Anno XI, n. 1 (31), Gennaio - Aprile 2005

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Anno XI, n. 1 (31), Gennaio - Aprile 2005
Quadrimestrale di archeologia subacquea e navale
Sped. in abb. post. 70% - Autorizz. Filiale di Bari - Anno
XI, n. 1 (31), Gennaio - Aprile 2 0 0 5
Corsi, Convegni: Bordighera,
CMAS, Palermo
•
Notizie: Mercure
•
Ricerche in corso: Progetto ANSER
•
Speciale: Ricerca e didattica
nel Salento
•
Musei: Genova
•
Parchi: Baia e Gaiola
•
Recensioni e segnalazioni
bibliografiche
L’Arcangelo Raffaele
Relitto Meloria A. Rilievo dei blocchi concrezionati
Archeologia subacquea
nel golfo di Finlandia
L
a Russia è stato l’ultimo dei paesi
baltici ad intraprendere ricerche
riguardanti il suo patrimonio storico sommerso. Può sembrare strano
sapendo che i fondali del Golfo di Finlandia e del Lago Ladoga sono considerati tra i più importanti cimiteri di navi
affondate, che si sono conservate magnificamente grazie alle acque fredde e relativamente dolci. Va sottolineato che malgrado le acque non siano particolarmente chiare, il recupero di oggetti costituisce un’attività molto importante, sia come
documento diretto per gli studiosi di storia che per gli appassionati di immersioni sui relitti storici.
Oggi, pur essendo state avviate ricerche
sistematiche, le scoperte ed i risultati dei
sondaggi continuano ad essere difficilmente prevedibili. Almeno già dal VI
secolo d.C., era nota una rotta mercantile che attraverso il Golfo di Finlandia ed
il Lago Ladoga univa i territori del Mar
Baltico con quelli del Mar Caspio. Durante i secoli VIII-X, essa venne poi consolidata dagli antichi abitanti della Norvegia e, attraverso di essa, l’Europa settentrionale riceveva rifornimenti, soprattutto di argento. Si calcola che durante quel
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Carta del Golfo di Finlandia
periodo, di circa tre secoli, ne vennero importate trecento tonnellate, equivalenti a 15
milioni di marchi. Successivamente, tale rotta
si rivelò molto importante per i commerci
delle città appartenenti alla Lega anseatica.
Nel secolo XVII rappresentò un fattore fondamentale per l’economia del regno di Svezia e, fino al principio del XVIII secolo, si
trasformò nella principale via commerciale
dell’Impero russo.
Lungo questa rotta, ogni anno affondavano
decine di navi. Non era considerato una sorpresa che nel giro di poche ore un’intera flotta fosse naufragata nel corso di una tempesta.
Nell’autunno del 1743, di ritorno dalla Finlandia, in sette ore affondarono 17 navi da
guerra russe, e, nell’inverno del 1747, in sole
quattro ore, 26 mercantili colarono a picco
nella rada di Narva. Un disastro ancora maggiore si verificò nel 1721, quando durante l’evacuazione delle navi russe dalla Finlandia in
tre mesi affondarono più di cento imbarcazioni, di cui 64 in una sola notte.
Negli ultimi quindici anni l’archeologo
Andrei Lukoskhov, sulla scorta di sistematiche ricerche d’archivio, è stato in grado di
creare un catalogo ed un atlante dei principali
resti sommersi individuati in quelle zone,
potendone tuttavia documentare circa il 2530%, malgrado la registrazione di più di diecimila presenze.
Il suo lavoro è risultato prezioso quando, nel
2002, a San Pietroburgo, ha avuto inizio il
progetto denominato “Il mistero delle navi
affondate” finalizzato all’indagine dei relitti
sommersi nelle acque della Russia nord-occidentale. Il progetto è patrocinato da “Gazprom” e realizzato dal “Centro educativometodico di S. Pietroburgo” in collaborazio-
ne con l’Istituto di storia della cultura materiale dell’Accademia delle scienze della Russia, oltre ad altre partecipazioni tra le quali il
gruppo televisivo “Shkola” (scuola) interessato a realizzare una serie di filmati sulla storia dei paesi del Mar Baltico prendendo spunto dalle navigazioni e dai relitti navali. Gli
inizi furono assai promettenti, poiché con una
spedizione durata nove mesi furono localizzate un centinaio di presenze che dimostrarono la validità delle informazioni raccolte in
precedenza. Fu possibile tuttavia investigare
soltanto 25 relitti, appena 5 dei quali sono poi
stati esaminati più dettagliatamente.
In realtà, dato l’approssimarsi della ricorrenza del terzo centenario della nascita di San
Pietroburgo, si pensò di girare un film su alcune navi affondate nei primi anni di vita della
città, durante il regno di Pietro il Grande.
Nella banca-dati costituita dalle notizie d’archivio c’erano informazioni su circa 400
affondamenti avvenuti tra il 1703 ed il 1724,
ma il più interessante tra essi è sembrato quello indicato sotto il titolo “Informazione dell’indagine sulla controversia fra tre mercanti olandesi ed i contadini del vice-ammiraglio
Krius, che avevano reclamato la terza parte
della mercanzia da essi stessi recuperata dalla
nave olandese imprigionata nel ghiaccio
presso le isole Berezovy nell’anno 1724”.
Il motivo della disputa fu il fatto che all’inizio di dicembre del 1724, all’entrata meridionale dello stretto di Biorkesund (dove ora
si innalzano le piattaforme petrolifere “Primorski” e “Visokinski”), alcuni contadini
della tenuta “miza Sarapnia” trovarono una
nave intrappolata nel ghiaccio della quale “si
vedeva soltanto una piccola parte dell’albero maestro”. Questa tenuta, oggetto di un
dono reale, dal 1720 apparteneva al viceammiraglio norvegese Cornelius Krius e, in
esecuzione di suoi ordini, in tre settimane, 18
contadini avevano recuperato dalla nave 350
tonnellate di balle di pelli, che in realtà rappresentavano solo una piccola parte del carico.
Successivamente si presentò in quel luogo il
rappresentante del mercante olandese Hermann Meyer, a reclamare la restituzione del
carico recuperato, ma senza volere pagare il
lavoro fino ad allora effettuato per il recupero delle merci. Proprio per questa sua indisponibilità a pagare il lavoro dei contadini la
disputa finì in giudizio. L’esame degli atti del
processo ha posto in evidenza particolari
insospettabili e di grande interesse.
In primo luogo, è risultato che il Meyer aveva
dichiarato che la nave si chiamava “Arcangelo Raffaele” e che era finita in secco con a
bordo il padrone Johan Smit; ma nella documentazione doganale del 1724 non figura
alcuna nave con tale nome. Vi si trova invece il riferimento ad una nave “Arcangelo Raffaele”, arrivata a Lubecca con il suo carico il
27 settembre a nome di Hermann Meyer e
ripartita dalla città il 15 ottobre. Il capitano
della nave si chiamava Johan Smit.
In secondo luogo, dai documenti doganali
dell’ “Arcangelo Raffaele”, risultava che essa
trasportava un carico di 130 balle di pelli, una
di panno, due di tessuto filato e 50 barili di
lardo. Ne conseguiva che il carico dichiarato
non coincideva con la testimonianza di quanto era stato recuperato dai contadini, mentre
era in base a quello che Hermann Meyer e
Johan Smit reclamavano la restituzione.
Dopo di che, insperatamente, in gennaio il
Meyer pagò al vice-ammiraglio Krius per
avere salvato il carico 1200 rubli, una somma
colossale a quei tempi dal momento che la
paga giornaliera di un contadino era di cinque copechi.
In terzo luogo, risultava incomprensibile
come la nave, che era partita da Cronstadt il
15 ottobre, potesse essere rimasta intrappolata tra i ghiacci al principio di dicembre, vale
a dire 45 giorni dopo, dal momento che il tragitto tra Cronstadt e Biorkesund si faceva abitualmente in un giorno, molto raramente in
due o tre. Inoltre, tutte le imbarcazioni che
erano partite da Cronstadt dopo l’“Arcangelo Raffaele” avevano potuto attraversare il
Golfo di Finlandia senza problemi ed in
assenza di ghiaccio. Per questo si decise di
approfondire le ricerche d’archivio ed, infine, si giunse a ricostruire una vicenda sorprendente, con risvolti drammatici. Hermann
Meyer risultò essere stato il mercante di materie prime più importante di San Pietroburgo,
ai cui ordini rispondevano annualmente una
trentina di navi. Tuttavia, il 1724 fu disastroso; all’inizio dell’anno, sue navi dirette verso
San Pietroburgo affondarono nel Golfo di
Finlandia con i rispettivi carichi. Successivamente, mercanti inglesi gli avevano impedito di vendere un carico di stoffe importate
offrendo agli acquirenti russi analoghe merci
a minor prezzo. Hermann Meyer decise allo-
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ra di compensare le perdite dandosi al contrabbando. La nave era quindi partita da Cronstadt dichiarando alla dogana un carico insignificante e, invece, per 40 giorni rimase
nascosta all’ancora durante il giorno, carica
di mercanzie da trasportare di notte. Per questo tardò tanto che alla fine rimase intrappolata nei ghiacci di novembre. Quando fu trovato il relitto, Hermann Meyer dichiarò un
falso nome della nave in modo che le autorità russe non potessero confrontare le mercanzie che trasportava con quelle registrate
nei documenti doganali.
Naturalmente, stava rischiando molto nel reclamare la restituzione del carico recuperato.
All’inizio di novembre, Hermann Meyer
venne a trovarsi invischiato in una storia
sgradevole. L’imperatore, nel rendersi conto che l’imperatrice Caterina le era infedele
con Guglielmo Monso, decise di fare impiccare l’amante di sua moglie. Tuttavia,
Pietro (il Grande) non desiderava gli si attribuisse l’epiteto di cornuto e fu così che
Guglielmo Monso fu giustiziato dopo essere stato accusato di corruzione: la lista di
quelli che lo avevano corrotto iniziava con
Hermann Meyer, che era stato aiutato nei
suoi affari in quanto compaesano. Quindi
per Meyer era estremamente pericoloso essere compromesso in un’operazione di contrabbando, ma ad aggravare il tutto si aggiunse il suo reclamare la restituzione del carico. Va aggiunto che in quel momento egli
sperava che l’imperatore venisse a mancare,
essendo gravemente malato fin dal 26 novembre. Ma, alla fine l’imperatore si riprese e ordinò di investigare sullo strano caso
delle differenza delle mercanzie. Assai opportunamente perciò, al principio di gennaio
il Meyer pagò con quella esorbitante somma
al vice-ammiraglio Krius, il prezzo del silenzio da parte sua. Dopo di ciò del carico
non venne mai più fatta menzione, l’imperatore ebbe una grave ricaduta e, con buona
CORSI
CONVEGNI
INCONTRI
P
resso la sede dell’Istituto Internazionale di Studi Liguri a Bordighera, si
è svolto dal 13 al 18 giugno un corso
intensivo di archeologia subacquea, a conclusione della seconda edizione della Scuola Interdisciplinare delle Metodologie
Archeologiche (SIMA), iniziata lo scorso
ottobre sugli scavi di Albintimilium (Ventimiglia), con il sostegno della Fondazione
CARIGE.
Partendo da quanto delineato, e in gran
parte realizzato, da Nino Lamboglia fino
alla sua scomparsa nel gennaio del 1977,
sono stati trattati i principali temi della
sorte di H. Meyer, questa volta morì, il 28
gennaio, cosicché il giudizio fu dapprima
rinviato e poi dimenticato. I retroscena della vicenda sono tornati alla luce soltanto 279
anni dopo, fornendo ottimo argomento per
una ricostruzione cinematografica.
Le ricerche del relitto hanno preso avvio dalle
notizie d’archivio che, tenuto conto dei numerosi cambiamenti dei toponimi dal 1724 ad
oggi, hanno consentito dapprima la localizzazione della zona del naufragio e quindi di
procedere ad una indagine più dettagliata, con
l’impiego di un side scan sonar collegato con
GPS, fino ad individuare i contorni dello
scafo ligneo della nave, a 15 metri di profondità. Successivamente furono realizzate fotografie e valutate le dimensioni del relitto
(lungo 29 metri e largo 8, con portata di 350400 tonnellate).
Analisi del legno, effettuate con il metodo del
C14, indicavano che gli alberi erano stati
tagliati tra il 1650 e il 1680; le ceramiche recuperate dal relitto, fabbricate in qualche zona
settentrionale dell’attuale Germania, si datavano non oltre la fine del XVII secolo; i mattoni refrattari del forno di bordo, contrassegnati da timbri a forma di chiave con le lettere SP, erano stati prodotti dalla famosa
manifattura denominata “casa di San Pietro”,
attiva in Lubecca nel secolo XVII; anche i tipi
delle pulegge e dei sostegni da ponte riconducevano a quesll’epoca. Infine, l’archeologo Piotr Sorokin era riuscito a sapere che
l’”Arcangelo Raffaele” era stato costruito in
un cantiere di Lubecca nel 1693.
Per procedere nei lavori di scavo e di recupero si perforò il ghiaccio praticandovi un
foro di 70 centimetri al di sopra del quale fu
montato un tendone per i sommozzatori; un
altro, subito accanto, fungeva da deposito per
le attrezzature. Vari sponsors, come la società
russa “Gazprom” e la finlandese “Hekla” ed
altri hanno in diverso modo aiutato l’organizzazione, mentre i lavori subacquei sono
stati condotti dall’impresa “Baltiiski Bris”.
Un elemento negativo è stato costituito dalla
vicinanza, a soli 600 metri, di una piattaforma petrolifera, ma seri problemi derivavano
soprattutto dalle continue modificazioni dello
stato del ghiaccio, in continuo alterno movimento (una sorta di un enorme pendolo in
lenta oscillazione), anche a causa dei forti
venti. La temperatura dell’acqua (tra 0 e + 1
C°), consentì almeno una buona trasparenza
ed immersioni di 30-40 minuti. Tra i vari
materiali recuperati, ne sono risultati di particolare interesse alcuni provenienti dalla
cucina, come un barile di ceci, uno che aveva
contenuto lardo (del carico o consumato a
bordo?) ed un piatto con la data del 1696. Un
fotomosaico dello scafo, insieme a tutte le
informazioni derivate dalle immersioni, ha
consentito di farsi un’idea del tipo della nave,
che l’alto castello di prua, tre alberi di notevoli dimensioni, la proporzione (tra 3:1 e 4:1)
tra lunghezza e larghezza e varie altre caratteristiche indicavano probabilmente come un
flauto (flute, fliut), imbarcazione olandese da
carico assai comune nel XVII secolo. A.L.
La Redazione ha accolto questo scritto dell’archeologo russo Andrei Lukoshkov con soddisfazione. Le ricerche in corso in Russia non
hanno ancora la diffusione internazionale che
meriterebbero, nonostante presentino indubbi
elementi di interesse, ovviamente storico ma
anche tecnico, per le particolari condizioni
ambientali. Se la pubblicazione di questo articolo, in forma adattata, è stata resa possibile,
lo si deve ad un accurato e complesso lavoro
di traduzione: prima dal russo in spagnolo di
Ieva Reklaityte (Università di Saragozza), poi
dallo spagnolo in italiano del prof. Piero A.
Gianfrotta (Università della Tuscia-Viterbo);
entrambe le versioni sono state riviste a cura
del prof. Manuel Martín-Bueno (Università di
Saragozza).
Archeologia subacquea
a Bordighera
ricerca e della metodologia archeologica
subacquea: prospezione, rilevamento,
scavo, alta profondità, relitti, commerci,
architettura navale, topografia marittima,
conservazione e musealizzazione.
Il corso, coordinato da Daniela Gandolfi
(Istituto Internazionale di Studi Liguri) e da
Piero A. Gianfrotta (Università di Viterbo),
cui hanno partecipato 30 allievi provenienti da molte regioni italiane, è stato aperto
da Giuseppina Spadea, Soprintendente Archeologo della Liguria. Si sono alternati
come docenti Carlo Beltrame (Università
di Venezia), Hélène Bernard (DRASSM,
Marsiglia), Fede Berti (Museo Archeologico di Ferrara), Giulia Boetto (Centre C. Jullien, Aix-en-Provence), Andrea Camilli
(Soprintendenza Archeologica,
Firenze), Rubens D’Oriano (Soprintendenza Archeologica,
Sassari- Olbia), Enrico Felici
(Università di Viterbo), Luigi Fozzati (Soprintendenza Archeologica, Venezia), Xavier F. Nieto
(CASC, Girona), Giuliano Volpe (Università di
Foggia).
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Corsi CMAS
I
l Comitato scientifico della C.M.A.S.,
Confédération Mondiale des Activités
Subaquatiques, in collaborazione con la
Federación Andaluza de Actividades Subacuáticas (FAAS), organizza corsi secondo
gli standard C.M.A.S. per subacqueo scientifico (CSD) e subacqueo scientifico avanzato (CASD).
I corsi sono rivolti a subacquei di comprovata esperienza in attività scientifica subacquea e che abbiano rapporti professionali
con istituzioni dalle finalità scientifiche,
dotati di brevetto e di età superiore a 18
anni; si terranno nel centro di immersione
CRISED, nei pressi di Almería (Spagna),
dal 12 al 17 settembre 2005 e vedranno
impegnati istruttori di immersione scientifica C.M.A.S. Saranno ammessi 15 partecipanti; in caso di un numero maggiore di
richieste verrà data precedenza a subacquei
con titolo universitario scientifico, a personale di istituzioni o a coloro che partecipano a progetti di ricerca. Le iscrizioni chiudono il 30 giugno.
Scopo del corso è l’introduzione alle tecniche di base della ricerca scientifica subacquea teorica e pratica. Al termine verrà
svolto un esame teorico di valutazione. La
lingua principale è lo spagnolo, integrato
con strumenti didattici in inglese.
Il programma è così articolato: Il subacqueo scientifico, normativa; Sicurezza:
prevenzione e salvamento; Gestione e pianificazione; Tecniche di uso generale;
Tecniche specifiche. Per la parte pratica:
Topografia subacquea, Prospezione, Posizionamento, Raccolta di campioni e dati
in oceanografia, biologia, geologia e
archeologia, Tecniche ausiliarie, Tecniche
di ripresa fotografica e video.
Il titolo di Subacqueo Scientifico
C.M.A.S. attesta la capacità di far parte di
un gruppo di ricerca scientifica subacquea, mentre il titolo di Subacqueo Scientifico Avanzato conferisce la competenza
di organizzare un gruppo. La C.M.A.S.
sottolinea come questi titoli certifichino
solamente un livello di addestramento: i
contenuti non prevedono perciò aspetti
come attitudine medica, norme di sicurezza e limiti di profondità, temi che sono
regolati dalle leggi nazionali. La certificazione C.M.A.S. attesta una competenza
che promuova la circolazione tra operatori
scientifici tra paesi dove abbia sede una
federazione C.M.A.S. per partecipare a
progetti di ricerca subacquea con autorespiratore.
E.F.
Per informazioni e modalità di partecipazione: C.M.A.S. Headquarter, viale
Tiziano 74, 00196 Roma; fax: 0632110595; e-mail: [email protected].
Incontri di archeologia navale
al Palazzetto Mirto di Palermo
I
l 2 marzo 2005 si è discusso a Palermo
presso la sede della Soprintendenza del
Mare a Palazzetto Mirto, della nave
arcaica di Gela, durante l’incontro “Ipotesi
ricostruttiva della Syrakosia la nave di Gerone. Il relitto arcaico di Gela”. L’incontro è
stato il terzo appuntamento dell’iniziativa “I
mercoledì di Palazzo Mirto” organizzati
dalla Soprintendenza del Mare, nella persona di Sebastiano Tusa, con l’intento di stabilire un ponte tra le istituzioni e il territorio, vale a dire tra gli addetti ai lavori e gli
appassionati del mare, associando gli aspetti etnoantropologici e naturalistici a quelli
archeologici. Due gli interventi principali:
la soprintendente ai Beni culturali e ambientali di Caltanissetta, Rosalba Panvini, ha
delineato le caratteristiche della nave di
Gela, tra i pochi relitti arcaici in buono stato
di conservazione. Risalente al primo ventennio del IV secolo a.C., è un’imbarcazione di tipo a guscio, lunga 21 metri e larga 7,
con un pregevole carico di ceramiche attiche, anfore da trasporto e vari oggetti che
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ATTI DEL II CONVEGNO NAZIONALE DI
ARCHEOLOGIA SUBACQUEA.
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TÀ
VI
NO
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permettono di ricostruire l’ipotetica rotta
della nave. Marco Bonino, docente di
Archeologia navale presso il polo decentrato di Trapani dell’Università di Bologna, ha
posto l’attenzione sull’ammiraglia della
flotta siracusana, la Syrakosia, la cui esistenza è documentata solo da testimonianze
letterarie, in particolare di Ateneo, un grammatico del III secolo che trascrisse la più
lunga descrizione di una nave antica attribuita al cronista Moschione per volere di
Gerone II di Siracusa.
P.P.
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NOTIZIE
Seconda campagna di scavo
sul relitto del M e r c u r e
N
ell’agosto 2004, il Dipartimento
di Scienze dell’Antichità e del
Vicino Oriente dell’Università
Ca’ Foscari, assieme alla Soprintendenza per i Beni Archeologici del Veneto
(ufficio NAUSICAA), ha condotto uno
scavo archeologico sottomarino sul relitto del Mercure, localizzato a sette miglia
da Punta Tagliamento, al confine tra le
acque venete e quelle friulane, e a 18
metri di profondità.
L’operazione è stata possibile grazie ad
un finanziamento della Città di Lignano
Sabbiadoro e ad una sovvenzione della
Fondazione di Venezia (Bando Beni Culturali), nonché alla collaborazione dei
Nuclei Sommozzatori dei Vigili del
Fuoco e dei Carabinieri di Trieste. Hanno
partecipato alla missione: C. Beltrame
(direttore); S. Caressa (direttore tecnico),
D. Gaddi (archeologo, collab. Dip.
S.A.V.O.); F. Dossola (sommozzatore,
NAUSICAA); T. Lanave, S. Moschella,
A. Canalini (studenti Università Ca’
Foscari); E. Ferlizza (studentessa Università della Tuscia); A. Rosso ed E. Gordini
(geologi); G. Merighi (fotografo).
Si è trattata di una delle prime esperienze di ricerca nel campo dell’archeologia
navale per un ateneo italiano e di una
rara occasione di formazione pratica nel
settore per alcuni studenti con brevetto
subacqueo avanzato. A questi due aspetti si aggiunge quello della tutela; essendo infatti il giacimento esposto all’impatto della pesca a strascico e ai clandestini, le operazioni di quest’anno hanno
permesso di recuperare i manufatti maggiormente a rischio.
Il Mercure è un brick (un due alberi, ad
un ponte) francese affondato, il 22 febbraio 1812, da una flotta inglese nel
corso della Battaglia di Grado. La flotta
francese, composta da tre brick di scorta
al vascello da 74 cannoni Rivoli, da
poco varato in Arsenale, si era infatti
avventurata fuori del porto di Malamocco nella notte del 21 febbraio. Il vascello
Victorius e il brick Weasel, che l’attendevano al varco, si misero in caccia.
Intorno alle 3 del mattino il Mercure
venne raggiunto e, dopo soli 40 minuti
di cannoneggiamento, saltò in aria.
Poche ore dopo, il Rivoli dovette arrendersi e venne inglobato nelle forze inglesi. Fu questo un episodio cruento - morirono infatti circa 400 marinai - e tragico
per Napoleone, in quanto dovette abbandonare ogni speranza di contrastare la
supremazia inglese sull’Adriatico.
La scoperta del relitto si deve ad un
Fase di recupero delle carronate
Fase di documentazione fotogrammetrica
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Puleggia in legno con boccola di bronzo di bozzello
peschereccio che nel 2001 “pescò” una
“carronata” ossia uno dei 16 pezzi di artiglieria a canna corta con cui era armato il
Mercure. Data e nome dell’ingegnere
costruttore della nave, presenti sulla culatta, permisero di identificare i resti.
Chiavarde in bronzo per il collegamento dei
vari elementi dello scafo del Mercure
Nel 2001, NAUSICAA organizzò una
prima campagna di estrema urgenza, affidando la direzione a chi scrive, che permise di rintracciare il relitto e di identificare
altre carronate sparse su una vasta area
del fondale.
Con la campagna del 2004 si è continuato
lo scavo sul nucleo centrale del relitto
eseguendo anche una documentazione
fotogrammetrica. Inoltre, grazie alla collaborazione dell’impresa La Dragaggi di
Chioggia, della Capitaneria di Porto e
della Marina Militare (Museo Navale) di
Venezia, è stato possibile recuperare tre
delle otto carronate note che sono state
portate all’Arsenale in attesa di restauro.
Il nucleo centrale del relitto quest’anno ha
rivelato delle sorprese interessanti. Il
cumulo di pani di zavorra concrezionati
con palle di cannone ed altri oggetti,
documentato nel 2001, ha lasciato il posto
nello scavo, spintosi più a nord, a numerosi oggetti tra cui munizioni, di vario
calibro, per colpi a raffica, chiavarde e
chiodi di bronzo appartenenti allo scafo e
varie pulegge di manovre.
In quest’area, è emerso anche un tratto di
fiancata dello scafo. La carena è rivestita
da una lamina di rame inchiodata, caratteristica protezione delle navi dell’epoca.
Le condizioni di giacitura del relitto fanno
ben sperare in una buona conservazione
dell’opera viva dello scafo.
Nel corso delle prospezioni della vastissima zona di naufragio (circa m 150 x 50),
è stata scoperta un’area costituita da pani
di ghisa della zavorra perduti dalla nave.
Operazioni di quotatura
Il lavoro è stato eseguito per mezzo di
un’imbarcazione da lavoro di m 10
(“Castorino 2”) e di una piccola barca
appoggio.
Per la prossima estate la Città di Lignano
ha in programma una mostra sul relitto
mentre chi scrive punterà anche al proseguimento dello scavo sia per finalità di
ricerca sia per garantire agli studenti interessati all’archeologia marittima un’opportunità unica di formazione.
La notevole attenzione prestata dai mass
media all’iniziativa, sia stampa locale
sia RAI regionale e prossimamente
nazionale, si spera possa invogliare
eventuali privati a finanziare un’attività
che difficilmente può contare solo su
risorse pubbliche.
C.B.
BIBLIOGRAFIA:
C. Beltrame, D. Gaddi, Report on the
first research campaign at the wreck
of the Napoleonic brick, Mercure,
Lignano, Udine, in The International
Journal of Nautical Archaeology
31.1, 2002, pp. 60-73.
C. Beltrame, D. Gaddi, Resoconto
della prima campagna di indagine
sul relitto del brick napoleonico
Mercure (Lignano – UD), in
A.I.A.Sub. (a cura di), Atti del II
Convegno nazionale di archeologia
subacquea, (Castiglioncello 2001)
Bari 2003, pp. 125-134.
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RICERCHE
IN CORSO
C
Progetto ANSER :
comunicare la memoria del Mediterraneo
on il seminario “Comunicare la memoria del Mediterraneo” svoltosi a
Pisa il 29-30 ottobre 2004 si è conclusa la rassegna di ricerche e scambi di
esperienze svoltisi in quest’ultimo anno
nell’ambito del progetto ANSER, coordinato dalla Regione Toscana. A conclusione del ciclo dei seminari internazionali, nel
seminario di Pisa si è cercato di mettere a
fuoco un tema trasversale ma di primaria
importanza: la valorizzazione di questo patrimonio.
Il seminario è stato suddiviso in tre sessioni: Strumenti, Esperienze e Progetti.
La prima sessione è stata dedicata al ruolo
della comunicazione e dei suoi strumenti,
che vanno dall’impianto di una visione storica alle tecniche specifiche che favoriscono la diffusione delle conoscenze, alla funzione educativa e culturale dei musei e delle istituzioni che hanno il compito di conservare il patrimonio per renderlo accessibile al pubblico.
Ha dato inizio alle relazioni Béat Arnold
(Service et musée d’archéologie, Neuchâtel), tracciando il percorso che ha condotto
lo scafo della chiatta gallo-romana di Be-
vaix dalla sua scoperta nel 1970 fino all’attuale esposizione. La storia dell’imbarcazione, lunga 20 metri e costruita con querce abbattute nel 142 d.C., corre parallelamente a quella della ricerca archeologica
nel cantone di Neuchâtel e del museo in cui
è esposta, che da piccolo e polveroso museo locale è divenuto l’ampio e moderno
museo “Laténium” (nome ispirato dal celebre sito di La Téne), vincitore nel 2003 del
Premio dei musei del Consiglio d’Europa.
Forte carattere interdisciplinare ha avuto il
lavoro svolto nell’ambito del progetto ANSER dal gruppo coordinato da Marinella
Pasquinucci (Università di Pisa), che ha
presentato i principali risultati delle ricerche
relative alla cartografia storica del litorale
toscano, all’elaborazione di immagini satellitari, all’iconografia della costa e degli insediamenti portuali toscani dal XVI al
XVIII sec. e il modello batimetrico di due
settori della Toscana costiera. Si tratta di ricerche che integrano indagini geomorfologiche, paleogeografiche, archeologiche e
storiche, con l’applicazione di tecnichediagnostiche non distruttive.
Non pochi spunti di riflessione ha suscitato
il contributo di Philippe Jockey (Università
Relitto C di Punta Ala. Rilievo dello scafo
Il Progetto ANSER
I
l progetto europeo ANSER (Antiche rotte marittime del Mediterraneo) ha coinvolto la maggior parte dei paesi che si affacciano sul bacino occidentale del Mediterraneo, con l’obiettivo di
valorizzarne il patrimonio archeologico e culturale marittimo. Al
centro degli interessi del progetto sono le antiche rotte del Mediterraneo, legate alla presenza di porti e approdi, relitti e altri giacimenti subacquei, tutti elementi che hanno consentito di raccogliere
un’ingente quantità di informazioni sugli scambi intercorsi tra le
diverse sponde di questo mare. Il progetto ha cercato di proporre
soluzioni innovative per una valorizzazione non distruttiva di questo patrimonio e per migliorarne la fruizione pubblica, promuovendo inoltre una rete stabile di cooperazione tra le amministrazioni e le istituzioni dei paesi coinvolti.
Tra le iniziative scientifiche promosse dal progetto si segnalano i seminari internazionali, oltre quello conclusivo svoltosi a Pisa qui presentato, che hanno sviluppato il confronto diretto tra gli specialisti:
• Il contesto paleoambientale dei porti e degli approdi antichi
(Alicante, 14-15 novembre 2003);
• Le strutture degli antichi porti e degli approdi (Ostia Antica, 1617 aprile 2004);
• Le attività umane dei porti antichi e degli approdi (Marsiglia
14-15 maggio 2004);
• Rotte e porti del Mediterraneo dopo la caduta dell’Impero
romano d’Occidente, Continuità e innovazioni tecnologiche e funzionali (Genova, 18-19 giugno 2004).
Tre corsi internazionali sono stati dedicati alla formazione di giovani neolaureati e alla qualificazione professionale di operatori del
patrimonio archeologico:
• Tecnologie e metodologie innovative per lo studio e il restauro
dei materiali archeologici, a cura dell’Istituto di Fisica Applicata
IFAC-CNR di Firenze (Castiglioncello, Livorno, 31 maggio-5 giugno 2004);
• Metodologie e tecnologie applicate alle ricerche archeologiche
subacquee, a cura della Regione Lazio e della Soprintendenza per
i Beni Archeologici di Ostia (Roma, 7-11 giugno 2004);
• Nuove tecnologie per l’archeologia subacquea a cura dell’Ayuntamento de Villajoyosa (Villajoyosa, Alicante, 3-14 luglio
2004).
Uno degli intenti del progetto è stato quello di coniugare la conservazione del patrimonio culturale con la gestione delle risorse:
su questo si fonda un’iniziativa che ha visto il contributo di tutti i
partenaires del progetto, la creazione del database ARCHEOMED, riguardante l’archeologia marittima, con un repertorio di
porti, approdi antichi e relitti, associato alla realizzazione di una
cartografia numerica di questi contesti, per condividere un sistema
informativo comune, del quale è stato definito il formato ed è iniziata l’implementazione, che consenta la consultazione simultanea
in internet di tutti gli archivi gestiti autonomamente dai singoli
partner.
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Ricostruzione di uno scavo subacqueo al MARQ di Alicante
della Provenza), che ha tracciato un profilo
storico della rappresentazione dell’archeologia nel Mediterraneo dal XV sec. ai nostri giorni. Al di là della loro evidenza materiale, le vestigia archeologiche sono passate e passano nella storia per mezzo della
loro immagine, sia essa grafica, fotografica
o videografica. Un’immagine che quasi mai
è oggettiva e che coinvolge anche un altro
attore-regista, l’archeologo, che spesso non
ha esitato a rubare le scena a ciò che documentava.
Strettamente legati alla ricerca archeologica subacquea in Toscana sono stati i successivi interventi di Franca Cibecchini
(Università di Pisa) e Pamela Gambogi (Soprintendenza per i Beni Archeologici della
Toscana, responsabile del Nucleo operativo
subacqueo). Nel primo è stata tracciata a
grandi linee la storia dell’evoluzione dell’archeologia subacquea in Toscana, dai
primi interventi di Nino Lamboglia tra la fine degli anni ’50 e i primi anni ’60 ai nostri giorni. Un quadro che ha permesso di
presentare una prima valutazione sullo stato delle conoscenze del patrimonio sommerso, sull’attuale stato di conservazione
dei numerosi giacimenti indagati nel corso
dell’ultimo cinquantennio e, di conseguenza, di valutarne le possibilità di pubblica
fruizione, in situ o tramite musealizzazione.
Il secondo intervento è stato centrato soprattutto sull’attività svolta negli ultimi dieci anni dal Nucleo Operativo Subacqueo
della Soprintendenza Archeologica della
Toscana. Dopo i grandi scavi degli anni ’80
(Relitto del Pozzino, Giglio Porto e Giglio
Campese), alle ricerche sulle Secche della
Meloria nei primi anni ’90 fino alle campagne annuali svolte dal 1998 a Punta Ala, che
hanno permesso di indagare oltre cinque relitti antichi. Insieme a queste campagne sistematiche, si segnalano alcuni interventi di
conservazione in situ di particolari reperti,
come il restauro e la manutenzione in acqua
di una base di colonna in marmo all’Argentarola (Grosseto), e le operazioni legate
all’utilizzo di tecnologie innovative, come
la prospezione del relitto profondo Elba Sud
(-177 m) in collaborazione con la Comex di
Marsiglia.
Xavier Nieto (direttore del CASC, Girona)
ha portato la testimonianza di un tentativo
riuscito di visite guidate a giacimenti archeologici sottomarini, quello del porto di
Ampurias. È stato qui creato un percorso archeologico subacqueo che permette di visitare le strutture sommerse del porto e alcuni “oggetti” rappresentativi, nuotando in superficie e abbattendo così molti dei problemi di sicurezza creati dall’immersione con
autorespiratore (vd. L’archeologo subacqueo, n. 30).
Alcune problematiche legate ai metodi, pratiche e prospettive per la valorizzazione del
patrimonio culturale marittimo euro-mediterraneo, sono state esposte da Anna Misiani (Istituto per il Mediterraneo, iMed). L’attività dei partners, coordinati dall’iMed, si
è inquadrata soprattutto nella realizzazione
della Guida metodologica per lo sviluppo
sostenibile del patrimonio sommerso. Grabiella Garzella (Università di Pisa) ha chiuso la prima sezione presentando un bilancio
delle realizzazioni e prospettive createsi
grazie alla mostra “Pisa ed il Mediterraneo”, sia a livello d’iniziative locali che
scientifiche.
Nella seconda sezione del seminario,
“Esperienze”, sono stati presentati alcuni
esempi di valorizzazione del patrimonio
marittimo Mediterraneo, scegliendo tra le
esperienze ritenute più significative a livello locale, nazionale e internazionale. Rafael
Azuar ha presentato il rinnovato Museo Arqueológico Provincial di Alicante
(MARQ), che ha avuto il riconoscimento di
“Museo dell’anno 2004” dall’European
Museum Forum sotto gli auspici del Consiglio d’Europa, all’interno del quale un’intera sala è stata dedicata all’archeologia subacquea. Hassan Limane (Ministero per la
Comunicazione e la Cultura del Marocco)
ha illustrato invece come la valorizzazione
di uno dei siti archeologici più importanti
del Marocco, Lixus, centro portuale aperto
al commercio grazie anche alla produzione
di pesce conservato, sia possibile solo grazie a collaborazioni locali, nazionali ed internazionali e possa costituire un veicolo di
sviluppo economico e sociale per la regione. Tornando a questioni di musealizzazione, Myriame Morel (Musèe d’Histoire de
Marseille) ha presentato una sintesi sui problemi di trattamento, conservazione e valorizzazione dei materiali organici impregnati d’acqua affrontati a Marsiglia negli ultimi decenni. Ha chiuso gli interventi Massimo Zucconi (Parchi Val di Cornia s.p.a.)
con l’esperienza di gestione imprenditoriale del patrimonio culturale e ambientale
pubblico realizzata dalla Parchi Val di Cornia s.p.a., impresa che gestisce ben sei parchi (archeologici e naturali), con alcuni musei e centri di documentazione, oltre ad una
vasta gamma di servizi turistici associati
(ostelli, ristoranti, parcheggi etc.). Alle relazioni è seguita una tavola rotonda, nella
quale sono stati discusse in particolare la
conservazione e la valorizzazione delle imbarcazioni antiche e più in generale del patrimonio marittimo.
Alla terza sezione, “Progetti”, è stata dedicata la seconda giornata, particolarmente
densa di interventi e conclusasi con una visita al cantiere delle navi di Pisa.
Tre sono i grandi progetti per il patrimonio
archeologico subacqueo e navale di Venezia presentati da Luigi Fozzati (Soprintendenza per i Beni Archeologici del Veneto NAUSICAA). Il primo riguarda la costituzione di un magazzino che possa accogliere in maniera definitiva l’ingente quantità
di reperti, anche di notevoli dimensioni,
recuperati grazie alla ricerche archeologiche avviate dal 1986 a Venezia e nella
Laguna Veneta. La scelta è caduta sull’Isola del Lazzaretto Nuovo, che unisce facilità
di accesso e di residenza in loco per gli
studiosi alla presenza di ambienti già
restaurati e subito disponibili, dove possono
trovare posto tra i 100.000 e 1.000.000
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manufatti. Tempi maggiori richiederà invece la costituzione a Venezia di un Laboratorio per il Restauro di Manufatti Subacquei (LARMS). L’area ideale è stata individuata in un capannone del complesso
dell’Arsenale, che possiede anche lo spazio
utile per il restauro della galea del XIII sec.
di San Marco in Boccalama ed è dunque
già in corso di definizione la convezione
con la marina Militare che possiede la
zona. Infine, si prevede l’istituzione sull’Isola del Lazzaretto Vecchio del “Museo
Nazionale di Archeologia della città e della
Laguna di Venezia”, tuttora incredibilmente mancante in una città così ricca di storia.
Il progetto Archeomar bandito dal Ministero dei Beni Culturali ha quale principale
obiettivo la realizzazione di una moderna ed
aggiornata cartografia vettoriale ed una
banca dati delle evidenze storico-archeologiche subacquee, come ha spiegato Massimo Capulli. I risultati sono stati sinora superiori alle aspettative, con la scoperta di
decine di relitti inediti e il preciso posizionamento di centinaia di siti d’interesse storico-archeologico, tra cui due relitti d’età
imperiale rinvenuti intatti ad alta profondità
vicino a Capri.
Timothy Gambin (Foundation for International Studies) ha proposto la creazione di
un percorso storico-culturale attorno a
Boumarrad, uno dei più antichi porti di
Malta, con l’intento di valorizzare non solo le strutture portuali ma anche le attività
umane che si sono sviluppate attorno ad
esse. Il porto si trova vicino ad uno dei
centri turistici dell’isola, ma tale area è stata spesso tagliata fuori dalle attività culturali. Si tratterebbe del primo esempio di tale genere nell’isola, un percorso che potrebbe offrire ai turisti e ai locali la possibilità di visitare una sorta di museo vivente e nel contempo costituire un’attrattiva
culturale di particolare interesse nelle stagioni di minor affollamento turistico.
Il Progetto Caleta del Centro de Arqueología
Subacuática dell’Andalusia, è stato esposto
da Carlos Alonso Villalobos. La proposta
d’intervento ha lo scopo finale di creare nell’ambito del Centro de Arqueología Subacuática, che ha sede a Cadice, un laboratorio per la sperimentazione dei problemi posti dall’accessibilità e allo stesso tempo dalla conservazione del patrimonio marittimo.
La creazione di un itinerario subacqueo guidato ai numerosi reperti storico-archeologici presenti nelle acque della caletta prospiciente il centro è, ad esempio, solo uno dei
molti interventi previsti da questo progetto.
La complessa storia di Baia sommersa, dai
recuperi casuali all’avvio della ricerca
scientifica fino alla costituzione dell’area
marina protetta nel 2002 (D.I. 7.08.2002),
è stata illustrata da Paola Miniero (Soprintendenza per i Beni archeologici di Napoli
e Caserta) (vd. in questo fascicolo a p.19).
Con l’istituzione del Parco Sommerso le
aree di Baia sommersa e di Gaiola sono
Rilievo con multibeam
tutelate sia per la componente archeologica
sia per quella ambientale. Altra importante
novità è che per la prima volta l’Ente
gestore è una Soprintendenza archeologica,
con un suo proprio bilancio che permette la
programmazione degli obiettivi scientifici
e di tutela, ma anche di disciplinare le attività previste nei due Parchi d’intesa con la
Capitaneria. In quest’ambito si cerca di
promuovere uno sviluppo socio-economico
compatibile, privilegiando le attività tradizionali e le imprese locali. Tra le iniziative
svolte con tali obiettivi rientra l’indagine
del fondale marino mediante l’utilizzo del
sistema di rilevamento integrato multibeam, che ha permesso una nuova e precisa mappatura delle strutture presenti.
Gli ultimi tre interventi sono stati dedicati
ad altrettanti complessi e costosi cantieri di
scavo di relitti interrati, attualmente in corso. Rubens D’Oriano (Soprintendenza per i
Beni archeologici di Sassari e Nuoro), ha ripercorso le varie fasi dello scavo dei relitti
del Porto di Olbia (cfr. L'archeologo subacqueo n. 21), i risultati ottenuti e le tecniche di restauro (con l’innovativo metodo
tramite “impregnazione degli amidi”) degli
scafi lignei. Di cinque dei relitti principali
(tre del V sec. d.C. e due medievali) è prevista l’esposizione nel Museo Archeologico di Olbia, la cui edificazione è appena terminata. Per adattare l’edificio alle nuove
esigenze espositive si è semplicemente progettato di coprire la grande corte centrale,
in origine uno spazio aperto, in modo da potervi alloggiare i relitti, il primo dei quali
sarà esposto entro il 2005.
Daniela Giampaola (Soprintendenza per i
Beni archeologici di Napoli e Caserta) e
Vittoria Carsana (Istituto Suor Orsola Be-
nincasa) hanno illustrato la storia e lo scavo archeologico del porto di Neapolis (vd.
L'archeologo subacqueo nn. 29, 30) sotto
l’attuale piazza Municipio, dove sono stati rinvenuti due relitti della seconda metà
del I sec. d.C. ed un terzo affondato tra la
fine del II-inizi III sec. d. C. Tutti sono stati recuperati e, in attesa del restauro, sono
conservati in un capannone attrezzato e
climatizzato, messo a disposizione dal Comune di Napoli. È in corso di studio la
possibilità di esporre i rinvenimenti nell’ambito di una struttura museale. Ha chiuso il convegno, Andrea Camilli (Soprintendenza per i Beni archeologici della Toscana) anche in funzione della visita al
cantiere delle navi di Pisa prevista per il
pomeriggio. Al cantiere di scavo, non più
d’emergenza, verranno associati una serie
di laboratori connessi allo studio dei reperti, dedicato in particolare alla ceramica
e alla petrografia. Sono inoltre in via di
realizzazione alcuni edifici a lato del cantiere destinati al laboratorio sul legno bagnato, dove si potrà procedere al trattamento delle numerose imbarcazioni, alla
sperimentazione delle varie tecniche di restauro e al trattamento dell’enorme quantità di reperti organici. La realizzazione di
uno spazio museale adeguato ad accogliere le navi sarà preceduto da una serie di
iniziative tematiche, tra cui il riallestimento di una mostra temporanea. L’obiettivo
finale è non solo quello di valorizzare e
conservare il patrimonio archeologico ma
anche di sviluppare una serie di servizi aggiuntivi e di programmi di formazione professionale e didattica.
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F.C.
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SPECIALE: RICERCA E DIDATTICA NEL SALENTO
Archeologia subacquea e Università:
Un cantiere didattico di prospezione
e rilievo nella Puglia meridionale
D
al 1 al 18 settembre 2004 si è svolto il primo Cantiere Didattico di Archeologia Subacquea nell’ambito
delle attività “estive” programmate dall’Università di Lecce.
L’aggettivo “didattico” non è accessorio. Chi
scrive ha molto insistito sulla dimensione formativa di quest’intervento: non si è voluto
solamente mettere in atto un progetto di ricerca aperto anche a studenti, ma anche avviare
una proposta di ridefinizione dell’insegnamento di Archeologia Subacquea, per ora
relegato in una formula esclusivamente teorica, malgrado afferisca a pieno titolo al settore della Metodologia della ricerca scientifica. Che l’indagine subacquea si ponga come
fase essenziale nel processo formativo universitario (e sottolineo universitario), è un
assunto ribadito più volte su queste pagine
(vd. L’archeologo subacqueo nn. 17 e 20).
Poter proporre una formazione superiore in
archeologia subacquea che comprendesse
anche un tirocinio, esperienze di scavo e relazioni con il mondo del lavoro significherebbe contribuire a riscattare i pesanti ritardi che
l’Italia ha accumulato in questo ambito rispetto ad altri paesi nella definizione di una figura professionale specializzata.
Queste premesse spiegano la tipologia dell’intervento e la scelta dei giacimenti indagati: si è condotta una campagna di prospezioni, controlli e rilievi di evidenze lungo la
costa della Puglia meridionale che, per posizione e profondità, risultavano congeniali
all’impostazione di un cantiere didattico.
Com’è noto, per la legislazione italiana chi
organizza un’immersione ne ha una responsabilità anche penale: ciò, tra l’altro, spiega
le difficoltà di gestione e di direzione di un
cantiere archeologico in acqua. Abbiamo
escluso, per questo primo anno, l’attuazione
di un vero e proprio scavo, principalmente
per mancanza di fondi, ma anche per darci
modo di graduare l’esperimento, rodarci e
scegliere successivamente sulla base dell’esperienza acquisita. I dati sono stati più che
incoraggianti, in primo luogo per l’adesione
di un folto gruppo di studenti dell’Università
di Lecce, selezionati tra aspiranti anche di
altri Atenei e specializzandi della Facoltà leccese. Hanno partecipato 21 studenti in due
gruppi impegnati 10 giorni ciascuno; sono
state effettuate complessivamente ben 333
Carta generale dei siti esaminati
ore di immersione. Le esercitazioni di survey
(anche con uso del metal detector) e di rilievo (tramite trilaterazione, coordinate cartesiane, reticolo di dettaglio) hanno interessato relitti (sia relativamente al carico che ai
resti degli scafi) e strutture sommerse, oltre a
evidenze di altro genere. Oltre ai rilievi è stata
realizzata documentazione video-fotografica
a cura di Fernando Zongolo, Davide Cafarella e Cristiana Zongoli. Hanno inoltre collaborato il Gruppo Ricerche Subacquee “N.
Lamboglia” di Brindisi, ed in particolare
Luigi Zongoli, Desiderio Camassa e Fernando Zongolo, la società Naukleros, Patrizio
Indino e Giuseppe Pipitone, Erica Florido,
Maurizio Di Bartolo e Viviana Iannuzzi.
Debitamente assistiti, gli studenti hanno
lavorato anche sugli aspetti tecnici dell’immersione e sui protocolli della sicurezza.
Nonostante le potenzialità archeologiche di
alcuni giacimenti e il carattere didattico dell’intervento non si sono potute adottare strategie e strumenti di indagine innovativi, nel-
l’ottica della sperimentazione metodologica,
per i costi che avrebbero comportato, e ci si
è perciò limitati a trasmettere “nozioni” di
base.
L’intervento è stato condotto nell’ambito di
una collaborazione – “cementata” con una
convenzione – tra il Dipartimento di Beni
Culturali dell’Università di Lecce (in particolare il prof. Cosimo Pagliata) e la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Puglia
(che si coglie qui l’occasione per ringraziare) che ha come fine precipuo l’incremento
delle conoscenze sul patrimonio archeologico subacqueo della Puglia e l’aggiornamento della Carta Archeologica Subacquea a cura
della scrivente. In quest’ottica, i risultati (che
si spera di presentare integralmente nei prossimi mesi in una mostra a Lecce) sono stati
superiori alle aspettative: si sono infatti precisate entità e caratteristiche di alcuni siti noti
(è il caso di Torre S. Sabina, Saturo, Torre S.
Andrea, Cala Padovano di Mola), mentre altri
si sono individuati e analizzati in seguito a
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SPECIALE
recentissime segnalazioni. Questa esperienza, in conclusione, ha permesso di cogliere
in misura significativa le potenzialità archeologiche del mare pugliese; inoltre, la maggior
parte dei giacimenti esaminati (o ri-esaminati) potrebbe, con pochi accorgimenti e buona
volontà da parte delle Istituzioni, essere resa
accessibile al turismo archeologico.
Cala Padovano - Mola (Ba)
Cala Padovano, a 3 km a nord dal centro abitato di Mola di Bari (litoranea Torre a MareMola), è caratterizzata da una piccola e
profonda insenatura, allo sbocco di una lama
di modeste dimensioni e da una scogliera
piuttosto bassa e poco frastagliata. È nota
soprattutto per una villa romana tardorepubblicana, costruita sul finire del II sec.
a.C. e abbandonata nei primi del II sec. d.C.:
scavata dalla Soprintendenza tra gli anni
1990 e 1995, è stata interpretata come “mansio”, stazione di posta lungo la via TraianaCalabra, che fonti locali individuano poco
lontana dalla villa stessa. La prospezione
aveva come finalità precipue il controllo
della segnalazione di un molo, citato dalle
fonti storiche e l’individuazione di ulteriori
evidenze archeologiche subacquee. Le propaggini della roccia, che dalla terraferma si
spingono verso il mare aperto, hanno un
andamento SE-NW e per le loro dimensioni e la loro regolarità possono aver rappresentato una base naturale ottimale sulla
quale impostare e costruire una sorta di antemurale posto a protezione della cala.
Infatti, quello che abbiamo visto sott’acqua
sembra probabilmente potersi interpretare
come una costruzione a pietre perse, nel tratto iniziale sud-orientale smantellata e quindi
discontinua, che diviene più riconoscibile
procedendo verso nord. Ai massi, per lo più
informi, isolati o embricati a gruppi di due o
tre, che si dispongono lungo quest’allineamento parallelo alla costa, subentra un dosso
allungato costituito da pietrame di medie e
grandi dimensioni. Alla fine di questo segmento la struttura appare più conservata, data
la presenza di grandi blocchi parallelepipedi
che sembrano lavorati (m 3.70 (asse n-s) x
1.60 x 0.80). Almeno quattro di essi appaiono giustapposti e affiancati sul lato lungo;
sembrano in parte poggiare sul dosso di pietrame più minuto ma sul lato più esterno; non
sono infatti piani: la faccia superiore, inclinata, è a – 1 m ca.
La base della breve scarpa è a – 3 m circa sul
lato interno. Sul fondo, ingombro di pietrame derivante probabilmente dalla distruzione della struttura per il moto ondoso, si individua chiaramente un avvallamento, interpretabile come un canale probabilmente
naturale (il paleoalveo della lama?), con
andamento sinuoso, il cui passaggio coincide significativamente con l’interruzione
della struttura.
Non è da escludere che una struttura similare potesse svilupparsi nel settore nord-occi-
Cala Padovano. I blocchi dell’antemurale
Giancola. Il rilievo dei resti lignei
dentale dell’insenatura, con andamento sempre parallelo alla linea di costa, per chiudere
anche qui lo specchio di mare prospiciente la
villa. Infatti, dopo uno “iato”, coincidente,
come si è detto, con il passaggio del canale,
sono nuovamente presenti alla stessa batimetria massi di varie dimensioni, che raggiungono in maniera discontinua e caotica il
costone nord-occidentale. Potrebbe peraltro
qui trattarsi semplicemente dei resti di una
scogliera naturale, fortemente esposta ai
venti dominanti.
Il fondo è cosparso di materiali ceramici,
soprattutto frammenti di anfore e di ceramica comune; sono ora in fase di studio, ma
sembrano rimandare all’arco cronologico di
frequentazione della villa, tra la tarda Repubblica e l’alto Impero. Alla prospezione subacquea ha fatto seguito una ricognizione a terra,
lungo la spiaggia ad ovest della lama, dinan-
zi e oltre i resti della villa: la stretta fascia
costiera è fortemente incisa da cave e da
vasche per la produzione del sale.
Giancola (Br)
Un intervento di rilievo ha interessato il relitto rinvenuto da D. Cafarella e C. Zongoli in
località Giancola, a nord di Brindisi, quasi in
corrispondenza dell’attuale foce del canale,
a circa 50 m dalla battigia e alla profondità
di m 1,70; i resti lignei giacciono su un fondo
sabbioso (ciottoloso nella parte sottostante)
di cm 60-70 di spessore, prossimo ad un rialzo del fondale dovuto alla presenza di una
secca.
La porzione superstite dello scafo è ribaltata
ed orientata SW - NE. Sono stati messi in evidenza 5 corsi di fasciame per una lunghezza
di ca. m 4 e nove ordinate. Queste, che hanno
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SPECIALE
Torre Chianca di Lecce. Il relitto B: resti di datteri (?) e ossa
Torre Chianca di Lecce. Il relitto C: la parte meridionale
sezione quadrangolare di 8 x 10 cm, presentano il foro di biscia (cm 4 x 6) verso l’alto,
a prova della posizione capovolta dell’imbarcazione. La curvatura dell’opera viva suggerisce l’esistenza di un’ulteriore porzione di
fiancata sotto i sedimenti. Il fasciame è accostato a paro e fissato “a mortasa e tenone”. Le
mortase sono larghe cm 10 circa e distanti cm
15-20; i tenoni, come al solito, risultano bloccati con caviglie lignee. Sono peraltro visibili sulla superficie esterna del fasciame anche
le caviglie più grandi per il fissaggio delle
ordinate al guscio.
Com’è noto, l’area di Giancola conosce, negli
ultimi due secoli della Repubblica un intenso sviluppo. L’approdo è stato, come ad
Apani, essenzialmente funzionale alle proprietà fondiarie e alle loro manifatture, in particolare a tre nuclei di fornaci, che sembrano,
sulla base di dati stratigrafici, risalire alla fine
del II sec. o - tutt’al più - agli inizi del I sec.
a.C., e raggiungere, con alterne vicende, la
prima età imperiale. Il “caricatore” serviva
per un primo trasporto via mare fino al porto
di Brindisi, dal quale i grandi carichi di anfore salpavano alla volta degli empori del Mediterraneo, sia occidentale che orientale.
Torre Chianca di Lecce
A Torre Chianca, la marina a nord di Lecce,
si trovano almeno tre relitti, messi in luce da
mareggiate e solo pochi mesi fa individuati e
segnalati – prima alla Soprintendenza, poi
all’Università – da Gianfranco Quarta.
La posizione dei relitti, distanti dalla riva m
70-100 e tra loro m 150-200, è significativa
per la loro formazione. Sono infatti spiaggiati, in questo caso perfettamente allineati in
un “truogolo”, come i geologi chiamano l’av-
vallamento del fondale parallelo alla costa, il
canale qui compreso tra la battigia e la barra
più vicina. Le imbarcazioni, quasi sicuramente in tre momenti diversi, conclusero il
loro viaggio probabilmente in modo analogo: in occasione di una mareggiata – che qui
raggiunge intensità notevoli – si arenarono in
basso fondale presso la battigia e vi furono
abbandonate; il moto ondoso le dispose poi
di traverso, parallele alla riva. Gli studi di
Carlo Beltrame sui relitti spiaggiati ha messo
in evidenza le peculiarità di questa categoria:
un eccezionale stato di conservazione degli
scafi e dei materiali organici e la presenza di
oggetti notevoli, caratteristiche che contrastano con l’apparente vulnerabilità; causa
sarebbe il veloce processo di copertura, dovuta al moto ondoso, particolarmente turbolento in prossimità della riva, che, a contatto con
lo scafo, produrrebbe un’azione di rimescolio e scavo tale da farlo sprofondare e trasformarlo in una “trappola” per i sedimenti e
la posidonia.
Il primo relitto (A) è attualmente ricoperto.
Nel corso delle ricognizioni effettuate dall’autore del rinvenimento prima e dal gruppo dell’Università di Lecce poi, è stato recuperato materiale fittile e metallico. Parzialmente libero risultava invece, ancora a settembre, il relitto B, un’imbarcazione di età
romana a fasciame portante e con l’assemblaggio dei corsi del fasciame a paro, cioè con
mortase e tenoni. Emergono dai sedimenti le
estremità della chiglia, con battura e innesto
del torello, fissato anche con chiodi di bronzo, e parte della fiancata orientale (sono visibili almeno otto corsi di fasciame). La chiglia, conservata per una lunghezza di circa m
13, è orientata NNO-SSE.
La maglia delle ordinate appare molto regolare e serrata: distano circa cm 15 e hanno
sezione perfettamente squadrata. Recano
sulla faccia superiore gli intagli per il paramezzale, scomparso.
Interessante è la presenza di resti organici:
alcuni sembrano potersi identificare, ad un
primo sommario esame, con datteri e noccioli
di olive; sono apparsi resti ossei, rimasti in
situ. I resti vegetali sono rimasti invischiati
nella pece che calafatava il fondo della stiva.
Sono stati recuperati nell’area materiali ete-
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SPECIALE
S. Cataldo. Il molo adrianeo: blocchi sommersi del fianco settentrionale
Torre Chianca di Porto Cesareo. Le colonne
rogenei, che non aiutano, in questa fase del
tutto preliminare, a circoscrivere il range cronologico; ricordiamo, tra gli altri, numerosi
frammenti anforari e monete, oltre ai chiodi,
rinvenuti in grande quantità.
Resti di un probabile carico sono invece stati
individuati nel giacimento C. Si tratta del
relitto più in evidenza, parzialmente coperto
da pietre di medie dimensioni, probabilmente la zavorra delle nave; anche in questo caso
si sono viste entrambe le estremità della chiglia, distanti circa m 13; è visibile inoltre il
paramezzale, lungo m 7.60 e largo m 0.35,
scalzato dalla posizione originaria e ruotato
perpendicolarmente all’asse della chiglia. Il
settore meridionale, non occultato dai sedimenti, mostra parzialmente entrambe le fiancate, e almeno sette ordinate. Alcuni sondaggi di pulizia tra la parte scoperta e il paramezzale, e nell’area a nord di quello, dove il
riporto sabbioso è consistente, hanno individuato il fasciame esterno, per cui l’opera viva
sembra in buona parte conservata.
Tutta l’area del giacimento è cosparsa di
materiali fittili; un numero cospicuo di frammenti appartiene ad anfore prodotte in Tunisia e importate in Italia a partire dalla fine del
II secolo (forma Africana II C). Significative
sono le tracce di ceneri e di combustione con
annerimento da fuoco che appare sulla maggior parte dei frammenti, che portano ad
includere tra gli eventi che possono aver condotto al naufragio e/o all’abbandono della
nave anche un incendio.
S. Cataldo (Le)
Anche le strutture sommerse a S. Cataldo e
nella vicina località di S. Giovanni sono state
oggetto di una ricognizione. La parte finale
del grande molo che Pausania attribuisce ad
Adriano, demolita e rasata, giace sotto la
sabbia della battigia e in parte sotto il livello del mare; la prospezione subacquea
lungo il percorso, ricalcato da una struttura
quattrocentesca, ha individuato lungo il lato
settentrionale dell’opera, nel tratto fino a
50-70 metri dalla riva, vari blocchi ancora
in situ del filare più esterno; inoltre, sono
visibili numerosi blocchi lavorati, molti dei
quali frammentari, in posizione di crollo. Il
pessimo stato di conservazione è dovuto
anche alla demolizione effettuata per reimpiegare i blocchi nella scogliera antemurale di un nuovo molo, i cui lavori furono inaugurati l’ 8 maggio 1901 (nonostante l’opposizione dell’illustre studioso Cosimo De
Giorgi, all’epoca Regio Ispettore dei Monumenti) e mai terminati. Tale molo incompiuto seguiva un tracciato ad L, con gomito pronunciato, ben leggibile nelle foto
aeree e accuratamente esaminato nel corso
della prospezione. La fondazione in acqua
della nuova struttura vede l’impiego, come
peraltro specificato nei documenti d’archivio, sia di massi artificiali di calcestruzzo,
sia di massi naturali ricavati dal vecchio
Molo Adriano. La parte terminale era rappresentata da un “isolotto” tuttora in posto,
con ruderi del muraglione soprastante; tale
isolotto o platea, così come il tratto più prossimo, è costituito da assise sfalsate di blocchi pertinenti alla struttura romana. Il molo
moderno, che nelle aspettative della comunità doveva incrementare i traffici cittadini, si rivelò ben presto una trappola per
alghe e sabbia; lo specchio acqueo, chiuso
dal braccio ad L, si trasformò in una palude impraticabile sia dalle imbarcazione che
dai bagnanti; per tentare di ovviare se ne iniziò l’abbattimento già pochi anni dopo,
intervento peraltro mai completato.
Torre S. Andrea (Le)
Una prospezione ha interessato la suggestiva
insenatura di Torre S. Andrea (Le), oggetto
di segnalazioni di subacquei già negli anni
passati. Per la prima volta è stata condotta una
ricognizione sistematica, articolata in due
gruppi, in particolare lungo i fianchi della
baia e oltre l’imboccatura a sud. Al centro il
forte apporto sabbioso oblitera le tracce, mentre si individuano concentrazioni di materiale fittile ai piedi della falesia meridionale,
soprattutto nella caletta a sud dell’imboccatura. La presenza di questo materiale è da
ricondurre ad una frequentazione della baia
come approdo occasionale (non ci sono evidenti strutture portuali ma la conformazione
della costa offre riparo dai marosi) legata ad
attività di pesca, o come “caricatore” di servizio agli insediamenti rustici che si sono
individuati nel territorio, particolarmente frequenti nella piena età imperiale. É stato raccolto il materiale più significativo: si tratta in
larga parte di anfore (corinzia A e B, grecoitalica recente, Lamboglia 2 e tipi di transizione, ovoidale adriatica di produzione salentina – c.d. “di Brindisi” – Dressel 2-5, tardorodia, Late Roman 2, Late Roman 4 o anfora
di Gaza), e di alcuni frammenti di ceramica
fine (un frammento di vernice nera, sigillata
africana), ceramica comune dipinta e da
fuoco. Si segnala anche un frammento di
lamina plumbea con tracce di fori per chiodi.
Le naves lapidariae: Torre Chianca di
Porto Cesareo e S. Pietro in Bevagna
Esercitazioni di rilievo si sono svolte su questi carichi marmorei, ben noti e documentati
(anche recentemente, nel corso di interventi
effettuati dalla Soprintendenza).
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SPECIALE
S. Pietro in Bevagna. Il rilievo dei sarcofagi
Il più meridionale si trova in loc. Scala di
Furnu-Torre Chianca, a NW di Porto Cesareo (Le), appena fuori la direttrice che congiunge la scogliera su cui sorge Torre Chianca con l’isolotto “Lu Scueiu”. Il carico è costituito da cinque colonne monolitiche, in posizione perfettamente parallela, orientate in direzione NS e distanti tra loro ca. m 0.50, incrostate di depositi calcarei; lunghe m 9, con un
diametro che oscilla tra cm 70 e 100, sono di
marmo cipollino di Carystos (sono stati prelevati e analizzati dei campioni).
L’altro è ubicato lungo la costa ionica a circa
m 100 dalla spiaggia di S. Pietro in Bevagna,
in corrispondenza della foce del fiume Chidro, tra m 4 e 6 di profondità.
Il giacimento occupa un’area di circa mq 148,
con l’asse longitudinale in direzione N-S. É
costituito da un carico di manufatti marmorei: 24 sarcofagi (rispetto alle indagini degli
anni ‘60 un nuovo sarcofago di dimensioni
minori è stato rinvenuto a 30 m ca. dalla spiaggia, seminsabbiato) in posizione inclinata sul
fondo, di forma e dimensioni diverse: in parte
rettangolari, alcuni dei quali doppi, da separare a destinazione, altri singoli, con una parete più spessa (dal pezzo di marmo “in eccesso” si poteva ricavare il coperchio), in parte
a vasca (lenòs), i minori inseriti in quelli più
grandi, per economizzare lo spazio disponibile. Analisi archeometriche effettuate su
campioni dei sarcofagi a vasca hanno accertato che si tratta di un marmo dolomitico,
bianchissimo, a cristalli medio-grandi, dalle
cave di Capo Vathy sull’isola di Taso.
Saturo (Ta)
La prospezione effettuata a Saturo ha fornito
nuovi dati di grande interesse. Il sito è ben
noto: il promontorio tra la baia di Saturo,
situata 12 km a SE di Taranto e la baia gemella di Porto Perone a sud, conosce fasi di occu-
Saturo. La scarpa interna dell'antemurale
pazione a partire dalla prima età del Bronzo
fino ad epoca imperiale, quando vi si impianta una villa maritima, i cui resti visibili risalgono però al III sec. d.C. La lussuosa residenza, dotata anche di strutture termali, sussiste fino al VI, come documentano i sondaggi più recenti.
L’obiettivo dell’intervento era il controllo
della diga frangiflutti posta a protezione della
baia, oggetto di una prima pubblicazione ad
opera di M. Lazzarini. Come già descriveva
il Lazzarini, è una costruzione a pietre sciolte, che spicca dal costone meridionale dell’insenatura e descrive un tracciato curvilineo
verso ovest, addossandosi e sfruttando un gradino del banco roccioso sommerso. Ha l’aspetto di un aggere a sezione trapezoidale,
largo a metà del percorso m 17.5, lungo un
centinaio di metri circa, ed alto da m 1 a 3-3,5
nella parte terminale. Il fondale, nella parte
interna della baia, a nord del cumulo, raggiunge circa 5 metri, mentre è meno profondo all’esterno, tra l’arco descritto dall’antemurale e lo sperone roccioso che chiude il promontorio a SE (-m 2,5- 2,7). All’altezza del
gomito l’opera si conserva in maniera imponente, mostrando il dosso di pietrame ancora
ben compatto ed una scarpa che degrada ripidamente verso est. La gettata di pietre sciolte, per le sue caratteristiche di semplicità ed
ergonomia, è un tipo di costruzione subacquea diffuso in tutte le epoche e le aree costiere per realizzare le grandi dighe antemurali;
stringenti paralleli si rintracciano sempre
nello Ionio, a Torre S. Gregorio, dove è presente una struttura analoga, probabilmente
coeva. Un ottimo confronto in area tirrenica,
sebbene a scala maggiore, è costituito dalla
gettata frangiflutti di Cosa (odierna Ansedonia), o meglio, del Portus Cosanus, che funge
anche da base per un allineamento di plinti in
cementizio, resti di un molo a piloni e riempimenti. Esempio celebre grazie alle fonti, ma
non individuato dalla ricerca archeologica, è
l’antemurale di Civitavecchia, antica Centumcellae, così come ce lo descrive Plinio in
fase di costruzione nel porto voluto da Traiano. Si tratta di opere che in origine dovevano
emergere per assolvere alla loro funzione.
Particolarmente interessante è quindi il dato
relativo alla profondità: a Saturo la sommità
dell’antemurale si trova attualmente tra – m
2,30 e 2,50; a Torre S. Gregorio rileviamo
quote analoghe. Lazzarini attribuisce la differenza di altezza all’azione distruttiva del
moto ondoso, che avrebbe disperso il pietrame soprattutto nella parte interna della baia.
Ciò è in parte vero, ma nuovi spunti sono
offerti da un’ulteriore evidenza: vari cumuli
di tegoloni ed embrici presenti all’estremità
NW dell’antemurale, sulla superficie e
soprattutto ai margini di quello, nel punto in
cui, cioè, la gettata di pietre va a morire sul
banco roccioso. Tegulae ed embrices sono
fortemente concrezionati in vari insiemi, il
maggiore dei quali risulta piuttosto esteso (m
8 x 6) e si presentano accatastati, sovrapposti
o affiancati; sono evidentemente resti di un
carico di laterizi, un relitto che trasportava
materiali da costruzione, forse insieme ad
anfore, o che aveva anfore nella dotazione di
bordo. Sono proprio i contenitori individuati
a “marcare” il momento del naufragio: tra la
fine del II ed il I sec. a.C.
Una volta verificata questa datazione, avremo a disposizione un marker eccellente del
livello del mare al momento del naufragio,
livello che doveva essere necessariamente
inferiore a quello attuale. Considerate le differenze di misurazione causate dalle maree e
l’azione di dilavamento dovuta al moto ondoso, un’escursione del livello del mare di m
1,50-2 sembra costante lungo la sponda ionica del Salento.
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R.A.
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MUSEI
Il Museo del mare Galata
di Genova
I
l quartiere Galata, che oggi ospita il
Museo del Mare, costituiva l’Arsenale
in cui la Repubblica di Genova costruiva e varava la propria flotta. Anticamente
chiamato Arcate Nuove, era un edificio nato espressamente per costruire, manutenzionare e riparare galee. Le altezze, le larghezze e le pendenze dell’architettura sono
in funzione delle forme e delle dimensioni
delle galee.
Il salone d’ingresso accoglie il visitatore
con una teca che racchiude un enorme
modello della t/n Raffaello (1965). Oltre al
modello, si trovano nel salone la biglietteria ed il giftshop. Altri bookstore sono presenti ai diversi piani.
Il Museo è dislocato, infatti, su quattro
piani (compreso il piano terra), attraverso i
quali si snoda un percorso cronologico e
tematico; ogni piano è dedicato ad un differente modo di andar per mare. I primi tre
piani comprendono ciascuno cinque sale,
di varia grandezza e sistemazione, ognuna
delle quali è ‘a tema’. L’ultimo piano è
dedicato ad una mostra sui transatlantici.
La maggior parte del materiale è esposto in
teche, mentre pannelli esplicativi - oltre
alle indispensabili didascalie - sono disposti in punti opportuni delle sale.
PIANO TERRA ‘Epoca del Remo’
Sala 0 Il porto di Genova nel XVI secolo.
Quattro grandi quadri illustrano situazioni
e momenti diversi nel porto di Genova. Il
primo quadro, molto conosciuto, riprodotto in numerose pubblicazioni, è la “Veduta
della città di Genova nel 1481” di Cristoforo Grassi, del 1597. Seguono altre due
tele attribuite al Grassi: “Escavazione del
fondo marino fra i ponti Spinola e Calvi”,
anch’esso del 1597, e “Lavori di escavazione nella darsena delle galee nel 1545”,
della seconda metà del XVI secolo. Infine,
di Dyonis Martens, “Escavazione del
fondo marino del Mandraccio”, dell’ultimo
quarto del XVI secolo.
Dopo i quadri è visibile, a pavimento, un
corto trave ligneo con catena di ferro che
esemplifica gli elementi modulari che
componevano le ‘catenarie’ utilizzate per
chiudere l’ingresso del porto.
Sala 1 Genova e Cristoforo Colombo.
Questa sala ospita, al centro, i modelli
della Santa Maria, della Niña e della
Pinta. Lungo le pareti sono dislocate vetrine con un planisfero nautico del 1500;
repliche di astrolabi, quadranti e balestriglie; lettere e ritratti (presunti) di Cristoforo Colombo nonché il ‘Codice dei Privile-
Elemento modulare di catenaria per la chiusura dell’ingresso al porto
Modellino dell’Arsenale di Genova alla metà del Seicento
gi’ del navigatore ligure. Entro una teca in
cristallo e legno intagliato dorato è conservata un’ampolla che contiene le ceneri di
Cristoforo Colombo.
Sala 2 Antico arsenale: schiavi, forzati e
buonavoglia. Da un quadro della metà del
XVII secolo, attribuito a G.Batta Costanzo, che mostra “Il porto di Genova alla
metà del Seicento. Rilievo batimetrico” è
stato ricavato un modellino dell’Arsenale,
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Armeria. Lato destro
Armeria. Scaffalatura con bocche da fuoco
variante minore della più conosciuta e
famosa galea ‘sottile’, rimessa su taccate
lignee in uno degli scali originali che si
affacciavano sul bolago - il bacino interno
dell’Arsenale - oggi interrato. La ricostruzione in scala 1:1 è stata effettuata nell’ambito del ‘Progetto Galea’, che ha preso
avvio nel 1999, ed eseguita dal cantiere
belga Lowyck NV di Ostenda. Una fiancata della ricostruzione è stata lasciata priva
di fasciame esterno per rendere possibile la
visione dell’interno dello scafo.
Nella sala ci sono anche due teche con
disegni di galee, un modello di galea, una
corazza, una spada, un fanale di coronamento da galea ed una cariatide lignea
policroma.
Armeria. Bombarda
posto a fronte del quadro. Pannelli cilindrici con figure a grandezza quasi naturale
sono relativi ai soggetti della sala (schiavi,
forzati e buonavoglia, vita in darsena).
Da enumerare ancora un reggitorcera, un
tritone ligneo policromo dal volto di pirata
barbaresco (fine XVII-inizi XVIII secolo),
un modellino di galea, una catena da forzato di galea ed altri quadri.
Sala 3 Armeria della darsena. Sui due lati
della sala, protetti da inferriate, ci sono
armi ed altri oggetti relativi all’armeria.
Una buona parte dei pezzi sul lato di sinistra riguarda le corazze con le quali erano
equipaggiati i soldati imbarcati tra la fine
del XVI e quasi tutto il XVII secolo. Si
tratta, in particolare, di corsaletti, armature
leggere (15 Kg) composti da due parti (pettorale e dorsale) che coprivano il tronco e
lasciavano libere le gambe.
Ci sono poi elmi (morioni, sia a cresta che
a punta; zuccotti e borgognotte), scudi e
picche. Nella parte destra della sala figurano bombarde, palle litiche, bauli metallici e
mortai marmorei per la preparazione della
polvere nera.
Su una scaffalatura lignea posta in fondo
alla sala sono esposte altre bocche da fuoco
(carronate, cannoncini, cannoni, falconetti,
petriere).
Sala 4 La Galea genovese sullo scalo di
alaggio. In questo vano è alloggiata una
galea ricostruita a grandezza naturale. Si
tratta di una tipica galeotta ‘ponentina’,
1° PIANO ‘Età della Vela’
Sala 5 Galleria delle galee. Il corridoio,
con pannelli relativi alle galee (vita di
bordo, remeggio, bocche da fuoco, cibo,
ecc.), permette, tramite delle balconate,
una visione dall’alto e dal fianco di sinistra
della galea ricoverata nella sala sottostante
(sala 4).
Sala 6 La galleria superiore della galea. Si
tratta di una piccola sala di passaggio dalla
quale è possibile un buon colpo d’occhio,
da prua, della galea sottostante.
Nella galleria trova posto anche un notevole modello didattico, lungo circa quattro
metri, di galea a 26 banchi, come quelle
che si costruivano nell’Arsenale.
Sala 7 Andrea Doria e l’arrivo dell’argento. Dipinti (di battaglie, di personaggi,
vedute - di Savona, di Chios, dell’Isola di
Tabarca - ecc.), acqueforti, cartine, una
spingarda, un astrolabio, un notturlabio e
altro.
Al centro della sala, ricostruzione della
scena ‘A. Doria e l’arrivo dell’argento’ in
cui si notano due casse-forzieri per il trasporto dei metalli preziosi.
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dano la costruzione di un natante. Sono
stati riallestiti l’ufficio del direttore del
cantiere (arredato con mobili d’epoca, con
modelli e disegni); l’ufficio dei disegnatori
(con modelli, mezzi-modelli, modelli parziali, disegni, attrezzi da disegno); la falegnameria del cantiere (con utensili e macchinari di fine Ottocento-inizi Novecento).
Al suolo la figura della proiezione ‘verticale’ (ordinate) di un piano di costruzione
rappresenta la ‘sala a tracciare’, il locale
più ampio del cantiere, in cui si riproducevano in scala 1:1 le linee di costruzione in
base alle quali si ‘tracciavano’, con le curvature volute, i pezzi di carpenteria.
Nell’altra metà della sala c’è lo scheletro
ligneo di un natante, impostato sui tacchi, a
rappresentare l’ormai avvenuto inizio della
costruzione vera e propria. Un accenno a
parte viene riservato all’attività del calafato.
Galea vista dal basso
Dal passaggio che porta alla sala successiva si accede ad un balcone che permette una vista della galea dall’alto e dal
lato di dritta.
Sala 8 Geografi e cartografi. Vetrine con
atlanti e carte geografiche.
Notevoli, in due grosse teche poste al centro della sala, un globo terrestre ed un
globo celeste, entrambi opera di Vincenzo
Maria Coronelli. I globi sono costituiti da
acqueforti (del 1688) montate su cartapesta
ricoperta di gesso, su telaio ligneo (della
fine del XIX secolo).
Sala 9 La galleria dei dipinti di marina.
Dipinti di marina (battaglie, vascelli, navi
in costruzione), disegni di velieri, modellini (uno è un modello votivo di vascello
veneto a due ponti, da 48 cannoni), piani di
costruzione (del Royal Oak, vascello inglese di Terzo Rango, costruito nell’Arsenale
di Plymouth nel XVIII secolo, e di ‘Indiaman’, tipo di nave per il commercio con le
Indie, anch’esso del XVIII secolo).
2° PIANO ‘Età dei Brigantini’
Sala 10 Genova e l’età delle rivoluzioni.
Dipinti, cartine, modelli di navi, carteggi.
In particolare, sono da annotare: il modello di un pinco genovese del XVIII secolo
armato in cappa; una cassa lignea da
marinaio (metà del XVIII secolo) con una
scena raffigurante Giuditta e Oloferne
dipinta sulla parte interna del coperchio;
una polena policroma raffigurante un’aquila con le ali raccolte; un ex-voto (presumiamo), privo di didascalia, costituito
da un singolare modello di nave dall’apparenza naïf.
Al centro della sala, su un grosso ripiano
che rappresenta la superficie del mare,
emergono, variamente disposti e visibili
dalla linea di galleggiamento in su, tre
modelli: di un vascello francese di Secondo rango da 76 cannoni (fine XVIII secolo)
e delle fregate sarde San Michele (XIX
secolo), da 54 cannoni, e Regina (metà del
XIX secolo).
Sala 11 Avventure di viaggio per mare e
naufragi. Al centro della sala c’è una lancia
alberata (‘baleniera’ dell’Ottocento) con la
prua rivolta ad uno schermo sul quale viene
proiettato un filmato che fa rivivere virtualmente gli sballonzolamenti - seguiti dall’esperienza di un naufragio - di una nave in
balia di una tempesta. Le scene di mare
mosso sono corredate dal sonoro dei fischi
del vento e del ruggire del mare, mentre in
lontananza si profila l’ombra minacciosa di
Capo Horn.
Sala 12 Il mare e la scienza. Strumentazione nautica (bussole), da rilevamento (teodoliti, sestanti, ottanti, quadranti, sferoscopio,
circoli), idrografica (mareografo) e meteorologica (barometri). Carte nautiche. Attività dell’Istituto Idrografico della Marina e
dei costruttori di strumenti nautici.
Sala 13 Vita di bordo nei velieri. Teche
con modellini e polene. L’elemento di
maggior spicco della sala è però il brigantino-goletta Anna, che emerge dal pavimento all’altezza della linea di galleggiamento.
Una rampa consente la salita sul ponte. A
bordo è possibile vedere l’argano per salpare le ancore, il tambuccio per scendere
negli alloggi dei marinai, la cucina-sala da
pranzo, una lancia di salvataggio, la cabina
del comandante-sala nautica, la timoneria.
Sala 14. Progettare e costruire le navi.
Sono qui illustrate le varie fasi che riguar-
3° PIANO ‘Transatlantici’
A questo piano si trova la mostra “Transatlantici. Scenari e sogni di mare”, allestita
nell’ambito di Genova ‘Capitale Europea
della Cultura nel 2004’. L’esposizione
affronta il tema sotto molteplici risvolti tecnologici, artistici, sociali, storici, di
costume - e costituisce l’occasione per rivivere una delle epopee di Genova quale
‘Capitale del mare’.
Sala 1 Partono i bastimenti. Proiezioni
multimediali con scene d’imbarco di passeggeri di prima classe, emigranti, merci,
bestiame. In una teca, ‘Bardo di Scozia’,
polena del piroscafo Cambria (1844).
Sala 2 Emigranti. Proiezione in b/n con
scene d’imbarco, di viaggio e di sbarco di
emigranti. Modelli di piroscafi: Aquila
(1889), Vincenzo Florio (1880), City of
New York (1860).
Sala 3 Prima classe. Proiezione a colori su
tre schermi di scene ricostruite - interpretate da attori - di imbarco, pranzo, ballo,
festa a bordo. Modelli dei piroscafi Savoia
(1898) e Deutschland (1900) e della t/n
Imperator (1913) e campana di bordo di
quest’ultima.
Sala 4 Ricollocata in questo punto la vera
timoneria di un piroscafo.
Sala 5 Alberghi galleggianti. Video con
scene di propaganda - oggi diremmo ‘pubblicità - che le compagnie di navigazione
commissionavano per promuovere le proprie attività e transatlantici.
Sala 6 1914/1918. Siluri e torpedini. Video
in b/n dell’affondamento del Lusitania,
silurato il 7 Maggio del 1915 dall’U-Boot
20, e sulle navi mimetizzate. Esposto un
siluro di tipo B (1914-18), ad aria compressa, del silurificio Schwarzkopff. In una
teca si possono osservare modellini, quadri
nonché vesti e salvagente di uno dei superstiti del Lusitania.
Sala 7 Città galleggianti. Video che illustra
i momenti di vita a bordo di un nuovo tipo
di passeggero: il turista. Sezione longitudi-
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nale della t/n Duilio (1924) e due grossi
modelli di turbonavi (uno del Giulio Cesare, 1932).
Sala 8 Traversando l’oceano. Sul pavimento di questo vano, che costituisce un passaggio alla sala successiva, viene proiettata
la superficie del mare appena mosso (anche
da un punto di vista tattile si ha l’impressione di trovarsi su una superficie fluida). La
proiezione comprende anche la costa europea, all’ingresso del corridoio, e quella
americana, all’uscita. Tra le due coste compaiono e scompaiono, a tratteggio rosso, le
rotte di transatlantici quali il Rex, il
Bremen, il Normandie e il Queen Mary. In
superficie appaiono e scompaiono anche
strumenti nautici, naufraghi che si aggrappano a relitti, mammiferi marini che affiorano, bottiglie galleggianti, flussi d’aria.
Sala 9 All’uscita del passaggio è esposto il
Trofeo del Nastro Azzurro (Hales’
Trophy), disegnato da Henry Pidduck e
realizzato da James Dickson, assegnato
alla nave che copriva il tragitto attraverso
l’Oceano Atlantico impiegando il minor
tempo (vinto per la prima volta dal Rex nel
1933). Proiezione di video b/n e colore.
Sala 10 Transatlantici in guerra. Video b/n
sull’affondamento del Rex e teca con
modelli di transatlantici (Normandie, Ile de
France e altri) e quadri. Impatto emotivo
suscita la vista della campana di bordo del
Rex, unico pezzo superstite dopo il bombardamento della nave avvenuto nel 1944.
Sala 11 E la nave va ... Cinematografia,
con proiezione di spezzoni di film, sui transatlantici.
Sala 12 Navi di carta. Video con le locandine pubblicitarie dei viaggi e dei servizi
offerti dai transatlantici.
In una sala di passaggio sono esposti i
modelli delle tt/nn Conte Biancamano
(1949) e France 3 (1960).
Le successive due sale sono dedicate
all’affondamento dell’Andrea Doria.
Sala 13 Collisione a dritta. Grosso modello
dell’Andrea Doria, inclinato sulla fiancata
di dritta, in corso d’affondamento dopo la
collisione con lo Stockolm la sera del 25
Luglio 1956, alle ore 23,10. Grande emozione suscita la statua di Andrea Doria,
scultura in bronzo del 1953 di Giovanni
Paganin, affondata con la nave omonima e
recuperata dal subacqueo americano Dan
Turner. A soffitto, proiezione a colori che
mostra un’allegoria dei naufragi: si vedono
oggetti che affondano, ma si ha la sensazione che risalgano verso la superficie.
Sala 14 Quella notte a Nantucket. Video
con le immagini dell’affondamento dell’Andrea Doria e con le testimonianze di
superstiti. In una teca, coppia di polene
policrome raffiguranti divinità marine ed
effige di Michelangelo.
Sala 15 Vita a bordo. Video a colori, su tre
schermi, con immagini di viaggio e di vita a
bordo dei turisti dei moderni transatlantici.
Sala 16 Ultimi transatlantici. Ultima sta-
Argano per salpare le ancore del brigantino-goletta Anna
gione, tra gli anni ’60 e ’70, dei transatlantici: video b/n e colori e teca contenente il
modello della t/n Eugenio Costa (1966).
Sala 17 Arrivi. Scrutando, con binocoli
rotanti montati su piedistalli, uno schermo
su cui è proiettata la superficie del mare si
scorgono all’orizzonte, tra piccole nuvole,
miraggi di mete possibili.
La visita al Museo termina, di fatto, qui,
ma salendo ancora di due piani si accede
alla terrazza panoramica (l’Osservatorio),
circondata da una grande struttura di cristallo a cielo aperto, dalla quale si ha una
vista a 360° del porto e della città di
Genova, le cui case vengono lambite
dalle acque del porto e si distendono sulle
colline a quest’ultimo addossate.
Si percepisce nettamente - almeno così ci
pare - che l’allestimento del Museo non è
ancora del tutto completato, per cui giudizi ed impressioni debbono ritenersi
provvisori, anche in considerazione del
fatto che la mostra sui transatlantici, che
al momento costituisce una parte importante dell’esposizione complessiva, è
temporanea (chiuderà il 9 Gennaio 2005).
Auspichiamo che la mostra, dato il suo
interesse, possa divenire permanente,
anche se ci rendiamo conto che molti dei
pezzi più importanti sono probabilmente
in prestito.
Gli spazi museali sono notevoli, ma sfruttati in maniera adeguata. C’è armonia tra
passaggi, spazi vuoti e volumi occupati
dagli oggetti esposti. Questi ultimi sono
scelti in modo ottimale, sia qualitativamente che quantitativamente, senza
sovraffollamento di reperti delle sale e
delle teche. I testi dei pannelli sono semplici e chiari e della giusta lunghezza.
L’illuminazione, naturale in certe aree del
Museo, è per lo più artificiale, soffusa e
non forte. In alcuni punti, tuttavia, soprattutto in prossimità delle salette di proiezione, è insufficiente e non permette, o lo
consente con difficoltà, di leggere agevolmente le didascalie oppure di cogliere
e distinguere bene i particolari di determinati oggetti.
Gli interventi architetturali moderni sull’edificio (cemento a vista, metallo e
vetro, con poco legno) sono invece decisamente deludenti. La grande struttura di
cristallo che avviluppa tutto l’edificio
rende, in particolare agli ultimi piani
(dove ci sono vetri opacizzati) e nell’Osservatorio, l’atmosfera soffocante (soprattutto in senso calorico). Un’occasione
persa ci pare, in particolare, quella di aver
chiuso completamente sui lati la terrazza
panoramica anziché lasciarla all’aria aperta, frapponendo un diaframma vitreo tra
l’osservatore ed il paesaggio.
P.D.A.
Galata Museo del Mare, Calata De Mari 1
(Darsena, Via Gramsci), 16126 - Genova
tel. 010-2345655/5574004;
fax 010-2345565;
[email protected]
www.galatamuseodelmare.it
ORARIO
marzo-ottobre 10.00/19.30 (tutti i giorni);
agosto 10.00/19.30 (venerdì 10.00/22.00);
novembre-febbraio 10.00/18.00
la biglietteria chiude un’ora prima
Chiuso il lunedì
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XI,1. Gennaio - Aprile 2005
19
PARCHI
I parchi sommersi
d i Baia e Gaiola
N
ell’agosto del 2002 sono stati istituiti lungo la costa napoletana il “Parco
Sommerso di Baia” ed “il Parco sommerso di Gaiola”, per la tutela e la valorizzazione dell’ambiente marino e del patrimonio archeologico sommerso che caratterizzano questi tratti del litorale napoletano. L’istituzione è avvenuta con decreto interministeriale del Ministero dell’Ambiente e della
Tutela del Territorio di concerto con i Ministeri per i Beni e le Attività Culturali, di quelli delle Infrastrutture e dei Trasporti e delle
Politiche agricole e forestali, d’intesa con la
Regione Campania (D. I. n. 304 del
7.08.2002).
La molteplicità degli enti è dovuta alla varietà
di argomenti che l’istituzione dei parchi
tocca, avendo tra le finalità • la tutela archeologica • la conservazione ambientale • la
divulgazione, anche con programmi didattici, delle conoscenze ecologiche e biologiche
degli ambienti marini e del patrimonio
archeologico sommerso • la realizzazione di
programmi scientifici per lo studio delle aree,
la promozione di uno sviluppo socio-economico compatibile attento a sostenere le attività tradizionali locali. A Baia, in particolare, l’istituzione di un Parco Sommerso, esteso per 176 ettari, rappresenta la felice conclusione di interventi di salvaguardia e tutela da parte della Soprintendenza archeologica di Napoli e Caserta, iniziati nel 1987 con
il vincolo archeologico del porto di Baia e
della costa flegrea, poi affiancato da una serie
di ordinanze della Capitaneria di Porto, fino
alla consegna alla Soprintendenza di uno
specchio di mare di 80.000 mq, già interdetto al transito commerciale, per finalità di tutela, valorizzazione e fruizione, ed oggi in con-
cessione per i servizi
aggiuntivi alla Soc.
Baia Flegrea. Il Parco
Sommerso di Baia si
estende lungo il litorale di Bacoli e Pozzuoli, nel tratto compreso tra la testata del
molo di limite meridionale del porto di
Baia (molo OMLIN)
e il molo di Lido
Augusto (Pozzuoli)
ed è diviso in tre
zone: riserva integrale (A), generale
(B), parziale (C); tre diversi livelli di protezione che regolano le attività consentite. I fondali del parco racchiudono uno dei siti archeologici più suggestivi: l’antica Baia famosa per
le ville residenziali e le numerose sorgenti termali (zona A), il Portus Iulius circondato da
magazzini e botteghe destinati alle derrate alimentari per il rifornimento di Roma e a spezie, profumi e sete provenienti dall’Oriente
(zona B) e la Secca Fumosa, così detta per la
presenza di fumarole e di sorgenti di acqua
calda, caratterizzata da 28 massicci piloni
(pilae) che si innalzano dal fondo a protezione di un’area della quale si conosce ancora
troppo poco per identificarne l’antica funzione (zona C).
Il Parco sommerso di Gaiola si articola in
zona A (riserva integrale) e zona B (riserva
generale) e racchiude al suo interno quanto
ancora si conserva in mare del Pausilypon (da
cui deriva il toponimo moderno di Posillipo),
la villa di Publio Vedio Pollione, ricco e quanto mai discusso cavaliere del periodo augusteo. Il Parco sommerso è oggi la naturale
estensione del parco archeologico già presente sul promontorio al quale si accede
attraverso la galleria lunga 700 metri nota
come “Grotta di Seiano” . Il parco a terra racchiude i resti monumentali di un odeion e di
un teatro oltre al settore prettamente residenziale della villa che Vedio Pollione volle
lasciare in eredità ad Augusto. Il parco sommerso racchiude la pars maritima della villa
con peschiere ninfei e strutture portuali.
La Soprintendenza per i beni archeologici
per le province di Napoli e Caserta – l’attuale Ente gestore provvisorio dei due parchi sommersi – ha già attivato una serie di
programmi di ricerca e di tutela sia archeologici che biologici per approfondire ulteriormente le conoscenze storico-ambientali
delle due aree.
A.B.
Per informazioni: Parco Sommerso di
Baia, Castello di Baia
tel. 081.3723760
www.areamarinaprotettabaia.it
Gli abbonati sostenitori per il 2005
Antonelli Benito - Taranto
Astolfi Massimiliano - Torino
Bottoni Ugo - Roma
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Per la rivista e l’elenco degli abbonati sostenitori:
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X, 3 . S e t t e m b r e - D i c e m b r e 2 0 0 4
20
Un omaggio a Juan Bravo
I
l volume rende conto della lunga attività
di ricerca, di protezione e di promozione
delle conoscenze dei materiali archeologici di provenienza sottomarina da parte di un
personaggio, Juan Bravo Pérez, il cui nome è
legato alle prime attività subacquee e alla fase
iniziale dell’archeologia subacquea, sul finire degli anni ’50 e l’inizio degli anni ‘60 del
secolo scorso, quasi ovunque prevalentemente effettuate da subacquei sportivi e dal
volontariato. Nel caso di Juan Bravo si
ambientano nell’area dello Stretto di Gibilterra, periferica non solo geograficamente,
rispetto a quelle regioni dove maggiormente
andava prendendo consistenza l’archeologia
subacquea (la Liguria, la Provenza, oltre ad
iniziative, dapprima individuali e poi sempre
più organizzate, anche in Grecia e in Turchia).
Era una fase per molti aspetti sperimentale,
sia per quanto riguardava le attrezzature e la
pratica dell’immersione, sia per la conoscenza delle testimonianze archeologiche subacquee, come ad es. le ancore di pietra ed i ceppi
di piombo, la cui funzione tecnica veniva via
via precisandosi anche attraverso tentativi di
ricostruzione nei quali si cimenta con successo anche lo stesso Bravo. Dai suoi recuperi e dal risultato dei suoi studi, pubblicati
per lo più in riviste sportive (come «CRIS
Revista del mar», paragonabile al nostro
«Mondo sommerso»; un articolo anche nella
«Rivista di Studi Liguri» XXX, 1964) prende corpo la sezione dedicata all’archeologia
subacquea nel museo archeologico di Ceuta.
Il volume, oltre a notizie sulla vita e sull’attività dell’Autore, nella prima parte raccoglie
gli interventi presentati da studiosi e amici in
occasione di un incontro celebrativo tenutosi
a Ceuta. In particolare, quelli di D. Bernal
Casasola su J. Bravo e l’archeologia di Ceuta,
di J. Blánquez Pérez su J. Bravo e l’archeologia subacquea in Spagna, di J. Ramon sulle
anfore fenicio-puniche di Ceuta, di M. Martin Bueno sulle ancore antiche dello Stretto di
Gibilterra in rapporto ad alcune intuizioni sul
loro funzionamento. Nella seconda parte vengono ristampati alcuni articoli di J. Bravo.
P.A.G.
D. Bernal (ed. científica), Juan Bravo y la
arqueología subacuática en Ceuta. Un
homenaje a la perseverancia, Ed. Instituto de Estudios Ceutíes, Ceuta 2004, pp.
324 con illustrazioni in b. & n. e a colori.
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Quadrimestrale di archeologia subacquea e navale
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Autorizzazione del Tribunale di Bari
n. 1197 del 9.11.1994
Direttore responsabile:
Giuliano Volpe
Redazioni:
• Roma: Via Tripolitania 195, 00199
• Bari: c/o Edipuglia srl, via Dalmazia 22/B,
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Tel. 080-5333056, fax 080-5333057
Internet: http://www.edipuglia.it/arcsub/
I collaboratori di questo numero:
Francesco Paolo Arata (F.P.A.); Rita Auriemma
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(A.B.); Franca Cibecchini (F.C.); Piero Dell’Amico
(P.D.A.); Enrico Felici (E.F.); Piero Alfredo Gianfrotta (P.A.G.); Andrei Lukoshkov (A.L.); Manuel
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Le illustrazioni di questo numero:
Pp. 1 e 7-9: R. Gugliemini; A. Pareti, Archivio
fotografico Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana; F.C., P. Miniero; pp. 5-6: C.B.;
G. Merighi; pp. 10-14: R.A.; pp. 15-18: P.D.A.;
Carlo Brizzi.
I collaboratori sono invitati a consegnare gli articoli (dattiloscritto e dischetto con indicazione del
programma utilizzato, e illustrazioni) secondo le
scadenze sotto indicate. La redazione non si impegna a restituire dattiloscritti e materiale illustrativo
non richiesti. La redazione potrà apportare alcune
modifiche necessarie a uniformare l’articolo
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Il giornale esce tre volte all’anno:
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ISSN 1123-6256
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