PERRETTA_magistero e critica
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PERRETTA_magistero e critica
Congetture sull’intensità del reale … Uno o due maestri occulti dell’arte italiana (moderna), alle prese con i limiti del realismo! Boito e il realismo viscontiano e post.viscontiano Un confronto di “Sensi ” o di “assenzi … “ di Gabriele Perretta “abstract saggio Boito” La Storia, a cui i più si sentono estranei, va recuperata nel presente, un presente ricco, in cui vivere e partecipare agli avvenimenti, con sensibilità affinata e desta. Questa Storia ovviamente non è quella che con la sua necessità ci lega indissolubilmente al finito, costringendoci ad uno sterile ripercorrere il nostro passato attraverso l'ermeneutica, ma è quella che trasforma la debolezza e la marginalità del critico e dello studioso che rifiuta il mondo, in un punto di forza, in un luogo privilegiato. Il “frequentatore disincantato della realtà” è l'uomo che vivendo al presente costruisce una nuova dimensione del tempo. Il suo "in farsi nelle cose", il rendersi permeabile agli avvenimenti, diventa un maturare, un crescere insieme ad essi. Si apre così una nuova dimensione, in cui non si accetta né la necessità del passato né un concetto di “libertà astratta e idealista”. L'intensità del sentire, il riappropriarsi della propria corporeità, l'immergersi fra le cose, sono le caratteristiche di una nuova e realistica ontologia e storicità. Camillo Boito, Anton Bruckner e Luchino Visconti: tre nomi legati da un irripetibile denominatore comune, quello di rappresentare, mostrare, manifestare le ultime propaggini di un Romanticismo ormai moribondo, al crepuscolo del XIX secolo, prima ancora che l’esile luce dell’alba illumini l’arrivo di quello successivo. Proprio partendo dall’insigne architetto e narratore a tempo perso, dal grande compositore austriaco e dall’indimenticabile regista,l’analisi mediale, che si sta costruendo qui di seguito, ha dedicato un corpus di riflessioni che unisce proprio l’Estetica della Quarta sinfonia in mi bemolle maggiore di Bruckner, con il racconto “Senso” di Boito, trasposto poi al cinema proprio da Visconti. L'architetto e narratore Camillo Boito, fratello del compositore Arrigo, quest’ultimo uno dei maggiori rappresentanti della Scapigliatura lombarda, dapprima nemico e poi fraterno amico di Giuseppe Verdi, nel 1883 dall’editore Treves nella raccolta di racconti pubblicò “Senso.Nuove storielle vane”, con un buon successo di pubblico e di critica anche se, nel giro di pochi anni, il suo nome scomparve progressivamente dal panorama letterario italiano, per poi essere riportato in auge, a metà Novecento, grazie a Giorgio Bassani1, che richiamò l’attenzione proprio su “Senso”, un racconto definito «… storia senza veli di una passione vergognosa e al tempo stesso approfondimento minuziosamente psicologico di un carattere». E fu lo stesso scrittore ferrarese a proporre poi questo racconto come possibile soggetto cinematografico, una proposta che arrivò alle orecchie della sceneggiatrice Suso Cecchi D’Amico, che la sottopose all’attenzione di Luchino Visconti. Quest’ultimo rimase folgorato dalle pagine del racconto e, grazie alla decisione di Riccardo Gualino (direttore della casa cinematografica Lux) il progetto andò in porto e il film, che porta lo stesso titolo della novella di Boito2, fu girato nel 1953, per essere poi presentato alla Mostra cinematografica di Venezia dell’anno successivo, con Alida Valli e Farley Granger nel ruolo dei due protagonisti. Da fine intenditore di musica, Visconti nel film utilizzò anche alcune parti della Settima sinfonia di Bruckner, rimaneggiate da Nino Rota, in un periodo nel quale le sconfinate sinfonie del compositore austriaco erano 1 Boito, Camillo/Bassani, Giorgio: Il maestro di Setticlavio / Boito ; a cura di Giorgio Bassani [Roma] : Colombo Editore, 1945. 2 anche se la sceneggiatura non ne ricalca fedelmente la trama. quasi del tutto sconosciute nel nostro Paese3. La Quarta Sinfonia di Bruckner costituisce indubbiamente uno snodo fondamentale sia nella produzione musicale che nella stessa vita del compositore austriaco, incalzato a metà degli anni Settanta da incertezze e difficoltà. Tuttavia, proprio l'opera creata in questo clima di angosciosa instabilità si rivelerà, dopo molteplici traversie, il suo primo successo, contribuendo ad avviarlo verso un consolidamento della propria situazione professionale ed economica. Il 22 novembre 1874 è la data riportata sulla partitura a conclusione della Sinfonia, il cui inizio risaliva al 2 gennaio del medesimo anno. Una prima esecuzione berlinese, programmata per la primavera del 1877, venne annullata; ciò diede modo al compositore di operare una prima significativa revisione. Questa costante richiesta di attenuazioni, tagli e ritocchi da parte di vari direttori, fra cui spiccava Johann Herbeck, veniva vissuta con un misto di dubbiosa amarezza e di operosa rassegnazione da Bruckner, che raramente seppe opporsi alle pressioni esterne. In una lettera del 1877 Bruckner giungeva infatti a qualificare, con la consueta febbre autocritica, alcuni passaggi violinistici dell’Adagio della Quarta come pressoché ineseguibili, e la strumentazione “troppo carica e inquieta”.Gli anni in cui nasce la Quarta Sinfonia oltre a coincidere con l'epoca in cui si sviluppa l'accesa querelle tra i paladini di Bruckner (e indirettamente di Wagner) e quelli di Brahms4, coincideranno inoltre con il declino delle Guerre di Indipendenza, l’ascesa del liberalismo e i passaggi dal decadentismo ai primi vagiti del realismo (in Italia verismo). Intanto, continua a far discutere il significato della dicitura Romantische scelta come sottotitolo: un riferimento al contenuto stesso della composizione, che si riallaccia al concetto di musica a programma. Bruckner aveva, in effetti, stilato una serie di didascalie, non scrivendole però in partitura (e pertanto non vincolanti esteticamente); didascalie, che, insieme ad alcuni richiami naturalistici5, tracciano una trama di associazioni descrittive di ispirazione storico-letteraria, con richiami che spaziano da Tieck e Hoffmann fino ai cavalieri erranti e ai quadri di von Schwind, da Novalis al Medioevo delle grandi cattedrali gotiche, al Lohengrìn di Wagner. Tuttavia, tutto questo fiabesco mondo medievale suggerito dalle didascalie non equivale ai programmi elaborati per i poemi sinfonici, ad esempio quelli di Liszt, che intendevano saldarsi alla materia letteraria. La sostanza romantica della Quarta non viene filtrata dalla mitologia vetero-germanica, in quanto la commistione fra poesia e musica risulta estranea all'orizzonte estetico e culturale di Bruckner; al contrario si può sostenere che anche Bruckner superasse la dicotomia fra "musica assoluta" e "musica a programma", realizzando lavori sinfonici di concezione autonoma, senza venir meno al verbo romantico. Ma che rapporto esiste oggi fra realtà e pensiero del senso? E in questo rapporto, qual è il ruolo della letteratura e del cinema, anzi della letteratura, del cinema, della musica e soprattutto della traduzione attuale? Sono questi gli interrogativi da cui prende avvio la riflessione di “Senso”, che subito vuol essere relazione coinvolgente con i lettori. Dietro un’apparente sintonia, assistiamo sempre più a una marcata dicotomia tra realtà e pensiero del senso, di quello interno ed esterno. Il reale non è più pensiero che si fa, che si concretizza, ma esso stesso si fa pensiero. Nella cultura premoderna, al pensiero si attribuiva una potenza utopica e alla filosofia della letteratura la capacità di aprire al futuro. Nel modo moderno, invece, la realtà diventa virtuale dopo che è stata filmica: non è reale un pensiero che si fa concreto, ma spesso è già reale un pensiero non ancora elaborato. E ciò impedisce al “senso”, al fare “filosofia di senso” di riconoscere come propria la realtà. Quasi incapace di afferrare il reale,la pratica dell’esistenza e del confronto storico sul senso sfugge e proprio per questo, deve dare a pensare. La riflessione sul senso boitiano, viscontiano e post-neorealistico è un esercizio, un tentativo di condurre il pensiero là dove forse non si è soffermato, in concetti (“sensi”) incarnati, vivi e concreti nel quotidiano della vita descritta da 3 proprio in quegli anni, a Genova, viene infatti a formarsi la prima associazione in Italia con il compito di divulgare la musica bruckneriana 4 vicenda nella quale il compositore austriaco si trovò in una posizione di sofferente soggetto passivo (la sua colpa consistendo esclusivamente nell'adesione pubblica alla poetica wagneriana. 5 ad es. la cinciallegra per il secondo tema del primo movimento. Boito, nel quotidiano “fasullo” del boom economico italiano degli anni Cinquanta, visti con gli occhi del “compagno Gramsci” e del nostro stesso presente:la rivelazione della perdita della passione e della “mancata rivoluzione”,l’apparenza-spettacolo del post-impressionismo, la comunicazione e il consumo che dopo il film diviene documentario televisivo e fictionale. La realtà è epifania, è una rivelazione che, da sempre, la letteratura accoglie, approfondisce, scoprendone la verità e l’alterità oltre il velo dell’apparenza. Oggi invece la rivelazione si esaurisce in ciò che è rivelato: realtà e apparenza sono piani non più distinti, ma coincidenti e tutto fa, ed è spettacolo. I reality show confondono la vita quotidiana con la rappresentazione, il modello con la copia, la rivelazione con l’apparenza: l’uomo qualunque è attore del suo stesso quotidiano, ma è anche spettatore. Imbambolati, rapiti dal mondo delle immagini, stabiliamo un rapporto che non è di coinvolgimento e di relazione, ma di distaccata autoreferenzialità con un apparente che approfondendo la piattaforma del Senso - promossa dalla novella di Boito o di Guy De Maupassant - non cela più uno spessore da approfondire. Il bacio (1859) di Francesco Hayez esprime molto bene il sentimentalismo romantico su cui ha lavorato la scrittura boitiana. Il pittore ha creato un'immagine efficace, di grande suggestione, in più densa di richiami letterari6. Nel film Senso (1954), Luchino Visconti segue perfettamente il dipinto di Hayez nel bacio tra la contessa veneziana Livia Serpieri/Alida Valli e il tenente austriaco Franz Mahler/Farley Granger. Ma rispetto al modello pittorico, c'è nei gesti dei due amanti un senso di disperazione e di tragedia, per l'impossibilità del loro amore. L’autore non riconosce più nelle immagini l’espressione della creatività umana, da Boito in poi le immagini si presentano come dei simulacri difficili da sconfiggere: esse ci attraggono perché ci assorbono completamente. Le immagini si esauriscono nel loro apparire, senza rimandare ad altro da sé: la luce che un tempo illuminava, orientava, creando profondità, ora è solo un luccichio intermittente che mostra e nasconde figurazioni, dietro le quali e delle quali non interessa più l’originale, c’è solo l’apparecchio e le potenzialità della macchina, che sviluppato attraverso il senso, le sue capacità dromologiche o dromo-timiche della rivoluzione industriale di fine Ottocento. Le forme riflettono perciò sé stesse, noi stessi diventiamo immagini, ma non certo, immagini significanti. Oggi inoltre il mondo occidentale è scandito dal consumo: del tempo, della vita, di noi stessi. Il consumo è in stretto rapporto con il desiderio, in quanto ciò che si desidera si può comunque riavere e quindi non è necessario conservarlo. Nell’era premoderna e della nascita del liberalismo fine Ottocento il valore delle cose appariva ancora legato al suo durare, nell’era moderna o neo-moderna attuale invece l’uomo diventa produttore e quindi creatore: è artefice di tutto ciò di cui ha bisogno e addirittura del bisogno in sé. Perciò usare, distruggere, consumare non rimandano più a un significato negativo, ma alimentano la catena produttiva, amplificando l’orgoglio e il senso di onnipotenza dell’uomo moderno. Il senso di Luchino Visconti, mutuato da Boito, è stato un simbolo. Intorno al suo lavoro è cresciuto un alone di leggenda. Visconti, grazie anche a Boito, ha rinnovato in profondità il cinema italiano non meno di quanto abbia fatto in teatro. Ha occupato da protagonista la scena dello spettacolo. E’ stato per trent’anni un punto di riferimento, una presenza viva e stimolante. Sempre al centro del dibattito, talvolta aspro e polemico, nel suo nome si sono combattute alcune tra le più appassionanti battaglie critiche della storia del cinema italiano. Solitario e inimitabile, amato e discusso, si è cercato invano di fissarlo ad una «forma». Aristocratico e comunista, realista e decadente: in lui le formule si compongono e si negano a vicenda. Con Ossessione, film mitico e maledetto,Visconti apre la porta al neorealismo. Ad esso seguono altri capolavori indimenticabili e sempre presenti nella memoria collettiva: La terra trema, Senso, Rocco e i suoi fratelli, Il gattopardo, Morte a Venezia, Ludwig. Mito di perenne attualità, i film di Visconti continuano ad essere proiettati in tutto il mondo suscitando rinnovati consensi. La conoscenza della sua opera e la rilettura dei suoi film, così densi e fecondi, non finiscono mai di rivelarsi allo sguardo in aspetti inediti. 6 i due giovani amanti, vestiti in abiti medievali, richiamano i grandi amori celebrati dai poeti, da Paolo e Francesca a Giulietta e Romeo. Mario Tursi ha seguito Luchino Visconti nell’arco pluridecennale della sua carriera con quella sincerità che è propria solamente dei fotografi di scena. Racconta Mario Tursi: «Eravamo sul set de La caduta degli dei . Si doveva girare la scena dell’incesto tra la Thulin e Berger, una scena scabrosa da molti punti di vista. Dal momento che gli attori erano entrambi nudi sul letto, la Thulin aveva chiesto espressamente che non venissero fatte foto di scena. Visconti mi disse: “Non vuole, quindi non farle”. Io provai ad obiettare qualcosa ma lui secco rispose: “Non si fa e basta”. Si girava nel teatro 5 di Cinecittà, all’interno del quale era stata montata la camera da letto. Tutto intorno era buio. Io, in silenzio, mi muovevo per il teatro alla ricerca di un buon punto di visuale e mi dicevo: “Bisogna farle queste fotografie, la scena è troppo importante”. Mi piazzai in un angolo buio, caricai un 300, misi la macchina sul cavalletto e, non visto, scattai. Qualche giorno dopo, presentai come d’abitudine a Visconti, le foto scattate in quei giorni, escluse, naturalmente, quelle vietate. Visconti mi fa: “E quelle dell’incesto non le hai fatte?”. “Non è stato possibile!” rispondo. Visconti resta incredulo. Vista la sua delusione confessai che mi ero permesso ugualmente di farle. “Dai, tirale fuori” mi disse sorridendo.». Oggi il Gattopardo festeggia i suoi 50 anni (1963-2013), con un restyling curato dalla Cineteca di Bologna in collaborazione con The Film Foundation di Martin Scorsese allo Stensen di Firenze. Un prezioso lavoro di restauro che la Cineteca di Bologna ha curato nei minimi dettagli, dai colori alle colonne sonore, permettendoci di gustare nuovamente il capolavoro neorealista di Luchino Visconti portavoce di temi e situazioni di straordinaria attualità. Ecco come ce lo descrive, fin nei minimi particolari, Schwan Beltson della Twentieth Century Fox «Nel corso degli anni la tecnologia cinematografica è radicalmente cambiata, e una delle principali sfide del restauro è tentare di ricreare l’impossibile esperienza della visione del film così come fu originariamente presentato. Oggi potenti strumenti digitali ci consentono una libertà quasi illimitata nella manipolazione delle immagini e nella correzione del colore. È così possibile cancellare quasi completamente le devastazioni del tempo e rendere i risultati artistici e tecnici originali de Il Gattopardo più fedelmente di quanto fosse possibile in passato con l’impiego delle tecniche fotochimiche tradizionali. Il Gattopardo fu fotografato con un processo chiamato Technirama, nel quale le immagini vengono impressionate su pellicola 35mm in senso orizzontale anziché verticale. L’immagine anamorfica risultante, che ha il doppio delle dimensioni di un fotogramma 35mm, è eccezionalmente nitida e ricca di dettagli. Il negativo originale del 1963 è ormai sbiadito e mostra molti dei problemi comuni ai film della sua epoca. Un aspetto interessante, tuttavia, è che a causa del processo fotografico i graffi e lo sporco scorrono lungo il fotogramma in orizzontale anziché in verticale. Per questo nuovo restauro i negativi originali in Technirama sono stati scansionati a 8K (8000 linee di risoluzione orizzontale) producendo ventuno terabyte di dati. È stato scansionato anche un interpositivo 35mm per recuperare sezioni necessarie a sostituire materiale assente nei negativi originali. Dopo la scansione tutti i file sono stati convertiti a 4K, e il restauro interamente digitale è stato eseguito a questa risoluzione. In 12.000 ore di restauro manuale sono stati eliminati quarantasette anni di sporco, graffi e altre anomalie fisiche. Anche la colonna sonora monoaurale originale è stata sottoposta a un accurato restauro, usando un magnetico 35mm acquisito ed elaborato digitalmente per eliminare schiocchi, scatti e rumori mantenendo al contempo le caratteristiche dell’originale.». Secondo Bergson il cervello è un organo che ha il ruolo di mimare la vita dello spirito e di mimare anche le situazioni esterne a cui lo spirito deve adattarsi. "L’attività cerebrale sta all’attività mentale come i movimenti della bacchetta del direttore d’orchestra stanno alla sinfonia … il cervello è l’organo dell’attenzione alla vita”. Dunque “Per lo spirito vivere significa essenzialmente concentrarsi sull’atto da compiere … inserirsi nelle cose tramite un meccanismo che trarrà dalla coscienza tutto quello che è utilizzabile per l’azione, oscurando la maggior parte del resto. Questo è il ruolo del cervello nell’operazione della memoria: esso non serve a conservare il passato, ma innanzitutto a mascherarlo, poi a lasciarne trasparire ciò che è utile praticamente. E tale è anche il ruolo del cervello in generale rispetto allo spirito. Ricavando dallo spirito ciò che è esteriorizzabile in movimento … esso lo porta, il più delle volte, a limitare la sua visione, ma anche a rendere la sua azione efficace”. Pascal ha detto che tutta la filosofia non vale un’ora di fatica, ma è anche vero che non c’è nulla di più pratico di una buona teoria. Dopotutto noi umani possiamo considerarci “degli automi coscienti” (Thomas Henry Husley), che perciò agiscono spesso incoscientemente. E i limiti del nostro linguaggio, del nostro pensiero, delle nostre emozioni e della nostra intelligenza sono i quattro punti cardinali che stabiliscono gli orizzonti del nostro mondo personale e relazionale. E nella vita di tutti i giorni, tutte le persone fanno filosofia spicciola e interpretano la realtà che passa attraverso i loro occhi e le loro orecchie: c’è chi lo fa seguendo dei pregiudizi (molti) e c’è chi lo fa seguendo il buon senso (pochi). Anche “Tu, fai, senza neanche immaginarlo, uno sforzo considerevole. Devi prendere tutta la tua memoria, tutta la tua esperienza accumulata [c’è però chi ne accumula troppo poca], e spingerla, attraverso un restringimento improvviso, a presentare … il ricordo che più assomiglia alla sensazione e che può meglio interpretarla: la sensazione allora è coperta dal ricordo … a ogni istante devi scegliere, e a ogni istante escludere … Questa scelta, che effettui incessantemente, questo adattamento continuamente rinnovato, è la condizione essenziale di quello che viene chiamato buon senso. Ma adattamento e scelta ti tengono in uno stato di tensione ininterrotta … a lungo andare ti stanchi. Avere buon senso è molto faticoso”. Ogni realtà personale è un processo di ricostruzione mentale per metà reale (dati percettivi periferici) e per metà virtuale7, ed è per questo motivo che anche in un mondo straripante di informazioni come quello di oggi si può diffondere così facilmente il cretinismo politico e quello religioso. Le società in cui operano queste forme di cretinismo trasformano la vita in una prigione da cui non possiamo uscire, dove siamo sottoposti alla tortura psicologica dell’obbligo di vedere che i nostri compagni di cella vengono pian piano portati via per essere giustiziati (Pascal). E “Si potrebbe parlare all’infinito, impilare parole su parole e arrivare a varie conclusioni, ma se, al di là di tutta la confusione verbale, c’è un’azione precisa, questa azione vale diecimila parole. La maggior parte di noi ha paura di agire, perché siamo confusi, in disordine, contradditori e infelici” (Krishnamurti). Così “L’uomo, chiamato senza posa a fondarsi sulla totalità del suo passato per poter avere un peso maggiore nel futuro, è il grande successo della vita. Ma creatore per eccellenza è colui la cui azione, intensa di per se stessa, è capace di intensificare anche l’azione degli altri uomini, e di accendere, generosamente, focolai di generosità”. L’uomo non può vivere senza saggezza, perché essa non è solo il dono di chi riesce a pensarla, è la presenza che tutti hanno nella mente. E allora, leggendo Boito-Visconti viene da chiedersi, qual è il valore di ciò che è sempre disponibile, che si può sempre avere e buttare via? Si produce per consumare e si consuma per produrre. La creazione dal nulla e l’annullamento non sono più categorie di ordine etico e religioso, ma solo economico. Ed è proprio questo circuito vizioso del produrre, consumare, distruggere e di nuovo produrre ad alimentare l’indifferenza sia come ciò che non ha differenze rispetto ad altro (indifferente rispetto a qualcosa), sia come ciò che non ha o suscita interesse (indifferente verso qualcosa). In entrambi i casi, essa implica l’annullamento di un rapporto reciproco di confronto, di relazione. Ancora una volta è l’autoreferenzialità a produrre indifferenza: laddove non c’è confronto, rapporto, non c’è neppure distinzione, non c’è più il senso delle cose. Paradossalmente i fondamentalismi sono la massima espressione dell’indifferenza: l’adesione alla lettera ai testi sacri, il rifiuto del dialogo, la convinzione che il proprio credo sia l’unica verità sono tutti sintomi di un profondo disinteresse a ciò che è diverso da sé, fuga da un rapporto di relazione con l’altro. Infatti anche l’identità rimanda a un’esperienza di relazione che si definisce nel momento in cui ci si rapporta ad altro. L’altro in sostanza è funzionale all’affermazione del concetto di identità: può essere muro, ossia qualcosa da negare come il fondamentalismo che esclude tutto ciò che è diverso da sé, oppure specchio, ossia occasione di autoaffermazione e riconferma di sé. 7 l’elaborazione centrale basata sulla memoria e sui simboli culturali. La nostra epoca esaspera l’identità sia rivendicandola in modi rigidi ed intolleranti, sia negandola, trasformandola in un’identità “liquida” che non ha più forma: se non c’è rapporto di relazione non solo l’identità viene perduta ma anche l’indifferenza si diffonde. Ma è chiaro che il vero rapporto da salvaguardare non è il rapporto con il sé, autoreferenziale, pura riflessione e quindi esibizione, ma quello che espone il sé nella misura in cui si coinvolge con l’altro: dunque, in questo rapporto, l’identità del sé non viene assorbita, il legame non annulla le differenze, ma accelera lo sviluppo e perciò elimina l’indifferenza. Quindi è solo quando realizziamo un coinvolgimento con l’altro che tutto assume un senso. Se nella filosofia classica le categorie del reale, del possibile, del potenziale e dell’attuato si mantenevano differenziate e poste su livelli diversi, nell’era moderna tutto appare semplificato in un’unica dimensione, in cui il possibile8 si confonde con ciò che è reale, in cui la potenza è capace di attuarsi prescindendo da ogni atto. E dunque oggi che significati assume il “senso”? L’idea di Dio non è più solo propria della teologia filosofica che ne fa concetto, ma appartiene anche alla filosofia religiosa che ne cerca testimonianza nella realtà: l’uomo, il mondo possono dare un senso all’idea di Dio che stabilisce un rapporto con l’uomo attraverso la creazione e crea coinvolgimento nel rapporto tramite la rivelazione. La forma triadica in cui si esplicita il senso9 riporta alla trinità divina e comunque a una dimensione virtuale in cui possibile, potenziale e reale si confondono. In questa riflessione su Boito/Visconti si analizzano (in maniera latente) anche le teorie che il medialismo ha presentato nel volume del ’93 sotto l’etichetta di immagine mediale, medialismo analitico e imprese mediali, scegliendo, per comodità e per distinguere la definizione data dalla stessa cultura mediale e da altri precedenti utilizzi di questa terminologia,fino a poter usare l’espressione neo-medialismo realistico. Il neomedialismo realistico non solo afferma l’esistenza di una realtà indipendente dalla nostra capacità di conoscerla ma tenta di far cortocircuitare questo assioma con la tesi kantiana, adottata dal medialismo, fin dalla raccolta dell’84, per cui i pensieri e le opere, senza contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono ciechi, elaborando una confutazione dei più ardui “zoccoli epistemici” della filosofia post-moderna e, più in generale, di ogni forma di relativismo ontologico ed epistemologico. Queste ultime (ma anche quelle di autori non ancora post-moderni come Nietzsche) sono responsabili, a parere del medialismo, di aver smarrito il senso più illuministico della critica e dell’opera e la vocazione realistica della parresia10 artistica e cinematografica, che si sviluppa nel Visconti maturo di “Senso”, tradotto attraverso la scrittura boitiana. Se si dovesse scegliere un film da vedere – o rivedere – per concludere “in maniera fortemente critica” (in parresia) le riflessioni sull’Unità d’Italia, proporrei “Senso” di Luchino Visconti. È uno degli sguardi più acuti e intelligenti che il cinema italiano abbia offerto sulla realizzazione della nostra Unità nazionale, ancora oggi attualissimo nell’analizzare luci e ombre del Risorgimento, secondo una duplice chiave di lettura del realismo critico provocatorio e inesauribile. La prima lettura Boito/Gramsci/Visconti è legata alla scelta dell’evento storico-politico da mettere in primo piano: non la “solita” Spedizione dei Mille di Garibaldi, o altre pagine “gloriose” di storia patria, bensì la meno conosciuta – chissà se la scuola di oggi le dedica ancora spazio – terza guerra d’indipendenza, del 1866. Una guerra che si conclude con due clamorose sconfitte da parte dell’esercito italiano, a Custoza e a Lissa11. Eppure alla fine il Veneto, fino a quel momento ancora nelle mani agli austriaci, viene analogamente legato all’Italia: grazie alla Prussia, che sconfigge l’Austria a Sadowa 8 cioè ciò che non è reale ma che potrebbe divenirlo. sensante, sensato, sensare. 10 C'è una virtù che ha fatto la sua comparsa nel V secolo avanti Cristo e di cui si sono perse le tracce nel V secolo dopo Cristo. Il suo nome è parresia. Il suo significato è: "Dire la verità". Ce ne dà notizia Michel Foucault in una serie di conferenze tenute all'Università californiana di Berkeley nel 1983, un anno prima di morire. Oggi queste conferenze sono raccolte in un libro: Discorso e verità nella Grecia antica (Donzelli), un "libro sulla libertà di parola. Un grande frammento, in sé compiuto, di un vasto e ambizioso progetto a cui Foucault ha dedicato i suoi ultimi anni di vita affrontando, contestualmente, il problema del sorgere dell'attitudine critica nelle filosofie dell’Occidente e quello di un'etica della verità”. 11 Lissa 1866, la grande battaglia per l'Adriatico, Trieste, edizioni LINT, 2004 9 e a precedenti accordi diplomatici con la Francia. Ricorda Visconti: «Quello che mi interessava era raccontare la storia di una guerra sbagliata, fatta da una sola classe e che fu un disastro». ‘Senso’ racconta, prima di tutto, la storia di un tradimento amoroso: la contessa Serpieri12, moglie di un fedele suddito di Vienna, lo tradisce per amore del tenente austriaco Franz Mahler13, che a sua volta la tradirà. Così facendo la contessa tradisce anche gli ideali patriottici di suo cugino Roberto Ussoni14. L’adulterio è dunque lo specchio di un più ampio tradimento storico-politico: l’élite aristocratico-borghese vuole escludere le altre classi sociali dalla partecipazione alla lotta risorgimentale, per timore di rivendicazioni che minerebbero i suoi privilegi. È uno dei più convincenti chiarimenti letterario-visive della teoria gramsciana sul Risorgimento come “rivoluzione mancata”15. Attraverso le parole di Walter Benjamin, qui vorrei ricordare che “la tendenza di una poesia può essere politicamente giusta solo se è giusta anche letterariamente. E cioè che la tendenza politicamente giusta include anche una tendenza letteraria. E aggiungerò subito che questa tendenza letteraria che è contenuta implicitamente o esplicitamente in ogni tendenza politica giusta – essa e null’altro costituisce la qualità dell’opera. La giusta tendenza politica di un’opera include dunque la sua qualità letteraria in quanto include la sua tendenza letteraria”16. Infatti, riflettendo, indirettamente, sulle parole di Walter Beniamin, scrive Italo Calvino, a proposito di Boito/Visconti: “Camillo Boito è un piccolo Maupassant nostrano, col fiato un po’ grosso in confronto del maestro, ma con una vitalità naturalistica che va tenuta per buona. La sua contessa Livia è una donna che fonda tutta la sua vita sulla sensualità, una sensualità quanto mai di superficie, istintiva, borghese e veneta, che la porta alla passione e alla vendetta come per il naturale allargarsi d’un’onda. A Visconti invece quel che preme è il dramma della decadenza in tempo di rivoluzione, il cupio dissolvi d’una società, vista con la partecipazione e insieme l’odio di chi fin troppo la conosce. Sviluppando il 12 un’Alida Valli di sfolgorante bellezza che introduce l’attenzione di Visconti per la storia dell’arte italiana, ripresa filologicamente dalla critica d’arte di Boito. 13 Farley Granger, ma Visconti al suo posto avrebbe voluto Marlon Brando; qui Visconti testimonia di un’altra attenzione per le star che si pongono nella dimensione critica della cura del teatro mimico e fotografico. 14 Massimo Girotti, preferito da Visconti da sempre anche per le sue frequentazioni politiche: fece parte di un gruppo di intellettuali (Pietro Ingrao, Mario Alicata, Maurizio Ferrara, Antonello Trombadori, Giuseppe De Santis, Gianni Puccini ed altri) che in pieno neorealismo si occupò del futuro e della riorganizzazione del cinema italiano. 15 Quella risorgimentale è stata, una "rivoluzione mancata", e la causa e la natura di tale "mancanza" sono state sostanzialmente di segno collettivo. In effetti il limite storico del Partito d'Azione va specificato nel fatto che sia rimasto sempre un partito borghese di élite, non ordinato e/o non capace di ricercare l'appoggio dei ceti non borghesi. Ma quali erano queste classi? È qui che Gramsci esibisce la sua relativa eresia rispetto alle argomentazioni conformi alla tradizione marxiana. Nell’Italia dell’Ottocento non c’era una classe lavoratrice industriale, né una classe operaia preparata, ossia il solo soggetto sociale in grado, secondo i princìpi marxisti, di incoraggiare una modifica risolutiva della società. Gramsci riteneva però che il Risorgimento “terrebbe un carattere rivoluzionario” guadagnando il consenso dei contadini. Costoro rappresentavano, infatti, quella massa popolare la cui partecipazione all'azione risorgimentale avrebbe dato valore sociale e urto innovatore. Gramsci riteneva che il movimento democratico avrebbe potuto realizzare tale disegno se fosse stato capace di farsi partito rivoluzionario: se avesse saputo far proprie le passioni e le necessità della classe contadina. Come avevano fatto i giacobini francesi, i quali avevano evitato l'isolamento delle città e convertito le campagne alla rivoluzione. In tal modo essi erano riusciti a superare la situazione di inferiorità numerica in cui si erano trovati inizialmente, ed a piegare le forze del passatismo patrizio. Inoltre, il nuovo Stato si era costituito su una base sia economico-sociale che politica assai ridotta. Il neonato capitalismo, stupidamente raggruppato nelle sole regioni settentrionali, non ha potuto usufruire di un adeguato mercato per i suoi prodotti, a causa dell’incidente economico della società meridionale, messa in ginocchio dalla violentissima guerra di rapina in cui si era trasfigurato l’ideale risorgimentale. Per un altro verso le masse indigenti e soprattutto le classi contadine, disunite in loro stesse, non sono riuscite a divenire parte attiva della nuova coesione statuale. Gramsci, perciò, parla del Risorgimento come della sollevazione pigra e debole; per il suo moderatismo e per la peculiare direzione dall’alto dei suoi processi, senza la “partecipazione cosciente e energica dell’etnia cittadina ed extracittadina”. Antonio Gramsci, Il Risorgimento, Einaudi, Torino 1949 e poi anche per la cura dell’edizione: Antonio Gramsci, Il Risorgimento e l'Unità d'Italia, Roma, Donzelli Editore, 2010. 16 Walter Benjamin, L’autore come produttore [1934], in Opere Complete, VI. Scritti 1934-1937, ed. it. a cura di Enrico Gianni, Einaudi Torino 2004,p.44. suo autore senza tradirlo, è riuscito a centrare un nodo culturale contemporaneo, a fare insieme autobiografia, saggio, programma morale e giudizio di costume”17. Vanno espressamente ricordate e rimemorizzate le tracce della riflessione di Calvino: a)Boito-Maupassant18 e b)Visconti precursore e praticante di un realismo critico che contrappone/propone il parossismo del cupio dissolvi come l’al di là degli orizzonti tracciati da Lukacs e da Aristarco. Il fatto che l’oltre immagine web e l’oltre fotografia del cinema (con tutte le sue implicazioni letterarie) sia diventato un’importante linguaggio dell’arte contemporanea, ne ha modificato in modo sostanziale la funzione. Con lo specifico pittorico, fotografico, multimediale e convergente del medialismo, potremmo definire come neo-realismo mediale la progressiva appropriazione delle istanze positivistiche che partono dalla filologia boitiana e giungono sino agli anni di fermento (post-seconda guerra mondiale) delle scienze sociali e del “finto boom economico” che accompagnano Visconti, giungendo dopo il lascito di Benjamin, a ciò che il mediale è oggi nella sua grande complessità. Per quanto riguarda la letteratura e il realismo, la riformulazione benjaminiana della nozione e della funzione di realtà è espressa principalmente nella conferenza che il celebre critico berlinese tenne a Parigi nel 1934: L’autore come produttore. In essa è scardinato il nesso gerarchico tra struttura e sovrastruttura: la scrittura letteraria non è chiamata a “rappresentare” dall’esterno il movimento storico della realtà politico-economica19, ma deve situarsi dentro i rapporti di produzione e cercare di essere a sua volta produttiva. Ma questa produttività si manifesta nella specifica tecnica letteraria. Una valutazione politica (della “giusta tendenza”) non può essere emessa semplicemente considerando le prese di posizione “ufficiali” degli scrittori in favore di una determinata parte, ma deve essere capace di analizzare il testo per comprendere la direzione delle sue scelte tecniche e quindi la sua “tendenza letteraria”, rapportabile con le dovute mediazioni alla tendenza politica. La considerazione della tecnica è fondamentale anche nella visione benjaminiana della modernità. Nella sua prospettiva non vale solo il lato economico della egemonia di classe, né solo il lato culturale. La tecnica offre chances rivoluzionarie che possono essere sfruttate in un senso o in un altro, produttivo o distruttivo, a seconda delle scelte politiche. Nel saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936), Benjamin nota che l’avvento delle nuove tecniche artistiche, come la fotografia e il cinema, cambia le modalità dell’arte in genere. Mentre le forme classiche (come la pittura) si basano sull’unicità dell’opera, cioè sul valore esclusivo dell’originale rispetto alle copie, invece nella fotografia o nel cinema l’opera può riprodursi in un infinito numero di copie tutte perfettamente equivalenti all’originale, che di per sé non esiste più. La «riproducibilità tecnica» porta le opere verso il pubblico con molto maggiore disponibilità di quanto non accada al «pezzo unico». Mentre l’oggetto d’arte esclusivo si allontana in una particolare atmosfera (“aura”) sacrale ed è trattato con una specie di “culto”, nelle moderne arti riproducibili Benjamin vede invece avanzare quello che egli chiama il «valore espositivo», ossia l’opportunità di un’esperienza più estesa, libera e disinibita dei prodotti artistici. In una potenziale riflessione sul realismo la collocazione sociologica dell’autore non esime mai dall’analisi del testo, persino nelle sue tipicità e pertinenze evidenziate da Lukacs. Che poi, nel testo di Boito o nel “tradimento filmico” di Visconti, che abbiamo tentato di avvicinare, l’allegoria non emerge mai come categoria interpretativa, non vuol dire nulla; come abbiamo visto, attraversando l’estremità dei due realismi, Benjamin sostiene che l’elemento decisivo, il “vento nelle vele” di una allegoria del presente, è spesso quello che si nasconde e che non si vede da nessuna parte, perché è dappertutto. Così come alcuni 17 Italo Calvino, in Cinema Nuovo, 25 settembre 1954. Di fronte allo scrittore scienziato che osserva e descrive scrupolosamente ciò che vede, Maupassant opponeva l’impossibilità di rappresentare il vero in modo assoluto, come uno specchio, poiché ciò che veniva comunque presentato erano le impressioni ricevute attraverso facoltà visive e uditive, filtrate dal temperamento proprio dello scrittore che avrebbe dato alle cose che questi descriveva un colore speciale… a seconda della natura del suo spirito. 19 così come appare nel realismo formulato da Lukács e che abbiamo affiancato ad una delle letture del dopo anni ’50; ovvero all’indomani di Bellissima di Visconti e di critici come Chiarini e Aristarco. 18 “soggetti, opere e omissioni” del passato e del presente propongono una domanda fondamentale: se e cioè con quale mezzo espressivo determinate realtà potevano e possono essere rappresentate, anche il neorealismo mediale di Ron Mueck può andare oltre l’illustrazione tecnica del cadavere del padre (che sarebbe l’antesignano il Giove della scultura stessa) o oltre il Cristo Morto di Hans Holbein. Ciò è possibile se il realismo incida di più sui contenuti e aspetti post-formali, deviando la frase stessa di Mueck che dice:”Volevo fare qualcosa che non corrispondesse a una foto. Passo molto tempo a elaborare la superficie, ma ciò che mi interessa è catturare la vita interiore”. Estremizzando il Benjamin dell’autore come produttore potremmo dire in termini “novorealistici”:non si tratta, insomma, di una superficie tecnica di riproduzione, ma di una riproduzione che è la comunicabilità di questo effetto20. 20 Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Con un saggio di Massimo Cacciari, a cura di Francesco Valagussa, mantiene la traduzione di Enrico Filippini, Einaudi Torino 2011, p. 98.