regno antico-russo (Rus’, IX sec.) e un mercante franco, Samo, alla guida di boemi e moravi (VII sec.). Di converso, serbi, croati e bosniaci fanno parte di un medesimo gruppo, come mostra l’estrema vicinanza linguistica di queste popolazioni, ma la diversa religione adottata (rispettivamente cristiano-ortodossa, cristiano-cattolica e musulmana) ha finito col differenziare in modo sensibile la loro ‘cultura’. Per capire meglio di cosa stiamo parlando, serviamoci di un caso esemplare preso da un campo d’indagine diverso dal nostro: Nel Messico il Soustelle ci porta l’esempio, certamente non isolato, del villaggio di Mexicaltzingo, abitato da Amerindi deindianizzati che presentano un tipo fisico autoctono e ben caratterizzato, ma che hanno completamente dimenticato la loro lingua, parlano lo spagnolo del popolo e praticano costumi e credenze del cattolicesimo messicano. Ma lo stesso Soustelle descrive anche il caso, in verità più raro, del villaggio di San Juan Acingo, popolato da non-Amerindi indianizzati: si tratta di un paesino di montagna che, Cultura e società 25 essendo servito di rifugio durante la guerra civile a bianchi, meticci e amerindi della regione circostante, oggi si trova ad ospitare una popolazione fisicamente eterogenea, con molti individui dal colorito pallido, gli occhi chiari, i capelli biondi o castani; tutti però parlano il dialetto ocuilteco dell’antica lingua metlalzinca, del gruppo otomí, e le loro cerimonie rituali sono incentrate su un tipico gong ligneo a due note di tipo precolombiano, celebrato in un’antica leggenda che lo ricollega alla piramide di Topoztlan. Secondo i criteri etnolinguistici generalmente accettati, gli abitanti del primo villaggio non sono Amerindi e lo sono invece quelli del secondo, sebbene geneticamente si direbbe esattamente il contrario (BRETON 1976: 47). Come possiamo vedere, risulta molto spesso difficile associare una specifica cultura a un insieme delimitato di persone, siano esse consapevoli o meno della propria ‘omogeneità etnica’; questo è vero anche per la preistoria più lontana, se pensiamo che addirittura specie diverse appartenenti al genere homo, come Cro-Magnon e Neandertal nel Paleolitico superiore, sembrano essersi scambiate tecniche e motivi ornamentali (ARSUAGA 2001: 224-232). Buttata l’acqua sporca, dobbiamo ora salvare il bambino: se l’espressione ‘cultura slava’ in sé non ha quasi senso, vorrà dire che parleremo di ‘culture’, al plurale, distinguendo volta dopo volta gli ambiti di riferimento. Gli avversari della schematizzazione obietteranno che l’ulilizzo stesso di categorie così astratte come quella di ‘cultura’ è un’intollerabile generalizzazione che falsifica la realtà concreta; è vero che nel corso di una vita ogni individuo forma la propria personale ‘cultura’ in modo relativamente autonomo, ma nel far questo parte da quanto ha appreso durante l’infanzia, in modo assai poco consapevole. In seguito ci si può discostare da questi modelli tradizionali fino ad abbandonarli del tutto, dipende dalle energie e dalla motivazione di ciascuno, ma essi sono spesso molto tenaci, soprattutto nelle società agricole e con basso livello di urbanizzazione. Quella che presenteremo sarà necessariamente una ‘caricatura’ del mondo slavo (Gli Slavi di Francis Conte consta pur sempre di 600 pagine!), ma anche una sintesi delle costanti con le quali probabilmente ci dovremo confrontare se avremo rapporti con persone di madre-lingua slava. 1. Gli slavi nella cultura europea Popolazioni povere, coinvolte in guerre spaventose e crisi economiche talvolta croniche, questa è più o meno l’immagine degli slavi che negli ultimi anni abbiamo ricavato dai media. In parte essa corrisponde a verità, ma la congiuntura storica indubbiamente sfavorevole rischia di eclissare i grandi debiti che la storia e la cultura europee hanno nei confronti degli slavi. La guerra Gli slavi 26 fredda ha certo contribuito a far calare nel più fitto mistero le società dell’Europa cento-orientale; è però un fatto che dopo il 1989 a mostrare interesse per i paesi slavi siano stati quasi esclusivamente imprenditori alla ricerca di forza lavoro a basso costo. Dicevamo la cultura europea: anzitutto ci sono i veri e propri ‘debiti’, ovvero conti da saldare; gli slavi erano notoriamente considerati un ‘popolo concime’ (Düngervolk) dai nazisti (che tuttavia non disdegnarono l’alleanza degli ustascia croati9), ma forse non tutti sanno che “la maggior parte degli schiavi importati in Europa nel XIV secolo erano slavi e greci” (WOLF 1990: 296); schiavi slavi venivano venduti in Italia ancora nel XVII sec. (CONTE 1991: 60). Tanta era l’abitudine a vedere negli slavi i servi per eccellenza, che il termine italiano schiavo (che non risale al latino, dove si usava servus), è la stessa parola slavus / sclavus (gr. sklavenos), che fino al XIII secolo designava semplicemente lo ‘slavo’ (cfr. ingl. slave ‘schiavo’). Similmente, ai giorni nostri si sente spesso definire ‘marocchino’ un venditore ambulante che pure ha tutto l’aspetto del congolese o dell’ivoriano! Si può solo sperare che quest’abitudine sia meno pervicace della precedente. Ma mettiamo da parte le pagine tristi della storia e osserviamo più da vicino i contributi slavi alla cultura cosiddetta ‘occidentale’: 1. Lingua: le popolazioni che sono entrate in contatto con gli slavi hanno spesso mutuato termini dalle loro lingue: in italiano, come già accennato, sono prestiti dallo slavo i termini stavizio, vampiro, ecc. Si potrebbe continuare un bel po’, ma limitiamoci a ciao!, il saluto che forse nel mondo caratterizza gli italiani più degli spaghetti. Ogni mattina, quando salutiamo il giornalaio, stiamo usando in realtà un termine slavo: ciao è contrazione del veneziano sciao vostro ‘schiavo vostro’, sciao è forma dialettale di schiavo, che come abbiamo visto deriva da slavus. Non solo usiamo un termine slavo, ma ‘slavo’ è proprio quello che diciamo! Anche un termine come robot è frutto della penna di uno scrittore ceco, Karel Čapek (1890-1938). Non parliamo dei toponimi: slavo è il nome di molte città tedesche (Berlin, Leipzig), austriache (Graz), italiane (Gorizia); se vi sembra strano che originariamente Berlino avesse una popolazione slava, che dire de Il Cairo, fondata nel 969 d.C. da Giawhar as-Siqillī, uno slavo asceso al titolo di comandante dell’esercito fatimide? 9 Pochi sanno che, durante il secondo confltto mondiale, la Germania utilizzò anche un corpo speciale reclutato tra i musulmani di Bosnia: “fu la 13a divisione SS e le fu dato nome «Handžar», dalla tradizionale arma della regione, la spada turca ricurva o scimitarra” (MALCOLM 2000: 256) Cultura e società 27 2. Storia: gli slavi non guadagnarono posizioni di rilievo soltanto nei califfati arabi medievali; l’imperatore del Sacro Romano Impero Carlo IV (XIV sec.) era un boemo (e proprio da lui prese il nome il forte noto come Monte Carlo, nei pressi di Lucca). Una vivace descrizione di due precedenti sovrani boemi (XIII sec.) ci viene dal Purgatorio di Dante (VII, 97-103): L’altro che ne la vista lui conforta, resse la terra dove l’acqua nasce che Molta in Albia, e Albia in mar ne porta: Ottacchero ebbe nome, e ne le fasce fu meglio assai che Vincislao suo figlio, barbuto, cui lussuria e ozio pasce. Se qualcuno, magari fuorviato dall’ingenerosa caratterizzazione di Venceslao II nel poema dantesco, nutrisse ancora qualche dubbio riguardo all’integrazione degli slavi nel ‘salotto buono’ della nobiltà medievale, non ha che da analizzare la politica matrimoniale di sovrani come Jaroslav il Saggio, gran principe di Rus’ dal 1018 al 1054, che sposando figli e figlie con rampolli e principesse straniere si imparentò con quasi tutte le case regali europee del tempo. 3. Musica: che stagione concertistica sarebbe quella che non dedicasse almeno una serata alle sinfonie di Šostakovič e Dvořak? Non possiamo elencare tutti i compositori, ma almeno i più famosi: i russi Musorgskij (ricordate Fantasia di W. Disney?), Čajkovskij, Rimskij-Korsakov, Glinka, Borodin, continuando nel Novecento con Rachmaninov (ricordate l’estenuante ‘Rach 3’ in Shine di Scott Hicks?), Prokof’ev e il succitato Šostakovič; i cechi Dvořák, Janáček e Smetana; i polacchi Penderecki e Górecki... Insomma, senza nulla togliere a J.S. Bach, si può tranquillamente affermare che il panorama musicale mondiale, e non soltanto quello colto, avrebbe tutt’altro aspetto senza l’apporto della tradizione slava. 4. Letteratura: la tradizione russa ottocentesca non ha bisogno di presentazioni: Puškin, Lermontov, Gogol’, Dostoevskij... fino a Čechov e Tolstoj; il Novecento non è da meno: Majakovskij, Blok, Pasternak... Spostiamoci in Polonia e troveremo nomi del calibro di Adam Mickiewicz, Sienkiewicz e Miłosz; in Jugoslavia (allora ancora tale) Ivo Andrić e Meša Selimović; per quanto riguarda i cechi, Čapek, Jan Neruda, Hrabal e Hašek potrebbero già bastare, ma ricordiamo che anche Kafka nacque a Praga e che ceco è pure lo scrittore Milan Kundera, anche se ha pubblicato la maggior parte dei suoi scritti da esule in Francia. Gli slavi 28 5. Cinema: l’attività del russo Sergej Ejzenštejn, a partire dagli anni Venti del XX secolo, è universalmente ritenuta una pietra miliare della storia del cinema; più recentemente, chi ha visto qualche lavoro del regista bosniaco Emir Kusturica si è potuto rendere conto dell’alto livello della cinematografia ex-jugoslava. 6. Teatro: sono ormai diverse le generazioni di aspiranti attori che hanno avuto a che fare, nel bene o nel male, con il ‘metodo Stanislavskij’; il grande regista russo non è il solo che abbia lasciato il segno: si pensi, tra le avanguardie post-rivoluzionarie, a Mejerchol’d. 7. Scienze: troppi sono i contributi in campo scientifico, limitiamoci ai maggiori: il primo laboratorio di trasfusione sanguigna al mondo fu allestito nel 1926 dal ‘tuttologo’ sovietico Aleksandr Bogdanov. Se non fosse per il polacco Copernico (XV sec.), il sole girerebbe ancora attorno alla terra! Abbiamo già menzionato il de Courtenay per la linguistica, ma che dire del ‘Circolo di Praga’ (Jakobson, Trubeckoj)? Immaginate lo studio del folklore senza le opere di Propp, la psicologia dell’apprendimento senza Vygotskij, la storia della pedagogia senza il ceco Comenio (XVII sec.), ecc. 8. Filosofia: è appena il caso di dire che “ce n’è per tutti i gusti!” Se Plechanov e Lenin sono (stati?) la delizia dei materialisti incalliti, l’idealismo antimarxista può sempre contare sullo slavo Karol Wojtyła! 9. Questo lungo elenco non vuole dimostrare ‘quanto siano bravi’ gli slavi, ma soltanto quanto stretta e antica sia la loro partecipazione alla cultura europea e mondiale. In generale, il mondo in cui viviamo sarebbe piuttosto diverso senza l’apporto slavo; molti aspetti della nostra vita quotidiana, cui di solito non facciamo neppure caso, hanno radici centro- ed est-europee: la cravatta, come suggerisce il nome stesso, era un capo d’abbigliamento tradizionale croato; cristalli di Boemia e colbacchi sono diffusi ovunque; il campionato di calcio o quello di basket avrebbero tutt’altra fisionomia senza i vari Nedved, Ševčenko e Danilović. Per finire, quanti cocktail diventano impossibili se dal bar scompare la vodka? Cultura e società 29 2. Le culture degli slavi In base a criteri linguistici gli slavi possano essere raggruppati in tre grandi gruppi; trovandosi ad occupare spazi distinti, ciascun raggruppamento è venuto a contatto con popolazioni diverse: naturalmente gli slavi occidentali sono stati più influenzati dal mondo germanico, quelli orientali dalle steppe asiatiche e quelli meridionali dal Mediterraneo. Questo schema funziona a grandi linee, ma chiaramente uno sloveno e un bulgaro, entrambi slavi meridionali, fanno parte di realtà culturali diversissime, che riflettono la dominazione asburgica nel primo caso e quella ottomana nel secondo. A complicare le cose interviene il fattore ‘religione’: una parte degli slavi è di fede cattolica, l’altra parte è ortodossa (senza dimenticare la Bosnia-Erzegovina, con il suo 50% di musulmani). Abbiamo già affrontato l’argomento ‘ortodossia’, in questa sede limitiamoci a rilevare quanto la fede contribuisca a differenziare le società, anche all’interno dei singoli Stati (verrebbe da dire soprattutto all’interno dei singoli Stati: pensate ai bosniaci e a cosa hanno attraversato!). Un punto da chiarire è inoltre la percezione che gli slavi hanno di sé: un bielorusso si sente ‘slavo’? E un macedone? Difficile rispondere con precisione. Sicuramente noi italiani abbiamo una consapevolezza molto minore di appartenere alla famiglia linguistica romanza (o ‘neolatina’); per meglio dire, sappiamo di farne parte, ma non ci interessa più che tanto: sono molti gli italiani convinti che il rumeno sia una lingua slava. Abbiamo visto invece che le lingue slave sono relativamente vicine tra loro e perciò la comunità linguistica si lascia identificare più direttamente rispetto a quella romanza; in diversi momenti della storia, a partire dalle prime testimonianze lasciateci, le popolazioni slave si sono dimostrate consapevoli della loro unità e hanno coltivato ideologie più o meno panslaviste: molto noto è il caso degli ‘slavofili’, contrapposti agli ‘occidentalisti’ nella Russia del XIX sec.; vi è chi ha letto come riproposizione del panslavismo persino il patto di Varsavia. Comunque sia, la solidarietà interslava ha sempre avuto basi piuttosto fragili: un ceco memore dei carri armati sovietici a Praga (agosto 1968) non ha grandi slanci di fratellanza ‘panslava’ nei confronti dei russi. In generale, gli Stati dell’Europa orientale hanno sempre tenuto un atteggiamento duplice nei confronti della ‘madre Russia’, ora invocandone l’aiuto, ora tentando di sottrarsi alla sua egemonia (come nell’attuale congiuntura storica, cfr. BIANCHINI – DASSÙ 2001: 43-44); la ‘russofobia’ è una vera e propria costante in Ucraina, che per secoli fu chiamata ‘Piccola Russia’ (ancora oggi, il nome della Bielorussia, Belarus’, significa ‘Russia Bianca’); ai tempi dell’URSS, la Russia non aveva neppure un inno statale (come invece le altre 14 repubbliche): il suo inno era quello, peraltro splendido, dell’Unione Sovietica, perché di fatto la Russia era Gli slavi 30 l’Unione Sovietica. La letteratura russa non è a sua volta priva di un certo antipolonismo, e si potrebbe continuare a lungo. Eppure sono diversi i momenti della storia in cui le popolazioni slave hanno sentito il bisogno di unirsi ai loro ‘fratelli’: nel 1992-95 serbi, croati e bosniaci (senza dimenticare gli sloveni) hanno sbriciolato lo stesso Stato per il quale avevano lottato agli inizi del secolo: costituito nel 1918, il ‘Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni’ (SHS) aveva alle spalle almeno un decennio di mobilitazioni e, anche se fu subito egemonizzato dal governo serbo (più nettamente a partire dal colpo di stato di re Alessandro nel 1929), la sua nascita non può essere ridotta a mera conseguenza delle mire espanionistiche di Belgrado. Più spesso questa solidarietà si è sviluppata tra gli slavi ortodossi: nei primi secoli della sua storia la Rus’ ha attinto a più riprese dal patrimonio culturale bulgaro; più tardi sono stati i serbi e i bulgari a subire il fascino di Mosca, che oltre ad essere un potente alleato dal punto di vista militare era sede del patriarcato più influente della chiesa orientale (dopo la caduta di Costantinopoli nel 1453). Insomma, restando entro certi limiti, è lecito parlare di ‘autoconsapevolezza slava’: la radice slav(jan)- / slov(ěn)- è presente in toponimi di tutti i paesi slavi (Slavonskij Brod, Wrocław ant. Vratislavia -, Bratislava, ...), negli etnonimi sloveno, slovacco; nei nomi propri (Miroslav, Jaroslav, Sławomir, ...), nello stesso nome ‘Jugoslavia’ (‘Slavia del Sud’). Fin nelle più antiche cronache slave troviamo le tracce di una tale consapevolezza. Abbiamo già detto che essa potrebbe avere basi linguistiche; effettivamente, gli studiosi ritengono che il periodo slavo-comune (ovvero quando le singole popolazioni slave parlavano varietà locali di una stessa lingua) si sia protratto fino all’epoca delle prime traduzioni (IX sec.): se Cirillo e Metodio predicavano in Moravia (nell’attuale Repubblica Ceca) utilizzando il dialetto slavo parlato nei dintorni di Salonicco (mar Egeo), ciò significa che c’era ancora un buon margine di comprensibilità reciproca, laddove la comunicazione tra i regni d’Occidente, a quel tempo, avveniva in latino, lingua appresa appositamente. Quale che sia la percezione dei diretti interessati, comunque, il mondo slavo presenta ancora oggi tratti di sorprendente omogeneità a fianco di spiccate particolarità locali: la differenziazione culturale tra ‘città’ e ‘campagna’ è molto forte (come accade, in misura variabile, per ogni società urbana); un impiegato milanese e uno moscovita hanno un orizzonte culturale piuttosto simile, se pensiamo a quello che divide entrambi da un pastore macedone o sardo. Dovrà inoltre ricredersi chi ritene, seguendo un certo senso comune, che la maggior parte degli slavi risieda in piccoli aggregati rurali: Cultura e società 31 % popolazione urbana sul totale (1997) 90 80 70 60 50 40 30 20 10 0 I USA BY BiH BG CZ HR YU MK PL RUS SK SLO UA (i dati sono tratti da GDM 2002: 46). Il dato semmai è un altro: grande o piccolo che sia, il centro cittadino slavo è relativamente isolato. Le metropoli come Mosca (più di 8 milioni di ab.) sono l’eccezione, mentre un elemento che non manca mai nel paesaggio slavo sono gli estesi spazi aperti, o comunque liberi da insediamenti tra un centro abitato e l’altro; questo è vero soprattutto per la sconfinata Russia (10 h di fuso orario da un capo all’altro del paese!) e ha forti ripercussioni sulla psicologia degli individui: le immense steppe sono un motivo ricorrente nell’arte russa. Anche negli altri paesi, comunque, la densità della popolazione è molto inferiore a quella italiana (GDM 2002: 26). 3. Istruzione In media, gli slavi sono gente istruita. Ciò è dovuto in parte alle massiccie campagne di alfabetizzazione promosse nel XX secolo dai governi socialisti: si possono contestare le scelte politiche di questi ultimi in molti altri casi, non direi per quanto riguarda l’istruzione pubblica, i cui risultati sono evidenti. Sotto questo aspetto, l’Italia non è un buon osservatorio, con la sua bassissima percentuale di laureati sulla popolazione (9,2%), “uno dei valori più bassi tra i paesi sviluppati” (BONIFAZI 1998: 43). Osserviamo i dati relativi all’alfabetizzazione (GDM 2002: 31): Gli slavi 32 % Adulti alfabeti, 1995 TOT 101 MASCHI FEMMINE 100 99 98 97 96 95 I USA BY BiH BG CZ HR YU MK PL RUS SK SLO UA Possiamo ‘calibrare’ i dati utilizzando una pubblicazione più aggiornata (BIANCHINI – DASSÙ 2001), che abbassa in media i valori totali di un punto percentuale (senza però fornire il raffronto con la situazione italiana); qui, gli Stati assenti nel nostro grafico totalizzano il 99% (Rep. Ceca e Slovacchia), 93% (Bosnia-Erzegovina), 89,1% (Macedonia). I paesi con un valore complessivo minore di quello italiano risultano perciò essere soltanto Bosnia, Croazia e Macedonia. Balza agli occhi il cospicuo divario maschi-femmine registrato nei Balcani (trattandosi di dati arrotondati è tuttavia difficile farsi un’idea precisa), bilanciato in parte dal caso dell’Ucraina, paese con una maggiore alfabetizzazione femminile. Dati simili compaiono in LF 1999: 377. Anche la qualità dell’istruzione è buona, almeno a giudicare dal numero – alto ma non troppo – di alunni per maestro: nel periodo 1994-1999 si va dai 14 della Slovenia ai 20 di Russia e Bielorussia (contro gli 11 italiani e i 16 statunitensi, GDM 2002: 29). All’inizio degli anni Novanta, tuttavia, solo in area slavo-orientale (Russia, Bielorussia e Ucraina) la percentuale di studenti sulla popolazione era maggiore di quella italiana (paradossalmente, proprio in questi paesi essa era in calo, UNESCO 1995: § 3.9). Il sistema educativo è strutturato nel seguente modo (p = scuola primaria, s = secondaria; UNESCO 1995: § 3.1): Cultura e società durata 4 5 33 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 Italia 8 p p p p p s1 s1 s1 s2 s2 s2 s2 s2 Ex-Cecoslovac. Bulgaria Croazia Macedonia Polonia 10 8 8 8 8 p p p p p p p p p p p p p p p p p p p p p p p p p p p p p p p p p p p p s p p p p S S S S S s s s s s s s s s s Rep. Ceca Slovacchia ex-Jugoslavia Rep. fed. Jug. Slovenia 9 9 8 8 8 p p p p p p p p p p p p p p p p p s1 s1 p p p s1 s1 s1 s1 s1 s1 s1 s1 s1 s1 s1 s1 s1 s1 s1 s2 s2 s1 s1 s1 s2 s2 s2 s2 s2 s2 s2 s2 s2 s2 s2 s2 s2 s2 s2 s2 s2 s2 Bielorussia* Fed. Russa* Ucraina 11 9 8 p p p p p p p p p p s1 s1 s1 s1 s1 s2 s2 s1 s1 s1 s1 s1 s2 s2 p s1 s1 s1 s1 s1 s2 s2 s s s s * Il sistema rende possibili altre strutture 4. Lavoro La prima osservazione da fare è che, rispetto all’Italia, nei paesi slavi si lavora di più (o si va meno in pensione, mettetela come volete). Tristemente, i paesi dove i dati sulla forza lavoro sono più simili a quelli italiani sono proprio quelli appena usciti (i dati del grafico seguente si riferiscono al 1998, GDM 2002: 36) dalla sanguinosa guerra di Bosnia, che certo ha ridotto in modo consistente il numero degli adulti in età lavorativa. % forza lavoro su popolazione 60 50 40 30 20 10 0 I USA BY BiH BG CZ HR YU MK PL RUS SK SLO UA Gli slavi 34 Come si evince dal grafico successivo (GDM 2002: 36), il settore agricolo rappresenta tuttora buona parte delle economie dei paesi slavi, ma non è così esteso da qualificare in modo netto queste società come rurali: Distribuzione forza lavoro agricoltura industria servizi 80 70 60 50 40 30 20 10 0 I USA BY BiH BG CZ HR YU MK PL RUS SK SLO UA Il tasso di disoccupazione è molto alto soprattutto nei Balcani: in Bosnia-Erzegovina lambisce addirittura il 40%! Slovenia e Russia sono su valori simili a quelli italiani, attorno al 10%, mentre Ucraina e Bielorussia non superano il 5% (BIANCHINI – DASSÙ 2001). Il settore ‘servizi’ del grafico precedente va considerato con cautela; questo dato informa più sulla tipologia di contratto che sul lavoro effettivo: negli ultimi anni soprattutto le grandi industrie hanno appaltato numerose attività a ditte esterne; queste attività figurano ora come ‘servizi’, ma luoghi, tempi e modalità di lavoro sono spesso esattamente le stesse. Non solo la pecentuale della forza lavoro sulla popolazione è maggiore nei paesi slavi, come dicevamo prima, ma le donne in particolare lavorano di più (si noti che la percentuale in questo caso è presa sulla forza lavoro, non sulla popolazione, GDM 2002: 33): Cultura e società 35 Donne in % alla forza lavoro 1998 Donne e lavoro stipendi delle donne come % del reddito maschile, 1995 60 50 40 30 20 10 0 I USA BY BiH BG CZ HR YU MK PL RUS SK SLO UA Questi dati possono essere letti in vario modo: si può ritenere che riflettano semplicemente la necessità di maggiori introiti; le donne slave sarebbero insomma forzate a lavorare più delle italiane per questioni di economia domestica. Sicuramente in parte questa lettura coglie nel segno, tuttavia il solo paese slavo in cui le donne costituiscono il 38% appena della forza lavoro (come avviene in Italia) è la Bosnia, che non è certo tra gli Stati più ricchi! Probabilmente bisogna cercare altrove le ragioni di questa maggior propensione femminile al lavoro: è significativo che proprio la Bosnia sia popolata in buona parte (50%) da musulmani; il lavoro femminile può essere considerato una manifestazione di indipendenza della donna, che la cultura islamica tenderebbe a inibire. Si noti però che tutta la ex-Jugoslavia (con l’eccezione della Slovenia) fa registrare valori piuttosto bassi: la religione potrebbe anche non aver influito granché, sempre che non si voglia chiamare in causa l’eredità culturale dell’impero Ottomano (effettivamente in Slovenia e Croazia, dove i turchi non arrivarono, la percentuale di lavoro femminile è maggiore rispetto a Serbia-Montenegro, Macedonia e Bosnia, ma come spiegare allora l’alta percentuale – 48% – registrata in Bulgaria, che restò per cinque secoli in mano ottomana?). In seguito avremo modo di tornare sull’argomento delle libertà femminili, per ora limitiamoci a notare la maggiore indipendenza (almeno economica) delle donne slave, anche se, come negli Stati Uniti, esse guadagnano meno degli uomini (colonna bianca); in Italia, in compenso, guadagnano molto meno degli uomini. Per finire, un’occhiata alla presenza femminile nella vita politica: in media, alla fine degli anni Novanta, nei paesi slavi i seggi parlamentari occupati da donne erano il 9%, contro il 10% dell’Italia; gli incarichi ministeriali arrivavano al 5,4%, contro il 4% dell’Italia (GDM 2002: 34). Gli slavi 36 5. La donna nei paesi slavi In genere, fin dal primo, fugace contatto con gli slavi si resta favorevolmente colpiti dalla posizione della donna nella società. Di nuovo non si tratta di una regola universamente valida: purtroppo ci sono mogli maltrattate e lavoratrici costrette a sbrigare da sole i lavori di casa anche in questi paesi, e non sono poche. Lo stupro sistematico è stata una delle tattiche più in voga nella recente guerra di Bosnia. Non di rado, tuttavia, si ha l’impressione che la donna ‘porti i pantaloni’ quanto gli uomini. La questione è complessa perché risulta dallo stratificarsi di numerosi apporti. I governi socialisti hanno indubbiamente battuto molto sul tasto dell’uguaglianza, inserendo la liberazione della donna in un più generale contesto di liberazione del lavoratore (non ricordo tuttavia segretari donne del PCUS!), ma fino agli inizi del XX secolo la maggior parte delle popolazioni slave viveva in società rurali di tipo tradizionale, la cui dimensione culturale risultava fondamentalmente dalla sintesi dei seguenti elementi: a) Cultura del dominatore di turno, nella misura in cui essa riusciva a penetrare nella vita della comunità: certo la dominazione ottomana dei Balcani, protrattasi dal XIV al XX secolo, ha lasciato qualche strascico dal punto di vista della condizione della donna, ma non bisogna dimenticare che la vita della comunità, nei territori conquistati dai turchi, continuava per lo più a seguire il propro ritmo; la Sublime Porta non ha mai promosso un’islamizzazione forzata o preteso che la popolazione soggetta si conformasse integralmente ai propri costumi (la conversione in Bosnia sembra essere stata largamente spontanea, MALCOLM 2000: 92-100); considerazioni analoghe possono essere fatte per la dominazione mongola sulla Rus’ (XIII-XIV secc.): anche in questo caso i conquistatori portarono con sé un’ideologia e una struttura sociale fortemente patriarcale, che influì sul successivo evolversi della società russa, ma che probabilmente non penetrò a fondo nelle sperdute fattorie di campagna. b) Tutti gli slavi hanno alle spalle una decina di secoli di cristianesimo e questo ha certo avuto conseguenze più radicali sulla struttura sociale e sulla condizione femminile di quanto non sia poi riuscito a Brežnev o al sultano Maometto II. Storicamente, il cristianesimo non è una religione molto aperta nei confronti delle donne. Basti qui rilevare come la chiesa ortodossa sia leggermente meno ‘ginecofoba’ della cattolica: di donne-sacerdote non se ne vuol sentir parlare nemmeno in ambito ortodosso, ma l’assenza del celibato, oltre a dare un’aria un po’ da first lady alla moglie del pope di turno, mostra di per sé una maggior considerazione, o se volete un minor timore, dell’elemento femminile. Cultura e società 37 c) Resta, procedendo a ritroso, la cultura tradizionale pre-cristiana; questa, elaborata nel corso di millenni, è straordinariamente più tenace di quanto sembrerebbe; lo stesso cristianesimo è dovuto scendere a patti ovunque con ritualità preesistenti, lasciandone inalterata la forma e mutandone, dove riusciva, il contenuto: il risultato di questa commistione, noto come sincretismo, caratterizza spesso le culture cristiane primitive; Paolo di Tarso, nei suoi viaggi, aveva ben presente che i cristiani dovevano differenziare le proprie abitudini da quelle dei pagani, ma non fino al punto da allontanare i fedeli provenienti da quell’ambiente. Si aggiunga che noi, quando pensiamo al paganesimo, lo situiamo in un tempo assai lontano (la libertà di culto fu concessa nel 313, ma il cristianesimo era già penetrato abbondantemente nella società romana), mentre gli slavi lo abbandonarono molto più tardi, in pieno Medioevo: il primo regno slavo cristiano fu la Bulgaria di khan Boris I (seconda metà del IX secolo). È in questo livello più remoto che dobbiamo cercare indicazioni riguardo alla donna slava. A suo tempo, un grande slavista italiano, Evel Gasparini, attraverso una minuziosa analisi del folclore slavo, utilizzando tutto il materiale storico e archeologico a disposizione, diede alle stampe una dettagliata descrizione della cultura tradizionale, precristiana, degli antenati degli slavi: il volume, significativamente, si intitolava Il matriarcato slavo (GASPARINI 1973). Lo studioso ha enucleato tutta una serie di tratti, caratteristici della tradizione slava, che non trovano riscontro negli usi germanici o latini: - Il diritto consuetudinario slavo prevede che in caso di vedovanza la donna erediti la patria potestas. - presenza di nozze matrilocali (lo sposo si trasferisce presso la famiglia della sposa); già Cosma da Praga, nella sua Chronica Boemorum (XII sec.), racconta che “non eas viri, sed ipsaemet si viros quos et quando voluerunt, accipiebant [Non sono scelte dagli uomini, sono piuttosto loro a prendere il marito che vogliono quando lo desiderano]”. Talvolta un residuo di questo antico costume è rappresentato dall’obbligo di trascorrere almeno la prima notte di nozze a casa della sposa. - ancora in documenti del XVI secolo le figlie sono eredi esclusive dei beni materni (l’orto domestico è solitamente proprietà femminile, così come il bestiame). - le donne godono di una notevole libertà sessuale prematrimoniale: stando alle fonti arabe gli slavi non apprezzavano punto la verginità, reputata indice di scarso valore sessuale; l’illibatezza è addirittura sconosciuta in certe regioni; secondo un proverbio russo “la verginità non è un abbeveratoio / ne resterà anche per il marito”; si arriva a ritenere di buon auspicio per il raccolto la gravidanza di una nubile! - in tutto il mondo slavo-baltico-finnico, se il capo muore, la vedova acquista il governo anche della parte maschile, mentre l’uomo non entra mai in possesso della parte femminile - con l’eccezione della Russia, la sterilità viene di solito attribuita all’uomo, anziché alla donna: un curioso costume, diffuso un tempo tra gli slavi orientali e meridionali (snochačestvo), prevede che in caso di figlio impubere o assente il suocero giaccia con la nuora per soddisfare il debito di fecondità (cfr. il romanzo ‘Sangue impuro’ di Bora Stanković); nella Serbia del XIX secolo la donna poteva prendere un Gli slavi 38 nuovo sposo se quello presente non le dava un figlio; per servizi ‘temporanei’ ci si rivolgeva spesso a una figura ‘al di sopra delle parti’, come il pope del villaggio! (a tal riguardo cfr. CONTE 1991: 174) Insomma, la società dei più antichi slavi appare fortemente incentrata sulla donna e sul suo clan, o quantomeno sembra essere stata di tipo ‘binario’, con un significativo potere femminile accanto a quello maschile. Quanto detto, è bene ripeterlo, ci informa su come la pensavano gli slavi dell’alto Medioevo, non quelli odierni; queste strutture si sono conservate fino a un secolo fa nelle zone più isolate e arretrate del mondo slavo, ma è ovvio che al giorno d’oggi mercato globale, internet e antenne paraboliche guidano i comportamenti degli individui più delle remote pratiche ancestrali poc’anzi descritte. Nondimeno, queste brevi note ci permettono di guardare alla femminilità slava in un modo diverso, più profondo degli stereotipi di matrice etnica (le slave sono modelle alte e bionde) o economica (il benessere crea personalità deboli, mentre la miseria sviluppa le capacità degli individui). 6. Comunità Si sente talvolta affermare che i paesi ex-socialisti avrebbero avuto una sorta di ‘predisposizione’ alla vita comunitaria; il responsabile viene cercato talvolta nella religione ortodossa, talaltra nella cultura tradizionale: insensibili alle esigenze del singolo, queste civiltà avrebbero subordinato la dignità della persona alla salvezza comune. Questa concezione unilaterale è semplicemente sbagliata, anche perché comunità e comunismo non sono necessariamente la stessa cosa. È vero, l’elemento comunitario è presente in modo costante, nella religione ortodossa come nella struttura sociale dei villaggi slavi, ma questo non basta a trarre facili conclusioni. In primo luogo, una forte componente comunitaria è presente in tutte le società pre-industriali; sono i moderni (e ignari) global citizens a stupirsi della sua presenza: se potessimo trasferirci negli anni ’50, in un’aia di Finale Emilia non troveremmo qualcosa di troppo diverso dal teatro di ‘Gatto nero gatto bianco’ di Emir Kusturica (anche se in questo caso si tratta di zingari, non di slavi). Secondariamente, in tempi difficili si tende a fare ‘fronte comune’: abbiamo visto quanto spesso queste popolazioni si siano scontrate con vicini agguerriti e minacciosi (più spesso con classi dirigenti ottuse e rapaci); sopravvivere, il più delle volte, ha significato far ricorso a ogni strategia cooperativa possibile. Eppure, anche in questo caso l’analisi della cultura tradizionale rivela particolari interessanti. La grande famiglia rurale, all’alba del XX secolo, mostrava ancora la stessa struttura Cultura e società 39 tradizionale dalla Macedonia alla Russia; abbiamo già passato in rassegna le sue caratteristiche ‘matriarcali’: il marito entra nella famiglia della moglie, accanto al capo maschile è presente una domaćica (sl.-mer.) o chozjajka (rus.) ‘padrona di casa’ (in Polonia, addirittura, si hanno casi in cui alla morte della madre la grande famiglia si scioglie), ecc. Una minore o maggiore ‘parentalizzazione’ della società è una costante di tutte le culture agricole; quella slava, che fu tale fino al XX secolo inoltrato, non è da meno: raramente troverete un lessico della parentela più minuzioso di quello slavo, con lo zio materno (ujak) contrapposto a quello paterno (stric), i genitori del marito (svektor / svekrov’) contrapposti a quelli della moglie (test’ / tešča), il fratello e la sorella del marito (dever’ / zolovka) contrapposti a quelli della moglie (šurin / svest’), addirittura la moglie del fratello del marito (jatrov’) contrapposta al marito della sorella della moglie (svojak)(cfr. GASPARINI 1973). A ciò si aggiunga la presenza di numerosi ‘padrini’, a tutela delle varie fasi della vita di ognuno; nella società tradizionale serba il loro numero arriva a cinque: c’è un padrino per il battesimo, uno per il primo taglio dei capelli, uno per il matrimonio, uno per la disgrazia, e uno per fare da tramite nelle riconciliazioni (CONTE 1991: 235). Nei Balcani barzellette e indovinelli a sfondo genealogico sono frequenti (“Il fratello di mio fratello non è mio fratello: come è possibile? [Sono io]”; “A un tavolo siedono due padri e due figli: quanti sono? [Tre, uno è il nonno]”), a riprova dell’importanza della famiglia nella società tradizionale (ma questa, ripetiamolo, non è certo una peculiarità slava). Intrattenere fitte e complesse relazioni sociali necessita di un bel po’ di tempo; in Serbia, ancora oggi, le feste di matrimonio possono durare fino a cinque giorni! Mi piacerebbe concludere questo capitolo con l’affermazione che gli slavi sono gente allegra, ma evidentemente frasi come questa non hanno alcun senso. Posso solo dire che tra loro ho avuto la fortuna di incontrare molta gente allegra (almeno fuori dalle caotiche metropoli come Mosca!), semplicemente perché esserlo non costava loro nulla e anzi, si rivelava fondamentale per tirare avanti. Non si può descrivere la psicologia di un popolo, men che meno di una famiglia di popoli, ma penso proprio che tutti noi abbiamo da imparare qualcosa dalle parole dello scrittore abchazo (ex-URSS) Fazil’ Iskander: “Io ritengo che per possedere un buon umorismo bisogna giungere fino al limite del pessimismo, guardare in un abisso oscuro, convincersi che anche lì non c’è niente, e zitti zitti ritornare indietro. La traccia lasciata da questo cammino a ritroso sarà autentico umorismo” (cit. in F. ISKANDER, Il tè e l’amore per il mare. Racconti, Roma: E/O, 1988). Mutatis mutandis, lo stesso consiglio ci viene da un grande della letteratura ceca del Novecento: 40 Gli slavi “L’ironia come abolizione di una soggettività che è giunta fino in fondo è la più alta libertà possibile nel mondo senza dio.” (intervista del 1982, cfr. B. HRABAL, Treni strettamente sorvegliati, Roma: E/O, 1996) L’immigrazione slava in Italia “In meno di 100 mila anni, secondo una delle più accreditate interpretazioni paleoantropologiche, la specie umana è riuscita a popolare l’intero pianeta, con la sola eccezione dell’Antartide: i piccoli gruppi di cacciatori e raccoglitori apparsi circa 150 mila anni fa nelle assolate pianure dell’Africa orientale hanno realizzato un’impresa che non trova riscontri in animali non dipendenti dall’uomo. [...] La spinta alla mobilità territoriale e alla colonizzazione di nuovi spazi va quindi considerata un elemento caratteristico della nostra specie, la cui straordinaria riuscita dipende dalla capacità dell’uomo di adattarsi socialmente e culturalmente ai nuovi ambienti” (BONIFAZI 1998: 15). Abbiamo visto in precedenza come, all’alba della storia, gli slavi siano stati impegnati in vaste migrazioni che li portarono ad occupare le loro attuali sedi. Questo cammino, in particolare verso oriente, è proseguito fino ai giorni nostri (ricordiamo che, agli inizi del XIX sec., la Russia stabilì colonie commerciali in quella che diventerà la west coast degli Stati Uniti d’America, e che l’Alaska rimase russa fino al 1867, anno in cui venne acquistata dagli USA, WOLF 1990: 270sg.). Dobbiamo ora occuparci dei movimenti odierni di queste popolazioni, forse meno avventurosi delle epopee altomedievali, ma certo non privi di influenza sugli assetti delle società contemporanee. Se osserviamo la tabella seguente (riadattata da BONIFAZI 1998: 67) possiamo notare che la situazione attuale è piuttosto diversa da quella di un cinquantennio fa: in particolare, l’area dell’Ex URSS è divenuta inequivocabilmente un paese di emigranti, da paese di immigrazione che era, mentre l’esatto opposto è accaduto all’Europa meridionale. Saldo migratorio nelle principali aree geografiche europee (valori in centomila)10. Europa orientale Europa occidentale Europa meridionale Ex URSS 10 1950-59 -40,0 42,5 -29,1 0,4 1980-89 -22,8 24,7 16,2 -4,3 1990-93 -23,1 38,6 6,7 -13,5 Si noti che l’ultima colonna, a differenza delle precedenti, non si riferisce all’intero decennio. 42 Gli slavi In questa tendenza si inserisce anche l’Italia, che diviene paese d’immigrazione soltanto agli inizi degli anni Settanta (PUGLIESE 1996: 933) e si trova così a dover scontare enormi ritardi, soprattutto dal punto di vista legislativo11, ai quali vanno sommate scelte politiche non sempre all’altezza della situazione: “la politica di chiusura nei confronti dell’immigrazione legale [...] in Italia ha finito per determinare un incremento in termini relativi e assoluti della componente clandestina.” (PUGLIESE 1996: 935sg.) “Come è noto, l’istituzione di politiche di chiusura comporta in generale due risultati: da una parte l’effettiva riduzione del numero complessivo degli ingressi, dall’altra un incremento dell’incidenza dei clandestini sul totale.” (PUGLIESE 1996: 942) È negli anni Novanta che assistiamo a questo «ritorno alla clandestinità», dopo l’ondata di regolarizzazioni rese possibili dal varo della legge 39/90 (la cosiddetta ‘legge Martelli’ del 1990); la riforma prevista dalla legge 40/98 è stata definita “inceppata”: in particolare è rimasto scoperto il fronte dell’integrazione degli immigrati (AS 2001: 507). L’incidenza degli stranieri sulla popolazione totale italiana (2,2% nel 2000) è molto al di sotto della media UE (5 %), ma per numero di immigrati (1.400.000 circa permessi di soggiorno nel 2000) l’Italia è al quarto posto in Europa. Le cifre sono destinate a salire, sulla scia della crescente domanda di forza lavoro (secondo una stima dell’ONU, l’Unione Europea, se volesse mantenere inalterato l’attuale rapporto tra anziani e popolazione attiva, nei prossimi 25 anni dovrebbe aprire le frontiere a 150 milioni di immigrati, un numero all’incirca pari all’attuale popolazione della Russia!). I dati relativi alla presenza straniera in Italia nel 1994 e 1999 ci mostrano una Lombardia stabile al primo posto (316.400 stranieri nel ’99 contro i 206.000 del ’94), seguita dal Lazio; un leggero calo interessa l’Emilia Romagna, che passa dal terzo al quarto posto, scavalcata negli ultimi anni dal Veneto. Il numero degli stranieri presenti in Emilia Romagna nel ’99 è di 120.051 e l’incremento rispetto ai dati del ’94 è comunque molto maggiore di quello verificatosi in Lombardia; Bologna si colloca al settimo posto tra le città di immigrazione, dopo Roma, Milano, Torino, Napoli, Firenze e Palermo (LF 1999: 264sg.; LF 2001: 270). Nel 2000, i paesi dai quali proveniva il maggior numero di stranieri (limitandoci ai dati dell’immigrazione regolare, cioè al numero di permessi di soggiorno) erano i seguenti: Marocco 11 “Fino alla metà degli anni ottanta le politiche riguardanti gli immigrati consistevano sostanzialmente in provvedimenti di polizia riferiti a cittadini stranieri. In effetti il testo di riferimento era il Testo Unico di polizia del 1931 [!]” (PUGLIESE 1996: 969). Con il 1973 “da una immigrazione principalmente da domanda, causata da fattori di attrazione, si passa a una prevalentemente da offerta, provocata da fattori di spinta” (BARBAGLI 1998: 37; cfr. PUGLIESE 1996: 950); nell’Italia settentrionale gli immigrati vengono impiegati prevalentemente nel ramo industriale, L’immigrazione slava in Italia 43 (11,4%), Albania, Romania, Filippine e Cina. Nessun paese slavo figura tra i primi cinque; ciononostante, fermo restando che “non c’è praticamente paese al mondo che non abbia propri cittadini presenti legalmente in Italia” (BONIFAZI 1998: 141), l’immigrazione slava in Italia non è certo un fenomeno limitato: la Jugoslavia, in decima posizione, rappresenta il 2,6% del totale, seguita da Polonia (2,2%), Macedonia (1,5%), Croazia (1,2%), Bosnia-Erzegovina (0,8%), Ucraina (0,6%), Russia (0,5%), Bulgaria (0,5%), Slovenia (0,2%), Rep. Ceca (0,2%) Rep. Slovacca (0,2%), Bielorussia (0,1%) (AS 2001: 574). Presa nel suo insieme, l’Europa orientale, che nel 1970 forniva all’Italia il 7,4% degli immigrati, rappresenta nel 1999 l’area di provenienza di più di un quarto (26,3%) della popolazione immigrata12. Se si escludono gli ingressi per lavoro di ex-Jugoslavi (in particolare Sloveni e Croati) negli anni ’70, in seguito al terremoto del Friuli e al bisogno di manodopera per la ricostruzione, l’immigrazione slava in Italia è infatti tardiva e connessa prevalentemente con la catastrofe balcanica degli anni ’90; non a caso essa viene definita come “caratterizzata dalla più alta incidenza di richiedenti asilo per motivi politici o religiosi” (PUGLIESE 1996: 964); si noti l’alta variazione percentuale rispetto al 1992: 175% per la ex-Jugoslavia (contro il 46,7% del Marocco, ISTAT 2000: 186). In generale si tratta di un’immigrazione equilibrata dal punto di vista del rapporto maschifemmine: 1,3 maschi per 1 femmina, con picchi di 1,9 per gli ex-Jugoslavi (mentre è di 2,5 per gli Albanesi); siamo tuttavia distanti dai 4,1 del Nord Africa e dai 18,7 del Senegal. Il valore appare rovesciato per la Polonia, che, come la Romania, mostra un’immigrazione prevalentemente femminile. Se confrontata con l’immigrazione di provenienza africana o asiatica, quella slava, come quella latinoamericana, non colpisce per durata dei soggiorni: solo il 17% supera i 2 anni di permanenza in Italia; stando a questo parametro, i più stabili risultano essere gli ex-Jugoslavi, con il 28,8% (all’estremo opposto abbiamo l’8,7% dell’Albania, paese non slavo). Gli slavi che entrano nel nostro paese non mostrano specificità evidenti nella collocazione lavorativa (se paragonati a Nord-africani e Senegalesi, per lo più venditori ambulanti, e Cinesi, con contrariamente al Mezzogiorno, dove la forza lavoro straniera trova occupazione nel bracciantato e nell’agricoltura in generale. 12 Il 28,5% degli immigrati proviene dall’Africa e il 19,1% dall’Asia. I dati sono sempre quelli del 1999 (LF 2001: 270); “Complessivamente, dal 1970 al 1994, i cittadini di un paese del terzo mondo in possesso di un regolare permesso di soggiorno sono aumentati di 15 volte [...], parallelamente quelli provenienti dall’Europa orientale sono cresciuti di quasi 13 volte [in termini assoluti]” (BONIFAZI 1998: 139). Gli slavi 44 il loro tipico ethnic business13). Una parziale eccezione è costituita dalle donne, che tendono ad essere impiegate in ambiti di lavoro domestico, quale che sia la loro nazionalità. Analogamente, lavoro domestico e assistenza agli anziani rappresentano gli sbocchi lavorativi privilegiati per gli immigrati polacchi, ora che l’ingresso in Italia di questi ultimi ha acquisito caratteri strutturali e non costituisce più una semplice tappa intermedia sulla strada per le Americhe, come era prima degli anni ’90. Se è difficile definire con precisione la collocazione degli slavi all’interno del mondo del lavoro italiano, più semplice (forse semplicistico?14) è la ricerca delle coordinate sulle quali essi si muovono in ambiti extra-legali: In Italia, gli ex-jugoslavi sono gli immigrati più condannati, in percentuale, per furto, laddove tunisini e marocchini, per esempio, detengono il primato delle condanne per produzione e commercio di stupefacenti (BARBAGLI 1998: 53sg.), fermo restando che “l’idea che l’immigrazione sia la causa principale dello straordinario aumento della criminalità verificatosi nel nostro paese è priva di fondamento. Questo eccezionale aumento in effetti vi è stato, ma ha avuto luogo nella prima metà degli anni ’70, quando i processi migratori stavano appena iniziando” (BARBAGLI 1998: 74). Bisogna inoltre tener conto della disomogeneità tra arresti e denunce: gli Jugoslavi, che per esempio figurano al quinto posto nel 2000 tra gli arrestati per favoreggiamento dell’immigrazione illegale (39 casi), sono al quinto posto anche tra i denunciati a piede libero (39 denunce), mentre gli Italiani figurano al secondo posto per numero di arresti (172), ma al primo per numero di denunce (249). Osserviamo ora i dati relativi alle adozioni internazionali (limitandoci ai bambini di origine est-europea) effettuate in Italia negli ultimi anni (LF 1999: 263): Russia Romania Bulgaria 13 1993 182 127 45 1997 561 242 223 Si parla di ethnic business quando l’intera struttura lavorativa, dai dipendenti agli imprenditori, è composta da un solo gruppo etnico. 14 Con ex-Jugoslavi si intendono le popolazioni che risiedevano nell’ex-Jugoslavia, e che comprendono quindi varie minoranze non slave: zingari, greci, albanesi, romeni, ungheresi, ecc. Va da sè, inoltre, che questi dati non devono condurre a odiose generalizzazioni di stampo razzista, ma servono semmai a capire come la malavita (sia essa italiana o straniera) abbia il gioco facile nel reclutare i propri sgherri tra le fasce più deboli (e meno note all’autorità, come nel caso degli immigrati irregolari) della popolazione. L’immigrazione slava in Italia 45 Dati molto diversi compaiono in un’altra pubblicazione (AS 2001: 180), che fornisce il numero di decreti di adozione definitiva: Ex-URSS Romania Bulgaria Polonia 1996 197 527 100 46 1997 314 414 130 72 1998 655 260 224 61 1999 834 243 294 62 La tendenza è comunque la stessa: negli ultimi anni il numero di adozioni è quadruplicato (dall’ex Unione Sovietica) e triplicato (dalla Bulgaria); più stabile il numero di adozioni di bambini polacchi, in vistoso calo quello di rumeni (non slavi). Va precisato che, ultimamente, il numero complessivo di adozioni internazionali è in calo, non in aumento: in Italia, si passa dai 2.649 decreti del 1996 ai 2.177 del 1999 (il 1996 rappresenta tuttavia un climax: nel 1993 i decreti furono appena 1.696); ciò non toglie che siano in costante crescita le domande di adozione internazionale e gli affidamenti preadottivi (con l’eccezione, relativamente a questi ultimi, proprio del 1996). Come si può intuire, il fenomeno ha conosciuto un comprensibile aumento in seguito al rovinoso tracollo delle economie socialiste (tracollo che, sarà bene ricordarlo, vede corresponsabili le potenze occidentali e lo sciagurato supporto da queste fornito alle grandi lobbies criminali impossessatesi del potere negli anni ’90). Conclusione? Non pretendo che queste brevi restituiscano un’immagine esaustiva della ‘slavia’. Ho consapevolmente tralasciato aspetti secondari e certamente ne ho dimenticati di fondamentali. Spero comunque che quanto esposto serva da stimolo a cercare “sotto l’aspetto ingannevole”, per usare le parole di Ivo Andrić, dal momento che la realtà è spesso molto, molto diversa da come ci appare nella nostra esperienza quotidiana. ИВО АНДРИЋ IVO ANDRIĆ Откривање Rivelazione Знаjте да нисам онаj Sappiate che non sono come што се у самртном лику quel sembiante mortale пред вашим очима крио. che sfugge al vostro sguardo Под тим варљивим видом увек сам само био песма велике среће коjа хуjи и плави, као поплава зрачна, мора и континенте. Под тим варљивим видом увек сам, увек био песма великог сна, сна што као снег веjе и засипа и гаси мора и континенте. Знаjте да сам ja песма извора непресушног. Песма велике беде, глади, безразложног jада, коja одувек пуни мора и континенте. Београд, 1939 Sotto l’aspetto ingannevole ero pur sempre il canto felice che sibila e fa diventare celeste in una copiosa alluvione terra e mare. Sotto l’aspetto ingannevole ero pur sempre e lo sono ancora il canto del grande sogno quel sogno che come bufera di neve ricopre e spegne terra e mare. Sappiate che sono il canto del ruscello che non si arresta. Il canto della miseria, della fame, del forsennato dolore che da sempre colma terra e mare. Belgrado, 1939 da: ANDRIĆ, IVO, Poesie scelte, Firenze: Le Lettere, 2000, pp. 128-129 (trad. di Stevka Šmitran) Bibliografia ALBERIGO, GIUSEPPE (ed.), Decisioni dei concili ecumenici, Torino: UTET, 1978 (traduzione a cura di Rodomonte Galligani), pp. 1240. ALBERIGO, GIUSEPPE, Voce «Ortodossia», in Enciclopedia Europea, Milano: Garzanti, 1979. ALZATI, CESARE, «La chiesa ortodossa», in FILORAMO 2000: 457-521. ARSUAGA, JUAN LUIS, I primi pensatori e il mondo perduto di Neandertal, Milano: Feltrinelli, 20012 (20011), pp. 283 (trad. di Luisa Cortese di El collar del Neandertal. En busca de los primeros pensadores, Madrid: Ediciones Temas de Hoy, 1999). 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