I Cantami, o Diva, del Pelide Achille l`ira funesta, che infiniti addusse
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I Cantami, o Diva, del Pelide Achille l`ira funesta, che infiniti addusse
I Cantami, o Diva, del Pelide Achille l’ira funesta, che infiniti addusse lutti agli Achei, molte anzi tempo all’Orco generose travolse alme d’eroi, e di cani e d’augelli orrido pasto lor salme abbandonò (così di Giove l’alto consiglio s’adempìa), da quando primamente disgiunse aspra contesa il re de’ prodi Atride e il divo Achille. (Omero, Iliade, trad. di Vincenzo Monti) II Musa, quell’uom di multiforme ingegno dimmi, che molto errò, poich’ebbe a terra gittate d’Ilïon le sacre torri; che città vide molte, e delle genti l’indol conobbe; che sovr’esso il mare molti dentro del cor sofferse affanni, mentre a guardar la cara vita intende, e i suoi compagni a ricondur: ma indarno ricondur desïava i suoi compagni, che delle colpe lor tutti periro. (Omero, Odissesa, trad. di Ippolito Pindemonte) III L'armi canto e ’l valor del grand’eroe che pria da Troia, per destino, a i liti d'Italia e di Lavinio errando venne; e quanto errò, quanto sofferse, in quanti e di terra e di mar perigli incorse, come il traea l'insuperabil forza del cielo, e di Giunon l'ira tenace; e con che dura e sanguinosa guerra fondò la sua cittade, e gli suoi dèi ripose in Lazio: onde cotanto crebbe il nome de’ Latini, il regno d'Alba, e le mura e l'imperio alto di Roma. (Virgilio, Eneide, trad. di Annibal Caro) IV O buono Apollo, all’ultimo lavoro fammi del tuo valor sì fatto vaso, come dimandi a dar l’amato alloro. Infino a qui l’un giogo di Parnaso assai mi fu; ma or con amendue m’è uopo intrar nell’aringo rimaso. Entra nel petto mio, e spira tue sì come quando Marsia traesti della vagina delle membra sue. O divina virtù, se mi ti presti tanto che l’ombra del beato regno segnata nel mio capo io manifesti, venir vedra’mi al tuo diletto legno, e coronarmi allor di quelle foglie che la matera e tu mi farai degno. (Dante Alighieri, Paradiso I 13-27) V Le glorïose pompe e ’ fieri ludi della città che ’l freno allenta e stringe a' magnanimi Toschi, e i regni crudi di quella dea che ’l terzo ciel dipinge, e i premi degni alli onorati studi, la mente audace a celebrar mi spinge, sì che i gran nomi e i fatti egregi e soli Fortuna o Morte o Tempo non involi. O bello idio ch’al cor per gli occhi inspiri dolce disir d’amaro pensier pieno, e pasciti di pianto e di sospiri, nudrisci l’alme d’un dolce veleno, gentil fai divenir ciò che tu miri, né può star cosa vil drento al tuo seno; Amor, del quale i’ son sempre suggetto, porgi or la mano al mio basso intelletto. Sostien’ tu el fascio ch’a me tanto pesa, reggi la lingua, Amor, reggi la mano; tu principio, tu fin dell’alta impresa, tuo fia l’onor, s’io già non prego invano; di’, signor, con che lacci de te presa fu l’alta mente del baron toscano più gioven figlio della etrusca Leda, che reti furno ordite a tanta preda. E tu, ben nato Laur, sotto il cui velo Fiorenza lieta in pace si riposa, né teme i venti o ’l minacciar del celo o Giove irato in vista più crucciosa, accogli all’ombra del tuo santo stelo la voce umìl, tremante e paurosa; o causa, o fin di tutte le mie voglie, che sol vivon d’odor delle tuo foglie. (Angelo Poliziano, Stanze per la giostra I 1-4) VI Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese io canto, che furo al tempo che passaro i Mori d’Africa il mare, e in Francia nocquer tanto, seguendo l’ire e i giovenil furori d’Agramante lor re, che si diè vanto di vendicar la morte di Troiano sopra re Carlo imperator romano. Dirò d’Orlando in un medesmo tratto cosa non detta in prosa mai né in rima: che per amor venne in furore e matto, d’uom che sì saggio era stimato prima; se da colei che tal quasi m’ha fatto, che ’l poco ingegno ad or ad or mi lima, me ne sarà però tanto concesso, che mi basti a finir quanto promesso. Piacciavi, generosa Erculea prole, ornamento e splendor del secol nostro, Ippolito, aggradir questo che vuole e darvi sol può l’umil servo vostro. Quel ch’io vi debbo, posso di parole pagare in parte, e d’opera d’inchiostro; né che poco io vi dia da imputar sono; che quanto io posso dar, tutto vi dono. (Ludovico Ariosto, Orlando furioso I 1-3) VII Canto l’arme pietose e ’l capitano che ’l gran sepolcro liberò di Cristo. Molto egli oprò co ’l senno e con la mano, molto soffrì nel glorïoso acquisto; e in van l’Inferno vi s’oppose, e in vano s’armò d’Asia e di Libia il popol misto. Il Ciel gli diè favore, e sotto a i santi segni ridusse i suoi compagni erranti. O Musa, tu che di caduchi allori non circondi la fronte in Elicona, ma su nel cielo infra i beati cori hai di stelle immortali aurea corona, tu spira al petto mio celesti ardori, tu rischiara il mio canto, e tu perdona s’intesso fregi al ver, s’adorno in parte d’altri diletti, che de’ tuoi, le carte. Sai che là corre il mondo ove più versi di sue dolcezze il lusinghier Parnaso, e che ’l vero, condito in molli versi, i più schivi allettando ha persuaso. Cosí a l’egro fanciul porgiamo aspersi di soavi licor gli orli del vaso: succhi amari ingannato intanto ei beve, e da l’inganno suo vita riceve. Tu, magnanimo Alfonso, il qual ritogli al furor di fortuna e guidi in porto me peregrino errante, e fra gli scogli e fra l’onde agitato e quasi absorto, queste mie carte in lieta fronte accogli, che quasi in voto a te sacrate i’ porto. Forse un dì fia che la presaga penna osi scriver di te quel ch’or n’accenna. (Torquato Tasso, Gerusalemme liberata I 1-4)