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C.so Taranto, 160 – 10154 Torino – tel. 011 4429700 – fax 011 4429719
in collaborazione con i CTP “Braccini”, “Parini” e “Saba”,
l’UNITRE (Università della Terza Età), l’Associazione ASAI, il Cinecircolo L’INCONTRO
(Collegno) e FIERI (Forum Internazionale ed Europeo di Ricerche sull’Immigrazione)
Rassegna cinematografica
MONDI LONTANI MONDI VICINI
Anno 2011 – 2012
XIX EDIZIONE
CINEMA MASSIMO UNO
TORINO
Via Verdi 18
Con il contributo di
Orario proiezioni per le scuole: 9.30 - 15.00 - 17.30 - 20.00
Riservato agli studenti delle scuole medie superiori e dei CTP, a gruppi di giovani, agli insegnanti e all’UNITRE
Orario proiezione pubblico: 22.30
INGRESSO LIBERO
Prenotazioni: Fax 011.4429729 - e-mail: [email protected]
Giovedì 27 ottobre 2011
INTO PARADISO
Regia di Paola Randi. Interpreti: Gianfelice Imparato, Peppe Servillo, Saman Anthony, Eloma
Ran Janz, Gianni Ferreri, Shatzi Mosca. Genere: drammatico, colore, 104 minuti - Produzione
Italia, 2010.
Sinossi
Alfonso è uno scienziato napoletano, timido e impacciato, che ha
appena perso il lavoro. Gayan è un affascinante ex campione di cricket
srilankese che non ha più un soldo, è appena arrivato a Napoli ed è
convinto di trovare il Paradiso. Alfonso ha passato tutta la vita a
studiare la migrazione delle cellule e a guardare telenovelas con la
madre. Gayan ha viaggiato e conosciuto fama e denaro. Alfonso è
costretto, per uno strano equivoco, a nascondersi a una banda di
malavitosi e Gayan diviene dapprima ostaggio e poi suo unico alleato. I
due si ritrovano a vivere in una catapecchia eretta abusivamente su un
tetto di un palazzo nel quartiere srilankese della città. Da questa
convivenza nasce una speciale amicizia che darà loro il coraggio di
affrontare il proprio destino, cambiandolo per sempre.
Rassegna stampa
«Into Paradiso è la storia di un’amicizia nata da una convivenza forzata. Credo che l’esperienza
dell’immigrazione si possa ricondurre, in ultima analisi, a questo: una condivisione obbligata di
spazi tra gente che proviene da mondi diversi. Quelli che vivono quotidianamente i problemi
dell’esperienza migratoria, sono ovviamente i migranti e quelli che abitano nei quartieri dove i
migranti vanno a vivere. Ovvero, nella maggior parte dei casi, nei quartieri poveri delle città. In
questa storia, ho cercato di raccontare che cosa sarebbe potuto succedere se un italiano fosse stato
costretto a vivere nel quartiere srilankese della sua città. Dunque, una prospettiva ribaltata, dove un
cittadino italiano si ritrova a essere anch’egli uno straniero, accolto dalla comunità srilankese perché
non ha più un posto dove stare. Entrambi i personaggi infatti vivono i disagi della società in cui
vivono e si coalizzano per cercare di affrontarli. I personaggi si ispirano a persone reali incontrate
nel periodo di ricerca che ho svolto a Napoli e in Sri Lanka. Ogni situazione, ogni carattere è, se
non reale, possibile in quel contesto. La storia è una storia di finzione, ma volevo che fosse il più
possibile ancorata alla realtà sociale contemporanea sul territorio» (Paola Randi, Note di regia,
pubblicate sul sito http://www.intoparadiso.it).
«Diretto dall'esordiente milanese Paola Randi, è Into Paradiso, commedia low budget surreale e
scanzonata che fotografa un’Italia multietnica, dove precari e migranti si nutrono della stessa crisi
d’identità, ma senza drammatizzare. Ottimi e affiatati gli attori, modeste le pretese sociologiche,
sobriamente fantasioso lo stile, un piccolo film che merita una possibilità, se non altro, perché
crede: nel potere immaginifico del cinema e nell’implosione della camorra» (Federico Pontiggia, “Il
Fatto Quotidiano”, 12 febbraio 2011).
«Che cosa ci fanno insieme uno scienziato che ha appena perso il lavoro, un ex-campione di cricket
venuto dallo Sri Lanka a Napoli per fare il badante, un politico colluso e corrotto, più un
imprecisato numero di killer della camorra in cerca di una pistola che scotta? Semplice: danno vita
alla commedia più insolita, strampalata e sofisticata vista da molto tempo in qua nel nostro cinema:
Into Paradiso dell’esordiente Paola Randi, 40enne milanese che viene da pittura, teatro e videoarte.
Into Paradiso, col suo cast senza stelle e la sua andatura senza inciampi finisce per essere più
comico, poetico e inventivo di film con ben altre strutture e ambizioni alle spalle» (Fabio Ferzetti,
“Il Messaggero”, 11 febbraio 2011).
«“L’idea di realizzare questo film è nata da un’immagine. Desideravo scrivere una commedia
sull’immigrazione in Italia. L’argomento mi sta a cuore, da un lato perché in famiglia siamo tutti
emigrati da qualche parte, dall’altro perché ho lavorato per dodici anni in organizzazioni che si
occupavano di interventi di cooperazione allo sviluppo”. Proveniente dal teatro e dai cortometraggi,
la regista Paola Randi sintetizza così la genesi del suo primo lungometraggio, storia di un’amicizia
nata da una convivenza forzata. Con le fattezze di Gianfelice Il divo Imparato, ne è infatti
protagonista Alfonso D’Onofrio, timido e impacciato scienziato napoletano che, trascorsa tutta la
vita a studiare la migrazione delle cellule e a guardare telenovelas con la madre, perde il lavoro e,
per un tragicomico equivoco, si trova costretto a nascondersi da una banda di malviventi in una
catapecchia abusiva sul tetto di un palazzo del quartiere srilankese della città, dove lo squattrinato
nero Gayan, alias Saman Anthony, ex campione di cricket, diviene dapprima ostaggio, poi suo
unico alleato. Ed è incluso anche il cantante degli Avion Travel Peppe Servillo nel cast di questa
commedia che, sceneggiata dalla stessa Randi insieme al Pietro Albino Di Pasquale cui dobbiamo
lo script de L’uomo fiammifero (2009), all’Antonia Paolini già attiva nella serie tv Raccontami e ai
mocciani Luca Infascelli e Chiara Barzini, tira in ballo perfino surreali momenti d’animazione.
Una commedia sicuramente atipica per il cinematograficamente vuoto stivale tricolore d’inizio XXI
secolo, ma che risente un po’ troppo – e in maniera evidente – della preparazione teatrale della sua
autrice. Non a caso, il maggiore pregio dell’operazione è individuabile nelle prove degli attori, in
quanto l’insieme, nonostante il veloce susseguirsi delle assurde situazioni, raramente riesce a
coinvolgere lo spettatore, risultando non poco noioso e a tratti (molti tratti) incomprensibile.
La frase: “I morti stanno tranquilli, sono i vivi il vero problema”» (Francesco Lomuscio,
FilmUp.com, 27 agosto 2010).
«Alfonso è un ricercatore universitario: timido, impacciato e drammaticamente precario. Alla
notizia del suo licenziamento, decide di rivolgersi a un vecchio amico d’infanzia, un politico in
ascesa, nella speranza di ricevere una raccomandazione. Ottenuto il favore, viene coinvolto in una
resa dei conti tra camorristi e, costretto a scappare, si rifugia nel piccolo appartamento sul tetto di
Gayan, un ex campione di cricket srilankese. La convivenza forzata tra i due permetterà la nascita di
una solidarietà umana che cambierà le loro vite. Napoli è una città vitale, dove la multiculturalità –
secondo la regista Paola Randi – detta legge, anche quando camorra e malavita seminano terrore. Il
suo esordio al lungometraggio è un gioiello che brilla della luce vigorosa degli abitanti napoletani.
Classicismo e sperimentazione si alternano come pesi di una bilancia che carica una storia
complessa e ricca di riferimenti all’attualità. La rappresentazione della politica, infatti, è in linea
con l’immagine dei governatori italiani; come dice Alfonso nel film, i “politici mangiano tutto”,
dimostrando con un’espressione breve e incisiva l'arraffamento smanioso della classe dirigente
italiana. La dignità osannata ma mancata del politicante sta in mezzo ai due estremi, Alfonso e
Gayan. Il luogo dell’incontro tra quest’ultimi, chiamato realmente “Paradiso” dalla comunità
singalese che ci abita, è un mondo a sé, distaccato da Napoli per tradizioni popolari ma vicino alla
città per esuberanza di colori. Lo spaesamento di Alfonso è indice di un’ingenuità atavica che tende
a perdonare tutto, a livellare su uno stesso piano ciò che è buono e cosa non lo è affatto, la gente per
bene e i camorristi. L’ironia con la quale la regista si diverte a raccontare queste contraddizioni
passa attraverso scenette esilaranti che prendono in giro le abitudini private dei cittadini:
l’ossessione per le telenovelas e l’incontentabile signora borghese che sfrutta Gayan come badante.
La leggerezza che ne consegue smorza i toni tragici dell’intreccio, senza però appiattire i temi
trattati. La denuncia di una malavita distruttiva rimane in primo piano. Ma allo stesso tempo la
possibilità di una conciliazione tra due mondi diversi come quelli di Alfonso e Gayan mette il punto
sulla speranza. L’estrosità dello stile registico e la forza dei contenuti dimostrano come sia possibile
contribuire alla resistenza del cinema italiano con coraggio e sfrontatezza. Malgrado qualche lieve
caduta di sceneggiatura, un debutto del genere va difeso senza tentennamenti» (Nicoletta Dose,
http://www.mymovies.it/film/2010/intoparadiso/).
«La Napoli multietnica e tanta musica, quella degli Avion Travel, nell’esordio alla regia di Paola
Randi. In questa pellicola divertente e allo stesso tempo profonda fa bella mostra infatti il frontman
degli Avion Travel, Peppe Servillo, volto noto dei set italiani quasi quanto il fratello Tony, da anni
nel gotha sella settima arte. Uno scambio di persona, una bugia dettata dalla miseria, il precariato di
un ricercatore con la fama di iettatore, e poi ancora i vicoli di Napoli inconsueta, multietnica con il
suo quartiere cingalese, questi gli elementi di una comicità smart, di un film allegro ma tagliente.
Ancora Avion Travel alla colonna sonora, che accompagna senza strafare con Fausto Mesolella,
chitarrista del gruppo cui è stato invece affidato il compito di comporre le musiche del film. La
pellicola presentata nell’interessante sezione Controcampo italiano si segnala per ricchezza di
sottotesto e originalità, una bella boccata d’aria nell’italico panorama del cinema giovane» (Rocco
Giurato, 7 settembre 2010, http://film.35mm.it/into-paradiso-2010/recensioni/114723.html).
La critica
«Into paradiso è il primo lungometraggio di Paola Randi, presentato nella sezione Controcampo
italiano alla 67° Mostra del Cinema di Venezia e salutato dal pubblico con più di dieci minuti di
applausi. Ambientato nella Napoli rumorosa e nascosta di un rione in parte colonizzato da
immigrati dello Sri-Lanka, il film espone sotto la forma della commedia la relazione tra un
ricercatore universitario licenziato a causa dei tagli e un ex campione di cricket migrato in Italia con
l’illusione di poter continuare a sostenere la propria vita di fama e successo. Entrambi i personaggi
si trovano dunque ad affrontare una realtà nuova, il primo a cercare un nuovo impiego attraverso la
classica raccomandazione all’italiana, il secondo costretto dalle vicissitudini e dalla comunità che lo
accoglie a sottostare all’“umiliazione” di farsi badante di una ricca e lunatica anziana.
Le loro strade s’incrociano grazie a un politico, il quale, coinvolgendo l’ex ricercatore in una
disavventura con la camorra, lo costringe a rifugiarsi proprio nella comunità cingalese,
nell’appartamento dell’immigrato.
La storia si svolge su un binario lineare, con pochi colpi di scena, ma con un ritmo cadenzato dalla
comicità delle singole situazioni in cui i protagonisti si vengono a trovare: il peso di queste è retto
con una grande capacità interpretativa dal protagonista, Gianfelice Imparato, nella parte del
ricercatore disoccupato di mezza età impacciato fino al limite della sopportazione, coadiuvato
dall’espressività di Peppe Servillo, in un’ottima interpretazione da caratterista (considerato non sia
un attore di professione) nella parte del politico corrotto; non proprio indimenticabile invece Saman
Anthony, nel ruolo dell’immigrato cingalese, troppo rigido nei movimenti e nella dizione, non
riesce fino in fondo a colmare queste lacune con l’espressività del proprio viso.
L’idea di una commedia ambientata nella Napoli multiculturale che coinvolge, seppure in modo
stereotipato, alcuni dei soggetti che la compongono (il ricercatore disoccupato e insicuro, il politico
corrotto, l’immigrato che s’illude di sbarcare subito il lunario, i camorristi spietati solo in
apparenza, l’anziana borghese e lunatica), è ben resa dalla regia di Paola Randi, la quale si prende
anche l’originale libertà di alcune scene paradossali che divagano rispetto alla storia rappresentando
l’immaginazione del protagonista nei suoi complessi ragionamenti. Tuttavia il filo intellettuale e
umano che lega la storia è molto fragile, ed emerge soltanto nel momento in cui è il protagonista
stesso a rivelarlo in modo chiaro, nella scena finale: il suo studio sulla possibilità di una
comunicazione tra le cellule sane e quelle “impazzite” è la chiave di lettura per una interpretazione
della società, divisa un po' troppo semplicisticamente tra buoni e cattivi».
Alessio Tommasoli, 18 febbraio 2011, ondacinema.it
Martedì 22 novembre 2011
VIVA L’ITALIA
Regia di Roberto Rossellini, sceneggiatura: Sergio Amidei, Antonio Petrucci, Carlo Alianello,
Luigi Chiarini, Roberto Rossellini. Interpreti: Renzo Ricci, Paolo Stoppa, Franco Interlenghi,
Giovanna Ralli, Attilio Dottesio, Raimondo Croce, Tina Louise, Leone Botta, Giovanni
Petrucci, Remo De Angelis. Genere: storico, 106 minuti - Produzione Italia/Francia, 1961.
Sinossi
Il film racconta le vicende della spedizione dei Mille e lo spirito
del Risorgimento. Sicilia, 1860: Garibaldi sbarca a Marsala e a
Calatafimi sconfigge l'esercito borbonico. Con il sostegno della
popolazione locale i garibaldini superano lo stretto di Messina e
avanzano verso Napoli, capitale del Regno delle Due Sicilie.
Sul Volturno Garibaldi sconfigge definitivamente i soldati
fedeli al re di Napoli. A questo punto i suoi uomini vorrebbero
dirigersi verso Roma, ma Garibaldi sa che bisogna scendere a
patti con Vittorio Emanuele II. A Teano i due si incontrano e
Garibaldi consegna nelle mani del sovrano e dei Savoia i frutti
del suo operato.
Viva l'Italia è una coproduzione italo-francese realizzata in due versioni per i due Paesi, caratterizzate da
notevoli differenze nel montaggio e nella durata. Il titolo fu oggetto di alcune polemiche e cambiato poco
prima della presentazione. Originariamente Rossellini aveva titolato il film Paisà 1860 per sottolineare il
taglio neorealistico dell’opera che rappresenta un distacco dalla retorica risorgimentale per approdare al
rigore storico nella narrazione. La lettura data da Rossellini agli avvenimenti risorgimentali del 1860 divise i
critici anche se il film è una rara ricostruzione storica d’immagine ed è girato nei luoghi dove si svolsero i
fatti, con centinaia di comparse e una notevole attenzione ai costumi. Particolarmente suggestive le riprese
dall’alto della battaglia di Calatafimi che mostrano le posizioni e i movimenti delle truppe sul colle Pianto
Romano e le ambientazioni dell’insurrezione di Palermo, in una città quasi spettrale che ancora portava i
segni del precedente conflitto mondiale.
Rassegna stampa
«La spedizione dei Mille del 1860 guidata da Garibaldi, dallo scoglio di Quarto (5 maggio), sino
all’incontro di Teano (26 ottobre) con re Vittorio Emanuele II. Pur con alti e bassi di stile e di tono,
nonostante i compromessi storico-ideologici di sceneggiatura, il film raggiunge i suoi scopi: togliere
l’epopea garibaldina dal mito e dall’oleografia (con un Garibaldi miope e reumatico, ridotto alla sua
misura domestica: Ricci con la voce di Emilio Cigoli) e dare alla rievocazione storica la spoglia
concretezza di una cronaca. Il tono cresce nell’ultima parte col mirabile inciso alla corte di Napoli,
l’incontro di Teano, la partenza per Caprera: momenti in cui verità storica e umana coincidono in
poesia. L’edizione francese, quella che il regista prediligeva, è di 139 minuti» (Laura, Luisa e
Morando Morandini, il Morandini, Zanichelli).
«Viva l’Italia, è stato realizzato da Roberto Rossellini “nel quadro del primo centenario dell’unità
d’Italia” ed è ispirato perciò a quegli avvenimenti che, un secolo fa, contribuirono a unificare il
nostro paese, a cominciare dalla spedizione dei Mille. A differenza però di Alessandro Blasetti che,
quasi vent’anni fa, precorrendo il neorealismo, con il suo 1860, di Garibaldi e dei Mille ci aveva
dato una immagine asciutta, riarsa, tesa fino quasi allo spasimo in un connusco clima di poesia,
Rossellini si è attenuto qui a una narrazione episodica, dando largo spazio alle pagine storiche, ai
retroscena politici, ai piccoli fatti di cronaca e mettendo dichiaratamente l’accento sulla figura
centrale di Garibaldi, interpretata in una chiave che, se resta tradizionale quando di quel carattere ci
esprime i proverbiali aspetti di generosità, di filantropia e di coraggio, si fa volutamente dimessa
quando cerca di metterne in luce i lati più domestici ed umani, la miopia, la necessità di leggere i
proclami e non di improvvisarli, i reumatismi, le pantofole, il caffè a letto, ed altro ancora…» (Gian
Luigi Rondi, “Il Tempo”, 1961).
La critica
«Intento esplicito di Rossellini è quello di capovolgere la genesi celebrativa del film (Viva l'Italia
venne concepito come pellicola commemorativa del centenario della spedizione dei Mille). In altre
parole il regista intende contrapporre alla retorica agiografica con cui tradizionalmente la cultura
italiana aveva trattato il tema del Risorgimento (esaltazione del ruolo eroico dei grandi personaggi
storici), ingessandolo in una dimensione epico-mitologica, una ricostruzione in termini di rigorosa
oggettività didascalico-divulgativa (il più possibile fedele alla verità storica), dove la Storia perde il
suo alone di solennità per farsi cronaca realistica a partire dall’osservazione del particolare e del
quotidiano. Rossellini cerca di approdare al grande affresco storico frequentando più la cronaca che
la Storia o, per meglio dire, mostrando come attraverso la cronaca si arrivi alla Storia. Il Garibaldi
acciaccato che fatica a montare a cavallo, il sovrano Vittorio Emanuele II che parla con un forte
accento piemontese, il generale Landi che prefigura con rassegnazione la sconfitta, re Ferdinando II
che lascia mestamente la sua reggia vogliono disegnare dei ritratti antieroici che evidenziano il lato
umano di questi monumenti storici; i soldati che mangiano tra i boschetti, i frati francescani che
portano il fucile, le immagini concitate di battaglia nelle quali si affrontano anonimi combattenti
contribuiscono a dare pari dignità, rispetto a coloro che la Storia la fanno, anche a quelli che la
Storia la vivono e che non avranno nomi sulle lapidi celebrative.
La maggior parte dei critici concordano nell’osservare come Rossellini non sia riuscito (o non sia
riuscito del tutto) a essere fedele alle intenzioni che si era proposto, assumendo di frequente proprio
quel tono celebrativo che si era ripromesso di evitare e allontanandosi pure dal proclamato
intendimento di assoluto rispetto del puro dato storico. Si dice che troppi abbiano messo le mani
nella sceneggiatura e che tra questi ci fosse chi volesse attualizzare in chiave contemporanea la
Storia, contrapponendo così una finalità pedagogico-didascalica (il film sostiene una tesi, una
visione parziale della realtà che deve essere assimilata dallo spettatore) all’originario proponimento
di distaccata oggettività (il film deve esclusivamente esporre e illustrare dei fatti senza influenzare il
giudizio dello spettatore).
Viva l'Italia risente indubbiamente della mancanza di omogeneità del progetto che sostiene il film e
questo si riversa in una certa discontinuità, dove a momenti di spoglia e incisiva concretezza
narrativa e descrittiva (il sacrificio di Rosa, la battaglia del Volturno mostrata come una
scampagnata, la presa di Palermo) si succedono sequenze nelle quali il regista fatica a sfuggire a
un’impostazione troppo convenzionale e solenne, che sembra mutuata dall’iconografia ufficiale
sull’argomento (pittura, stampe d’epoca, ecc…), finendo prigioniero del suo stesso intendimento di
essere puro illustratore di fatti (e non commentatore)».
.
http://www.pacioli.net/ftp/def/paciolicinemaecineteca/PacioliCinema/3-Film/Film2001/199.htm
Lunedì 19 dicembre 2011
LA NANA – AFFETTI & DISPETTI
Regia di Sebastián Silva. Interpreti: Catalina Saavedra, Claudia Celedón, Alejandro Goic,
Andrea Garcia-Hiudobro, Mariana Loyola, Agustin Silva, Darok Orellana, Sebastián La Rivera.
Genere: drammatico; colore, 95 minuti - Produzione Cile, Messico, 2009.
Sinossi
La nana del titolo originale non è una donna bassa, ma una “tata”,
domestica babysitter, che ha tenuto in ordine una villa grande, ha accudito,
vestito e nutrito quattro bambini. Da ventitre anni a servizio presso la
stessa famiglia, ora Rachele ne compie quarantuno e una famiglia sua non
ce l’ha. Quei borghesi agiati e civili, ai quali ha dedicato le sue cure, e che
pure la ricambiano con affetto, restano in definitiva degli estranei. La
donna si dimostra ostile a tutti, seppur esaurita e affetta da terribili mal di
testa, è pronta a dichiarare guerra alle domestiche che la padrona le vuole
affiancare per aiutarla, finché arriva Lucia, che la fa sentire amata e la
strappa dalla sua prigione domestica e dalla ossessione maniacale per il
lavoro.
Rassegna stampa
«Novantacinque minuti, passati in una casa tra stracci, aspirapolvere e urla di bambini capricciosi,
che tengono incollati alla poltrona del cinema. Una vicenda pesante descritta con estrema
leggerezza, un’ambientazione domestica noiosa per una trama avvincente e dai risvolti psicologici
imprevedibili. La storia di una donna che non lavora per vivere ma vive per il lavoro.
Se pensate che non ci sia niente di meno curioso e interessante della vita di una colf, non avete
ancora visto Affetti & Dispetti, opera seconda, ma la prima a colori, del trentenne Sebàstian Silva
[...]» (Annalisa Bertè, “Liberal”, 2 luglio 2010).
«Il titolo con cui esce in Italia (quello originale, La nana, sta per “cameriera”, “colf”) può portare
fuori strada, facendo prendere il secondo film del cileno Sebastián Silva per una commedia. Se pure
tocchi sparsi di commedia vi si ritrovano, si tratta piuttosto di un dramma psicologico, di uno studio
di carattere non collocabile entro precisi confini. Affetti & dispetti non è neppure un thriller, come
qualcuno potrebbe immaginare ricordando vecchie storie di governanti pazze o di domestiche
indemoniate [...]» (Roberto Nepoti, “La Repubblica”, 26 giugno 2010).
«Una volta si diceva “la serva”. Poi la parola diventò troppo cruda e si passò a governante,
cameriera, domestica, donna di servizio, fino al burocratico colf (anche se ormai a Roma tutti
dicono con larvato razzismo “la filippina”). Ma il termine migliore per indicare la protagonista di
questo impeccabile La nana (che in Cile sta per “tata”) è proprio domestica: formale, rispettoso,
corretto, eppure distante. Una specie di membro esterno della famiglia che per farne parte svolge i
lavori più umili [...]» (Fabio Ferzetti, “Il Messaggero”, 25 giugno 2010).
«Girato in digitale con una fotografia dai colori spenti, quasi priva del rosso, Affetti e dispetti è uno
studio psicologico di notevole finezza. L’alienazione nel lavoro (come il maggiordomo Anthony
Hopkins di Quel che resta del giorno, Raquel ha annullato se stessa nel lavoro), la solitudine, il
rapporto servo-padrone e le barriere fisiche che sanciscono le distanze sociali (porte, muri e cancelli
sono costantemente presenti a delimitare gli spazi di potere) sono tratteggiati con precisione
realistica e senza forzate sottolineature. Inizialmente, quando si vedono certi conflitti tra Raquel e
Camila, la figlia più grande dei Valdés (Raquel le proibisce di prendere da mangiare, Camila le dice
“qui sei tu la serva”, ecc.) sembrerebbe che il film – sulla falsariga di classici come Il servo di
Pinter/Losey o Le serve di Genet – voglia esplorare soprattutto le ambiguità del rapporto tra servo e
padrone e le possibili inversioni di gerarchia. Col procedere della storia, quello che emerge è
piuttosto l’osservazione, che è sempre guidata dall’affetto, del progressivo estraniarsi dal mondo di
Raquel. Tra i pregi del film c’è la capacità di evitare di dar sfogo al registro grottesco-caricaturale,
che facilmente avrebbe potuto emergere da una storia come questa, e di non trasformare la
protagonista in una macchietta di cui ridere: il difficile rapporto col mondo di questa donna è
sempre guardato con “simpatia” e compassione. È dunque un film che talvolta può mettere a disagio
lo spettatore, perché lo spinge a identificarsi con una persona il cui rapporto col mondo è fortemente
problematico» (Rinaldo Vignati, non solocinema.com, 23 giugno 2010).
La critica
«Raquel è l’introversa e bizzosa domestica dei Valdés, una famiglia benestante che da vent’anni
occupa tutti i suoi pensieri fino all’emicrania. E sono proprio le sue dolorose e frequenti cefalee a
preoccupare la padrona di casa, che ritiene opportuno affiancarle una seconda cameriera. Convinta
che il provvedimento della signora Valdés possa minacciare il suo ruolo e il suo regno domesticoaffettivo, Raquel si accanisce sulle ignare aspiranti, intralciandone il lavoro e chiudendole
letteralmente fuori dalla porta e dalla vita dei “suoi cari”. Ricoverata in ospedale dopo un collasso
fisico ed emotivo, viene provvisoriamente rimpiazzata da Lucy, una giovane donna esuberante che
non tarderà a farsi amare dai Valdés. L’offensiva della domestica storica non risparmierà nemmeno
la nuova arrivata, che metterà in atto però un inedito quanto efficace contrattacco. Approvata e
infine accreditata, Lucy vincerà il cuore di Raquel, rivelandone la dolcezza e muovendola alla vita.
Opera seconda e “a colori” di Sebastián Silva, Affetti & dispetti è una commedia domestica centrata
sulla famiglia, valore centrale e formidabile collante sociale per i popoli latini, e colma di emozioni
finemente descritte. Dopo il debutto in bianco e nero (La Vida me Mata), il regista cileno racconta il
suo paese e la sua giovane democrazia attraverso i vincoli affettivi e di classe dei protagonisti. La
dinamica, almeno quella di partenza, è quella classica padrona-serva: Pilar Valdés è la madre
borghese e colta di quattro figli che coniuga lavoro e famiglia dentro la sua lussuosa villa, Raquel è
la sua domestica da due decenni, ne ha cresciuto i figli e con il suo proletario senso pratico fa fronte
alle faccende casalinghe. La prima parte del film documenta allora le tappe di questa relazione e il
vincolo di necessità ma pure di affetto sincero che tanti anni di convivenza hanno instaurato tra le
due donne. Inibita e chiusa al mondo e alle persone, la Raquel ordinaria e straordinaria di Catalina
Saavedra (premiata al Sundance e blasonata al Torino Film Festival) è sullo schermo una presenza
misurata ma non meno capace di suscitare sfumature di intenso sentimento. Caduta in uno stato di
profonda depressione, cui cerca di far fronte nel modo a lei più congeniale, riordinando la cucina,
rigovernando le stanze da letto e disinfettando i servizi, “la nana” recupererà la condizione fisica e il
valore dei rapporti umani nella seconda metà del film e nel confronto con la nuova domestica.
Sarà lei a vedere chiaramente oltre l’intrattabilità, lei a interrogare la rassegnazione di una vita
tribolata, lei, ancora, ad invitare la collega e l’amica ad amare di nuovo, a conoscere altri suoni, altri
odori, altri corpi, altri amici, altre famiglie. Affetti & dispetti è una commedia di costume che ha i
suoi momenti più interessanti negli spazi chiusi ma che si risolve e risolve la protagonista scorrendo
all'esterno, dove la vita di Raquel riprende letteralmente a correre».
Marzia Gandolfi, http://www.mymovies.it/film/2009/affettiedispetti/
Giovedì 19 gennaio 2012
LONDON RIVER
Regia di Rachid Bouchareb. Interpreti: Brenda Blethyn, Sotigui Kouyaté, Francis Magee,
Sami Bouajila, Roschdy Zem, Marc Baylis. Genere: drammatico, colore, 87 minuti Produzione Algeria/Francia/Gran Bretagna, 2009.
Sinossi
Il mattino del 7 luglio 2005 quattro bombe esplosero a Londra: gli
assassini che viaggiavano sui mezzi pubblici fecero detonare
l’esplosivo che portavano nei loro zaini, uccidendo in pochi minuti 56
persone e ferendone 700. Il film racconta la storia di due persone, il
senegalese musulmano Ousmane e la cristiana signora Sommers,
direttamente colpite dagli attentati, sebbene in quel momento molto
lontane dai luoghi delle esplosioni. Ousmane vive in Francia, la signora
Sommers su un’isola della Manica. Entrambi conducono una vita
normale, fino a quando vengono a sapere che dal 7 luglio, giorno degli
attentati, i loro figli sono scomparsi. Quando arrivano a Londra
scoprono che i loro figli vivevano insieme.
Rassegna stampa
«La coproduzione franco-inglese London River arriva in Italia a più di un anno dal premio conferito
alla Berlinale all’attore maliano Sotigui Kouyaté (tra i più intensi e “tecnici” performer di Peter
Brook) per la sua smagliante, obliqua e destabilizzante interpretazione di un padre alla ricerca della
verità sulla morte del figlio “immigrato” al Nord, disperso in occasione di un devastante attentato
terroristico e dunque più di altri destinato a sparire nel nulla senza che nessun cittadino europeo
bianco si preoccupi e si indigni più di tanto per la sua sorte» (Roberto Silvestri, “Il Manifesto”, 27
agosto 2010).
«London River muove da una tragedia autentica: gli attentati londinesi del 7 luglio 2005, allorché
quattro terroristi pakistani si fecero saltare in aria con l’esplosivo che portavano negli zaini. Nella
metropolitana e su un autobus trovarono la morte 56 persone, più di 700 rimasero ferite. Ce la narra
attraverso i casi privati di Elisabeth, contadina cattolica dell’isola inglese di Guernsey, e
dell’africano di fede musulmana Ousmane. Entrambi arrivano a Londra alla ricerca dei figli, senza
conoscersi e ignorando che i due ragazzi scomparsi si conoscevano molto bene e frequentavano
assieme una scuola di lingua araba» (Roberto Nepoti, “La Repubblica”, 28 agosto 2010).
«La tragedia del clamoroso attentato terroristico del 7 luglio 2005 a Londra rivive nel toccante
London River, scritto e diretto con estrema delicatezza dal francese Rachid Bouchareb. La sua
intuizione vincente è quella di parlare di un tragico evento di fresca memoria, utilizzandolo come
pretesto per allargare il discorso ai pregiudizi e a quell’ignoranza che tiene gli esseri umani distanti.
Il punto di vista prescelto per ricordare gli attentati ai danni dei mezzi di trasporto della capitale
inglese, che fecero 56 vittime e ferirono oltre 700 persone tra metro e bus, è quello di due genitori
alla ricerca dei propri figli scomparsi. Una contadina vedova, proveniente da un’isoletta inglese,
senza più notizie della figlia dal giorno della tragedia, e un africano trapiantato a Parigi, sbarcato
nella metropoli londinese per ritrovare il giovane figlio, si ritrovano per caso a confrontarsi nel
dolore di un dramma comune. Sarebbe potuta risultare facilmente ricattatoria una pellicola che va a
infilarsi nelle pieghe di una simile disgrazia, che come l’11 settembre americano ha cambiato per
sempre il volto di Londra, capitale multiculturale d’Europa colpita al cuore e destinata anch’essa a
tremare per la mancanza di sicurezza. Invece il film di Bouchareb sa maneggiare con grande
sensibilità il dramma, affidandolo ai primi piani dei due meravigliosi protagonisti. In particolare,
Brenda Blethyn si cala con intensità in un personaggio profondamente umano, che esprime nello
stesso tempo la fragilità di una madre sola di fronte alla disperazione provocata dalla scomparsa
della figlia e la determinazione di chi spera che non tutto sia ancora perduto e si attiva per ottenere
delle certezze. L’umanità del personaggio sta però anche nei suoi pregiudizi razzisti di donna
lontana dal melting pot della metropoli, costretta a scontrarsi con una diversità di cultura e religione
a cui non è preparata. Il percorso di ricerca dei due personaggi si fa talvolta straziante, quando la
solitudine unita all’impotenza di fronte alla mancanza di certezze tiene i due in un limbo di
preoccupata attesa. Faticando a superare le barriere culturali, anche fare della speranza un
sentimento comune diventa improbabile e l’ansia crescente per la sorte dei figli dispersi gonfia
dentro sentimenti contrastanti. Bouchareb screzia però di un leggero umorismo il film, ma alcune
soluzioni di sceneggiatura paiono troppo semplicistiche, come quando d’improvviso l’ottimismo
prende il sopravvento e i due genitori s’illudono nel lieto fine. Le incertezze dello script non
inficiano però il risultato finale: oltre che una fotografia sobria su un recente capitolo nero della
storia di Londra, London River rappresenta una garbata riflessione sul tema del razzismo che ci
tiene distanti dal nostro vicino, rischiando di allontanarci anche quando ci sarebbe bisogno di
stringersi nello stesso dolore» (Massimo Borriello, www.movieplayer.it, 12 febbraio 2009).
La critica
«Elizabeth è una donna di mezza età che vive in un’isola inglese dove coltiva la terra. È vedova, sua
figlia ventenne vive a Londra. Saputo degli attentati del 7 luglio 2005, Elizabeth cerca di parlare
con la ragazza ma non ottiene risposta: parte allora per la capitale inglese alla sua ricerca. Per gli
stessi motivi arriva a Londra anche Ousmane, un uomo che da anni lavora in Francia come
giardiniere che certa di rintracciare il figlio Ali, che non vede da quando aveva sei anni. Le strade di
Elizabeth e di Ousmane sono destinate a incrociarsi, visto che, a loro insaputa, i due ragazzi
avevano una relazione e vivevano assieme. L’incontro tra i due non sarà facile all’inizio, per via di
diffidenze e pregiudizi (reciproci ma molto più evidenti in Elizabeth), ma saranno la
consapevolezza del legame tra i loro figli e la “livella” del dolore ad avvicinarli.
Quello di Rachid Bouchareb non è propriamente un film che si possa fregiare dell’aggettivo
“originale”, né da un punto di vista tematico né da quello formale. Inizialmente quindi London
River spaventa un po’, presentandosi come l’ennesimo film sulla difficoltà di incontro tra culture.
Ma la ricerca prima parallela e poi incrociata di Elizabeth e Ousmane assume valenze leggermente
differenti grazie alla caratterizzazione dei due protagonisti e dei personaggi che incontrano sul loro
cammino. Bouchareb racconta infatti un mondo dove è ancora vivo e presente l’altruismo, dove si
rintraccia l’amore per il prossimo; un mondo dove si rifiuta la politicizzazione della religione (“qui
si prega, non si fa politica”, dice un imam a Ousmane, che si era rivolto a lui per avere notizie del
figlio) e le caratterizzazioni stereotipate dei personaggi in base all’etnia. Quella di London River è
un’umanità vera, che getta le sue radici in un senso di comunità e fratellanza che supera la religione
e viene dalla condivisione delle stesse sofferenze, delle stesse gioie, uguali per tutti, della stessa
terra. Quella terra, quella natura alle quali non a caso (con metafora scontata ma efficace) sia
Elizabeth che Ousmane lavorano con le loro mani, con un atteggiamento esistenziale che rischia di
andare dimenticato. Se è vero che anche questi aspetti del film di Bouchareb non sono né originali
né nuovi hanno però il pregio di essere raccontati con un pudore che rifugge da ogni buonismo,
azzerando così la retorica ed evidenziando il sentimento. Brenda Blethyn è come sempre in parte
nei panni della middle class woman, ma a colpire è la fisicità essenziale e silenziosa di Sotigui
Kouyaté nei panni di una figura ieratica, dignitosa e umilissima al tempo stesso».
Federico Gironi, www.comingsoon.it, 23 agosto 2010
Martedì 14 febbraio 2012
ALMOST MARRIED – Come dire a mio padre che voglio sposare un ragazzo italiano
Regia di Fatma Bucak, Sergio Fergnachino. Interpreti: famiglia Bucak, famiglia Luca.
Genere: documentario, biografico-sociale, colore, 60 minuti - Produzione Italia, 2010.
Realizzato con il sostegno di Piemonte Doc Film Fund, della Regione Piemonte e del Festival
Haivistomai.
Sinossi
Mi chiamo Fatma, cinque anni fa sono venuta in Italia per
studiare fotografia, sono fuggita dalla mia famiglia. La mia è
una famiglia curda grande come una tribù, e come in ogni
tribù molte decisioni sulla vita dei singoli individui vengono
prese collettivamente, secondo leggi antiche. Mio padre, ex
fiancheggiatore del PKK, vive le contraddizioni tra le sue
idee progressiste di gioventù e il ruolo di custode delle
tradizioni che oggi riveste. Per questo ho sempre avuto
paura di parlargli della vita che conduco a Torino, della mia
convivenza con un ragazzo italiano che si chiama Davide. Io
e Davide siamo intenzionati a sposarci e abbiamo deciso di
annunciare il nostro fidanzamento durante l’estate. Prima di
trovare il coraggio di parlare con mio padre ho voluto stare alcuni giorni con lui. L’occasione è stata
il matrimonio di una cugina, nel villaggio curdo dove ancora vive parte della mia famiglia. Io e mio
padre siamo partiti insieme e mentre io pensavo al mio fidanzamento ho ascoltato le storie d’amore
e di matrimoni combinati di alcune mie cugine. E alla fine gli ho fatto la mia confessione…
Rassegna Stampa
«Partendo dalla storia di Fatma vogliamo dare corpo alla sua idea di un destino familiare, che
affonda le radici nel passato, nella vita delle donne che l’hanno preceduta. Nonostante queste
premesse drammatiche il film intende adottare uno sguardo ironico, capace di cogliere l’assurdità di
certi comportamenti ma di mantenere anche la vicinanza e l’affetto che lega Fatma alla sua
famiglia. Lo stile da commedia è insito nella forza e nei gesti dei personaggi, che con la loro
irruenza, in modo simile ai protagonisti dei film di Emir Kusturica, spesso agiscono prima di
pensare. La storia ci dà modo di parlare dell’attrazione-repulsione di due culture differenti, e del
conflitto che si scatena tra esse, che viene personificato dai personaggi principali del film: Fatma e
babà, suo padre. Vogliamo mantenere il forte stampo personale e autoriale del film, contando sul
circuito distributivo dei festival» (http://www.fctp.it/movie_item.php?id=1255).
«Fatma è una ragazza turca di 25 anni. Per sfuggire alle costrizioni della sua famiglia e vivere una
propria vita indipendente è venuta in Italia. Qui ha iniziato a studiare fotografia, e naturalmente si è
innamorata di un ragazzo italiano, Davide, col quale vive felicemente… Il suo lavoro fotografico
riflette il difficile rapporto con le tradizioni dalle quali proviene, testimoniando la sua volontà di
rimanervi legata: le fotografie che la ritraggono in abito da sposa imbavagliata o impiccata le hanno
fatto vincere diversi riconoscimenti internazionali, all’insaputa ovviamente della sua famiglia. Dopo
anni di silenzio Fatma ha deciso: tornerà in Turchia e dirà a suo padre, il capo clan, non solo che
vive con uomo e che lo vuole sposare, ma gli farà anche accettare la sua arte! I matrimoni nella sua
famiglia ancora oggi vengono combinati e suo padre, che ha ben 4 figlie da accudire, è intenzionato
a rispettare la tradizione! Il pretesto per avvicinarsi al patriarca e instaurare un dialogo è dato da un
viaggio nel villaggio curdo dove la famiglia Bucak ha origine, per il matrimonio di una cugina.
Durante il viaggio Fatma ascolta i racconti di zie e cugine le cui vite sono state segnate dalle
decisioni familiari, e aspetta il momento giusto per parlare con suo padre. Attraverso i suoi occhi e
la sua voce narrante vivremo il delicato e divertente viaggio alla conquista della propria libertà e del
consenso del padre e vivremo in diretta lo scontro tra due generazioni, in lotta tra modernità e
tradizione… Alla fine del viaggio anche Davide è arrivato a Istanbul con la sua famiglia, pronto a
conoscere i futuri suoceri; tutto sembra pronto per l’incontro, tranne Fatma. Solo a questo punto
trova il coraggio ed esce a cena con suo padre per fargli la confessione. Tutto andrà a buon fine, le
due famiglie si incontreranno e Fatma inizierà un progetto fotografico che vedrà protagonista
proprio il padre, il cui sguardo però lascia ancora delle questioni aperte…»
(http://www.cinemaaquila.com/film/almost-married/).
«… Fatma vuole dire a suo padre che sta per sposarsi in un altro modo, e gli porta sotto gli
occhi il suo mondo e il destinatario dei suoi sentimenti. Almost Married è un tentativo di
dialogo tra modernità e tradizione, tra spazi sempre meno lontani, un film che sceglie di
raccontare con leggerezza, un film molto personale eppure efficace per il pubblico. Un
lavoro dignitoso e interessante, la storia di una persona, prima di tutto, che può aiutare a
capirne altre» (Edoardo Zaccagnini, www.close-up.it, 28 giugno 2011).
La critica
«Un documentario davvero interessante quello realizzato da Fatma Bucak e Sergio Fergnachino e
che affonda le radici nella più stretta attualità: due culture diverse spesso costituiscono un ostacolo,
anche tragico, per due giovani che decidono di sposarsi o che, più semplicemente, decidono di
vivere una vita diversa, non conforme alle regole imposte dalla “tradizione”. Lei, giovane fotografa
turca, si è “immolata” in prima persona davanti alla telecamera per raccontare le difficoltà di una
ragazza che comunica alla famiglia e, in particolare, al proprio padre di volersi sposare con la
persona che ama (Davide, un ragazzo italiano) e non con una decisa dal “clan”. Fatma è la voce
narrante e, grazie a lei, scopriamo che la sua famiglia vive a Istanbul ed è benestante, che suo padre
è stato un perseguitato politico e anche lui ha dovuto lottare per sposarsi perché la famiglia della sua
futura moglie lo considerava un “capellone infedele”. Ma Fatma è una ragazza e non è facile per lei
dire al padre quello che vorrebbe fare, anche se giovanissima, appena ventenne, si è trasferita in
Italia per inseguire il suo sogno, la fotografia. Nel viaggio che compie insieme al padre e che li
porta in uno sperduto villaggio curdo, dove il genitore è nato, scopriamo che lì la tradizione è
ancora più forte, radicata, che sono le famiglie a decidere per i figli e i matrimoni combinati sono la
regola. Quello che non viene evidenziato e che, invece, sarebbe stato interessante vedere, è la
reazione della famiglia italiana alla notizia che il figlio avrebbe iniziato una convivenza con una
donna turca e che l’avrebbe sposata. E si accenna appena all’infelicità che prova una donna (nello
specifico una cugina di Fatma) quando, per riparare a un divorzio subìto, viene data in sposa a un
altro componente della famiglia per non creare scandalo. Perché l’onore viene prima di tutto. E
allora Fatma è una ragazza fortunata, vissuta in una città cosmopolita e con un padre che,
nonostante tutto, fa parte di una società moderna. Non è vittima di una famiglia “integralista”
capace di uccidere la propria figlia se non rispetta la tradizione, ma una ragazza come tante che può
vivere la propria vita. Tutto questo, però, non toglie a Almost married il pregio di aver raccontato
una speranza e, soprattutto, che ad averlo fatto sia stata una persona nata in una società
tradizionalista, che ne conosce gli usi e i costumi e che di questa società si porta dietro solo il
buono… per fortuna».
Teresa d’Ambrosio,
http://film.35mm.it/almost-married-2010/recensioni/116466.html, 9 maggio 2011
Martedì 14 febbraio 2012
NATO SOTTO UN ALTRO CIELO
Regia di Roberto Magnini. Interpreti: Sheikh Njie, Sara Piciocchi. Genere: documentario,
sociale, colore, 52 minuti - Produzione Italia, 2010. Produzione Etra Associazione d’arte e
cultura, realizzato con il sostegno di Film Commission Torino Piemonte e della Regione
Piemonte – Fondo Regionale per il documentario – sviluppo settembre 2008.
Sinossi
Sheikh è arrivato dal Gambia in Italia un po’ per
caso nel 1989, a ventitre anni. Nel 1990, sempre un
po’ per caso, è giunto a Torino. Operaio
metalmeccanico per dodici anni, poi in mobilità,
quindi in un call center, ora impiegato. Vive con
Sara, milanese, psicologa, e i loro due figli,
Momodoù e Iboù. Nel 2004, dopo quindici anni di
impeccabile permanenza sul territorio italiano, gli
viene concessa la cittadinanza. I preparativi per la
partenza di tutta la famiglia per il Gambia sono il
prologo di un film che inizia con l’arrivo a Banjul,
la capitale, e quindi a Serekundà, la cittadina dove è
nato Sheikh. Ad attenderli c’è tutto il suo clan familiare. Gli incontri e i dialoghi di Sheik ci daranno
la possibilità di affrontare temi diversi e di verificare quanto sia cambiato dopo vent’anni di
permanenza in Italia. Ora è il frutto dell’integrazione fra due culture così diverse.
Roberto Magnini
Nato a Torino nel 1960. Regista e montatore. Dall’inizio della sua attività
professionale nel 1987 ha realizzato programmi e documentari di vario genere: spot
pubblicitari, documentari di argomento storico, sportivo, didattico, etnografico e di
ricerca sociale.
Rassegna stampa
«… accompagnando Sheikh nel suo ritorno a casa, conosceremo la società dalla quale proviene e
quanto sia diversa dalla nostra: soluzioni diverse alle stesse esigenze esistenziali, come dice Eco.
Gli incontri e i dialoghi di Sheik ci daranno la possibilità di affrontare temi diversi e di verificare
quanto egli sia cambiato dopo vent’anni di permanenza in Italia. Ora egli è il frutto
dell’integrazione fra due culture così diverse. Il diverso significato di “famiglia”, ad esempio, in una
società la cui povertà impone di rimanere uniti per aiutarsi (brothers and sisters). La “casa” in
Africa è uno spazio pubblico, aperto a tutti. Come prima Sheikh non poteva capire chi vive da
“single” in Europa, ora sente la necessità di uno spazio “privato” che nella casa africana non esiste.
Con i primi risparmi ha aiutato i genitori a costruirsi una casa in muratura, perchè non gli sembrava
più concepibile il contrario. Insomma, seguendo Sheikh nel suo viaggio avremo conoscenza diretta
della distanza “culturale” che egli ha dovuto “riempire” per giungere a un esito positivo di
integrazione» (Roberto Magnini, dichiarazione originale, Enciclopedia del cinema in Piemonte,
scheda a cura di Maurizio Fedele).
Martedì 13 marzo 2012
OFFSIDE
Regia di Jafar Panahi. Interpreti: Sima Mobarak Shahi, Safar Samandar, Shayesteh Irani, M.
Kheyrabadi, Ida Sadeghi. Genere: drammatico, colore, 88 minuti - Produzione Iran, 2005.
Sinossi
Offside racconta la storia di cinque ragazze che vogliono entrare
nell’Azadi Stadium, dove le squadre Iran e Bahrein giocano per la
qualifica ai Mondiali 2006. In Iran alle donne è proibito assistere a
una partita insieme agli uomini. Le ragazze ci provano in ogni
modo: si travestono da ragazzi, si dipingono la faccia con i colori
nazionali, arrivano persino a rubare un uniforme militare. Catturate
da giovani soldati, dovranno accontentarsi di seguire la partita
“fuoricampo” tra grida e applausi, per essere alla fine trasportate
alla buoncostume. La vittoria della squadra iraniana spinge la
gente in strada a festeggiare e allora la gioia finisce per mescolare
maschi e femmine in una folla felice, unita e incontrollabile.
Rassegna stampa
«È un film di cinque anni fa, l’ultimo diretto da Jafar Panahi, che ora si trova in carcere in Iran e per
vent’anni non potrà più fare il regista. Un film che ricevette l’Orso d’argento al Festival di Berlino
del 2006 e che finalmente si può vedere anche in Italia. Ed è una visione che può lasciare interdetti,
se non addirittura sconcertati, nel senso che si tratta di un’opera che mescola la realtà e la finzione,
che appare come un documentario su una partita di calcio, ma al tempo stesso introduce non pochi
elementi narrativi e soprattutto psicologici […]. Ma ciò che distingue il film di Panahi, tanto da un
semplice documentario più o meno sportivo, quanto soprattutto da un’opera dichiaratamente
polemica e “antigovernativa”, è il fatto che il suo modo di mettere in scena i rapporti umani, così
apparentemente semplice e dimesso, riesce a introdurre nel racconto un elemento fondamentale di
analisi politica. Non è tanto il divieto alle donne di partecipare a una partita, in uno stadio affollato
di uomini, a costituire il filo conduttore della rappresentazione, quanto piuttosto le singole reazioni
individuali e collettive che questo divieto produce. In altre parole, sono le relazioni fra le ragazze,
individuate e isolate, e i soldati che le guardano a vista, a sviluppare un dialogo di grande interesse e
di profonda umanità. La polemica intrinseca alla storia che, come si è detto, è quasi inesistente, da
un lato si svuota della sua tensione iniziale, e dall’altro si arricchisce appunto di quei rapporti
umani, attraverso i quali la realtà dell’Iran si mostra nella sua sostanziale disuguaglianza. Una
disuguaglianza che, nei fatti, è superata dalle relazioni che si stabiliscono quotidianamente fra
maschi e femmine, in particolare fra giovani e ragazze. Se la rappresentazione di questi rapporti può
sembrare a volte superficiale, ripetitiva, col rischio di una certa piattezza stilistica, a ben guardare è
proprio lo stile “anonimo” di Panahi a fare di Offside un film di forte incidenza drammatica»
(Gianni Rondolino, “La Stampa”).
«Condannato dal regime di Ahmadinejad a 6 anni di reclusione (è ai domiciliari) e 20 di divieto
d’esercizio della professione, Jafar Panahi nel 2006 inquadrava con Offside la poco sportiva
segregazione delle donne iraniane: il calcio, e non solo, non è salubre se fruito in presenza di
uomini. E il regista si ritrova davvero in fuorigioco: il titolo illumina uno slittamento di poetica, che
fa di questo quarto il suo film più ilare, ironico e accessibile. Nella protagonista diretta en travesti
allo stadio [...] Panahi fotografa un Paese sulla corsia di sorpasso della contemporaneità e insieme
fermo con le ruote bucate dall’autoritarismo retrogrado. Un impasse, segnalato da luci d’emergenza
politica e civile che rischiarano continuità (attenzione al femminile) e novità (comicità) del suo
cinema. Da applausi» (Federico Pontiggia, “Il Fatto Quotidiano”).
«Ancora
la condizione della donna in Iran, ma questa volta lontano dalla disperazione de Il Cerchio;
non perché le cose siano cambiate, no certo, ma perché per raccontare la violazione delle libertà di
un regime non occorre ricorrere sempre al dramma. Anche una piccola storia, ambientata durante
una partita di calcio; anche l’azzardo di cinque ragazzine, la sofferenza per non poter seguire il
gioco della nazionale, possono raccontare la realtà dei diritti violati.
Dai bagarini ai controlli all’ingresso dello stadio; dai bastioni delle gradinate ai bagni, una
commedia dal retrogusto amaro, in cui la macchina da presa segue il coraggio di giovani fanciulle
che abbandonano la costrizione del velo per vestire i panni dei ragazzi e affrontare da sole il
proibito: sono parole, sguardi e sorrisi ribelli; sono la timidezza, l’astuzia, l’ironia e la sfrontatezza
di cinque giovani appassionate tifose, arrestate e costrette in un recinto di transenne, vigilate da un
gruppo di poliziotti. L’oggetto del desiderio, la partita, resta insistentemente fuoricampo, per tutta la
durata del film, ma presente per le eco, immaginata per le grida dei tifosi e descritta da sprazzi di
una complice pietà delle guardie che, paradossalmente, condividono la stessa sorte delle ragazze:
quella di restare fuori.
Sono le sorelle più piccole di Marjane Satrapi (Persepolis); piccole donne nate e cresciute sotto il
regime, che non hanno conosciuto “il prima”, ma che è speranza possano conoscere “il dopo”. Una
speranza che Jafar Panahi elabora metaforicamente nel finale, con una grande festa di piazza in cui
è forte l’orgoglio di appartenenza, oltre al buio delle proibizioni, e in cui anche le ragazze possono
trovare una breccia per sottrarsi indisturbate alle costrizioni di un regime che umilia la libertà
d’espressione di donne e uomini» (Fabrizio Centola, NonSoloCinema, anno VII, n. 13).
«Jafar Panahi, qui regista, sceneggiatore, montatore e produttore, spinge l’acceleratore su un
pedinamento di zavattiniana memoria per raccontare quasi in tempo reale uno spaccato lucido, non
privo di ironia e tenerezza, sulle peripezie che le donne protagoniste compiono per assistere alla
partita. Sin dall’incipit il film di Panahi ripercorre la tradizione errante del cinema iraniano con un
anziano uomo alla ricerca della figlia che vediamo girovagare dentro Teheran, prima all’interno di
un’automobile e poi su un autobus, con l’obiettivo di trovarla e impedirle di andare allo stadio. È
sempre all’insegna di una visione del cinema come flusso emotivo e testimonianza. Senza autentici
protagonisti, ma personaggi che entrano ed escono dal quadro visivo. Non è un film contro l’Iran,
Offside di Panahi, ma anzi un piccolo racconto sulle possibilità di un nuovo Iran, un atto di speranza
per una riconciliazione comunitaria e collettiva» (http://www.sentieriselvaggi.it).
«Con un atteggiamento più fiducioso e sfrontato, di chi ha intenzione di sfruttare ogni “fuori gioco”
della realtà per cercare di segnare a suo vantaggio, Panahi stavolta abbandona presto l'ottica del
pedinamento errante affinché siano più le sorti della partita a muoversi attorno al suo gruppo di
giovani attrici-tifose, anziché il contrario. Non è una questione tanto di improvvisazione quanto di
imprevedibilità. A Panahi, più che gli ideali della poetica neorealista interessa far interagire
fiduciosamente l’alea con l’attualità, la cecità della fortuna con la chiarezza di una narrazione quasi
didattica. Il fuori gioco, quindi, oltre a essere allegoria del carattere marginale della donna
all’interno della società, diviene anche il campo dove Panahi vuole giocare la sua vera partita:
quella fra condizione dettata (la sceneggiatura del film) e movimento dell'incertezza (il risultato
della partita). L'incontro si gioca perciò ai margini del campo della realtà e coinvolge proprio la
forza strutturata della narrazione contro quella aleatoria e inconoscibile del caso. Da una parte, una
sceneggiatura ben congegnata in cui ognuno dei caratteri maschili e femminili identifica un pezzo
preciso della società (l’emancipazione, il retaggio familiare, la leva obbligatoria) e serve a
richiamare eventi veri e propri (la morte dei sette iraniani avvenuta durante la precedente partita
contro il Giappone). Dall’altra, il principio che “la palla è rotonda” e che nella vita, come nello
sport, ogni situazione, anche la più reazionaria e repressiva, è sempre soggetta al cambiamento.
Il risultato finale del match gli permette di chiudere questo incontro fra reale e simulato con
un’esplosione di ottimismo comunitario. Speriamo si possa dire presto lo stesso anche per quanto
riguarda la sua condanna da parte del Tribunale di Teheran» (Edoardo Becattini,
http://www.mymovies.it/film/2006/offside).
La critica
«L’8 maggio 2005 è stata una data storica per il calcio iraniano: la vittoria sul Bahrein avrebbe
permesso alla nazionale di casa di accedere alla fase finale del Campionato del mondo di calcio in
Germania. E proprio durante quell’evento, quasi in presa diretta, Jafar Panahi ha ambientato quello
che sarebbe diventato – a oggi – il suo ultimo lungometraggio, Offside.
La storia del film è quella di alcuni tifosi “particolari”, attirati dalla gara ma impossibilitati ad
assistervi perché la tradizione del Paese impedisce alle donne di assistere alle partite. Non una legge
– come lo stesso Panahi ha spiegato a Stéphane Goudet per “Positif” – ma piuttosto un’abitudine
stabilita dalle forze di polizia e accettata tacitamente da tutti: lo spunto ideale per raccontare da
un’angolazione insolita ma realistica la condizione della donna nell’Iran post khomeinista e più in
generale le tante irrisolte contraddizioni del Paese.
All’inizio del film seguiamo i tentativi di una giovane “tifosa” per mimetizzarsi tra la folla che
accorre allo stadio: un berretto per raccogliere i lunghi capelli, i colori dell’Iran sul viso,
l’abbigliamento maschile (che però non trae in inganno gli altri tifosi) e da subito, dall’acquisto con
“sovraprezzo” di un manifesto per aiutare l’opera di mimetizzazione, la scoperta che tutti vogliono
approfittarsi della situazione di inferiorità e di sudditanza della donna.
Panahi mette immediatamente le carte in tavola. L’eventuale suspense – riuscirà la ragazza a entrare
nello stadio? – viene immediatamente frustrata e il film si trasforma in una concretissima riflessione
sulla condizione femminile oggi in Iran. Perché la ragazza, fermata dai soldati di servizio, si ritrova
con un altro piccolo gruppo di tifose, rinchiuse in una specie di recinto appena fuori dalle gradinate.
Ognuna ha cercato un proprio modo per entrare (anche travestendosi da soldato per avere i posti
riservati, smascherata da chi si era visto assegnare quel posto) e ognuna reagisce a modo proprio a
questo divieto: chi si pente, chi litiga, chi discute, chi tenta la fuga.
Mentre la partita si svolge in diretta e le urla dei tifosi innescano la curiosità delle “detenute” e dei
guardiani, il film passa dal dramma alla commedia alla riflessione filosofica. Non si può non ridere
quando un pressante bisogno fisico convince un soldato ad accompagnare una delle ragazze a un
bagno: luogo pubblico per antonomasia e quindi “infestato” da quei maschi che rischiano di
offendere con i loro discorsi sguaiati e la loro presenza la “purezza” femminile. Ma poi il discorso si
fa terribilmente serio quando una delle ragazze fermate cerca di mettere in crisi le certezze di uno
dei suoi “carcerieri” dando prova di abilità dialettica e logica ferrea e senza bisogno né di
femminismo né di emancipazione mette a nudo le contraddizioni di un “ordine” basato
sull’oscurantismo e sul peggior maschilismo.
La grande prova di regia di Panahi e di recitazione di tutto il cast risalta nella capacità di sfruttare al
meglio i tempi della partita, un evento che non si poteva certo “ricostruire” se mai le riprese fossero
andate male o qualche cosa avesse dovuto essere rifatta. No, tutto si incastra perfettamente:
l’imbarazzo dei soldati costretti a un compito che probabilmente non condividono, la delusione
delle tifose mascherate, la loro voglia di ribellarsi a delle imposizioni oscurantiste e retrograde. Ma
soprattutto colpisce il timing perfetto con cui Panahi ha saputo articolare e sviluppare una storia
fatta di confronti serrati e scene collettive, di momenti ironici e altri drammatici, mentre sullo
sfondo si svolgeva un’altra, inarrestabile storia, quella della partita che, per la cronaca, fu vinta
dall’Iran 1 a 0, grazie al colpo di testa del difensore Mohammad Nosrati. Offrendo in diretta allo
spettatore il “segreto” del suo cinema, capace di intrecciare grandi e piccole storie, momenti
ufficiali (come una partita di calcio) e segreti privati, passioni collettive e singoli destini».
Paolo Mereghetti, “Corriere della Sera”, 6 aprile 2011