3. Cortile dei Gentili - Firenze

Transcript

3. Cortile dei Gentili - Firenze
La bellezza: tra attrazione celeste e forza di resistenza - Erri De Luca
Erri De Luca premette di provenire da un luogo, Napoli, in cui la bellezza “è stata sparsa
intorno con generosità”, ma senza essere un panorama, una quinta, una decorazione, bensì “la forza
compressa dentro l’energia del suolo che può scaraventarci gambe all’aria in ogni momento attraverso
terremoti e eruzioni”: “ingovernabilità e indifferenza profonda a noi e alla nostra esistenza”. E noi
“parassiti”, di questa bellezza ne “succhiamo il sangue”. D’altra parte “un grano di bellezza” è presente
dentro ogni punto della creazione e della natura a contrappeso e spinta contraria di tutta la distruzione,
dissipazione e spreco: “ogni cosa ha fatto bella in un suo punto” - dice l’Ecclesiaste/Qohelet.
Esistono in natura, infatti, delle forze che spingono dal basso verso l’alto, a controspinta della
forza di caduta: la corrente ascensionale di una parete al sole, le maree, il fuoco, un’eruzione e poi “la
più bella di tutte”, quella che spinge “dal basso verso l’alto l’albero, che dal fondo della terra, spinge,
spinge, sale fino a occupare spazio in mezzo all’aria”. Scrive Marina Zvetaeva: “oltre all’attrazione
terrestre esiste l’attrazione celeste”. E non a Newton, ma ad una poetessa russa, è venuto in mente che
prima della mela e della legge di gravità c’è stata una forza opposta che con linfa, clorofilla e luce ha
portato la mela in cima all’albero. La bellezza corrisponde, quindi, a questa legge che spinge dal basso
verso l’alto, a contraddizione della gravità e anche delle oppressioni.
Ma allora la bellezza è anche una forza politica: la bellezza della uguaglianza, della libertà, della
fraternità, così come, per contro, la bruttezza di certi posti produce dei risultati politici, umilia, abbassa,
degrada, criminalizza le persone che vivono in quelle condizioni. Alla creatura umana, piantata per
ultima dentro quel giardino bello, è chiesto di custodire (shamar) e di lavorare (avad) la terra. I due
verbi sono in ebraico gli stessi verbi con cui la creatura umana deve occuparsi della divinità: custodire e
servire, la divinità. Bello è anche il momento in cui si smette: nello Zoar dei sapienti vedono sei asini
pungolati da una guida e allora dicono: - ecco, quello è il sabato, lo shabbat, il giorno di pace e di
interruzione che sta pungolando gli altri sei giorni e ne giustifica il cammino e il peso. Se noi, quindi,
non custodiamo e serviamo l’ambiente assegnato, non umiliamo tanto l’inaccessibile bellezza – che
risorgerà oltre le nostre ceneri e distruzioni - , ma degradiamo la nostra natura, noi stessi.
Se poi pensiamo che nelle zone temperate la scienza più approfondita dell’antichità fu
l’astronomia - il cielo era magnifico e bellissimo da vedere! -, capiamo anche perché la bellezza sia stata
la spinta della conoscenza. Mossi dallo stupore dall’ammirazione per tale bellezza si cercò di capire,
grazie all’astronomia, come si muoveva quella meraviglia là sopra.
Chi è l’artista allora? L’artista è un esecutore, un “vice” che ripete il compito di imitare la
bellezza. Nella Bibbia, infatti, il primo artista è Betsa-el (“nell’ombra di El, della divinità”), l’incaricato di
tutta la costruzione dell’opera e degli arredi sacri durante il viaggio nel deserto, capace di tutto e di fare
tutto, perché sta dentro l’ombra delle divinità, è riempito del vento (ruah) di Elohim. Ora, se è vero che
la parola della divinità, in quanto dabar/parola che diventa immediatamente cosa compiuta, fa venire e
divenire il mondo, inaugura i sei giorni della creazione perché prima li dice e poi succedono – “sarà luce
(ieì or) e la luce avviene” -, è anche vero che prima ancora c’era il vento di Elohim che se ne andava sulla
superficie delle acque della terra. Ed è questo vento che investe, dà forza, competenza e conoscenza a
Betsa-el, la cui saggezza si irradia dal cuore come fonte ed energia di tutte le manifestazioni del
sentimento umano – quando invece la cultura greca fa uscire la dea Minerva dalla testa di Zeus,
dall’ultima estremità del corpo umano che sta dalla parte opposta dei piedi.
E se Davide, l’ultimo dei fratelli - quello scelto dalla divinità per diventare re in Israele, quello
che ha conquistato Gerusalemme e l’ha trasformata nella sua capitale -, afferma proprio dentro quella
capitale, dentro quella scelta e quella storia, “io sono straniero presso di te”; se il sentimento religioso di
Davide è quello di non essere residente nella divinità, di non esserne il possessore, nessuno allora ha
diritto di accampare residenza e possesso. Tanto meno l’artista, il cui sentimento è di essere uno
straniero in mezzo al mondo e all’opera che sta facendo.
Non a caso la storia di Betsa-el avviene durante uno spostamento continuo nel deserto:
quarantadue tappe! In mezzo a quel deserto si fabbrica la divinità che cammina e si accampa con loro.
E Davide non avrebbe riconosciuto la sua estraneità in una chiesa o in una sala, ma si sarebbe sentito
un invitato ammesso all’abbondanza dell’arredo. Mentre invece è uno straniero presso la divinità e
questo suo sentimento religioso è il sentimento dell’artista: un vice che si arrabatta e che si trova dentro
un percorso nel deserto costituito da quarantadue tappe più o meno segnate, ma che non portano da
nessuna parte perché sono uno zig zag, la Via di un ubriaco che non trova la via di casa.
Riprendendo l’esempio fatto da Moni Ovadia, Erri De Luca paragona il ghetto di Varsavia che
all’ultimo momento insorge e cerca di spedire fuori dal ghetto i poeti, agli alberi in fiamme che,
circondati dalle fiamme, spargono il più lontano possibile gli ultimi semi che hanno. I poeti erano i
semi, ma quel racconto della distruzione si chiama giustamente canto perché riesce a raggiungere la
temperatura del canto, riesce a trasformare quella distruzione in un canto che tutti possono leggere e
tramandare. La poesia si prende questa enorme responsabilità, si carica sulle sue magre spalle la
responsabilità di trasformare le tragedie, le disgrazie, le immensità delle storie dell’umanità in un canto
che può essere tramandato e ripetuto.
Una poetessa russa, Anna Kmatova, si trovava negli anni ‘50 a fare la fila da ore, insieme agli
altri, davanti all’ingresso di una prigione di Leningrado, perché suo figlio era chiuso là dentro. È lì con i
suoi pacchetti e la sua attesa infinita, intorno c’è il cordiale inverno russo che li spazza e non si sa
nemmeno se saranno ammessi o no a quell’ingresso. Ed ecco che in mezzo a quella fila ammutolita e
congelata il suo nome circola perché è conosciuta, perché da quelle parti i poeti erano conosciuti, i loro
versi venivano ripetuti e le loro strofe erano conosciute a memoria da tutti. E così una donna davanti a
lei, sentendo che c’è una poetessa dietro, magari neanche mai sentita, si volta verso Anna con una faccia
sulla quale era passato con l’aratro il secolo ‘900 e le dice: - voi potete descrivere questo? -. E Anna
risponde: - Io posso -. Ecco che la poesia, Anna, si mette in bocca la responsabilità di rispondere al
“questo” di quella donna del ‘900. Ecco perché la poesia e la bellezza non sono dei decori, non sono
delle serenate sotto a un balcone chiuso, ma sono la forza di combattimento e di resistenza
dell’umanità.
(a cura di Sergio Ventura)