A quale legalità educare?

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A quale legalità educare?
inter vista | studi | prospettive | inser to | metodo | str umenti | luoghi&professioni | b a z a r
A quale
legalità
educare?
Analisi di un concetto
troppo spesso in conflitto
con l’idea di giustizia
di
Livio Pepino
A che cosa si educa quando si fa
«educazione alla legalità»? Banalmente
si potrebbe rispondere: si educa alla
conoscenza e al rispetto delle leggi. Certo,
ma se le leggi sono ingiuste? Pensiamo –
caso estremo – alle leggi razziali. Nella
storia dell’umanità legalità e giustizia
non sempre hanno coinciso, neppure
nella storia più recente delle democrazie.
Perché una scelta ingiusta non cessa
di essere tale solo perché adottata dalla
maggioranza. Tant’è che alcune costituzioni
contemporanee prevedono esplicitamente
il diritto-dovere di resistenza. Allora
educare alla legalità ha un significato non
banale: è promuovere senso di giustizia,
spirito critico, attenzione al bene comune.
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C
i sono parole che, per ragioni etimologiche e per circostanze della
storia, hanno nel tempo significati
ambivalenti. «Legalità» è una di queste.
Oggi essa è considerata dai più sinonimo
di giustizia e caposaldo di democrazia. Ma
non è sempre stato così.
Per quel che riguarda il diritto, infatti, la modernità nasce con Antigone che – nella tragedia di Sofocle – viola l’editto di Creonte,
re di Tebe, e dà sepoltura al proprio fratello,
diventando per questo, nei secoli, simbolo
di libertà e di lotta contro il sopruso. E – facendo un salto di due millenni – risuonano
ancora forti le parole pronunciate da Piero
Calamandrei il 30 marzo 1956 davanti al
Tribunale di Palermo nell’arringa in difesa
di Danilo Dolci:
bambini colpevoli solo di non essere nati
in Francia.
Contraddizioni, dunque. In parte apparenti, in parte reali. Che occorre sciogliere. Con
rigore. Evitando demagogie e strumentalizzazioni che spesso, giocando con le parole,
confondono e snaturano i contenuti. Come
accade, ad esempio, per il termine «pace»
che, impropriamente associato all’espressione «operazioni di», sta ri-legittimando
ed esaltando la guerra.
Legalità =
rispetto delle leggi
Ancora oggi le immagini della legalità sono,
a volte, confliggenti. Mi vengono in mente
due fotografie.
La prima raffigura giovani determinati e
attenti, volti sorridenti, cartelli inneggianti
alla giustizia: è Palermo in una manifestazione in cui la legalità è individuata come
speranza di cambiamento, di riscatto, di
democrazia.
La seconda ci porta a Parigi: i volti raffigurati sono assai simili, ma questa volta
sono pieni di rabbia e di lacrime, e i cartelli
sono a terra, perché in nome della legalità la
polizia ha appena sfondato la porta di una
chiesa, trascinando fuori donne, uomini,
Legalità – si dice – significa rispetto delle
leggi e, conseguentemente, operare per
la legalità significa far rispettare le leggi.
Difficile contrastare i fondamenti etimologici e concettuali della definizione (che
ben si attaglia, del resto, a molte situazioni
e comportamenti ordinari). Ma scavando,
cioè dando applicazione ai princìpi, ci si accorge che la complessità del reale rende la
definizione, quantomeno, insufficiente.
Subito infatti – come opportunamente segnala Gherardo Colombo (2) – si pone un
problema: una concezione della legalità coerente con una impostazione democratica
può prescindere dai contenuti della legge
cui si chiede obbedienza? In termini più
espliciti: è coerente con la dimensione di legalità di cui parliamo l’obbedienza rigorosa
e acritica alla legge ingiusta? Ad esempio,
alle leggi razziali, alla legge che prevede la
pena di morte, alla legge che distingue gli
uomini in liberi e schiavi?
La risposta è intuitivamente negativa. Ma
non ci si può limitare all’intuizione. Né si può
relegare la legalità in una dimensione esclusivamente soggettiva, considerandola un va-
1 | Dolci D., Processo all’articolo 4, Sellerio, Palermo
2011, pp. 309-310.
2 | Colombo G., Sulle regole, Feltrinelli, Milano
2008.
Da secoli i poveri hanno il sentimento che
le leggi siano per loro una beffa dei ricchi: hanno della legalità e della giustizia un’idea terrificante, come di un mostruoso meccanismo
ostile fatto per schiacciarli, come di un labirinto di tranelli burocratici predisposti per gabbare il povero e per soffocare sotto le carte incomprensibili tutti i suoi giusti reclami. (1)
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lore quando piace o fa comodo e un disvalore
in caso contrario. Che fare, dunque?
Per tentare di risolvere il problema, nella
storia si sono cercati ancoraggi diversi: per
lo più con approdi inappaganti. Per approfondire l’analisi conviene, allora, soffermarsi sul rapporto tra legalità e alcuni altri
concetti con essa intrecciati o confinanti: la
giustizia, la legittimità, la politica.
E se le leggi
sono ingiuste?
Il conflitto tra legalità formale e legalità sostanziale (o giustizia) attraversa la storia e
la filosofia. Antigone – nel dare sepoltura
al fratello disobbedendo a Creonte – non
disconosce il significato della legge e non
predica l’illegalità, ma si fa portatrice di una
legge superiore (il diritto degli dei) e accusa
il sovrano di illegalità. E resta scolpita nella
storia l’invettiva biblica (Salmi, 80, 2):
Sino a quando, o giudici, pronuncerete sentenze inique? Sino a quando starete dalla parte
dei malvagi? Rendete giustizia alla vedova e all’orfano, al misero e all’indigente fate ragione.
Per non dire del noto passo di Sant’Agostino
(De civitate Dei, IV), tante volte inveratosi
nella storia:
Senza giustizia, che cosa sarebbero in realtà
i regni, se non bande di ladroni? E che cosa sono
le bande di ladroni, se non piccoli regni? Anche
una banda di ladroni è, infatti, un’associazione
di uomini nella quale c’è un capo che comanda,
nella quale è riconosciuto un patto sociale e la
divisione del bottino è regolata secondo convenzioni in precedenza accordate.
In altri termini: legalità e giustizia non sempre coincidono, almeno ove si intenda per
3 | Bobbio N., Voce Legalità, in Bobbio N., Matteucci
N., Pasquino G. (a cura di), Il dizionario della politica,
giustizia l’inveramento del sogno di libertà
e uguaglianza per tutti gli uomini e le donne
del pianeta che attraversa, irrealizzato, la
storia dell’umanità.
Il fatto è che il diritto (le leggi, i codici, i tribunali), per lo più, descrive e tutela l’esistente
e, dunque, è giusto o ingiusto a seconda che
tale sia la società di cui è espressione. Per
questo esso e chi lo amministra, avendo giustificato nei secoli misfatti e sfruttamento,
sono spesso guardati con diffidenza soprattutto dai meno uguali. E a ciò non è sufficiente opporre la verità alternativa secondo
cui la legalità è il potere di chi non ha potere.
È l’eterno conflitto tra il mugnaio prussiano di Brecht, che confida in «un giudice a
Berlino», e l’eroe perdente di De Gregori,
che «cercava giustizia ma trovò la legge».
Alla dicotomia si è tentato di porre rimedio,
nella storia, in vari modi. Dapprima evocando un diritto divino superiore a quello
umano, che diventa meritevole di ossequio
e obbedienza solo se conforme al primo. Poi
rinviando a una sorta di diritto naturale,
scritto nell’animo di ciascuno, dal quale il
diritto positivo non può discostarsi pena la
sua invalidità. Infine spostando l’attenzione sulle procedure con cui la legge è stata
approvata e la legalità costituita.
E se un potere è legale,
ma illegittimo?
Quest’ultima prospettiva rimanda al tema
del rapporto tra legalità e legittimità, la cui
autonomia e differenza è scolpita da Bobbio
con la precisazione che:
Un potere è legale se viene esercitato secondo le leggi, legittimo se il suo titolo è giuridicamente fondato. (3)
Utet, Torino 2007.
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Un primo passaggio è chiaro: la legge posta
da un potere illegittimo o con modalità non
legittime è inidonea a fondare una legalità
democratica.
Lo dice in modo esplicito il secondo comma
dell’articolo 1 della Costituzione secondo
cui «la sovranità appartiene al popolo,
che la esercita nelle forme e nei limiti della
Costituzione» (corsivo mio).
È un salto epocale: non solo nel passaggio della sovranità dal re (cioè dal potere
istituzionale tramandato) al popolo, ma
anche e soprattutto nella precisazione che
tale sovranità e le attribuzioni che la accompagnano non sono appannaggio indiscriminato della maggioranza, ma richiedono
delle forme predeterminate e incontrano
dei limiti.
Se, quanto alle forme, il riferimento è essenzialmente procedurale, la previsione di
limiti pone all’attività legislativa dei vincoli
sostanziali invalicabili: sia specifici (come
la tutela della libertà personale, della salute, del paesaggio ecc.) sia di carattere generale, coincidenti con il bene comune. Lo
annota, con la consueta lucidità, Salvatore
Settis:
La legalità è sempre
scelta politica
Più delicata è la questione del rapporto tra
la legalità e la politica, posto che quest’ultima sempre più spesso invoca la prima a copertura di scelte discrezionali, impropriamente presentate come imposte dalla legge
(e dal rispetto della legalità). È necessario,
sul punto, non abbandonarsi a semplificazioni fuorvianti (o strumentali).
L’espressione «bene comune» nella Costituzione non c’è: eppure proprio questo è il suo
principio ordinatore, espresso attraverso alcune
formule non coincidenti ma convergenti: «interesse della collettività» (art. 32), «interesse
generale» (artt. 35, 42, 43 e 118), «utilità sociale» e «fini sociali» (art. 41), «funzione sociale»
(artt. 42 e 45), «utilità generale» (art. 43), «pubblico interesse» (art. 82). Sono parole che vengono da lontano, inglobano le riflessioni filosofiche dell’età illuministica e l’esperienza delle
più antiche Costituzioni, fondano un nesso forte tra princìpi etici e pratica politica, presuppongono uno sguardo lungimirante verso il futuro,
verso i «diritti delle generazioni future». (4)
Perseguire la legalità
è definire priorità
Viviamo in un Paese in cui le leggi sono
tanto numerose quanto violate. Perseguire
la legalità – intesa come progetto di convivenza e regola della vita sociale – significa
dunque, inevitabilmente, definire gerarchie
di valori e priorità di interventi.
Non tutto si può fare contemporaneamente
e con lo stesso impegno di risorse, intelligenza, cultura (del resto, addirittura, nel
diritto penale, ci sono reati puniti con una
semplice multa e altri puniti con l’ergastolo,
delitti perseguibili d’ufficio e altri perseguibili solo a richiesta della parte offesa...).
Occorre scegliere tra opzioni e progetti
diversi.
Si può cominciare lottando contro le mafie
o «liberando» le città dalla presenza «fastidiosa» di accattoni e lavavetri; contrastando
la speculazione edilizia e l’inquinamento
ambientale o perseguendo chi protesta (magari con qualche eccesso) a tutela della salute
propria e dei propri figli; impegnandosi per
eliminare (o contenere) l’evasione fiscale
oppure sgomberando edifici abbandonati
occupati da contestatori o marginali, e via
elencando. Inutile dire che la definizione del
4 | Settis S., «A titolo di sovranità», in Leone A.,
Maddalena P., Montanari T., Settis S., Costituzio-
ne incompiuta. Arte, paesaggio, ambiente, Einaudi,
Torino 2013.
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calendario degli impegni (e la conseguente
mobilitazione dell’opinione pubblica) è una
scelta politica e non un vincolo giuridico,
sì che richiamarsi, a giustificazione del proprio operato, al principio di legalità è un
fuor d’opera.
Anche le modalità con cui attuare la
legalità sono discrezionali
C’è di più. Anche le modalità dell’intervento teso a ripristinare una legalità che
si assume violata non sono vincolate, ma
discrezionali.
La corsa indebita di ciclomotori in una
strada urbana si può contrastare con multe
pesantissime, con un controllo del traffico
da parte di vigili in divisa, con la predisposizione sulla carreggiata stradale di apposite
bande tese a impedire una velocità eccessiva; lo sgombero di baracche abusive e pericolose si può effettuare con le ruspe o con
i servizi sociali, con la polizia in assetto di
guerra o predisponendo soluzioni abitative
alternative; i reati si possono perseguire con
gli imputati in libertà o sottoposti a misure
cautelari; la legalità può essere imposta con
la forza o perseguita con la trattativa e la
convinzione (più in generale con congrue
opportunità educative)...
L’obiettivo è (forse) comune, ma gli effetti concreti e la cultura che si induce sono
profondamente diversi: ancora una volta
non si tratta di automatismi giuridici, ma di
scelte politiche. La cosa è particolarmente
evidente con riferimento alle politiche di
ordine pubblico e di gestione del conflitto sociale, da sempre banco di prova delle
democrazie.
Basta, per misurare la situazione nel nostro
Paese, uno sguardo ai numeri. Tra il 1946 e
il 1977 ci furono, nel corso di manifestazio5 | Della Porta D., Reiter H., Protesta transnazionale e
controllo, in «Questione giustizia», 4, 2006, p. 717.
ni di piazza, ben 156 morti: 14 tra le forze
di polizia e 142 tra i dimostranti; mentre
nei 24 anni successivi (fino al luglio 2001
quando a Genova fu ucciso Carlo Giuliani)
non si contarono vittime. Non per caso. Ma
per la scelta politica di attenuare il controllo della piazza fondato sulla escalation
nell’uso della forza e di affidare la difesa
della legalità a
una strategia di controllo negoziato, in cui il
diritto di manifestare pacificamente è considerato prioritario, forme anche dirompenti di protesta vengono tollerate, la comunicazione fra
manifestanti e polizia viene considerata come
fondamentale per una evoluzione pacifica della
protesta. (5)
A seguito di queste scelte il conflitto sociale
divenne perlopiù incruento e si raggiunse
un equilibrio, precario e non privo di contraddizioni, ma importante e suscettibile di
offrire un quadro di riferimento diverso allo
scontro politico: ci furono manifestazioni
eccezionali, per entità della partecipazione
o per carica antagonista, ma senza incidenti significativi. E ciò fino a quando, con la
militarizzazione di Genova in occasione
del vertice del G8 del 20-22 luglio 2001, si
inaugurò una nuova stagione di contrapposizione e di scontro.
La legalità può essere inclusiva
o discriminante
La legalità può essere vissuta e gestita come
muro che separa gli «inclusi» dagli «esclusi»
o come veicolo di inclusione di questi ultimi. Superfluo dire che la gestione inclusiva
della legalità non ha nulla a che fare con
un lassismo deresponsabilizzante: la «tolleranza zero» non è senza alternative e di
fronte a un «vetro rotto» (per riprendere
una metafora in voga) non si deve far finta di
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a
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».
b
«vox dia
niente, ma si può rispondere con interventi
repressivi e poliziotti o con interventi educativi e vetrai… Le semplificazioni non servono. La legalità è un valore fondamentale,
ma le politiche per attuarla possono essere
veicolo di promozione sociale o fattore di
discriminazione. E, ancora una volta, non
è la stessa cosa.
Vox populi
è vox hominum
Si arriva così a uno snodo fondamentale che
ha a che fare con la stessa concezione della
legalità: il rapporto tra maggioranza e minoranza. La gestione muscolare della legalità
rimanda, infatti, a una idea di democrazia
tarata sulla volontà della maggioranza e
sulla sua onnipotenza.
Una scelta ingiusta resta tale
anche se adottata dalla maggioranza
Si tratta di una idea sbagliata e pericolosa.
Per evidenziarlo è sufficiente ricordare uno
dei padri del pensiero liberale, Alexis de
Tocqueville che, ritornando da una lunga
permanenza in America, nel 1831-32, alla
6 | De Tocqueville A., La democrazia in America,
Rizzoli, Milano 1992.
ricerca delle fonti e delle forme della democrazia, scriveva:
Quando sento la mano del potere appesantirsi sulla mia fronte [...] non sono maggiormente disposto a infilare la tesa sotto il giogo perché un milione di braccia me lo porge. [...] Se
in luogo di tutte le varie potenze che impedirono o ritardarono lo slancio della ragione umana,
i popoli democratici sostituissero il potere assoluto della maggioranza, il male non avrebbe
fatto che cambiare carattere. (6)
Il senso è evidente e sempre attuale. Il principio di maggioranza serve per democratizzare il governo delle società, sottraendolo
all’arbitrio di uno solo o di pochi, ma una
scelta ingiusta non cessa di essere tale solo
perché adottata dalla maggioranza. Ciò è
tanto vero che alcune costituzioni contemporanee prevedono esplicitamente un diritto/dovere di resistenza dei cittadini a fronte
di decisioni politiche che violano diritti e
princìpi fondamentali.
Così è scritto, per esempio, nell’articolo
20 della Costituzione portoghese del 1976
che prevede il «diritto di opporsi» anche
«con la forza» a qualunque aggressione ai
diritti fondamentali. Analogamente, l’art.
21 del progetto di Costituzione francese
del 19 aprile 1946, bloccato da un referendum concernente altri profili, stabiliva che
«qualora il governo violi la libertà e i diritti
garantiti dalla Costituzione, la resistenza,
sotto ogni forma, è il più sacro dei diritti e
il più imperioso dei doveri».
Una analoga proposta («Quando i poteri
pubblici violano le libertà fondamentali e
i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressione è un diritto e un
dovere del cittadino») venne formulata
alla nostra assemblea costituente dall’on.
Dossetti e non fu approvata solo perché
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ritenuta implicita nel sistema. Di ciò deve
tener conto ogni sistema democratico che
voglia essere realmente tale.
Sono le minoranze
il motore della politica democratica
Detto in altri termini; la democrazia non
coincide con il principio di maggioranza, che
è certamente uno dei suoi cardini ma non
l’unico. La maggioranza decide, con il voto,
chi deve governare e con lo stesso sistema si
prendono le decisioni politiche, che sono,
peraltro, frutto di percorsi e confronti necessitati e hanno dei vincoli contenutistici.
L’assolutizzazione del principio di maggioranza provoca la fuoriuscita dal modello
democratico nel quale, del resto, diverse
funzioni sono guidate da princìpi diversi.
Esemplare, al riguardo, un passaggio di
Gustavo Zagrebelsky che merita riportare
per intero:
La massima vox populi, vox dei è soltanto la
legittimazione della violenza che i più esercitano sui meno numerosi. Essa solo apparentemente è democratica, poiché nega la libertà di
chi è minoranza, la cui opinione, per opposizione, potrebbe dirsi vox diaboli e dunque meritevole di essere schiacciata per non risollevarsi
più. Questa sarebbe semmai democrazia assolutistica o terroristica, non democrazia basata sulla libertà di tutti.
Vox populi, vox hominum, invece; voce di esseri
limitati, sempre fallibili e per lo più in contrasto
tra di loro, ma predisposti alla continua ricerca
delle migliori possibili soluzioni ai problemi del
loro vivere comune.
Il motore di questo movimento, che è l’essenza
della politica democratica, sta di solito non nella maggioranza, ma nelle minoranze che fanno
loro il motto «non seguire la maggioranza nel
compiere il male» e tengono così fede alla coerenza con se medesime. Esse mantengono
vive ragioni che rappresentano un patrimonio
collettivo di idee, programmi e valori al quale
poter attingere in futuro.
7 | Zagrebelsky G., Imparare democrazia, Einaudi,
Torino 2007.
[…] Per questo, ogni deliberazione in cui una
maggioranza sopravanza numericamente una
minoranza non è una vittoria della prima e una
sconfitta della seconda. È invece una provvisoria prevalenza che assegna un duplice onere:
alla maggioranza di dimostrare poi, nel tempo a
venire, la validità della sua decisione; alla minoranza, di insistere per far valere ragioni migliori.
Ond’è che nessuna votazione, in democrazia
(salvo quelle riguardanti le regole costitutive o
costituzionali della democrazia stessa), chiude
definitivamente una partita. Entrambe attendono e, al tempo stesso, precostituiscono il terreno per la sfida di ritorno tra le buone ragioni
che possano essere accampate. (7)
L’ancoraggio è
la Costituzione
Si può, a questo punto, abbozzare una risposta agli interrogativi e alle incertezze che
hanno contrassegnato, sin qui, il ragionamento, prendendo le mosse da una visione laica e storicizzata delle «regole» che, a
differenza dei «diritti», restano strumenti e
non fini, nonostante quanto vanno dicendo
(non casualmente) alcuni improbabili pulpiti, abituati a praticare una deregulation
selvaggia.
Le costituzioni, rivoluzione copernicana
nella storia dell’umanità
La legalità non si identifica con le singole
norme a cui pure rinvia, ma è un sistema
strutturato, che esprime una cultura: quella
del primato del governo delle regole rispetto al governo degli uomini. È un metodo,
un approccio alla realtà che – proprio in
quanto metodo e strumento – non è (non
può essere) indifferente ai valori. La legalità, in altri termini, è una cosa complessa e
ambivalente che ha bisogno di ancoraggi.
Ma quali? Vanamente cercati in passato,
essi sono oggi rinvenibili nelle costituzioni
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contemporanee. Si affaccia così, invece di
una legalità tout court, la legalità costituzionale. Ed è una rivoluzione copernicana.
Le costituzioni contemporanee – tra cui
quella italiana del 1948 – sono assai più che
leggi dotate di una forza e di una importanza particolare. Esse sono, allo stesso tempo,
le carte dei diritti dei cittadini e la sintesi
dei princìpi che regolano l’organizzazione
politica dello Stato e delle sue istituzioni.
Sono, in altri termini, le regole della convivenza dei cittadini e dei loro rapporti con
lo Stato perché – come sta scritto nell’art.
16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo
adottata in Francia nel 1789 (manifesto
della modernità) – «nelle società nelle quali
non è assicurata la garanzia dei diritti e non
è regolamentata la separazione dei poteri
non c’è Costituzione».
Prima esistevano, certo, «carte» o «statuti»
per organizzare i poteri dello Stato, ma erano
altra cosa e, soprattutto, avevano altra funzione e altri effetti. Le costituzioni contemporanee – è questo il punto fondamentale
– realizzano una vera e propria rivoluzione
nel sistema e nel ruolo delle regole. La storia
dell’umanità, come si è ricordato, è (anche)
storia di un conflitto permanente tra libertà
e autorità, tra legalità e giustizia.
Oggi, nello Stato contemporaneo di diritto,
c’è finalmente un approdo almeno teoricamente appagante. È, appunto, quello delle
costituzioni, che hanno per scopo la sottrazione dei diritti fondamentali alla disponibilità delle maggioranze contingenti.
Con le costituzioni contemporanee accade,
forse per la prima volta nella storia, che il
diritto non si limita a fotografare (e cristallizzare) la realtà, ma si pone (anche) come
punto di contestazione e di resistenza in
difesa dei diritti e dell’uguaglianza delle
persone. È paradossale, ma mentre libertà
e uguaglianza per tutti sono obiettivi lontani
e all’apparenza irraggiungibili (nel nostro
Paese e sull’intero pianeta), la necessità
della loro realizzazione è entrata nell’orizzonte del diritto.
La storia delle costituzioni
si intreccia con quella dei diritti
La storia delle costituzioni si intreccia in
maniera indissolubile con quella dei diritti
e della cittadinanza. Questa ha subito, nei
secoli, trasformazioni profonde.
Originariamente, era semplicemente un
elemento di collegamento di una persona
con un territorio (e, soprattutto, con un
sovrano); poi, nelle democrazie moderne, è diventata la fonte del diritto di voto,
ovvero del diritto di partecipare alla vita
politica del Paese; infine, nelle democrazie contemporanee successive alla seconda
guerra mondiale, si è verificata una ulteriore evoluzione che l’ha trasformata – come
è stato scritto – in uno «status di cui fanno
parte, oltre al diritto elettorale, un reddito decoroso e il diritto a condurre una
vita civile, anche quando si è ammalati,
o vecchi, o disoccupati. o, comunque, in
difficoltà».
Questa evoluzione è, dal punto di vista
soggettivo, l’affiancarsi ai classici diritti
di libertà (di riunione, di associazione, di
manifestazione del pensiero, di stampa, di
religione ecc.) dei diritti sociali; dal punto
di vista oggettivo è la trasformazione dello
Stato liberale in Stato sociale o welfare.
Secondo questa impostazione, i diritti sociali (ancorché troppo spesso deboli nei
fatti) hanno la stessa dignità, e dunque
devono avere la stessa tutela, dei diritti
classici.
È questo il senso della Costituzione, fonte
di una nuova centralità delle regole come
valore positivo e come limite al potere
delle contingenti maggioranze politiche
(anziché, come spesso accaduto nella storia, come veicolo di oppressione del re sul
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suddito e del forte sul debole). Ed è questo,
assai spesso, il bersaglio di chi delegittima la
Costituzione e ne propone una riscrittura.
blicate per la prima volta da Einaudi nel
1952 – restano una pietra miliare di ogni
convivenza civile).
Avvertenze per
educare alla legalità
È educare alla democrazia
La terza. L’educazione alla legalità è inevitabilmente – per le ragioni sin qui esposte
– una educazione alla politica: non a una
politica predeterminata, ma alla attenzione
alla polis e, in essa, all’eguaglianza e ai diritti
di tutti. Per la ragione stringente indicata
dall’articolo 3 capoverso della Costituzione
(che è – giova ricordarlo – non un auspicio,
ma un obbligo giuridico):
Educare alla legalità – nella accezione sin qui
ricostruita – è dunque un veicolo di democrazia. La complessità e l’ambivalenza del
concetto di legalità non possono, peraltro,
non riflettersi sui processi educativi finalizzati a trasmetterlo e fondarlo. Occorrono,
pertanto, alcune avvertenze (8).
È promuovere spirito critico
La prima. L’educazione alla legalità (come
tutti i processi educativi) mal si concilia con
il dogmatismo e la ricerca di adesioni acritiche. Ogni legge, ogni regola deve essere
discussa e sottoposta a verifica teorica ed
empirica. Si può – si deve – stimolare una
cultura della legalità capace di riconoscere
e contestare la «legge ingiusta» (id est: non
conforme al sistema costituzionale).
È compito della Repubblica rimuovere gli
ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei
cittadini, impediscono il pieno sviluppo della
persona umana e l’effettiva partecipazione di
tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
È fare i conti con i valori
La seconda. La cultura della legalità è esattamente l’opposto del legalismo conformista,
che tende, comunque, alla conservazione
dell’esistente. Per promuovere una concezione della legalità tesa a identificarsi con la
giustizia, occorre fare i conti con i valori e i
princìpi e trarne conseguenze coerenti.
Il mito di Antigone resta un riferimento
fondamentale, così come il rigore di alcuni profeti contemporanei della legalità che
pure, per questo, vennero considerati dei
ribelli (da Gandhi a Ernesto Balducci, da
Nelson Mandela ai condannati a morte
della nostra Resistenza le cui lettere – pub-
Livio Pepino, già magistrato e componente
del Consiglio superiore della magistratura, è
oggi responsabile delle Edizioni Gruppo
Abele: [email protected]
8 | Le traggo in gran parte da Cavadi A., Legalità
[educazione alla], in Mareso M., Pepino L. (a cura di),
Dizionario enciclopedico di mafie e antimafia, Edizioni
Gruppo Abele, Torino 2013.