ATTENZIONE AI “FALSI AMICI”! Fabio Macciò Ei1dwlon / Idolo

Transcript

ATTENZIONE AI “FALSI AMICI”! Fabio Macciò Ei1dwlon / Idolo
ATTENZIONE AI “FALSI AMICI”!
Fabio Macciò
Ei1 d wlon / Idolo
Quante volte, nella società contemporanea tendente all'esaltazione della personalità individuale,
capita di sentir definire qualche campione dello sport “idolo dei tifosi”, e qualche cantante o attore
di fama nazionale o internazionale “idolo delle folle” o “idolo dei fans”? Quando – sempre più di
frequente – si usa questo termine, idolo, si vuole indicare un beniamino, una “persona molto
amata”1 per via di alcune sue qualità superiori alla media, la quale al tempo stesso è fatta “oggetto
di un'ammirazione o di una dedizione gelosa e fanatica”2. In realtà questo è solo il significato
figurato e più comune, direi popolare, del vocabolo, che fin dal XIII secolo compare nella nostra
lingua nel senso proprio di “immagine o statua di divinità adorata come sede reale della divinità
medesima”3. Lo slittamento semantico subito dal termine in italiano non sembra difficile da
spiegare: il campione dello sport o il talento musicale o cinematografico rappresentano delle icone
agli occhi delle masse popolari, che ne avvertono le capacità superiori quasi come “divine” e
soprannaturali.
Quando tuttavia andiamo alla ricerca del significato del sostantivo greco che a questa parola ha dato
origine, ossia ei1dwlon, ou (neutro, II declinaz.) ci rendiamo conto che esso era ben diverso da
quello attuale. Ei1dwlon è un antico derivato di ei]doj (= «aspetto, forma») e dunque, come ei]doj,
formato dalla radice ϝeid- / ϝoid- / ϝid- (= «vedere») al grado medio con l'aggiunta di un suffisso wlo- estremamente raro e senza chiari paralleli nelle altre lingue indoeuropee4. Il valore di
ei1dwlon è essenzialmente quello di «immagine», a cui si aggiunge una sfumatura di irrealtà; ecco
dunque che può valere «fantasma, spettro», come già nel V libro dell'Odissea (v. 796): ei1dwlon
poi/hse, de/maj d' h1ikto gunaiki/ = «fece (sc. la dea Atena) un fantasma e il corpo formò simile a
donna» [trad. di R. Calzecchi Onesti, p. 125]; o nell'Elena euripidea (v. 582): ou)k h]lqon e)j gh=n
Trwa/d', a)ll' ei1dwlon h]n = «non io (sc. Elena) venni alla terra di Troia, ma era un fantasma». In
questi due casi, si tratta di parvenze irreali di creazione divina, ma il termine può anche indicare le
parvenze dei morti, come in Odissea XXIV 14: e1nqa te nai/ousi yuxai/, ei1dwla kamo/ntwn =
«dove abitan l'ombre, parvenze/spettri dei morti»; e come non ricordare il Poludw/rou ei1dwlon (=
«lo spettro/il fantasma di Polidoro») che compare all'inizio dell'Ecuba di Euripide a turbare i sonni
della madre Ecuba?
In seguito, nel linguaggio filosofico, il vocabolo passò ad indicare l'«immagine riflessa» (Platone e
Aristotele) o, in senso astratto, l'«immaginazione», la «fantasia», come in questo passo del Fedone
platonico (66c): (to\ sw=ma) e)rw/twn de\ kai\ e)piqumiw=n kai\ fo/bwn kai\ ei)dw/lwn pantodapw=n
kai\ fluari/aj e)mpi/plhsin h(ma=j pollh=j = «La carne c'invade con i suoi amori, incanti, tremori,
la sua folla di fantasie, di bolle d'aria» [trad. di E. Savino, p. 297]; del tutto particolare il senso che
acquisì nell'ambito della filosofia epicurea, dove indica le «immagini, composte da flussi di atomi,
1
2
3
4
Cortellazzo-Zolli, vol. 3, s.v. idolo, p. 540.
Devoto-Oli, s.v. idolo.
Cortellazzo-Zolli, loc. cit..
Chantraine, tomo II, s.v. ei]doj, p. 317.
2
che si staccano dagli oggetti e producono sensazioni nel soggetto, rendendo così possibile la
conoscenza»5; quelle che Lucrezio chiamerà simulacra. In tutta la grecità, dall'epoca arcaica a
quella ellenistica, soltanto Erodoto attribuisce al termine il significato di «statua» (che si sviluppa
da quello di «immagine» in senso esteso), in qualche modo avvicinabile al significato proprio
dell'italiano idolo (vedi sopra), per quanto manchi sempre la peculiarità di rappresentare una figura
divina: ... a)pe/pemye ... o( Kroi=soj kai\ xeu/mata a)rgu/rea kuklotere/a kai\ dh\ kai\ gunaiko\j
ei1dwlon xru/seon tri/phxu = «(Insieme a questi) Creso inviò (molti altri oggetti privi di
contrassegno,) dei catini rotondi d'argento e una statua di donna in oro alta tre cubiti» [trad. di F.
Bevilacqua] (Storie, I 51, 5).
Noi siamo però in condizione di capire quando le nozioni di immagine e di divinità vennero a
coesistere nel termine ei1dwlon: questo avvenne nella traduzione del Vecchio Testamento messa a
punto ad Alessandria sotto il regno di Tolomeo Filadelfo (285-246 a.C.) per iniziativa – pare –
dell'aristotelico Demetrio Falereo, da settanta dotti ebrei fatti venire appositamente dalla Palestina
(redazione detta per l'appunto dei “Settanta”). Ei1dwlon assunse il valore di «immagine di un dio»,
o meglio, di un falso dio, in quanto pagano, con sfumatura decisamente negativa. Lo stesso
significato fu poi ereditato dal Nuovo Testamento. Ora, se è vero che questa accezione tarda e
religiosa ci consente di comprendere l'origine del significato italiano di idolo, va tuttavia notato
come nella nostra lingua non sia così spiccata la connotazione negativa presente nei testi sacri del
cristianesimo (come del resto confermano le definizioni dei dizionari sopra riportate), per quanto
non sia trascurabile l'idea di fanatismo che il termine riprende proprio dalla tradizione ebraicocristiana. A questo proposito, non va dimenticato che il vocabolo passò all'italiano attraverso la
mediazione del latino īdōlum, i (neutro, II declinaz.) cui Sant'Agostino attribuì il valore negativo
che ritrovava nei testi sacri.
Una postilla prima di concludere: anche i derivati di idolo, idolatra e idolatria sono di origine greca
(rispettivamente da ei)dwla/trhj e ei)dwlatrei/a), ma non si possono in alcun modo considerare
“falsi amici”, dal momento che nacquero in ambito religioso come sviluppo del senso di ei1dwlon
come «immagine di un (falso) dio», e dunque con un significato molto simile a quello attuale.
1 E legxoj / Elenco
A tutti è famigliare il termine elenco, ossia la “lista compilata con opportuno ordine”6 che talvolta
fornisce un supporto alla memorizzazione di nozioni, talaltra la sostituisce addirittura (pensiamo per
esempio alle minuziose rassegne di oggetti che vengono preparate prima di recarsi al supermercato
o alla vigilia di un viaggio); meno nota è l'origine del vocabolo, che deriva dal greco e1legxoj,
attraverso una sorta di traslitterazione mediata dal latino elenchus, i (masch., II declinaz.), voce
peraltro assai rara; del tutto sorprendente, poi, è scoprire che in greco il termine possiede tutt'altro
significato.
Il sostantivo maschile e1legxoj, ou (II declinaz.) è una formazione nominale dal verbo e)le/gxw, di
etimologia incerta, anche se Osthoff (Morfol. Untersuch. 6, 1 sgg.), citato da Chantraine7, lo
avvicina ad e)laxu/j (= «piccolo») supponendo un senso originario di «sminuire, svalutare», che
5 Enciclopedia Garzanti di Filosofia, s.v. idoli, p. 522.
6 Cortellazzo-Zolli, vol. 2, s.v. elenco, p. 376.
7 Tomo II, s.v. e)le/gxw, p. 335.
- www.loescher.it/medialassica -
3
spiegherebbe bene i due valori fondamentali del verbo: quello di «umiliare, disprezzare», attestato
solo in due circostanze nei poemi omerici (Iliade IX 522 e Odissea XXI 424), e quello ionicoattico, sviluppatosi in ambito giuridico, di «cercare di confutare attraverso una serie di domande»,
«sottoporre a controinterrogatorio», «convincere di un reato». Il primo di questi due significati è
ereditato dal sostantivo neutro della III declinazione e1legxoj, ouj, che vale «onta, offesa», usato
già da Omero in Odissea XXI 329 (w3j e)re/ous',h(mi=n d' a1n e)le/gxea tau=ta tiqe/sqe = «Così
diranno, e vergogna per noi sarà questo» [parole di Eurimaco, uno dei Proci, a Penelope; trad. di R.
Calzecchi Onesti, p. 597]) e poi da Esiodo e Pindaro. Il secondo, invece, dal termine che a noi
interessa, ossia e1legxoj, ou (masch., II declinaz.), usato in ambito ionico-attico nei significati
fondamentali di «argomento di confutazione, confutazione, controinterrogatorio, come in Tucidide
(III 53, 2): ta\ yeudh= e1legxon e1xei = «le falsità si ribattono/si condannano da sé» [cfr. Rocci, s.v.];
o nel Fedro di Platone (273c): a1n e1legxon ph| paradoi/h tw=| a)ntidi/kw| = «darebbe possibilità di
contestazione all'avversario» [cfr. Montanari, s.v.]. Fuori e dentro i tribunali, e1legxoj è anche, più
genericamente, la «prova», come nell'espressione ei)j e1legxon pesei=n (inf. aor. II di pi/ptw) = lett.
«cadere. su/contro una prova», ossia «essere riconosciuto colpevole», usata da Euripide nell'Ippolito
(v. 1310); o in quella di Tucidide (I 135, 2) e)k tw=n Pausani/ou (o e)k tw=n peri\ Pausani/an
secondo altra lezione) e)le/gxwn = «dalle prove raccolte a carico di Pausania» [cfr. Montanari, s.v.].
In questi due casi la prova serve per contestare una colpa, ma altrove essa vale come semplice
verifica; per esempio, nel passo dell'Apologia di Socrate di Platone (39c), in cui Socrate si scaglia
contro i suoi accusatori, dicendo: nu=n ga\r tou=to ei1rgasqe oi)o/menoi me\n a)palla/cesqai tou=
dido/nai e1legxon tou= bi/ou = «Voi ora avete fatto questo (sc. accusarmi), nel pensiero che così vi
liberavate dall'obbligo di aprire il libro della vita, per un bilancio (ossia: di render conto della vostra
vita)» [trad. di E. Savino, p. 217]. O ancora in espressioni del tipo: ei)j e1legxon i)e/nai, e)cie/nai,
e)celqei=n = «giungere/venire alla prova», o e1legxon poiei=n, poiei=sqai = «fare la prova di», ecc..
Tornando al valore primario del sostantivo, di «confutazione attraverso una serie di domande», esso
non ha soltanto una applicazione giuridica, ma anche filosofica: e1legxoj – riprendo la definizione
da G. Reale (Storia della filosofia antica, vol. V, p. 55) – «è un momento metodologico essenziale
della filosofia antica (e in generale della filosofia) che consiste nel mostrare la contraddittorietà
delle tesi dell'avversario». Il metodo della confutazione compare già nella filosofia degli Eleati
(Zenone in particolare), per poi passare alla sofistica con Protagora e Gorgia fino a divenire parte
determinante del metodo maieutico socratico, in quanto utile ad abbattere le false opinioni riguardo
alla definizione dei concetti etici. Esso consiste nell'esaminare una persona rispetto ad una
affermazione che essa ha fatto, ponendo una serie di domande che presuppongono altrettante
affermazioni, nella speranza che la persona voglia determinare con esse il valore di verità della sua
prima affermazione; alla fine dell'esame il valore di verità della prima affermazione decade e si
scopre che essa è falsa e contraddittoria. Ma è Aristotele a dare una sistemazione concettuale e a
fornire uno statuto logico all'e1legxoj nella sua operetta di logica Sofistikoi\ e1legxoi (=
«Confutazioni sofistiche») e nel quarto libro della Metafisica: «la confutazione (e1legxoj) è un
sillogismo che deduce una proposizione contraddittoria ad una certa conclusione», egli afferma in
SE 1, 165a 2 sgg.8.
Fin qui siamo molto lontani dal significato del termine italiano elenco. Tuttavia, proprio la
particolare organizzazione a mo' di rassegna delle Confutazioni sofistiche aristoteliche, potrebbe
costituire la chiave per ricostruire il percorso semantico del vocabolo. È assai probabile – e in parte
attestato dai glossari (cfr. Rocci, s.v.) – che e1legxoj fosse passato ad indicare il «catalogo delle
prove di confutazione». Sembra essere questo, tra l'altro, il significato in cui è attestato in un
biografo latino del II sec. d.C., G. Svetonio Tranquillo, il quale prende a prestito il termine,
8 G. Reale, vol. V, p. 55.
- www.loescher.it/medialassica -
4
traslitterandolo, in un passo della vita del grammatico Pompilio Andronico (De grammmaticis 8):
[...] Cumas transiit ibique in otio vixit, et multa composuit: verum adeo inops atque egens, ut
coactus fuit, praecipuum illud opusculum annalium elenchorum sedecim millibus nummorum
cuidam vendere = «[...] passò a Cuma e lì visse in riposo e compose molte opere: e tuttavia, in
condizioni di tale povertà e indigenza, che fu costretto a vendere ad un tale per sedicimila sesterzi
quella sua eccezionale operetta di cataloghi annuali di confutazioni degli errori». Ora, per «errori»
dovrebbero intendersi le scorrettezze grammaticali e linguistiche che rendono vane le definizioni (in
senso pienamente aristotelico). A questo punto, risulta assai più comprensibile il passaggio al valore
italiano di “elenco, registro”, che peraltro non risulta mai attestato con evidenza nella lingua greca.
) E poxh/ / Epoca
Un caso interessante è quello rappresentato dal termine epoca, comunemente usato nella nostra
lingua nel senso di “tempo, periodo”, nel quale risulta attestato per la prima volta in Vittorio Alfieri
(1803), oppure in quello tecnico, tipico del linguaggio storiografico, di “periodo storico di lunga
durata, contrassegnato da fatti dominanti in esso”9. Di questi significati non c'è traccia nelle
accezioni del sostantivo femminile e)poxh/, h=j (I declinaz.), da cui l'italiano “epoca” con tutta
evidenza deriva. )Epoxh/, nomen rei actae, ossia «nome indicante azione compiuta» dal verbo
e)pe/xw (= lett. «avere, tenere su», quindi, prevalentemente, «trattenere, arrestare, sospendere»),
formatosi dal grado apofonico forte della radice sex- / sox- / sx- di e1xw (cfr. o)xh/ = «sostegno»;
a)noxh/ = «armistizio»; katoxh/ = «possesso», ecc.), compare piuttosto tardi nella lingua greca e
precisamente nell'ambito della filosofia stoica con Crisippo di Soli (III sec. a.C.), terzo scolarca
della scuola fondata da Zenone di Cizio. Il suo significato è quello di «sospensione dell'assenso»,
ossia, di «volontaria sospensione dell'assenso di fronte a ciò che non è comprensibile»10. Il termine
venne poi riutilizzato, in chiave polemica rispetto allo stoicismo, da Arcesilao di Pitane (III sec.
a.C.), fondatore della Media Accademia, nel senso di sospensione di giudizio riguardo ad ogni tipo
di sapere, anche al sapere di non sapere, con dimensione universale (e)poxh\ peri\ pa/ntwn); e da
Arcesilao lo riprese lo scetticismo, intendendo però il concetto non come bene in sé e per sé e, in
quanto tale, fine dell'esistenza, ma come mezzo per giungere all'“atarassia”, all'imperturbabilità. Il
tema dell' e)poxh/ si ripresenta in epoca contemporanea nella Fenomenologia11 del filosofo tedesco
Edmund Husserl (1859-1938), dove «è sinonimo di “messa in parentesi”, “riduzione”, e consiste in
un astenersi dal presupporre il mondo materiale e qualsiasi altro mondo trascendente la vita della
coscienza»12.
In seguito, troviamo il vocabolo utilizzato in senso esteso dallo storico Polibio (II sec. a.C.) e dal
poligrafo Plutarco (II d.C.) nell'accezione di «arresto, fermata» o «sospensione, interruzione». A
poco a poco entrò poi a far parte del lessico astronomico con il senso letterale di «punto di fermata
9 Cortellazzo-Zolli, vol. 2, s.v. epoca, p. 389.
10 Enc. Garz. di Fil., s.v., p. 320.
11 Il termine “fenomenologia” vale di per sé «discorso su ciò che appare», ossia su qualunque fatto che possa essere
percepito o constatato dai sensi o dalla coscienza. In particolare, «la Fenomenologia husserliana si propone di rifarsi
alla lettura delle cose stesse, opponendosi a tutte le interpretazioni precostituite e […] ad ogni tipo di sistematismo
dogmatico. La fenomenologia intende cogliere e descrivere il fenomeno nel suo vero significato, e cioè come essere
in quanto si manifesta immediatamente e intuitivamente nell’intezionalità della coscienza, registrandone con fedeltà
le oggettive modificazioni e articolazioni» (Enciclopedia Motta, vol. V, s.v., p. 3031.
12 Enc. Garz. di Fil., s.v., pp. 320-21. È interessante notare come il dizionario della lingua italiana Devoto-Oli
lemmatizzi nell'edizione del 2007 la voce epoché, con traslitterazione dal greco, assegnandole questi significati
puramente filosofici.
- www.loescher.it/medialassica -
5
degli astri nel cielo», ad indicare dunque la loro «posizione relativa» [cfr. Montanari, s.v.], o,
meglio ancora, il “punto del cielo in cui un astro sembra arrestarsi toccando il proprio apogeo”13.
Questo il suo significato in un passo della Vita di Romolo di Plutarco (12, 6), all'interno di un
discorso sulla data di fondazione di Roma, fissata da un certo L. Taruzio Firmano, per incarico di
Varrone Reatino14, al 9 del mese egiziano di Pahrmuthì (il nostro aprile), sfruttando le sue
conoscenze dell'astronomia caldea: )Epei\ kai\ po/lewj tu/xhn, w3sper a)nqrw/pou ku/rion e1xein
oi1ontai xro/non, e)k th=j prw/thj gene/sewj pro\j ta\j tw=n a)ste/rwn e)poxa\j qewrou/menon =
«Giacchè ritengono che anche la sorte di una città, come quella dell'uomo, abbia il suo tempo
particolare, che può essere osservato dalla posizione degli astri al tempo della sua fondazione»
[trad. di A. Traglia, p. 173]. A partire da questa accezione, si sviluppò, in contesto prettamente
astronomico, grazie a Claudio Tolomeo, la cui opera (Su/ntacij maqhmatikh/ mega/lh) conosciamo
nella traduzione araba detta Almagesto, quello di «punto fisso» del cielo, utile per il calcolo
cronologico.
A ben guardare, non siamo più molto distanti dall'italiano epoca, che deriva da un'estensione di
quest'ultimo significato, in quanto periodo più o meno lungo di tempo che viene considerato come
un tutt'uno, per l'appunto come un «punto di fermata» del flusso cronologico, dotato di propri
caratteri e segnato da eventi che si possono ricondurre ad unità. Va infine ricordato che esiste nella
nostra lingua – per quanto nota quasi esclusivamente agli “addetti ai lavori” – anche un'accezione
propriamente astronomica di epoca, che fa la sua comparsa con Daniello Bartoli nel 1685 ed è la
derivazione diretta del greco e)poxh/: essa indica il “momento nel quale s'incomincia a calcolare il
valore della longitudine media di un astro”15 e rappresenta la più diretta prosecuzione del senso
astronomico del greco e)poxh/.
Kri/ s ij / Crisi
Il sostantivo femminile kri/sij, ewj (III declinaz., temi in -i breve con apofonia) è un tipico nomen
actionis, ossia «nome indicante un'azione» (suffisso -si-), derivato dal verbo kri/nw: krin-si-j >
kri/sij con caduta della nasale davanti a s. Del verbo originario, che vale propriamente «separare,
distinguere, selezionare» (cfr. latino cerno), il sostantivo riprende l'intera gamma di valori. Da
quello di «scegliere, preferire», sviluppa quello di «scelta», come nell'espressione kri/sin poiei=sqai
= «fare una scelta», usata da Aristotele nella Politica (1321a 30) in riferimento ad un sistema di
governo che selezioni «quanti ne sono degni, sia che appartengano al governo, sia che ne stiano
fuori»16; oppure in quella analoga di Sofocle nel Filottete, v. 1050: dikai/wn a)ndrw=n kri/sij =
«scelta di uomini giusti». Dal senso di «stimare, pensare, valutare», ossia, «discernere con la
mente», quello di «giudizio», che ha una vasta applicazione, a partire da Eschilo (Agamennone
1288: e)n qew=n kri/sei = «nel giudizio degli dei»), passando per Pindaro (Olimpica III, 21: mega/lwn
a)e/qlon a(gna\n kri/sin = «il sacro giudizio sui grandi giochi»), per arrivare a Demostene (XVIII 57:
e)n toi=j pepoliteuome/noij th\n kri/sin ei]nai nomi/zw = «ritengo che il giudizio si possa ricavare
dai miei atti politici»). Dal senso di «giudicare», come termine del linguaggio legislativo e forense,
deriva quello di «giudizio, processo», con cui kri/sij si avvicina a kri=ma (cfr. lat. crimen); tra i
13
14
15
16
Cortellazzo-Zolli, loc. cit..
Noto erudito dell'età di Cesare.
Cortellazzo-Zolli, loc. cit..
Trad. di R. Laurenti, p. 213.
- www.loescher.it/medialassica -
6
molti esempi possibili, di ambito giuridico e non, ricordiamo Tucidide, I 34, 2: (Wj de\ h)di/koun
safe/j e)stin: proklhqe/ntej ga\r peri\ )Epida/mnou e)j kri/sin pole/mw| ma=llon h2 tw|= i1sw|
e)boulh/qhsan ta\ e)gklh/mata metelqei=n = «E che essi agivano ingiustamente è chiaro: invitati a
sottoporre a giudizio la questione di Epidamno hanno preferito sostenere le loro accuse con la
guerra piuttosto che con la giustizia» [trad. di G. Donini, p. 139]. O anche un passo della
Repubblica di Platone (620b 1-3) in cui, all'interno del mito di Er, viene ricordata la scelta
dell'animale in cui reincarnarsi da parte delle anime dei defunti, scelta coerente con il tipo di vita
vissuta: ei]nai de\ th\n Ai1antoj tou= Telamwni/ou feu/gousan a1nqrwpon gene/sqai memnhme/nhn
th=j tw=n o1plwn kri/sewj = «(L'anima che era stata designata per ventesima aveva scelto la vita di
un leone:) era quella di Aiace Telamonio, che rifuggiva dal diventare uomo ricordandosi il giudizio
delle armi » [trad. di F. Sartori, pp. 704 e 706]. Dal senso di «accusare», in cui si evolve l'accezione
precedente, si è sviluppato quello di «accusa», per esempio in Demostene, Contro Midia, sul pugno
(XXI) 64: Pa/lin Filo/straton pa/ntej i1smen to\n Kolwnh=qen Kabri/on kathgorou=nta, o3t'
e)kri/neto th\n peri\ )Wropou= kri/sin qana/tou = «Ancora, tutti sappiamo che Filostrato [un oratore
del tempo], del demo di Colono, accusò Cabria quando fu celebrato il processo capitale per i fatti di
Oropo» [trad. di G. Russo, p. 61], in cui il generale Cabria e il politico Callistrato, ateniesi, erano
stati accusati di aver fatto entrare i Tebani nella città. Infine, dal senso di «decidere con un
combattimento, contendere» (solo al medio), conseguono da una parte quello di «lotta, contesa,
gara» (cfr. Platone, Repubblica 379e 5: qew=n e1rin te kai\ kri/sin = «contesa e gara fra le dee»),
dall'altra quella di «esito, soluzione», in particolare di una guerra (cfr. Tucidide I 23,1: Tw=n de\
pro/terwn e1rgwn me/giston e)pra/xqh to\ Mhdiko/n, kai\ tou=to o3mwj duoi=n naumaci/ain kai\
pezomaxi/ain tacei=an th\n kri/sin e1sxen = «Dei fatti precedenti, il più grande che sia stato
compiuto fu la guerra contro i Medi: essa tuttavia fu decisa rapidamente [lett. ebbe una rapida fine]
con due battaglie navali e due terrestri» [trad. di F. Sartori, p. 125]).
Da questa rapida rassegna delle accezioni di kri/sij si può facilmente dedurre che in nessun caso
possiamo rendere il termine con l'italiano crisi, che pure da esso deriva. Crisi, infatti, secondo le
definizioni fornite dal Cortellazzo-Zolli17, vale “accesso, inasprimento improvviso, violento, per lo
più di breve durata”, oppure “fase della vita individuale o collettiva, particolarmente difficile da
superare e suscettibile di sviluppi più o meno gravi”, e viene utilizzato in tutta una serie di
espressioni molto comuni, riguardanti la sfera personale come quella plitico-economica: essere in
crisi, crisi di coscienza, crisi di identità, crisi di gabinetto (= “cambiamento del governo di uno
stato, con le dimissioni del ministro in carica e le trattative per la composizione del nuovo”), crisi
economica, crisi monetaria, ecc.. Queste voci hanno in comune l'idea del raggiungimento del
culmine negativo di un problema, pubblico o privato, che si manifesta violentemente e a cui segue
un cambiamento – nel bene o nel male – della condizione pre-esistente. Esse sono certamente lo
sviluppo semantico dell'accezione medica del greco kri/sij, l'unica che è stata in precedenza
volutamente tralasciata. Ippocrate (V sec. a.C.) e più tardi Galeno (II sec. d.C.) usano il vocabolo
nel senso di «fase critica», ossia decisiva, di una malattia, specie in riferimento alle febbri ricorrenti
(terzane e quartane)18; ne abbiamo un esempio significativo anche nelle Ricerche sugli animali
(553a 11) di Aristotele (si tratta peraltro dell'unico caso in cui il filosofo impiega il termine in
questo senso): «Le metamorfosi [sc. degli insetti] avvengono di solito al terzo o al quarto giorno,
secondo la stessa cadenza della crisi nelle malattie» [trad. di M. Vegetti, p. 325]. Questo senso
risulta ben conservato nel linguaggio medico italiano, dove con crisi si indica un “improvviso
cambiamento del decorso di una malattia, cui può seguire la guarigione o un peggioramento”19. Tale
17 Vol. 1, s.v. crisi, p. 298.
18 Cfr. anche kri/nw = «far entrare in fase critica», utilizzato per lo più al passivo (= «entrare in fase critica»), e
l'aggettivo kritiko/j = «decisivo».
19 Devoto-Oli, s.v. crisi.
- www.loescher.it/medialassica -
7
accezione medica del termine italiano, che trova corrispondenza in quella greca, con ogni
probabilità ha fatto da ponte di passaggio semantico tra il greco kri/sij e l'italiano crisi.
Ku= m a / Cima
Il rapporto tra il sostantivo greco ku=ma, atoj (neutro, III declinaz., temi in dentale) e il suo
corrispettivo italiano cima è tra i più interessanti e imprevedibili. Cima, indica nella nostra lingua
“la parte più alta”, il “vertice”, la “sommità”, come nelle espressioni cima del campanile, cima del
cipresso, cima del Cervino, ecc.; in senso figurato può indicare il “grado più elevato”, l'“apice”
(p.e.: raggiungere la cima della carriera); più genericamente è l' “estremità”, la “parte terminale”
(p.e.: la cima dei capelli, da cima a fondo); può essere utilizzato anche per indicare una personalità
eminente, che eccelle in qualche campo, come nella locuzione essere una cima20. I significati di
ku=ma sembrano invece tanto lontani da quelli appena elencati da lasciare piuttosto interdetti.
Il termine greco, deriva infatti da una radice ku- recante l'idea di «gonfiare», con l'aggiunta del
suffisso -ma, tipico dei nomina rei actae; dunque di per sé esprime il concetto di «gonfiamento,
gonfiore»21, che si traduce in due valori fondamentali: quello, di gran lunga prevalente, di «onda,
flutto», e quello di «embrione, feto», in cui si rivela la stretta parentela con il sostantivo ku/hma (da
kue/w = «portare in seno, concepire, essere incinta»). Lasciamoci guidare, nel trascegliere qualche
esempio dei due significati, dal poeta tragico Eschilo, che dimostra di amare molto il vocabolo, il
quale peraltro è di uso quasi esclusivamente poetico. Nel Prometeo incatenato, v. 1001, il
protagonista così risponde ad Ermes, che lo rimprovera di stoltezza e annebbiamento mentale per la
sua ostinata resistenza agli ordini di Zeus: o)xlei=j ma/thn me, ku=m' o3pwj parhgorw=n = «Invano
mi tormenti: è come se parlassi alle onde»: qui il termine è usato in senso proprio, come tante volte
avviene nei poemi omerici. Ma ku=ma può essere utilizzato anche in senso traslato, come avviene
ancora nel Prometeo incatenato (vv. 885-86), dove a parlare è il Coro delle ninfe Oceanine:
qoleroi\ de\ lo/goi pai/ous' ei)kh|= / stugnh=j pro\j ku/masin a1thj = «confusi discorsi si sbattono
senza senso / contro le ondate di amara rovina»; o nei Sette contro Tebe, v. 64, in cui il messaggero
così presenta al re di Tebe Eteocle l'esercito acheo che assedia la città per indurlo all'azione: boa|=
ga\r ku=ma xersai=on stratou= = «mugghia infatti la marea di terraferma dell'armata» (dove non
sfugga lo splendido ossimoro ku=ma xersai=on). Sempre in senso figurato, il vocabolo può indicare
le ondate della passione, come nel v. 832 delle Eumenidi, in cui la dea Atena si rivolge al Coro,
costituito dalle Erinni: koi/ma kelainou= ku/matoj pikro\n me/noj = «sopisci l'amaro impeto del tuo
livido flutto»[trad. di E. Medda, p. 539], con cui si vuole indicare il furore delle Erinni. Infine, per
esaurire il primo valore, ku=ma può anche indicare, nel lessico dell'architettura, come sinonimo di
kuma/tion, la «cimasa», ossia la parte curva del capitello, come ancora in Eschilo (fr. 78, 2): ku=ma
Le/sbion = «fastigio Lesbio».
Le attestazioni del secondo significato, quello di «embrione, feto», si riducono ad un carme di
Leonida, poeta del III sec. a.C., conservato all'interno dell'Antologia Palatina (VI 200, v. 4) e ad un
altro passo delle Eumenidi (vv. 658-59), in cui Apollo, durante il processo ad Oreste di fronte
all'Areopago così presenta il ruolo della donna: ou)k e1sti mh/thr h( keklhme/nh te/knou / tokeu/j,
trofo\j de\ ku/matoj neospo/rou = «Colei che viene chiamata madre non è genitrice del figlio,
20 Cfr. Cortellazzo-Zolli, vol. 1, s.v. cima, p. 237 e Devoto-Oli, s.v. cima.
21 Cfr. Chantraine, tomo II, s.v. kue/w, p. 596.
- www.loescher.it/medialassica -
8
bensì soltanto nutrice del germe appena in lei seminato» [trad. di E. Medda, p. 525]; mentre nelle
Coefore (v. 128), troviamo il senso decisamente più generico di «germoglio, frutto», in riferimento
ad ogni essere vivente che la terra crea ed alimenta: (gai=a) h3 ta\ pa/nta ti/ktetai qre/yasa / t'
au]qij tw=nde ku=ma lamba/nei = «(Terra) che a tutte le cose dà nascita e, dopo averle nutrite, ne
riprende a sua volta il germoglio»[trad. di L. Battezzato, p. 381].
Che si prenda in considerazione il primo valore o il secondo sembriamo in ogni caso molto distanti
dalle accezioni del termine italiano cima; eppure, proprio con questo secondo, meno diffuso,
significato di ku=ma ci siamo notevolmente avvicinati. Che rapporto intercorre – ci si può chiedere –
tra «embrione, germoglio» e cima? Ebbene, a partire da quell'accezione, ku=ma è passato al
linguaggio botanico, dove ha preso ad indicare specificamente il «germoglio del cavolo», come
attesta un passo di Galeno (VI 642): o( th=j kra/mbhj (sc. kaulo/j), o3 kai\ ku=ma kalou=sin = «il
germoglio del cavolo, che chiamano anche “kyma”»[cfr. Montanari, s.v.]: si tratta di quel “tipo di
inflorescenza in cui al posto dei rami vegetativi si hanno rami fioriferi o peduncoli fiorali”22, che
propriamente si dice «cima» (o «testa») del cavolo. È questo, tra l'altro, il senso che il dizionario di
latino Castiglioni-Mariotti attribuisce a cyma, atis (n.) o cyma, ae (femm.), traslitterazioni del greco
ku=ma, attestate nel poeta di saturae Lucilio (II a.C.) e nell'agronomo Columella (I d.C.). Questa
accezione botanica, accolta dal latino, e conservata anche nella nostra lingua, è stata evidentemente
la chiave di volta dello slittamento semantico del termine verso quei valori, a noi più famigliari, che
si ricordavano in principio, dell'italiano cima.
) I diw/ t hj / Idiota
Nella nostra lingua il termine idiota, sia esso utilizzato come aggettivo (persona, fisionomia idiota;
una trovata, un comportamento idiota) o come sostantivo (sei un perfetto idiota) viene
inequivocabilmente percepito nel senso di “stupido, insensato”23, “che rivela o denota una
sconcertante stupidità”24, con accezione decisamente negativa, se non addirittura ingiuriosa.
Accanto a questo senso, ne esiste anche uno medico, di “affetto da grave ritardo nello sviluppo
mentale”, ossia, “affetto da idiozia”, dove perde naturalmente ogni valenza negativa. Nell'uno e
nell'altro caso, non c'è dubbio che il termine indichi persone, atteggiamenti o comportamenti che
rivelano un deficit mentale per la loro insensataggine, sia in senso proprio, come condizione
costante, sia in senso traslato (una persona assolutamente normale ed equilibrata può compiere
un'azione insensata e quindi comportarsi, in quella specifica circostanza, da idiota).
Di questi valori non c'è traccia nel sostantivo greco i)diw/thj, ou (maschile, I declinaz.), derivato da
i1dioj = «privato, particolare» (di cui Chantraine ipotizza l'origine dal pronome di terza persona
singolare (ϝ)e3, con ampliamento in -d- e chiusura della e in i) con l'aggiunta del suffisso -thj
caratteristico dei nomina agentis, cioè di quei nomi che indicano l'autore di una azione. Non ve n'è
traccia se non in un verso (286) della Ragazza di Samo del poeta comico Menandro: Parmenone si è
appena rivolto al cuoco dicendogli: «Cuoco, davvero non capisco perchè porti dei coltelli; basta la
tua lingua a tagliare qualsiasi cosa»; quello gli risponde: a1qlie / i)diw=t'(a); = «Stupido!» [trad. di
G. Paduano, p. 283]. È esattamente il valore che il termine assumerà in italiano, ma si tratta di una
eccezione. )Idiw/thj indica infatti, innanzitutto, il «singolo», l'«individuo», il «privato», in
opposizione allo stato e alla po/lij, che del resto si identificano; così, per esempio, in un passo del
Simposio di Platone (185b 5-6): Ou[to/j e)stin o( th=j ou)rani/aj qeou= e1rwj kai\ ou)ra/nioj kai\
22 Devoto-Oli, s.v. cima.
23 Cortellazzo-Zolli, vol. 3, s.v. idiota, p. 540.
24 Devoto-Oli, s.v. idiota.
- www.loescher.it/medialassica -
9
pollou= a1cioj kai\ po/lesi kai\ i)diw/taij = «Questo è l'eros della dea Urania, ha la sua stessa
natura, è un autentico tesoro per gli stati e per i singoli» [trad. di E. Savino, p. 57]; e in uno di
Tucidide (I 124, 1): ei1per bebaio/taton to\ tau)ta\ cumfe/ronta kai\ po/lesi kai\ i)diw/taij ei]nai
= «se è vero che una identità di interessi è la cosa più sicura si per le città che per i privati cittadini »
[trad. di F. Ferrari]. Il termine viene impiegato talvolta anche come aggettivo: per esempio, nelle
Rane di Aristofane (v. 891, parla il dio Dioniso rivolgendosi al poeta Euripide): i1qi dh\ proseu/xou
toi=sin i)diw/taij qeoi=j = «E va bene, pregali questi dèi privati» [trad. di G. Paduano, p. 139].
Oltre ad indicare chi si tiene in disparte dalla vita pubblica, il vocabolo denota anche chi si tiene in
disparte rispetto alla conoscenza di un'arte o di un mestiere, e dunque è «inesperto, profano», come
mostra bene un brano delle Storie di Tucidide (II 48, 3) in cui lo storico sta affrontando il problema
delle cause della peste che colpì Atene all'inizio della guerra del Peloponneso: Lege/tw me\n ou]n
peri\ au)tou= w(j e3kastoj gignw/skei kai\ i)atro\j kai\ i)diw/thj a)f' o3tou ei)ko\j h]n gene/sqai au)to/
= «Si dica su questo argomento quello che ciascuno pensa, sia medico sia profano, sulla probabile
origine della pestilenza» [trad. di F. Ferrari, p. 341]. Significativo anche un passo della Prima
Filippica di Demostene (cap. 35), in cui l'oratore ricorda come le feste Panatenee e Dionisiache si
tengano sempre ad una data prestabilita a1n te deinoi\ la/xwsin a1n te i)diw=tai oi( tou/twn
e(kate/rwn e)pimelou/menoi = «sia che delle persone competenti che degli inesperti vengano estratti a
sorteggio per la loro organizzazione» [trad. di I. Sarini, p. 175].
Da quest'ultimo valore, piuttosto diffuso, il termine è poi passato, per estensione del concetto, a
quello di «ignorante, incolto, rozzo» (ben testimoniato anche dalla traslitterazione latina idiotes, ae
o idiota, ae), peraltro assai meno frequente nei testi: il dizionario Montanari ricorda un'espressione
di Plutarco (56, 853b): o( me\n a)pai/deutoj kai\ i)diw/thj = «l'uomo qualunque non istruito». In
questo valore negativo, i)diw/thj ha in realtà avuto – per il tramite del latino – una prosecuzione
nella nostra lingua, dal momento che nell'italiano arcaico idiota vale anche “uomo semplice e rozzo,
privo di istruzione”, attestato per esempio in un passo di Domenico Cavalca, predicatore e
volgarizzatore di testi cristiani vissuto nel XIII-XIV secolo: molto più conosce Iddio un santo idioto
che un savio peccatore25. È tuttavia probabile, se non certo26, che la nozione di “ignorante”, come
anche quella, più spregiativa e dovuta ad un sostanziale slittamento semantico, di “stupido,
insensato”, siano derivate all'italiano dal francese idiot, che sviluppò questi valori fin dal XII secolo.
Peraltro il verso di Menandro citato in apertura sta a dimostrare come il passaggio di significato da
«ignorante» a «stupido» fosse già avvenuto nella stessa lingua greca, per quanto non se ne abbiano
ad oggi ulteriori attestazioni.
Ma/ r tuj / Martire – Martu/ r ion / Martirio
I termini martire e martirio sono un'efficace testimonianza del fondamentale ruolo linguistico svolto
dagli scrittori cristiani nel reinterpretare vocaboli greci preesistenti, adattandoli alle nuove esigenze
del linguaggio ecclesiastico e modificandone, di conseguenza, il significato originario (cfr.
a1ggeloj = «angelo», da «messaggero»; dia/boloj = «diavolo», da «avversario»; e)kklhsi/a =
«Chiesa» da «assemblea»; para/deisoj = «paradiso», da «parco», ecc., con molti termini che
compaiono nel nuovo significato fin dalle prime traduzioni in greco dei testi sacri). I loro
25 Devoto-Oli, s.v. idiota.
26 Cfr., al proposito, Cortellazzo-Zolli, loc. cit..
- www.loescher.it/medialassica -
10
progenitori ellenici, infatti, rispettivamente ma/rtuj, uroj (maschile, III declinaz., unico tema in -r
senza apofonia ad avere il nominativo sigmatico: < martur-j) e martu/rion, ou (neutro, II
declinaz.), in tutti i testi della grecità dalle origini all'età tarda inerenti la civiltà greca e pagana,
hanno il significato di «testimone» il primo, e di «testimonianza, prova» il secondo, a partire
dall'elemento radicale mar- (da cui si è supposto un antico nomen actionis mar-tu-) che portava
con sé il senso di «ricordarsi», confrontabile con il verbo sanscrito smárati27. Gli esempi sono
innumerevoli; ne scegliamo alcuni fior da fiore per dare l'idea della consistenza semantica dei due
vocaboli.
Quanto al primo, ma/rtuj (= «colui che ricorda, testimone»), esso è naturalmente impiegato spesso
e volentieri nel linguaggio giuridico degli oratori, ma ha largo uso anche in poesia, a partire da
Omero, che conosce pure la variante (forse originaria) ma/rturoj: in Iliade II 302, Odisseo ricorda
all'armata greca, ormai insofferente, una predizione di Calcante a cui tutti avevano assistito,
secondo la quale Troia sarebbe stata conquistata al decimo anno di guerra, e dice: eu] ga\r dh\ to/de
i1dmen e)ni\ fresi/n, e)ste\ de\ pa/ntej / ma/rturoi = «Certo questo sappiamo in cuore, e tutti ne siete
testimoni» [trad. di R. Calzecchi Onesti, p. 55]. Pindaro vi sostanzia una delle sue più note gnw=mai
(= «sentenze») all'interno dell'Olimpica I (vv. 33-34): a(me/rai d' e)pi/loipoi / ma/rturej
sofw/tatoi = «i giorni futuri (sono) i più saggi testimoni». Come nota acutamente Chantraine, i
testimoni che si invocano sono molto spesso gli dèi: così, per esempio, nello stesso Pindaro (Pitica
IV, v. 167): a1mmin ma/rtuj e1stw Zeu/j = «ci sia testimone Zeus»; o in Sofocle, Trachinie, v. 1248,
dove Eracle, in punto di morte, così si rivolge al figlio Illo, avuto da Deianira, dopo avergli chiesto
di sposare la propria concubina Iole: tou/twn ma/rturaj kalw= qeou/j = «di questo chiamo a
testimoni gli dei»; o ancora, fuori dal contesto poetico, in Tucidide (IV 87, 2), che fa dire a Brasida,
comandante spartano, che si rivolge ai cittadini di Acanto: ma/rturaj me\n qeou\j kai\ h3rwj tou\j
e)gxwri/ouj poih/somai w(j e)p' a)gaqw|= h3kwn ou) pei/qw = «io prenderò gli dei e gli eroi indigeti a
testimoni del fatto che, sebbene io sia venuto a farvi del bene, non vi ho persuaso» [trad. di F.
Ferrari, p. 747 e 749].
Quanto al secondo, martu/rion («ciò che viene ricordato, prova») è un sostantivo tipico soprattutto
del linguaggio storiografico, come sinonimo di tekmh/rion, dal momento che compito dello storico è
quello di fondare la sua indagine sulle testimonianze raccolte; in questo senso lo troviamo
impiegato sovente da Erodoto; per esempio quando, nel II libro (22, 2), parlando delle origini del
Nilo, egli vuol confutare l'ipotesi che la grande portata d'acqua del fiume sia frutto dello
scioglimento delle nevi nelle regioni più meridionali dell'Etiopia, e afferma: me/giston martu/rion,
oi( a1nemoi pare/xontai = «una prova importantissima la forniscono i venti», in quanto da quella
regione essi soffiano caldi, e dunque non lasciano presupporre la presenza di nevi. O anche nel libro
VIII (120, 1), quando, sul punto di citare il passaggio di Serse da Abdera a riprova del fatto che il re
persiano, dopo la sconfitta di Salamina, fosse tornato in Asia per via di mare, esordisce con queste
parole: me/ga de\ kai\ to/de martu/rion = «e ce n'è anche questa grande prova».
I due termini conservano a un di presso lo stesso significato anche nelle traduzioni greche dei testi
sacri della religione giudaico-cristiana, il Vecchio e il Nuovo Testamento, ma con un peso specifico
ben diverso: ma/rturej sono i «testimoni» della fede cristiana, della parola di Dio, spesso chiamati
in causa negli Atti degli Apostoli; per esempio, quando (1, 8) Gesù, al momento dell'Ascensione,
dice agli Apostoli: «riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete
testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra» [trad. tratta da
La Bibbia, Nuova vers. uff. CEI, p. 2272]; oppure, quando (22, 20) San Paolo così si rivolge al
Signore: «[…] e quando si versava il sangue di Stefano, tuo testimone, anche io ero presente»
27 Cfr. Chantraine, tomo III, s.v. ma/rtuj, p. 669.
- www.loescher.it/medialassica -
11
[ibidem, p. 2316]. Con il termine martu/rion, usato al neutro plurale (ta\ martu/ria), si indica
invece nell'Esodo, il secondo libro del Pentateuco, la «Testimonianza» per eccellenza della presenza
di Dio, ossia le Tavole della Legge consegnate a Mosè; di fatto, dunque, martu/ria sono gli stessi
comandamenti, come nel Salmo 119, v. 68: e)fu/laca ta\j e)ntola\j kai\ ta\ martu/ria sou =
«osservo i tuoi precetti e i tuoi insegnamenti»[ibidem, p. 1255].
Soltanto dopo le prime persecuzioni dei cristiani, e dunque a partire dal II sec. d.C., i Padri della
Chiesa, come Clemente Alessandrino (II-III sec. d.C.) e Eusebio di Cesarea (III-IV sec. d.C.),
incominciarono a servirsi dei due termini nei significati a noi famigliari di martire (= “cristiano dei
primi secoli che, sopportando le persecuzioni e la morte, testimoniava la propria fede”) e di martirio
(= “grave tormento o morte, che un martire sostiene per la propria fede”), distanziandosi
notevolmente dalle accezioni originarie. L'umanista Landino spiega con una certa efficacia (non la
pensa così il Cortellazzo-Zolli, da cui riprendo la citazione28) perché si scelse il termine ma/rturej
per indicare le vittime delle persecuzioni pagane: «Martures, in lingua greca, son testimoni. Ma
perchè quelli e quali hanno voluto più tosto patire pena e morte che renegare la cristiana religione,
sono stati optimi testimoni quella essere vera però [= perciò] sono stati chiamati martiri, cioè
testimoni della nostra vera fede».
Per concludere, va ricordato che ma/rtuj e martu/rion in questo nuovo significato passarono alla
lingua latina attraverso la letteratura cristiana nelle traslitterazioni martyr e martyrium, poi ereditati
dalle lingue moderne, nella fonetica e nel significato (oltre all'italiano martire/martirio, francese
martyr/martyre, inglese martyr/martyrdom; irlandese martir).
Polemiko/ j / Polemico – Polemi/ z w / Polemizzare – Polemisth/ j /
Polemista
Con i termini polemico, polemica, polemizzare abbiamo oggi una certa dimestichezza, per quanto
compaiano nella nostra lingua piuttosto tardivamente (il primo in ordine di tempo è polemico:
1729) e solo per il tramite del francese, che prima dell'italiano conosce i termini polémique (1578
come sostantivo femminile; 1584 come aggettivo) e polémiser (1845), e conferisce loro il
significato che l'italiano riprende e conserva. Qual è dunque il senso preciso di questi vocaboli?
Seguiamo le indicazioni del Cortellazzo-Zolli29: polemico vale: “che ha atteggiamenti battaglieri ed
esprime in modo deciso e aggressivo le proprie idee”; polemica è la “vivace controversia,
discussione animosa”; mentre il verbo polemizzare significa “intrattenere una vivace contesa;
discutere animosamente spesso per partito preso o per amore di controversia”30. Non c'è dubbio che
in questa famiglia semantica sia presente alla base l'idea di contesa, di scontro verbale per difendere
le proprie idee e attaccare quelle altrui; spesso poi, specialmente nell'uso che di questi vocaboli si fa
nel linguaggio quotidiano, si avverte una connotazione negativa: si pensi alle espressioni comuni:
come sei polemico!, oppure: la smetti di polemizzare?, riferite ad atteggiamenti che mirano alla
costante – e spesso fine a se stessa – contrapposizione dialettica. Tale sfumatura negativa risulta
meno accentuata nel momento in cui ci si riferisce al campo letterario-culturale, dove il termine
polemica è sinonimo di “acceso dibattito”. Accanto ai vocaboli già ricordati, se ne può aggiungere
28 Cortellazzo-Zolli, vol. 3, s.v. martire, p. 725.
29 Cortellazzo-Zolli, vol. 3, s.v. polemico, p. 947.
30 Valore segnalato dal Dizionario moderno di A. Panzini (196310): cfr. Cortellazzo-Zolli, loc. cit..
- www.loescher.it/medialassica -
12
un quarto, polemista, che per la verità è di uso meno comune e limitato al linguaggio colto,
indicando quello scrittore che, attraverso saggi o articoli su riviste e quotidiani, affronta in chiave
aggressiva e mordace i grandi temi del dibattito politico, etico, sociale, economico, culturale.
Questa famiglia di vocaboli esiste, prima che nel francese e nell'italiano che ne rappresentano la
prosecuzione lessicale, nella lingua greca, con valore certamente diverso, e tuttavia indicativo per
comprendere lo slittamento semantico avvenuto nelle due lingue moderne (ma pensiamo anche ai
termini inglesi polemic(al) = «polemico»; polemics, polemic = «polemica»; to polemi(ci)ze =
«polemizzare»; polemi(ci)st = «polemista»). Polemiko/j, h/, o/n (aggettivo della I classe a tre
uscite), h( polemikh/ (sostantivo femm. che si ricava da polemiko/j), polemi/zw (verbo della coniug.
tematica) e polemisth/j, ou= (sostantivo masch. della I declinaz.e aggettivo ad una uscita della I
classe) appartengono tutti all'area semantica del sostantivo po/lemoj = «lotta» (in Omero) e
«guerra» (già nei poemi omerici e poi negli scrittori ionico-attici), antico nomen actionis dal verbo
pelemi/zw, indicante in origine l'azione di «agitare, scuotere» (forse la lancia?)31. I primi ad essere
attestati nella lingua greca sono polemi/zw = «guerreggiare» e polemisth/j = «guerriero» (come
sostantivo), impiegati già da Omero nell'Iliade; per quanto riguarda il verbo, potremmo citare II
121, in cui Agamennone si rammarica di non riuscire a conquistare Troia nonostante le promesse di
Zeus e sostiene che è una vergogna il fatto che un esercito greco di tali dimensioni a1prhkton
po/lemon polemi/zein h)de\ maxe/sqai / a1ndrasi paurote/roisin = «inconcludente guerra guerreggi
e combatta / contro pochi uomini» [trad. di R. Calzecchi Onesti, p. 45]; e II 451-52, in cui Atena
rianima i Greci: e)n de\ sqe/noj w]rsen e(ka/stw| / kardi/h| a1llhkton polemi/zein h)de\ maxe/sqai = «e
forza fe' nascere a ognuno / nel cuore, da guerreggiare e combattere senza riposo» [trad. di R.
Calzecchi Onesti, p. 63]. Quanto al sostantivo, potremmo ricordare le parole di Diomede ai suoi
uomini (V, 601-02): w] fi/loi, oi[on dh\ qauma/zomen 3Ektora di=on / ai)xmhth/n t' e1menai kai\
qarsale/on polemisth/n = «O cari, e noi ammiravamo Ettore glorioso, / credevamo che fosse un
guerriero, un combattente feroce» [trad. di R. Calzecchi Onesti, p. 179]. Il termine viene in seguito
impiegato anche come aggettivo, nel senso di «guerresco, da guerra», come nelle Siracusane di
Teocrito (v. 51), quando Prassinoa, una delle due protagoniste, così esprime il suo spavento
all'amica: (Adi/sta Gorgw/, ti/ genw/meqa; Toi\ polemistai\ i3ppoi tw= basilh=oj = «Carissima
Gorgo, che fine faremo? Ecco i cavalli da guerra del re!» [trad. di O. Vox, p. 243], dove in realtà la
definizione “cavalli da guerra” identifica una categoria di cavalli da corsa, che stanno per essere
condotti all'ippodromo di Alessandria d'Egitto, dov'è ambientato il mimo urbano.
L'aggettivo polemiko/j ha invece un utilizzo quasi esclusivamente prosastico: lo troviamo
innanzitutto nel significato di «di/da guerra, guerresco», anche in forma sostantivata, come in h(
polemikh/ (sottinteso te/xnh) = «l'arte della guerra», o in to\ polemiko/n = «segnale di guerra»,
«grido di guerra» (entrambi i significati attestati in Senofonte), o in ta\ polemika/ = «le faccende
della guerra» (in Erodoto, Tucidide, Senofonte e altri). Quindi in quello di «atto, adatto alla guerra»:
il sostantivato to\ polemiko/n indica nella Politica di Aristotele (1291a 26 e altrove) il «corpo dei
cittadini atti a combattere». Ancora, in quello di «bellicoso», come in questa espressione tucididea
(I 84, 3), tratta dal discorso di Archidamo, re spartano, ai suoi concittadini: Polemikoi/ te kai\
eu1bouloi dia\ to\ eu1kosmon gigno/meqa = «Grazie alla nostra disciplina spirituale noi siamo
valorosi e assennati» [trad. di F. Ferrari, p. 189]; o in quest'altra, tratta dall'Anabasi di Senofonte (II
6, 1): ei[j me\n au)tw=n Kle/arxoj o)mologoume/nwj e)k pa/ntwn tw=n e)mpei/rwj au)tou= e)xo/ntwn
do/caj gene/sqai a)nh\r kai\ polemiko\j kai\ filopo/lemoj e)sxa/twj = «Tra loro [sc. Gli strateghi
greci fatti prigionieri e decapitati dal re persiano] Clearco, a unanime giudizio di tutti quelli che lo
avevano conosciuto un uomo estremamente esperto e appassionato di guerra» [trad. di F.
Bevilacqua, p. 375], nella quale si può apprezzare lo scarto semantico tra polemiko/j e
31 Cfr. Chantraine, tomo II, s.v. pelemi/zw, p. 875.
- www.loescher.it/medialassica -
13
filopo/lemoj. Ancora, e per finire, polemiko/j è attestato nel senso di «ostile, nemico», come
sinonimo di pole/mioj, a, on.
Al termine di questa breve rassegna di esempi, si deduce facilmente come l'italiano – sulla scia del
francese – abbia conservato l'idea di ostilità e contrapposizione aggressiva presente in tutta la
famiglia semantica greca, ma l'abbia decisamente trasferita dal campo dell'azione militare a quella
del contrasto dialettico, all'acceso dibattito tra opinioni diverse.
Sxh= m a / Schema – Sxhmati/ z w / Schematizzare – Sxhmatismo/ j /
Schematismo
Il termine sxh=ma, atoj (neutro, III declinaz., temi in dentale) si costituisce sul grado zero della
radice verbale sex- / sox- / sx- (= «avere»), con l'aggiunta di un ampliamento in eta (-h-, per il
quale si può confrontare il futuro sxh/sw), e dal suffisso -mat-, caratteristico dei nomina rei actae,
indicanti cioè azione compiuta. Il significato fondamentale che ne vien fuori è quello di «forma,
figura, aspetto», come nel v. 463 delle Rane di Aristofane, in cui lo schiavo Xantia invita il dio
Dioniso a non esitare a bussare alle porte dell'Ade, ricordandogli: kaq' (Hrakle/a to\ sxh=ma kai\ to\
lh=m' e1xwn = «dato che hai l'aspetto e l'animo simile a quello di Eracle». Spesso nei tragici il
termine viene impiegato al vocativo in contesti patetici, associato al genitivo di un oggetto o di una
persona per indicare perifrasticamente lo stesso oggetto o persona; così, per esempio, nel v. 952 del
Filottete sofocleo: w] sxh=ma pe/traj di/pulon = «o figura a due entrate della roccia», con cui il
protagonista vuole indicare la grotta che lo ospita da ormai dieci anni; oppure, nel v. 911 dell'Alcesti
euripidea: w] sxh=ma do/mwn pw=j ei)se/lqw; = «O aspetto della mia casa come potrò entrare?», in
cui Admeto guarda la sua dimora ed esita ad entrarvi ora che la sposa Alcesti è morta; o ancora, nel
v. 1072 della Medea, in cui Euripide rappresenta Medea mentre saluta i suoi figli prima di ucciderli:
w] sxh=ma kai\ pro/swpon eu)gene\j te/knwn = «o nobile aspetto e volto dei figli».
A partire da questo valore primario si dipanano, a seconda dei contesti, diverse accezioni
secondarie, per le quali in molti casi si può richiamare il parallelo con il sostantivo latino habitus,
anch'esso originato dal verbo «avere» (habeo = e1xw). Troviamo «contegno, portamento,
atteggiamento», come nelle parole del messaggero che hanno come destinatario Creonte
nell'Antigone di Sofocle (v. 1069): zh= tu/rannon sxh=m' e1xwn = «vivi pure avendo atteggiamento da
tiranno». Quindi «decoro, dignità»; poi «foggia», di abito e, per estensione, «vestito, abito,
abbigliamento», come negli Acarnesi di Aristofane, in cui Diceopoli, il protagonista, alla vista degli
ambasciatori del Gran Re di Persia, se ne esce in una colorita espressione di meraviglia: babaia/c.
]Wkba/tana tou= sxh/matoj = «Accidenti, per Ecbatana! Che eleganza!». Abbiamo poi una serie di
significati tecnici, per cui sxh=ma vale «figura» nell'ambito della danza (cfr. Aristofane, Vespe, v.
1485, Pace, v. 323, Euripide, Ciclope, v. 221, Platone, Le Leggi, 655a); «ruolo, parte» in quello del
teatro; «schieramento» in contesto militare (cfr. Senofonte, Anabasi, I 10, 10); «figura geometrica»
in campo matematico (cfr. Aristotele, De Anima, 414b 20); «figura retorica», in quello retorico (cfr.
Platone, Ione, 536c, Aristotele, Retorica, 1456b 9); «figura» di sillogismo nell'ambito della logica
aristotelica, fino ad arrivare a «forma» in quello linguistico-grammaticale. Per quest'ultima
accezione basti ricordare il consiglio aristotelico, contenuto in Retorica 1408b 21: to\ de\ sxh=ma
th=j le/cewj dei= mh/te e1mmetron ei]nai mh/te a1rruqmon = «non bisogna dare alla frase né una forma
metrica né una forma priva di ritmo» [trad. da Montanari, s.v.]. In senso tecnico, dunque, il termine
- www.loescher.it/medialassica -
14
pare indicare una forma regolata, ordinata e ripetitiva.
Veniamo ora al confronto con la nostra lingua. Nell'italiano schema è ben riconoscibile la parentela
fonetica ed etimologica con sxh=ma, ma ben diverso è il significato di fondo; con il vocabolo
schema, molto usato anche nell'ambiente scolastico, noi siamo soliti indicare, come segnala il
Cortellazzo-Zolli32, il “complesso delle linee principali di un disegno, un progetto, un fenomeno e
simili”, quindi la “trama”, l' “abbozzo”; oppure, in particolare nel campo letterario, artistico e
politico, il “sistema, modello che non ammette variazioni, mutamenti o innovazioni”33. In
quest'ultima accezione si nota quell'idea di ordine e ripetitività cui appena sopra si è fatto cenno per
i valori tecnici di sxh=ma, per quanto appaia più plausibile ipotizzare una derivazione dell'italiano
dalla traslitterazione latina schema, atis, (variante schema, ae), che, tra i vari significati che
riprendono quelli dell'antenato greco, possiede anche quella di «figura geometrica, schizzo», usata
da Vitruvio, autore, nel I sec. a.C. del trattato De Architectura.
Questa lontananza di significato tra greco e italiano si manifesta anche nei derivati di sxh=ma, come
il verbo della coniugazione tematica sxhmati/zw e il sostantivo sxhmatismo/j, ou= (masch., II
declinaz.). Il verbo riprende di fatto i valori di sxh=ma e vale, in primo luogo, «dare forma, formare»
(accezione nella quale, peraltro, è usato anche nel greco moderno), nelle varianti di «atteggiare»,
«ornare», «rappresentare», «tracciare figure di danza», «assumere una postazione, una posizione» in
battaglia; in secondo luogo, «fingere, simulare», con sfumatura negativa, come in un passo (577a)
della Repubblica di Platone: o3j mh\ kaqa/per pai=j e1cwqen o(rw=n e)kplh/ttetai u(po\ th=j tw=n
turannikw=n prosta/sewj h3n pro\j tou\j e1cw sxhmati/zontai = «colui che non si lascia
spaventare, alla stregua di un fanciullo, guardando da fuori, dalla pompa che i tiranni simulano nei
confronti degli estranei». Il sostantivo sxhmatismo/j, a sua volta nomen rei actae (suffisso -mo-) da
sxhmati/zw, indica in senso buono il «portamento, atteggiamento» del corpo (senso che possiede,
come abbiamo visto, anche sxh=ma): lo testimonia Platone quando si sofferma sul comportamento
esteriore dei giovani (Repubblica 425b) e li invita a seguire le tradizioni o3lon to\n tou= sw/matoj
sxhmatismo/n = «in tutto l'atteggiamento del corpo»; in senso negativo, vale «alterigia, superbia»,
come attesta ancora un passo della Repubblica in cui Platone tratteggia la figura del politico di
bell'aspetto e grandi qualità che si lascia traviare dal volgo e dice (494d): e)pi\ tou/toij u(yhlo\n
e)cairei=n au(to/n, sxhmatismou= kai\ fronh/matoj kenou= a1neu nou= e)mpipla/menon; = «Non si alzerà
in alto pieno di boria e di vano e stolto orgoglio?» [trad. di G. Lozza, p. 487]. Quindi, in senso
traslato, assume significati comuni anche a sxh=ma, come «figura» della danza, «forma immutabile,
atomo», «figura retorica», e infine, ma solo molto tardi (V-VI sec. d.C.), con il filosofo Damascio,
il senso grammaticale di «numero» (plhquntiko\j sxhmatismo/j = «numero plurale»).
Siamo ben lontani dai significati dei vocaboli italiani schematizzare e schematismo, che valgono
rispettivamente “semplificare qualcosa riducendola alle sue linee principali ed essenziali” e
“tendenza a procedere per schemi”34, per i quali è stato forse decisivo il tramite della lingua
francese, attraverso la quale è possibile che ci siano giunti nel senso attuale: schématique è attestato
fin dal 1378, mentre schématiser nell'accezione moderna risale all'inizio del XX secolo35.
BIBLIOGRAFIA
32
33
34
35
Vol. 5, s.v. schema, p. 1150.
Valore segnalato dal Dizionario Enciclopedico Italiano, Roma 1955-61, citato da Cortellazzo-Zolli, loc. cit..
Cortellazzo-Zolli, loc. cit..
Questa è l'ipotesi del Cortellazzo-Zolli, che peraltro non stabilisce i rapporti tra l'italiano schema e il francese
schéma, dallo stesso significato. È lecito supporre che tutta la famiglia semantica che abbiamo trattato sia passata
prima in francese, assumendo quel significato specifico che poi è stato ripreso dall'italiano.
- www.loescher.it/medialassica -
15
P. Chantraine, Dictionnaire étimologique de la langue grecque. Histoire des mots, tomi I-IV.2,
Paris (Klincksieck), 1968-80.
G. Devoto – G.C. Oli, Vocabolario della lingua italiana, Firenze (Le Monnier) 1979 e 2007.
M. Cortellazzo – P. Zolli, Dizionario etimologico della lingua italiana, Bologna 1985.
Enciclopedia Garzanti di Filosofia. Nuova edizione ampliata e aggiornata, Milano 1993.
Enciclopedia Motta, vol. V, Milano (F. Motta edit.) 1986.
F. Montanari, Vocabolario della lingua greca, Torino (Loescher), 1995.
G. Reale, Storia della filosofia antica, vol. V [Lessico, Indici, Bibliografia], Milano (Vita e
Pensiero) 1998.
L. Rocci, Vocabolario Greco Italiano, Firenze (Dante Alighieri) 1990.
L. Castiglioni – S. Mariotti, “IL” Vocabolario della lingua latina, Torino (Loescher) 1990.
Testi classici consultati:
Aristofane. Le Rane, introd. e trad. di G. Paduano, note di A. Grilli, Milano (BUR) 2002.
Aristotele. Opere biologiche, a cura di D. Lanza e M. Vegetti, Torino (UTET) 1996.
Aristotele. Politica, a cura di R. Laurenti, Roma-Bari (Laterza) 2007.
Carmi di Teocrito e dei poeti bucolici minori, a cura di O. Vox, Torino (UTET) 1997.
Demostene. Discorsi e lettere, vol. II, a cura di G. Russo, Torino (UTET) 2000.
Demostene. Orazioni (Filippiche, Olintiche, Sulla Pace, Sui fatti del Chersoneso), introd. di P.
Carlier, trad. e note di I. Sarini, Milano (BUR) 1998.
Erodoto. Le Storie, a cura di A. Colonna e F. Bevilacqua, vol. I, Torino (UTET) 1998.
Eschilo. Orestea, introd. di V. Di Benedetto, traduzioni e note di F. Medda, L. Battezzato, M.P.
Pattoni, Milano (BUR) 2002.
Menandro. Commedie, a cura di G. Paduano, Milano (Mondadori) 1989.
Omero. Iliade, prefaz. di F. Codino, trad. di R. Calzecchi Onesti, Torino (Einaudi) 1996.
Omero. Odissea, prefaz. di F. Codino, trad. di R. Calzecchi Onesti, Torino (Einaudi) 1998.
Platone. Simposio, Apologia di Socrate, Critone, Fedone, a cura di E. Savino, Milano (Mondadori)
1991.
Platone. La Repubblica, trad. di F. Sartori, introd. di M. Vegetti, note di B. Centrone, Roma-Bari
(Laterza) 2006.
Platone. La Repubblica, a cura di G. Lozza, Milano (Mondadori) 1990.
Plutarco.“Vite”, introd. di A. Bagarizzi, a cura di A. Traglia, vol. I, Torino (UTET) 1996.
Senofonte. Anabasi, a cura di F. Bevilacqua, Torino (UTET) 2003.
Tucidide. La guerra del Peloponneso, introd. di M. Finley, trad. di F. Ferrari, note di G. Daverio
Rocchi, Milano (BUR) 1998.
Tucidide. Le storie,a cura di G. Donini, vol. I, Torino (UTET) 1995.
- www.loescher.it/medialassica -
16
Con l'aggiunta di:
La Bibbia. Via Verità e Vita. Nuova versione ufficiale della CEI, Milano (ed. San Paolo) 2009.
- www.loescher.it/medialassica -