La polifonia sacra e profana

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La polifonia sacra e profana
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1. DEFINIZIONE DI POLIFONIA
Polifonia in senso lato significa canto simultaneo di due o più voci
diverse. In senso stretto polifonia indica soltanto la simultaneità di melodie
che seguono ciascuna un proprio decorso ritmico; il caso invece di melodie
simultanee dal decorso ritmico identico, tali cioè che a ogni nota dell'una
corrisponda contemporaneamente una nota delle altre, è detto omoritmia.
La tecnica compositiva basata sulla coesistenza di più voci che
procedono sia in omoritmia sia con percorsi ritmici individuali, sarà
denominata contrappunto (da punctus contra punctum = nota contro
nota).
La prevalenza di forme polifoniche e del linguaggio
contrappuntistico rispetto alle forme monodiche caratterizza il periodo di
storia della musica che va dal IX al XVI secolo.
Possiamo suddividere questo ampio periodo in diverse fasi
evolutive:
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gli inizi (IX-prima metà del XII sec.);
l'Ars antiqua (seconda metà del XII-XIII secolo);
l'Ars nova (XIV secolo);
l'età fiamminga (XV-inizi del XVI sec.);
la polifonia cinquecentesca (XVI secolo).
Monteverdi tra Rinascimento e Barocco
2. GLI INIZI (IX secolo-prima metà del secolo XII)
2.1 Origini e prime fonti teoriche
Non si può stabilire con precisione il luogo e la data di nascita e le
modalità di affermazione della polifonia. Gli studi etnomusicologici rivelano
l'esistenza di forme di polifonia in molte culture musicali di tradizione orale:
è lecito quindi supporre che la polifonia in Occidente sia precedente alle
prime fonti documentarie esistenti, che provengono dai monasteri
dell'Impero franco dell'età carolingia. Più precisamente, a partire dalla fine
del secolo IX, accanto alla struttura e alle forme monodiche, la musica colta
occidentale iniziò a sperimentare, ma solo successivamente a registrare
graficamente, la creazione di strutture e forme polifoniche.
Dal IX al XII secolo la polifonia consisteva in una pratica ancora
improvvisata, e non scritta, volta ad arricchire e ampliare il repertorio
liturgico con aggiunte di qualche elemento nuovo; dunque questa primitiva
polifonia può essere assimilata, insieme ai tropi e alle sequenze, a quel
rinnovamento musicale provocato, nell'epoca della rinascenza carolingia,
dalla sistemazione del repertorio gregoriano e dalla conseguente sua
intangibilità e cristallizzazione anche attraverso la nuova scrittura
neumatica: l'intagibilità del canto gregoriano scaturiva dalla dignità sacrale
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che proprio nell'età carolingia gli proveniva dall'essere stato attribuito
all'opera di Gregorio Magno.
Fino al XII secolo sono dunque scarse le tracce nei manoscritti
musicali di esempi di polifonia. La prima documentazione riguardante
questa pratica proviene da trattati teorici, anche se la descrizione delle
forme di improvvisazione polifonica è spesso considerata dal punto di vista
del teorico dell'ars musica, piuttosto che da quello del musicista pratico. I
primi esempi di polifonia scritta che ci sono pervenuti sono contenuti in un
trattato anonimo della fine del IX secolo intitolato Musica Enchiriadis
(Manuale di musica), erroneamente attribuito a Hucbald del monastero di
Saint Amand, ma comunque proveniente proprio da quel monastero della
Francia settentrionale. In questo trattato, e in un suo commentario
contemporaneo intitolato Scholia Enchiriadis, si descrivono le regole di
questa pratica polifonica improvvisata, chiamata organum o diafonia:
consiste nel raddoppiare (contrappuntare raddoppiando), il canto
gregoriano, detto vox principalis, con una seconda voce inferiore, più
bassa, detta vox organalis, posta alla costante distanza di una quarta, una
quinta o un'ottava; ambedue le voci possono essere singolarmente o
entrambe raddoppiate all'ottava superiore o inferiore.
Esempio 1a
Tu patris sempiternus, organum oarallelo da Musica Enchiriadis, in Gerbert, Scriptores cit.
(v. bibliografia), tomo I, p. 164-171
esempio 1b
Notazione dasiana utilizzata in Musica Enchiriadis
esempio 1c
trascrizione in notazione moderna
Nello stesso trattato viene descritto un altro tipo di organum, per moto
obliquo, in cui le due voci, per evitare gli incontri intervallari di quarta
eccedente o di quinta diminuita (definiti allora «diabolus in musica»),
partono all'unisono, successivamente la sola vox principalis si muove verso
l'acuto fino a raggiungere l'intervallo di quarta rispetto alla vox organalis
(che ribatte la stessa nota), e procede poi con lei a quarte parallele; nella
cadenza finale le due voci ritornano all'unisono.
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Esempio 2a
Rex coeli Domine, da Musica Enchiriadis, in Gerbert, Scriptores cit. (v. bibliografia), tomo I,
p. 169
esempio 2b
Trascrizione in notazione moderna
In questi termini, la primitiva polifonia non è altro che una forma di
tropatura musicale, che amplifica il discorso rispettando la lezione originale
del canto liturgico. Tuttavia questa pratica condusse gradatamente alla
perdita della tradizione ritmica del canto gregoriano. Infatti, se nella
monodia liturgica tradizionale il canto si adeguava al ritmo delle parole
dando luogo a una ricca varietà ritmica (il cosiddetto ritmo oratorio), nella
trasformazione da monodia a polifonia si dovette rinunciare al ritmo
articolato della monodia e adottare un ritmo più uniforme e maestoso, per
poter controllare così il procedere contemporaneo delle due voci, nota
contro nota:
Sic enim duobus aut pluribus in unum canendo modesta dumtaxat et concordi morositate,
quod suum est huius meli, videbis nasci suavem ex hac sonorum commixtione concentum
[Così cantando insieme in due o più, con lentezza misurata e concorde, il che è la
caratteristica principale di questo stile, vedrai che da questa mescolanza di voci nascerà
un bel 'concento'].
(Musica Enchiriadis, in Gerbert, cit., t. I, p.166)
Anche Guido d'Arezzo parla della polifonia nel suo trattato
intitolato Micrologus (Piccola trattazione), databile tra il 1026 e il 1028.
Egli riprende il procedimento per moto obliquo già trattato in Musica
Enchiriadis, e propone una serie di primitive cadenze armoniche (dette
occursus=incontro) in cui le due voci che procedono a distanza di quarta,
prima di concludere raggiungendo l'unisono, si incontrano, procedendo per
gradi congiunti, sull' intervallo di terza, e poi di seconda, la cui dissonanza
rende ancora più gradevole la consonanza finale.
La più antica e importante raccolta di vere e proprie fonti musicali
riguardanti la pratica polifonica, e non solo la teoria, è contenuta in due
manoscritti dell'XI secolo noti sotto il nome di «Tropario di Winchester»,
consistenti in un repertorio di più di 150 tropi in forma di organum a due
voci, in uso presso quella cattedrale. La notazione è neumatica
adiastematica, per cui è difficile la sua trascrizione in notazione moderna:
tuttavia la presenza di alcune melodie in fonti più recenti e in una
notazione più precisa, ne permette una trascrizione attendibile.
Nell'XI secolo la struttura polifonica non si applicava a tutta la
liturgia, ma soprattutto alle sezioni tropate dell'Ordinario della messa
(Kyrie, Gloria e Benedicamus Domino), e soprattutto del Proprio (in
particolare Graduali, Alleluia, Tratti e Sequenze) oltre che nei responsori
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dell'Ufficio. In queste parti della liturgia venivano però rese polifoniche solo
le sezioni che nell'originario repertorio monodico venivano cantate dai
solisti. Nell'esecuzione si alternavano quindi sezioni polifoniche a sezioni
monodiche: queste ultime venivano cantate da tutto il coro all'unisono, e
quelle polifoniche, più difficili, eseguite da solisti.
Procedendo nella evoluzione della polifonia, bisogna citare alla fine
dell'XI secolo altri due importanti trattati: Ad organum faciendum (Per fare
un organum), databile intorno al 1100, proveniente da Laon e conservato
presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano; l'altro trattato è attribuito a
Johannes Afflighemensis, francese o fiammingo, che dedicò la sua opera
all'abate del monastero di Afflighem, vicino Bruxelles.
I due trattati codificano il moto contrario tra le due voci, che ora
invertono la loro posizione: la vox principalis è posta nella parte inferiore (e
lì rimarrà durante tutto il Medioevo), la vox organalis, è posta nella parte
superiore, (dunque in maggiore evidenza), si emancipa sempre più dalla
melodia liturgica preesistente, e mostra una sua propria originale
configurazione. A volte le due voci tendono, nel procedere, a incrociarsi,
ribaltando la loro posizione, la qual cosa le rende reciprocamente più
autonome. Accanto agli intervalli permessi - di unisono, quarta, quinta e
ottava, ritenuti consonanze perfette -, compaiono anche intervalli
imperfetti (terza, sesta) e addirittura intervalli dissonanti come la seconda.
All'inizio del XII secolo si sviluppa un nuovo tipo di organum, detto
melismatico, in cui le due voci non procedono nota contro nota (stile
chiamato dai teorici dell'epoca discanto), ma ad ogni nota del basso ne
corrispondono diverse nella voce superiore. Questo stile, detto appunto
melismatico, pone la melodia gregoriana preesistente al basso come
sostegno della voce superiore che invece intona intere frasi melodiche di
lunghezze diverse, dette melismi o fioriture.
La melodia gregoriana, in questa sua funzione di sostegno dei melismi della
voce superiore, viene a perdere la lezione ritmica originaria, e si trasforma
in una sequenza di note di lunga durata. Viene chiamata tenor (dal latino
tenere), termine che rimase a designare la voce più grave di una
composizione polifonica fino a circa la metà del XV secolo.
2.2 Prime fonti musicali
Con la pratica dell'organum melismatico venne superata la fase
dell'improvvisazione polifonica e si rese necessario registrare graficamente
le composizioni, data la loro complessità; per questa ragione a partire da
questo periodo aumenta il numero delle fonti musicali pervenute. Le più
importanti provengono dai due principali centri di diffusione del nuovo tipo
di organum: il monastero di Santiago de Compostela nella Galizia, (regione
situata a nord-ovest della Spagna), e l'Abbazia di S. Marziale di Limoges,
nella Francia centro-meridionale.
Oltre all'organum melismatico, nel repertorio di Santiago de
Compostela troviamo anche la forma del conductus, canto processionale
dallo stile diverso. A differenza degli organa, i conductus polifonici non
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sono basati su un tenor preesistente appartenente al repertorio
gregoriano, ma su un tenor di nuova invenzione; entrambe le voci che
formano il conductus sono dunque originali (di libera invenzione),
procedono con un andamento omoritmico, e si avvalgono di un testo in
versi. Fra i conductus di Santiago de Compostela è da segnalare la più
antica composizione a tre voci, Congaudeant catholici, in cui le due voci
inferiori procedono omoritmicamente, e la terza voce, quella superiore, si
muove maggiormente rispetto alle altre, come in un organum melismatico.
3. ARS ANTIQUA (seconda metà del XII secolo- XIII secolo)
3.1 La scuola di Notre-Dame. La notazione
Tra la metà del XII e la metà del XIV secolo il più importante centro
dell'evoluzione della musica polifonica fu la scuola sorta presso la
cattedrale di Notre-Dame a Parigi.
Il XII secolo vide il nascere di Università a Bologna, Parigi, Montpellier,
Oxford, Salerno, e in esse la musica costituiva una materia accademica
importante perché, insieme all'aritmetica, la geometria e l'astronomia,
formava il Quadrivium, la sezione superiore delle sette arti liberali.
L'Università di Parigi, che occupava una posizione di preminenza nel
Medioevo, si sviluppò all'ombra della grande cattedrale di Notre-Dame, la
costruzione della quale era iniziata nel 1163; la stretta associazione
esistente a Parigi tra Chiesa e Ateneo, favorì naturalmente lo sviluppo della
musica religiosa.
In questo ambito, come vedremo, per la prima volta nella storia
della musica occidentale appaiono i nomi di due compositori, che escono
così dall'anonimato medievale.
Il progredire della composizione polifonica impose ai musicisti di NotreDame di corredare la notazione di un significato non solo diastematico, ma
anche metrico, del quale era priva, e dunque di conferirle la capacità di
esprimere non solo l'altezza dei suoni, ma anche la loro durata.
Prima di illustrare la soluzione data al problema ritmico nell'ambito della
Scuola di Notre-Dame è necessaria una breve digressione sulle principali
tappe nella storia delle notazioni medievali nell'ambito della musica
monodica. In essa il problema diastematico fu risolto relativamente tardi,
quando si fece la scoperta fondamentale di ancorare un suono fisso a un
punto fisso (dapprima una linea a secco, poi colorata con inchiostro rosso
per il fa e giallo per il do), per esprimere dei suoni specifici; venne
codificato poi il rigo musicale comprendente quattro linee inchiostrate, il
tetragramma, all'inizio del quale, una o due lettere alfabetiche (C = do e F
= fa) davano la chiave di lettura. Le note poste sulle linee o negli spazi
avevano l'aspetto grafico dei neumi quadrati di uno o più suoni ciascuno.
Nacque così la notazione diastematica, che risolveva definitivamente il
problema di indicare l'altezza dei suoni.
Quanto appena illustrato venne utilizzato dalla scuola di NotreDame, che si trovava comunque a dover risolvere il problema della
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definizione ritmica della sua notazione, poiché i neumi della notazione
quadrata non esprimevano di per sé un valore metrico, e solo
successivamente il teorico Francone da Colonia troverà la soluzione al
problema differenziando graficamente i valori musicali. La scuola di NotreDame adottò una diversa soluzione, nella determinazione della quale si
rivelò importante la lunga tradizione dei rapporti intercorrenti tra la
disciplina musicale e la disciplina del linguaggio, perché il musicista, la cui
formazione culturale avveniva in un ambiente in cui erano abituali le
correlazioni tra strutture letterarie e strutture musicali, trovò nella metrica
modelli trasferibili, per affinità, in campo musicale. Furono così stabiliti due
valori fondamentali, uno maggiore e uno minore, i quali, come nella
metrica, anche nella musica ricevettero la denominazione rispettivamente
di (nota) lunga e (nota) breve. Queste due misure formavano, nel loro
combinarsi, dei modelli ritmici simili ai piedi della metrica classica che
regolava il ritmo testuale e, sulla base dei sei principali piedi metrici,
vennero codificati sei modi ritmici.
Esempio 3
Per illustrare il modo con cui si stabiliva l'appartenenza di una
composizione a uno all'altro dei sei modi ritmici bisogna premettere che i
simboli grafici adottati non vennero più considerati neumi quadrati, ma
vennero semplicemente intesi come note isolate (nel caso dei simboli
grafici del punctum e della virga) o gruppi di note legate (nel caso dei
simboli grafici degli altri neumi). Questi gruppi furono chiamati ligaturae e
potevano essere formati da due, tre o più suoni. L'appartenenza di una
composizione a uno dei sei modi ritmici si individuava in base alla maniera
con cui le ligaturae e le note isolate venivano raggruppate e organizzate.
Più precisamente, l'andamento delle parti (nella polifonia) consisteva in
sequenze di note isolate o variamente raggruppate, e veniva scandito dalla
presenza di pause (suspiria) in forma di barrette verticale di lunghezza
arbitraria che ne precisavano il fraseggio. Lo spazio esistente tra una pausa
e l'altra formava un ordo, una specie di unità di misura, e ogni modo
ritmico era suddiviso in una serie di ordines. L'appartenenza di una
composizione a uno o all'altro dei sei modi ritmici si poteva individuare
grazie ala maniera in cui le note venivano raggruppate. Per esempio, se tra
una pausa e l'altra a una ligatura di tre suoni seguivano una o più ligature
di due suoni, l'andamento ritmico apparteneva al primo modo, basato sul
trocheo, quindi era trocaico e le note doveveno essere eseguite nella
successione di longa, brevis, longa, brevis ecc.
Se invece a una ligatura di due suoni seguiva una o più ligaturae di tre
suoni l'andamento ritmico apparteneva al secondo modo, basato sul
giambo, e quindi le note dovevano essere eseguite nella successione breve,
longa, breve, longa ecc.
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Se la sequenza riportava solo ligaturae di tre suoni, l'andamento ritmico
apparteneva al quinto modo, basato sullo spondeo e quindi le note
dovevano essere eseguite in una successione di longae. La durata delle
pause dipendeva strettamente dall'ordo, dal valore metrico che, secondo il
modo di appartenenza, coincideva con la sua posizione.
Esempio 4
Gruppi di ligature con trascrizione
Al di là di questi schemi rigidi tuttavia il ritmo delle singole melodie
poteva essere più flessibile: i valori impiegati potevano essere suddivisi in
valori più piccoli o sottoposti a diverse variazioni.
Nella trascrizione ci si serve correntemente della divisione in battute e
dell'indicazione di tactus 6/8, tenendo però presente che si tratta di una
nostra arbitraria interpretazione, la cui affinità col ritmo antico è relativa.
Non tutti i sei modi sono però ugualmente impiegati: il più frequente è il
primo modo, abbastanza usati sono il secondo e il terzo, puramente
teorico è il quarto, il quinto è riservato prevalentemente alla parte inferiore
(il tenor), e limitato è l'uso del sesto.
All'interno dello stesso componimento è raro che si alternino modi diversi,
c'era invece la più ampia libertà di mescolare diversi ordines dello stesso
modo.
3.2 I compositori
Nell'ambito della scuola di Notre-Dame per la prima volta nella
storia della musica occidentale appaiono i nomi di due compositori del
repertorio musicale eseguito in quella cattedrale, magister Leoninus e
magister Perotinus: proprio riguardo ad essi è fondamentale la
testimonianza di un teorico, probabilmente inglese, che non è stato
possibile identificare e che perciò viene designato dal Coussemaker (il
curatore della nota raccolta Scriptores de musica medii aevi), come
Anonimo IV. Questo autore anonimo, intorno al 1275, narra quanto segue:
Magister Leoninus, secundum quod dicebatur, fuit optimus organista, qui fecit magnum
librum organi de Gradali et Antiphonario pro servitio divino multiplicando; et fuit in usu
usque ad tempus Perotini Magni, qui abbreviavit eundem, et fecit clausulas sive puncta
plurima meliora, quoniam optimus discantor erat, et melior quam Leoninus erat; sed hic
non dicendus de subtilitate organi, etc.
[Magister Leoninus era il miglior compositore di organum (la forma polifonica più antica).
Fu lui a comporre il "Magnus liber organi de Gradali et Antiphonario" per dare risalto al
servizio divino. Quest'opera rimase in vigore fino all'epoca del grande Perotinus che
riassunse quel libro e scrisse numerose clausulae o puncta [sezioni di sostituzione] ben
più valide perché egli era il miglior compositore di discanto e superiore a Leonino, per
quanto non potesse vantare l'abilità di quest'ultimo all'organo].
Il Magnus liber organi di Leonino si componeva di 34 brani polifonici per le
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ore canoniche (Ufficio delle ore) e di 59 per la Messa, per tutto il corso
dell'anno ecclesiastico. Perotino revisionò il libro e compose dei nuovi
organa, conductus, mottetti. L'effetto prodotto dal nuovo repertorio
polifonico fornito dai due compositori fu enorme tanto che le loro opere
furono eseguite in tutta Europa come testimoniano le copie che ancora si
producevano all'inizio del XIV secolo.
Nel processo di chiarificazione della determinazione del ritmo,
Leonino rappresenta la via di mezzo tra l'organum melismatico di san
Marziale e la polifonia misurata di Perotino che, come vedremo, dette al
problema una prima efficace risoluzione.
3.3 L'opera di Leonino
Il Magnus Liber organi di Leonino consiste in una serie di
composizioni a due voci conosciute sotto il nome di Organum duplum o
purum, nelle quali la voce inferiore, detta tenor, è costituita da un
frammento di melodia gregoriana (detto anche cantus planus o cantus
prius factus) che fungeva da legame tra la nuova liturgia e il vecchio
repertorio monodico gregoriano; la voce superiore, detta duplum, è invece
oggetto di composizione nuova. Secondo l'uso della scuola di Notre-Dame
sono elaborate polifonicamente solo le sezioni del canto monodico
gregoriano destinate ai solisti, mentre le altre, quelle destinate al coro,
sono lasciate nella versione in canto piano.
Altro effetto di contrasto, oltre all'alternanza di sezioni in canto
piano e sezioni polifoniche, risulta dalla utilizzazione, nell'ambito delle
sezioni polifoniche, di due stili diversi di scrittura:
a) lo stile melismatico, dove le note della melodia gregoriana, poste al
basso, sono tenute a lungo (e per questa ragione la voce inferiore viene
chiamata tenor, da tenere), e la seconda voce, superiore, detta duplum, si
muove con molte note in ampie fioriture o melismi; a questo stile
melismatico alcuni teorici del tempo attribuiscono in senso stretto, il nome
di organum;
b) lo stile denominato (da alcuni teorici contemporanei) discantus, nel
quale la voce superiore procede quasi nota contro nota con la melodia
gregoriana (il tenor) e le due voci si muovono approssimativamente
insieme o con minore differenza nel numero di suoni; nel discanto, a
differenza delle sezioni in stile melismatico, entrambe le voci cantano su
valori definiti nella durata.
Nella elaborazione polifonica, le sezioni che nel canto originale
gregoriano erano in stile sillabico, (o solo leggermente fiorito), venivano
trattate nello stile dell'organum, con lunghe note sostenute al tenor; le
sezioni dove invece la melodia originale gregoriana era melismatica,
venivano elaborate nello stile del discanto, perché per il tenor era
necessario muoversi su valori più rapidi, per non allungare eccessivamente
l'intera composizione. Queste sezioni costruite sulle parti più melismatiche
del canto, e realizzate nello stile del discanto, venivano dette clausulae.
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Ogni clausula era in sé autonoma, con una cadenza finale definita.
Sfruttando il contrasto tra questi due stili Leonino ottenne, sia pure con
un tessuto di due sole voci, una grande varietà nell'ambito di questo
schema. Nelle sezioni in note lunghe, la voce di duplum richiede grande
virtuosismo nell'esecuzione: Leonino fa alternare delle frasi melodiche
piane a passaggi in svolgimento rapido detti currentes, che sono
caratteristici della sua scrittura. Le sezioni in discanto sono invece più
semplici: in esse il magister ripete a volte il tenor di canto piano, con
l'intento evidente di dargli maggior peso.
In entrambi gli stili, l'attacco di una nuova nota del tenor è dato su un
intervallo consonante, dunque una quinta o un'ottava.
Esempio 5a
Magister Leoninus, Alleluia Pascha nostrum , Firenze, ms., Biblioteca Medicea Laurenziana,
Pluteo 29.1, c. 109r
esempio 5b
Trascrizione in S. Fuller, The European cit. (v. bibliografia), pp. 58-59
Gradualmente l'organum purum venne abbandonato nel corso del
XIII secolo, in favore del discanto; durante questa evoluzione le clausulae
diventarono, come vedremo, dapprima composizioni intercambiabili e
semi-indipendenti, per poi alla fine progredire nella nuova forma del
mottetto.
3.4 L'opera di Perotino
L'altro grande compositore della scuola di Notre-Dame fu il
magister Perotinus, che appartenne alla generazione successiva al magister
Leoninus e che operò quindi tra il XII e il XIII secolo. Perotino proseguì
l'opera di Leonino; rimase nell'organum l'alternanza di sezioni in canto
monodico e sezioni polifoniche, ma in queste ultime si andò sempre più
precisando l'andamento ritmico. Spesso le sezioni nello stile dell'organum
furono sostituite dalle clausulae in discanto, e a loro volta le vecchie
clausulae furono sostituite da altre di concezione più moderna, dette
clausulae sostitute.
Perotino e i suoi contemporanei ampliarono la struttura dell'organum
portandolo dalle due, alle tre o quattro voci, così al duplum (la seconda
voce) fu aggiunto il triplum (terza voce) e, a volte, il quadruplum (la quarta
voce): questi stessi termini stavano a designare anche le intere
composizioni: un organum a tre voci era detto organum triplum o anche
solo triplum, e quello a quattro voci quadruplum. Anche nelle parti
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polifoniche degli organa di Perotino si alternano sezioni melismatiche col
tenor a valori lunghi e sezioni in discanto: queste ultime corrispondono alle
parti melismatiche dell'originale gregoriano, e le sezioni melismatiche
corrispondono a quelle originariamente più sillabiche.
Come nelle composizioni di Leonino, anche in quelle di Perotino a
tre e a quattro voci possiamo però identificare solo due strati sonori:
quello costituito dal tenor al basso a valori larghi, e quello costituito dalle
due o tre voci poste al di sopra, che procedono più velocemente cantando
brevi frasi.
La tessitura vocale corrisponde al registro del tenor, e questa
estensione limitata dell'ambito vocale provoca spesso l'incrocio delle voci
superiori che passano a volte anche al di sotto del tenor. Capita spesso
che una frase sia ripetuta con alcune voci scambiate.
Quando le voci si incontrano all'inizio della composizione, sui tempi
forti e nelle cadenze, formano tra loro intervalli di ottava. quarta o quinta,
gli unici accettati come consonanze nel Medioevo; nell'ambito delle frasi
invece le parti si muovono con molta libertà e indipendenza, senza
escludere passaggi paralleli di quinte, unisoni e ottave e urti dissonanti non
preparati.
A differenza dell'organum duplum di Leonino che presenta per il
trascrittore moderno incertezze nella lettura del ritmo, l'organum di
Perotino fornisce maggiore chiarezza ai fini dell'applicazione dei modi
ritmici, e anche se apparentemente le formule modali sembrano rigide, in
realtà i componimenti sono ritmicamente vivaci e variati; naturalmente
bisogna scindere l'interpretazione del ritmo modale, piuttosto elastico,
dalla concezione della moderna battuta di 6/8 (con i tempi forti e deboli)
in cui si trascrive, che deve essere solo il mezzo per facilitare la lettura.
Esempio 6a
Magister Perotinus, Viderunt omnes, ms., Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Pluteo
29.1, c.1r
esempio 6b
Trascrizione dell'incipit in notazione moderna
Negli organa quadrupla di Perotino le note del tenor sono così prolungate
nella loro durata che ognuna di esse (portatrice di una sillaba delle parole
del cantus firmus gregoriano) sostiene una intera sezione; il cambiamento
di nota o di sillaba nel tenor dà luogo ad un nuovo gruppo di idee nelle tre
voci superiori perché invece del flusso continuo di idee nuove di Leonino, il
magister Perotino adotta poche frasi brevi sottoposte a variazioni, ma
fondamentalmente costanti.
3.5 Il conductus
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A differenza degli organa tripla e quadrupla di Perotino che
costituiscono l'espressione più elevata e complessa della polifonia liturgica
dell'inizio del XIII secolo, e che si basano su tenores (cantus firmi)
gregoriani preesistenti, i conductus si svilupparono su tenores originali
(anche se furono usati come qualsiasi cantus firmus): trattano argomenti
sacri ma non liturgici, o addirittura profani, e in questo caso svolgono
argomenti morali o storici; a differenza dei testi liturgici, che sono in prosa
e preesistono alla composizione musicale, quelli dei conductus sono testi in
versi (poemi metrici), e composti contemporaneamente alla musica.
Il conductus era scritto a due, tre, o anche quattro parti che si
muovono in un ambito ristretto, per cui tendono a incrociarsi, ma anche a
scambiarsi i ruoli; cadenzano sugli intervalli, allora ritenuti perfetti, quali la
quarta, la quinta, e l'ottava, ma si incontrano spesso anche su intervalli di
terza che all'epoca erano ritenuti consonanze imperfette.
La struttura del conductus era in genere strofica cioè con la stessa
intonazione musicale per tutte le strofe: lo stile musicale era semplice
perché le parti tendono a seguire ritmi identici, dando luogo a un
procedere omoritmico e accordale. Il testo veniva disposto sillabicamente
sotto le rispettive note; ma alcuni conductus iniziano o terminano con
estese sezioni in stile melismatico (senza testo), denominate caudae, che
a volte proponevano una certa varietà ritmica tra le voci: ne scaturiva così
una mescolanza tra lo stile del organum e quello del conductus. Per
quanto riguarda l'esecuzione, non è dato sapere se venivano cantate tutte
le voci o solo il tenor che era l'unica parte ad avere il testo; non è neanche
dato sapere che funzione avessero in essa eventuali strumenti musicali.
3.6 Il mottetto
Nella seconda metà del XIII secolo, dalla scuola di Notre-Dame si
sviluppò una nuova forma musicale, chiamata mottetto, destinata a
diventare la composizione polifonica più importante e diffusa del Duecento.
Abbiamo detto che Leonino aveva inserito nei suoi organa delle
sezioni dette clausulae nello stile del discanto, e che successivamente
Perotino e i suoi contemporanei ne composero parecchie, alcune delle quali
con funzione alterna o di sostituzione di quelle composte dalla generazione
precedente (clausulae sostitute). Queste ultime erano interscambiabili, e
sullo stesso tenor potevano esserne composte parecchie per le varie
occasioni. La voce o le voci sovrapposte al tenor erano in un primo tempo
prive di testo; solo successivamente, ma già prima della metà del secolo, si
cominciò a sottoporre alle voci superiori delle parole che sviluppavano il
contenuto del testo del tenor. In seguito le clausulae inserite negli organa
più estesi si emanciparono diventando composizioni indipendenti che
furono chiamate mottetti. Questa denominazione (motetus) si deve forse
proprio all'aggiunta di parole nuove sotto le varie parti, perché il termine
deriva dalla parola francese mot (parola) che fu inizialmente applicata alla
seconda voce (duplum) di una clausula; più tardi il termine motetus si
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estese a indicare l'intera composizione, e quando sono presenti anche la
terza e la quarta voce, queste mantengono i nomi che avevano
nell'organum: triplum e quadruplum. L'aggiunta di un testo sotto le
melodie delle voci realizzava un cambiamento di stile rispetto all'organum
in quanto si passava da uno stile melismatico (organum) a uno stile
sillabico.
A causa della presenza di un testo differente in ogni voce, si usa
identificare i mottetti enunciando di seguito gli incipit delle varie parti, a
cominciare da quella superiore.
Inizialmente la presenza di testi diversi per il duplum (ora chiamato
motetus) e per il triplum, manteneva l'attinenza riguardo ai loro contenuti.
Questa politestualità faceva sì che il messaggio del mottetto si rivelasse
completamente solo alla lettura: si tratta infatti di un prodotto colto che si
diffuse soprattutto negli ambienti universitari. La lettura però fu facilitata
dalla particolare impaginazione dei mottetti, perché a differenza delle
composizioni polifoniche precedenti, nelle fonti dell'epoca le voci del
mottetto non erano disposte in partitura, ma venivano scritte per esteso
su due pagine a fronte o su due colonne diverse nella stessa pagina: il
duplum o motetus a destra, il triplum a sinistra, mentre il tenor veniva
collocato in calce, in un rigo sottostante a entrambe le voci.
Esempio 7
mottetto Salve Virgo virginum - Est il donc einsi Aptatur, ms. Montpellier, Bibliothèque de
la Faculté des Médecin, cod. H 196
Questa disposizione delle voci permetteva di economizzare sullo spazio
nella impaginazione dei codici: dato che i tripla comprendono in genere
molte più note rispetto al duplum e al tenor, allineare le voci l'una sopra
l'altra in partitura, avrebbe richiesto molto più spazio che non scriverle
separatamente.
Anche se la base di partenza nella composizione di un mottetto
rimaneva un tenor tratto dal repertorio liturgico gregoriano, tale forma
venne ad essere ormai concepita come una composizione autonoma, in cui
le due voci superiori sono spesso costruite non solo su testi differenti, ma
anche in lingue diverse: il motetus ad esempio poteva impiegare il latino e il
triplum la lingua volgare (il francese) e gli argomenti potevano essere
anche profani, per lo più amorosi, spesso costituiti da parafrasi di canzoni
trovieriche o da brani del Jeu de Robin et de Marion di Adam de la Halle,
anche lui compositore di mottetti.
Nella prima metà del XIII secolo il testo latino dei tenores dei
mottetti proveniva dal repertorio dei tenores delle clausulae del Magnus
liber organi, dunque i loro testi consistevano di poche parole, se non di una
sola parola o parte di essa, perché le clausulae erano scritte in
corrispondenza delle parti melismatiche del canto gregoriano (dove su una
sola sillaba cantavano molte note).
Nella seconda metà del XIII secolo, specialmente dopo il 1275, i
12
13
tenores dei mottetti non furono più derivati dai libri di Notre-Dame, ma da
fonti diverse, anche profane o strumentali (le estampidas).
Contemporaneamente si diradò l'uso delle formule dei modi ritmici in
favore di una maggiore duttilità ritmica.
Nei primi mottetti il motetus e il triplum erano affini nel carattere e
nello stile, ed entrambi in contrasto con il tenor.
Esempio 8
mottetto L'autre jour/Autens pascour/In seculum , in S. Fuller, The European, cit., pp. 8384
In seguito la tendenza fu quella di diversificare stilisticamente tra
loro anche le voci superiori: questo tipo di procedimento fu detto
«franconiano», da Francone di Colonia o di Parigi, compositore e teorico
attivo dal 1250 in poi. In questa seconda fase il triplum era più esteso del
motetus ed era costruito con valori brevi e melodie più veloci articolate in
frasi corte e di limitata estensione vocale; il motetus cantava invece
melodie di carattere lirico e di più ampio respiro. Anche il tenor venne poi
coinvolto in una evoluzione ritmica, perché, se fino alla metà del XIII secolo
era costruito su rigidi schemi ritmici, successivamente il suo stile si
avvicinò, per flessibilità, a quello delle altre parti.
Verso la fine del XIII secolo si diffuse la tendenza verso la
caratterizzazione di due diversi tipi di mottetti: l'uno tendeva alla
differenziazione delle voci, l'altra verso una maggiore omogeneità
dell'insieme: il primo aveva il triplum vivace con ritmo declamatorio, il
motetus più lento e il tenor gregoriano basato su un rigido schema ritmico;
l'altro tipo, poggiava su un tenor francese profano, ed era caratterizzato
da omogeneità ritmica fra le tre voci, benché al triplum spettasse
comunque un senso melodico più accentuato.
Il primo dei suddetti tipi di mottetto viene definito «petroniano»,
perché caratteristico della produzione di Petrus de Cruce, teorico e
compositore della fine del Duecento. Petrus scrisse mottetti con il triplum
molto più veloce rispetto alle altre voci: otteneva questo risultato
suddividendo i valori lunghi come la breve in tante note di minor valore
(semibrevi), così che quante più semibrevi venivano impiegate in una
scansione, tanto più diminuiva il loro valore di durata. Allo scopo di
facilitare l'individuazione della divisione ritmica delle note, Petrus adottò
nella notazione dei puntini atti a suddividere i gruppi di semibrevi secondo
la scansione di appartenenza (ogni scansione aveva complessivamente il
valore di una brevis); in tal modo nell'ambito del
mottetto si poterono trattare le semibrevi con maggiore agio e precisione
(la scrittura minutamente frazionata in semibrevi interessò soprattutto il
triplum, che poté così assumere un carattere preminente sulle altre voci).
13
14
Esempio 9
Petrus de Cruce, Aucun ont trouvé/ Lonc tans/Annuntiantes, in S. Fuller, The European
cit., p. 93
3.7 La notazione
L'evoluzione ritmica e il cambiamento di stile nell'ambito del
mottetto del XIII secolo rispetto alle forme precedenti, determinò un
mutamento di notazione perché l'organizzazione dei modi ritmici e la
conseguente scrittura modale, basata sull'uso di ligature (che ben
esprimevano lo stile melismatico della prima metà del secolo), non poteva
adattarsi al nuovo stile sillabico. Nel sistema dei modi ritmici nessuna nota
aveva un valore fisso e il mezzo principale per determinare un modo, come
pure le varianti entro uno schema modale, erano il metro delle parole o
l'uso delle ligaturae: la notazione modale poteva ancora andar bene per le
parti del tenor, dove non vi era testo e lo stile era comunque melismatico. I
testi delle voci superiori dei mottetti invece, non essendo costruiti su metri
regolari, ed essendo questi testi musicati in stile sillabico (con una sillaba
per nota), non potevano essere registrate graficamente con le ligaturae,
per il fatto che ogni ligatura poteva riferirsi a un'unica sillaba, non potendo,
per regola, essere interrotta al suo interno con altre sillabe. Era necessario
dunque codificare graficamente i diversi valori di durata applicabili a ogni
singola nota per facilitare l'esecutore a individuare il ritmo richiesto.
La codificazione di un tale sistema di notazione, detta mensurale
(perché fondata sulla mensura=misura), è contenuta in un'opera attribuita
a Francone da Colonia (che naturalmente non fu il solo inventore del
mensuralismo) intitolata Ars cantus mensurabilis, e scritta probabilmente
intorno al 1280: in essa furono stabiliti i valori delle note singole, delle
ligaturae e delle pause. Il grande salto di qualità fatto dal mensuralismo fu
la differenziazione grafica dei valori musicali, vale a dire l'associazione della
forma grafica delle note con i concetti già esistenti di longa e brevis; in tal
modo la virga della notazione quadrata prese a significare la longa, e il
punctum la brevis. La semibreve, sempre più presente nei mottetti, veniva
indicata, come già in precedenza, con il segno a forma di rombo; al di sopra
della longa stava la duplex longa, equivalente a due longae perfette.
Questo sistema di notazione permetteva la lettura immediata di qualunque
combinazione di longae, breves, e semibreves, senza dover prima
individuare l'appartenenza di un brano a un determinato modo ritmico.
Ecco di seguito i quattro segni codificati per le note singole:
Esempio 10
Anche la notazione franconiana si basava sul principio del
14
15
raggruppamento ternario. L'unità di misura, il tempus, divenne la breve:
una longa poteva essere perfetta (= tre tempora = tre breves), o
imperfetta (= due tempora = due breves); una breve normalmente
corrispondeva a un tempus, ma in certe occasioni poteva comprenderne
due, e in tal caso era detta una brevis altera (avente valore doppio); allo
stesso modo la semibreve poteva essere minore, o maggiore. Tre tempora
costituivano una perfezione, equivalente a una misura ternaria moderna:
Esempio 11
Ecco i principi fondamentali che regolano i rapporti tra la longa e la breve.
Qui la longa porfetta è trascritta con una minima puntata:
Esempio 12a
L'introduzione di un punto precisava, nei casi dubbi, la divisione tra due
perfezioni:
Esempio 12b
Simili regole stabilivano i rapporti intercorrenti tra breve e semibreve;
inoltre furono elaborati dei segni per le pause, e furono date indicazioni su
come riconoscere all'interno delle ligature le note lunghe, brevi e semibrevi.
Nel corso del Duecento si verificò anche una evoluzione in senso tonale per
cui il criterio di elaborazione delle voci, prevalentemente orizzontale, che
dava luogo a molti urti dissonanti, venne gradualmente modificato nel
senso di dare maggiore attenzione agli incontri verticali delle voci, la qual
cosa portò sempre più a far prevalere le consonanze. Infine, per quanto
riguarda il tenor, nell'ambito dei mottetti duecenteschi si cominciarono a
sperimentare procedimenti compositivi che portarono alla formazione della
tecnica isoritmica, tipica dell'Ars nova del Trecento. Il breve frammento
gregoriano che costituiva il tenor cominciò a essere inquadrato in schemi
mensurali uniformi ripetuti tante volte quante ne servivano a coprire
l'intera estensione della composizione; la sua esecuzione era affidata a
strumenti, per cui il testo non veniva pronunciato, né scritto, se non in
corrispondenza della sola sillaba iniziale. A volte anche lo stile delle voci
superiori è tale (salti, note ribattute) da far supporre anche per loro una
esecuzione strumentale.
3.8 Altre forme del tardo XIII sec.
Il teorico Johannes de Grocheo in un trattato scritto a Parigi intorno
al 1300 descrive le varie forme musicali del tempo. Il termine cantilena si
riferisce a una serie di canti profani monodici o polifonici: in quest'ultimo
caso hanno un unico testo e prevale melodicamente la voce superiore. Tra
le composizioni polifoniche, oltre al mottetto, l'organum e il conductus,
15
16
viene inserito anche il "cantus truncatus", detto hochetus (letteralmente
"singhiozzo"), ma in realtà questo termine più che a una forma si riferisce
a una tecnica compositiva: in esso alcune note che mancano in una voce
sono fornite da un'altra voce, in modo tale che la melodia si divide tra le
parti (le note in una voce corrispondono alle pause nell'altra e viceversa).
Questa tecnica diviene più frequente tra la fine del XIII e l'inizio del XIV
secolo; quando poi predomina nel corso dei brani, il termine si estende a
definire tutta la composizione.
4. ARS NOVA (XIV secolo)
4.1 Introduzione
La musica polifonica del Trecento, in Francia e in Italia, viene
definita ars nova: questa denominazione deriva dal titolo di un trattato
teorico scritto intorno al 1320 dal teorico, compositore e poeta parigino
Philippe de Vitry, vescovo di Meaux, vissuto tra il 1291 e il 1318. La
consapevolezza dei musicisti dell'epoca di trovarsi ad aprire un'epoca
nuova, è confermata dal titolo di un'altra opera teorica, Ars novae
musicae, scritto tra il 1319 e il 1321 dal matematico dell'Università di
Parigi Johannes de Muris.
Questa definizione, nel rispetto della concezione medievale dell'arte non si
riferiva a rinnovamenti di carattere estetico, ma alle innovazioni riguardanti
la tecnica compositiva, e al conseguente sviluppo della notazione
mensurale.
Un altro teorico, il fiammingo Jacob di Liegi, nel suo trattato
intitolato Speculum musicae, si contrapponeva a queste novità difendendo
l'arte polifonica del precedente periodo francese, compreso tra la Scuola di
Notre-Dame e i mottetti di Petrus de Cruce, periodo che fu definito Ars
antiqua.
Il Trecento fu un'epoca di grandi trasformazioni; nel passaggio dal
Medioevo al Rinascimento cambiarono i riferimenti politici e culturali, per
cui la Chiesa perse gradualmente il monopolio della cultura e la musica
polifonica approdò e si perfezionò anche nelle espressioni profane del
mondo cortese, lo stesso mondo che aveva accolto la letteratura
trobadorica e trovierica.
Nel Trecento la musica polifonica progredì nelle risorse ritmiche e nella
varietà di scrittura; le composizioni profane superarono quantitativamente
quelle sacre, e a volte persero anche quel legame con la tradizione
gregoriana rappresentato dal tenor dei mottetti: proprio il mottetto,
infatti, inizialmente concepito come forma sacra, si era avviato, già dalla
fine del XIII secolo, ad acquisire testo e stile profani. Una scrittura di
questo genere, ricca e varia, si era già vista nei mottetti di Petrus de
Cruce, e un carattere ancora più accentuato di transizione fra Ars antiqua
e Ars nova presentano alcuni dei 33 mottetti (cinque dei quali composti da
Philippe de Vitry) che nel 1316 furono inseriti nel Roman de Fauvel, un
poema satirico scritto pochi anni prima.
16
17
Per quanto riguarda la notazione i musicisti italiani e francesi
elaborarono simbologie che tenessero conto degli ultimi sviluppi del
linguaggio musicale, come l'alternanza della divisione binaria e ternaria, l'
introduzione di valori più brevi, e dunque una grande flessibilità ritmica
caratteristica della musica dell'ultima parte del secolo.
4.2 Ars nova francese. La notazione
Il sistema della notazione francese consisteva in un ampliamento
dei principi franconiani. I valori musicali in uso erano la longa, la breve, la
semibreve, la minima; al di sopra della longa c'era la maxima, al di sotto
della minima, la semiminima, equivalente alla metà della minima.
Ciascuna di queste figure, meno la minima, poteva essere divisa in
due o tre note del valore minore successivo: la suddivisione era definita
perfetta se ternaria (vale a dire se il valore in questione valeva tre note del
valore minore successivo), e imperfetta se binaria.
Il rapporto tra la maxima e la longa, o, semplicemente, la divisione
della maxima era detta maximodo (maximodus, che poteva dunque essere
perfetto se valeva tre longae, o imperfetto se ne valeva due); la divisione
della longa era detta modo (modus, che poteva essere perfetto se la longa
valeva tre breves e imperfetto se ne valeva due); la divisione della breve
era detta tempo (tempus, perfetto e imperfetto) la divisione della
semibreve era detta prolazione (prolatio, detta maggiore se ternaria, e
minore se binaria).
Poiché le note perfette e imperfette si scrivevano allo stesso modo,
Philippe de Vitry teorizzò l'uso di speciali segni (da porsi subito dopo la
chiave), per indicare i vari rapporti di valore. Il maximodus, a queste date,
era solo teorico.
I segni riguardanti il modo perfetto e imperfetto consistevano in
una barra verticale lunga rispettivamente tre e due spazi; un cerchio
indicava il tempo perfetto e un semicerchio il tempo imperfetto; un punto
all'interno del cerchio o del semicerchio indicava la prolazione maggiore, e
l'assenza del punto la prolazione minore, nel seguente modo:
Esempio 13
Ben presto i due segni relativi al modo perfetto e imperfetto (a e b),
vennero abbandonati (purtroppo questi segni non vennero usati, nella
pratica, fino alla fine del XV secolo: forse erano omessi anche perché
l'abilità del lettore, intesa come artificio e complessità, doveva
permettergli di capirli da sé).
La possibilità che ogni valore aveva di essere binario o ternario
(cioè di equivalere alla durata di due o tre valori successivi), permetteva
diverse opportunità di divisione e suddivisione, cioè di non presentare lo
stesso metro lungo tutta la scala di valori, come accade nella musica
17
18
moderna:
per es.
- se il rapporto tra la breve e la semibreve è ternario, e tra la semibreve e
la minima è binario (tre tempi con suddivisione ternaria), questa
situazione corrisponde al moderno segno 3/4;
- se il rapporto tra la breve e la semibreve è ternario, e tra semibreve e
minima è ternario (tre tempi con suddivisione ternaria), questa situazione
corrisponde al moderno 9/8;
- se il rapporto tra breve e semibreve è binario, e tra semibreve e minima
è ternario (due tempi con suddivisione ternaria), questa situazione
corrisponde al moderno 6/8;
- se il rapporto tra breve e semibreve è binario come quello tra semibreve
e minima (due tempi con suddivisione binaria), questa situazione
corrisponde al moderno segno 2/4 (cfr. esempio 13)
Philippe de Vitry introdusse anche l'uso dell'inchiostro rosso al
posto di quello nero per segnalare i cambiamenti di suddivisione: due note
al posto di tre, o di tre al posto di due, come i gruppi irregolari moderni
(duine e terzine).
4.3 Il mottetto del XIV secolo. L'isoritmia
Il mottetto del Trecento aveva conservato, rispetto alla produzione
duecentesca, la politestualità e l'uso di entrambe le lingue, latino e
francese; aveva invece gradualmente ridotto i contenuti liturgici in favore
di argomenti politici, assumendo così una funzione pubblica e celebrativa.
I mottetti di Philippe de Vitry sviluppano degli espedienti tecnici già
presenti nel secolo precedente, consistenti nell'organizzare il tenor in una
serie caratteristica di identici schemi ritmici e motivi melodici ripetuti,
integralmente o in parte, in base alla lunghezza delle varie sezioni che
formavano la struttura delle composizioni. Anche i tenores di Vitry spesso
sono costituiti da segmenti ritmici identici, ma a partire da quest'epoca,
questa tecnica approda ad una vera e propria concezione formale: il tenor
cambia natura, diviene più esteso, i suoi ritmi sono più complessi, il suo
procedere diviene così lento e pesante che accentua il contrasto con le
parti più mosse delle voci superiori, e perde la fisionomia vocale melodica
per assumere la funzione di base sulla quale poggia l'intero brano. Vitry
nei suoi mottetti non segue la tendenza, tipica di Petrus de Cruce, di far
prevalere la voce superiore, e preferisce invece rendere paritarie le due
voci superiori (motetus e triplum) nel loro dialogare; la voce, o le voci
inferiori, con carattere di tenor (il secondo tenor, quando c'era, era
chiamato contratenor), impiegavano note più lunghe, come longae e
breves, con funzione di sostegno, che contrastavano con i valori più brevi
(semibrevi e minime), delle voci superiori. Così il metro e il ritmo della
composizione si differenziarono in vari strati diversi e contrastanti.
In questi mottetti si va sempre più organizzando la tecnica
compositiva denominata isoritmia, basata sull'organizzazione strutturale di
18
19
formule ritmiche e melodiche ricorrenti, secondo schemi prestabiliti. Il
luogo di applicazione di tale tecnica era normalmente la voce o le voci più
basse (tenor, e, quando era previsto, anche il contratenor) per la loro
funzione di base nell'ambito della composizione; ma, a volte, fu applicata
anche alle voci superiori (motetus e triplum). Le voci trattate con la
tecnica isoritmica venivano organizzate secondo due procedimenti
chiamati color (la sequenza di intervalli) e talea (la formula ritmica):
l'isoritmia mediante color consisteva nel ripetere la parte mantenendo
inalterata la sua struttura melodica e variando il valore metrico delle note;
l'isoritmia mediante talea consisteva invece nel ripetere la parte
mantenendo inalterati i valori metrici delle sue note variando invece la
struttura melodica. In quest'ultimo caso la variazione poteva avvenire
semplicemente trasportando l'inciso melodico, capovolgendolo
specularmente o invertendone le note dall'ultima alla prima. I due
procedimenti potevano essere variamente mescolati. Costruito con tali
criteri il tenor, (ma anche il contratenor e, a volte, anche le voci superiori),
costituiva una sorta di impalcatura atta a sostenere dal basso tutta la
composizione; date queste caratteristiche di costruzione, è probabile che
le voci trattate con l'isoritmia fossero destinate a un'esecuzione
strumentale.
4.4 Guillaume de Machaut
Il principale rappresentante dell'Ars nova francese fu Guillaume de
Machaut (1300-1377), diplomatico, poeta e musicista; dal 1323 fu
segretario di Giovanni di Lussemburgo, re di Boemia, che seguì nelle sue
campagne militari attraverso l'Europa, fino alla morte del re avvenuta nel
1346 durante la battaglia di Crécy contro gli inglesi. Successivamente
entrò al servizio del re di Francia; trascorse l'ultima parte della sua vita
come canonico della cattedrale di Reims. Machaut fu una personalità di
rilievo anche nell'ambito della letteratura francese per la sua opera
letteraria; importanti sono due opere poetiche nel cui contesto narrativo
sono inserite delle sue composizioni musicali: il Remède de Fortune, un
trattato didattico in versi sull'amore e la fortuna, e il Voir Dit, una sorta di
epistolario amoroso tra l'autore e una giovane poetessa (Peronelle
d'Armentiéres). La musica in questo caso serve come intensificazione di
alcuni momenti della vicenda amorosa.
L'opera musicale di Machaut comprende composizioni appartenenti
alla maggior parte delle forme allora in uso, e alterna lo stile tradizionale
franconiano allo stile innovatore dei mottetti, ballades e dei rondeaux. La
sua Messa di Notre-Dame appartiene allo stile tradizionale ed è la più
antica realizzazione polifonica delle parti dell'Ordinario della Messa come
opera di un solo autore; infatti se nel Trecento si era cominciato a
comporre polifonicamente anche i canti dell'Ordinario (alcuni dei quali
riuniti in cicli completi, come le cosiddette Messe di Tournai e di
Barcellona), tuttavia in questi casi i singoli brani provenivano da autori
19
20
diversi ed erano stati composti in tempi diversi.
La messa di Machaut è importante, oltre che per le dimensioni
estese e la scrittura a 4 voci, soprattutto per il fatto che è stata
progettata come un'unica composizione musicale; in essa il Kyrie, il
Sanctus, l'Agnus Dei e l'Ite Missa est sono realizzati con la tecnica
isoritmica, mentre il Gloria e il Credo sono scritti in uno stile
prevalentemente omoritmico e sillabico, detto "stile a conductus", più
adatto alla resa e alla lunghezza dei testi.
Caratteristica dei 23 mottetti di Machaut, a 3 e a 4 voci (in
quest'ultimo caso con tenor e contratenor), è l'uso sapiente di
procedimenti isoritmici organizzati in combinazioni estremamente
complesse, che a volte coinvolgono anche le voci superiori. Sono, per la
maggior parte, di argomento amoroso o cortese, ma alcuni trattano anche
di argomenti liturgici o celebrativi.
Altro procedimento, o tecnica compositiva da rilevare nei mottetti
è l'hoquetus, (termine derivato dal francese hoquet= singhiozzo,
latinizzato nel medioevo) che sta ad indicare una scrittura alternata di note
e pause, disposte in modo tale che alla nota di una voce corrisponda la
pausa nell'altra e viceversa. L'unica opera di Machaut espressamente
definita con questo termine è una composizione a tre voci, forse destinata
all'esecuzione strumentale, di tipo mottettistico costruita su un tenor
isoritmico derivato dalla melodia dal melisma gregoriano sulla parola
"David" di un versetto alleluiatico.
Maggiore originalità e libertà di espressione consentivano le forme
profane prive di tenor, che proprio allora cominciavano ad affermarsi nella
musica polifonica. Si tratta delle cosiddette formes fixes (forme fisse),
ossia di quelle forme in cui la struttura musicale e le sue sezioni erano
organizzate in correlazione con le sezioni della struttura testuale.
Nella sua opera Remede de Fortune, Machaut aveva inserito, anche
a scopo didattico, sette pezzi con valore di modelli esemplari di differenti
generi poetico-musicali: il lai, complainte, chanson royal, baladele, ballade,
virelai e rondeau.
Tutte queste forme poetiche solevano già da tempo essere accompagnate
da un'intonazione musicale monodica, e lo stesso Machaut, autore anche
dei testi poetici, continuando la tradizione trovierica, aveva messo in
musica 19 lais (una antica forma simile alla sequenza che con Machaut
conclude la sua storia) e circa 25 virelais.
Il virelai è caratterizzato dal seguente schema formale:
A b b a.., in cui A indica il ritornello, b la prima parte della stanza (che
viene ripetuta) e a l'ultima parte della stanza (cantata sulla stessa melodia
della ripresa). Nel caso ci siano più stanze, il ritornello A può essere
ripetuto alla fine di ciascuna.
testo
musica
Refrain
A
a
1 strofa
B
bba
Ref.
A
a
20
2 str. Ref. 3 str. Ref.
C
A
D
A
bba
a
bba
a
21
Alcuni virelais di Machaut sono polifonici, e hanno un tenor strumentale al
di sotto della parte vocale, in funzione di accompagnamento; in essi a volte
troviamo una rima musicale alla fine delle due sezioni melodiche.
Oltre ai pochi virelais, le forme che, a partire dal XIV secolo, vengono
normalmente intonate con la tecnica della polifonia misurata sono la
ballade e il rondeau.
Le opere di Machaut di questo tipo si basano tutte su testi poetici suoi e
sono nello stile detto "a cantilena" o "di ballata", che si caratterizza per il
rilievo melodico e vocale dato ad una voce (in genere la voce superiore),
che si contrappone alle altre voci in valori più lunghi e con la funzione di
accompagnamento strumentale.
La ballade è costituita, in genere, da tre strofe con lo stesso
numero e lo stesso tipo di versi, di rime, e lo stesso verso finale (refrain).
es. 14a
testo di ballata
Nes que on porroit les estoiles nombres.
Quant on les voit luire plus clerement,
Et les goutes de pluie et de la mer,
Et l'areienne seur quoy ellle s'estent.
Et compasser le tour dou firmament,
Ne porroit on penser ne concevoir
Le grant desir que j'ay de vous veoir.
...................
Esempio mus. 14b
Guillaume de Machaut, Nes que on porroit, ballade, in S. Fuller, The European cit., pp. 109111
L'intonazione musicale è composta da due sezioni. La sezione A intona la
prima quartina di ogni strofa; si intona dapprima il primo e secondo verso,
e subito dopo il terzo e il quarto. Queste due coppie di versi vengono però
intonate con due formule finali differenti denominate rispettivamente
ouvert e clos. La sezione B serve per l'intonazione dei rimanenti versi. La
ballade deve a Machaut la sua fondazione come genere della musica
polifonica; costruita a due voci (canto vocale e tenor strumentale), più
spesso a tre (canto vocale, tenor e contratenor strumentali), talvolta a
quattro (triplum strumentale, canto vocale, tenor e contratenor
strumentali) si sviluppa subito come forma musicale particolarmente curata
e raffinata, per più aspetti vicina al mottetto. Come il mottetto, presenta a
volte l'intonazione di due o tre testi differenti per le parti di canto; come il
mottetto, può presentare anche la divisione in talee che sottolinea con
21
22
estrema precisione lo schema metrico; come il mottetto infine, la ballade
assume, soprattutto verso la fine del secolo, la funzione di composizione
celebrativa.
Il rondeau è costituito da una sola strofa di otto versi, con il quarto
verso uguale al primo e gli ultimi due uguali ai primi due.
ESEMPIO DI testo di RONDEAU 15a
Dame, mon cuer en vous remaint,
comment que de vous me departe.
De fine amour qui en moy maint,
dame, mon cuer en vous remaint.
Or pri Dieu que li vostres m'aint,
sans qu'en nulle autre amour parte.
Dame, mon cuer en vous remaint,
comment que de vous me departe.
esempio 15b
Guillaume de Machaut, Ma fin est mon commencement, rondeau, G. de Machaut, .....
l'intonazione musicale del rondeau è composta da due sezioni. La
sezione A serve per l'intonazione del primo, terzo, quarto, quinto e settimo
verso; la sezione B serve per l'intonazione del secondo, sesto e ottavo
verso.
4.5 Ars nova italiana. La notazione
Una vera e propria produzione italiana di musica polifonica inizia
solo dopo il terzo decennio del XIV secolo; dell'epoca precedente,
diversamente dalla Francia, dove la polifonia misurata coltivata nell'ambito
dell'Università di Parigi aveva conquistato gli ambienti cortesi e aveva già
dato risultati notevoli, non rimangono che pochi esempi liturgici in stile
arcaico. Non erano tuttavia mancati, nel XIII secolo, contatti tra la cultura
francese e le università dell'Italia settentrionale (l'Università di Padova in
particolare); inoltre influenze culturali francesi erano approdate alla corte
angioina di Napoli.
Il sistema di notazione italiano è descritto nel trattato intitolato
Pomerium del teorico e compositore Marchetto da Padova, vissuto a
cavallo tra il XIII e il XIV secolo. Il trattato, che possiamo datare tra il 1318
e il 1326, espone un sistema mensurale che rimarrà in uso nella polifonia
italiana per i primi due terzi del secolo: è più elaborato di quello
franconiano, diverso da quello di Vitry e ispirato a criteri più pratici. A
differenza dell'ars nova dei teorici francesi, che estese i principi del
mensuralismo franconiano ai rapporti fra brevis e semibreve e fra
semibreve e minima, Marchetto considerò direttamente il rapporto fra
brevis e minima, articolandolo in varie divisiones corrispondenti ognuna al
22
23
numero di minime che una breve poteva contenere. Si potevano così avere
la divisio quaternaria (quando la breve conteneva quattro minime), la
senaria imperfecta (quando conteneva sei minime raggruppate in due
semibrevi, ciascuna comprendente tre minime), la senaria perfecta (sei
minime raggruppate in tre semibrevi, ciascuna comprendente due minime),
la novenaria (nove minime). Fin qui si trattava soltanto di dare nomi diversi
a rapporti già presenti nel sistema francese, che li definisce coi concetti di
tempus e di prolatio, ma tipicamente italiane erano la divisio octonaria
(otto minime, quindi metro binario) e quella duodenaria (dodici minime,
quindi metro ternario).
schema es. 16
Divisioni della breve in uso nell'Ars nova italiana
Nel corso del pezzo, poi, alcuni punti separavano i gruppi di note aventi
come valore totale una breve, similmente ai punti di Petrus de Cruce (dalla
cui notazione questa sembra derivare direttamente, senza la mediazione di
Philippe de Vitry). La semibreve aveva un valore fluttuante potendo
comprendere un numero variabile di minime e, quando era necessario
attribuirle un valore particolarmente grande, si usava il segno, detto
semibrevis maior, distinto dalla minima per il gambo discendente anziché
ascendente.
Dunque la vera fioritura artistica della polifonia italiana è
documentata solo a partire dal quarto decennio del Trecento, ma,
nonostante il gran numero di fonti manoscritte pervenuteci a partire da
quelle date, l'ars nova italiana fu praticata solo da ristretti ambienti di
intenditori, quali ecclesiastici o pubblici funzionari, perché la musica che
circolava negli ambienti cortesi o cittadini (gli ambienti a cui per esempio si
rifà Giovanni Boccaccio nel Decameron), era per lo più monodica e
consisteva in ballate, canzoni e danze strumentali di cui ci sono pervenute
poche testimonianze, perché normalmente la monodia non si metteva per
iscritto, e anche la polifonia era improvvisata o eseguita a memoria.
La fonte musicale italiana più ricca è rappresentata dal codice Squarcialupi,
così detto dal nome di Antonio Squarcialupi, organista fiorentino (14161480), suo primo proprietario. Il codice fu redatto intorno al 1420, è
attualmente conservato nella Biblioteca Laurenziana di Firenze, e contiene
tre forme polifoniche profane italiane: il madrigale, la caccia e la ballata.
4.6 Prima fase dell'Ars nova italiana. Il madrigale e la caccia
La prima fase dell'Ars nova italiana si svolse in alcune città dell'Italia
settentrionale, come Verona (il cui signore era Mastino II della Scala),
Padova (governata da Alberto, fratello di Mastino) e Milano (con Giovanni
Visconti), dove, dalla metà del XIV secolo, operarono compositori come
Iacopo da Bologna e Giovanni da Cascia (o da Firenze).
Durante questa prima fase la forma più in uso fu il madrigale, la cui
23
24
etimologia sembrerebbe derivare dal termine 'matricale', che significa
"nella lingua madre".
Il madrigale era una forme fixe: in esso il testo letterario si articola in una
serie di terzine di endecasillabi, aventi lo stesso ordine di rime, conclusa da
una coppia di endecasillabi a rima baciata detta ritornello. La musica è
costituita da due sezioni: la sezione A per l'intonazione delle terzine, la
sezione B per l'intonazione del ritornello.
testo di madrigale es. 17a
(F. Petrarca)
Non al suo amante più Diana piacque
Quando per tal ventura tutta nuda
La vide in mezzo de le gelide acque
Ch'a me la pastorella alpestra e cruda
Posta a bagnar un leggiadretto velo
Ch'a l'aura il vago e biondo capel chiuda
Tal che mi fece quando gli arde 'l cielo
Tutto tremar d'un amoroso gielo
esempio 17b
Jacopo da Bologna, Non al suo amante, madrigale, in S. Fuller, The European cit., pp. 116117
I madrigali di Giovanni da Cascia e di Iacopo da Bologna hanno un
carattere diverso dalla contemporanea musica francese. I testi non sono
lirici di tradizione cortese (perché questa letteratura in Italia era
appannaggio della poesia del Dolce stil novo e delle ballate monodiche), ma
tendono alla sentenziosità, alla satira, oppure alla descrizione naturalistica.
La musica dei madrigali è caratterizzata da ricchi melismi all'inizio e alla fine
di ogni verso, mentre al centro, soprattutto in Giovanni da Cascia, prevale
uno stile più sillabico che mette in evidenza il testo, diversamente da
quanto avviene in Machaut. Il madrigale era in genere scritto per due voci,
la voce inferiore era meno melismatica, e tendeva ad assumere una
funzione di sostegno armonico: tuttavia la presenza di imitazioni fra le voci
fa supporre un'esecuzione totalmente cantata.
Un altro rappresentante della prima generazione di musicisti dell'Ars
nova italiana è un tale Piero, probabilmente di origine veneta, nei cui
madrigali si nota la progressiva applicazione di procedimenti a canone. E'
nella sua opera che troviamo per la prima volta la caccia (ne scrisse due),
una forma che diverrà tipica del Trecento italiano.
La caccia è una composizione a tre voci, di cui le due superiori si
imitano a canone, mentre quella inferiore, chiamata tenor, ha carattere
strumentale di sostegno. Il termine è dovuto al fatto che i testi sono a
carattere descrittivo, e illustrano scene di movimento come mercati o,
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appunto, scene di caccia o di pesca; straordinari risultano così gli effetti
prodotti dal vivace rincorrersi delle due voci che si imitano e dalla varietà e
dall'incisività dei ritmi, che spesso adottano l'hoquetus. A differenza delle
altre forme italiane, la caccia, per il suo carattere descrittivo, non è una
forme fixe, ma adotta un andamento sempre libero da schemi.
esempio 18
Piero, Con brachi assai, caccia in notazione moderna
4.7 Seconda fase dell'Ars nova italiana. La ballata
Poco dopo la metà del secolo il centro produttivo dell'Ars nova
italiana si sposta a Firenze, dove questa produzione polifonica profana era
appannaggio di pochi appassionati, a conferma di come in Italia quella
musica costituiva ancora un fenomeno d'avanguardia.
Nel primo periodo dell'Ars nova fiorentina la forma più usata era il
madrigale in cui erano presenti melismi complessi; la caccia era meno
frequente nelle opere dei compositori, ma quelle che ci sono pervenute
sono pregevoli, anche perché spesso sono su testi di poeti di rilievo come
Franco Sacchetti e Nicolò Soldanieri.
La ballata era inizialmente una forma poetico-musicale di
accompagnamento a una danza; nel Duecento le ballate erano monodiche e
alternavano ritornelli corali a interventi solistici. Tale forma fu poi adottata
dalla lauda (le più antiche testimonianze musicali pervenuteci della ballata
sono proprio delle laude duecentesche), e perse allora alcune
caratteristiche legate alla danza (tuttavia nel Decameron di Boccaccio la
ballata è ancora associata alla danza).
Scarse sono le ballate monodiche degli inizi del XIV secolo pervenute a noi,
mentre la maggior parte delle composizioni di questo genere presente nei
manoscritti, sono tarde (databili dopo il 1365) e polifoniche, in genere a
due o tre voci.
La forme fixe assunta dalla ballata polifonica nel Trecento si può
così riassumere: la forma metrica del testo comprende una "ripresa" di
due, tre, o quattro versi (rispettivamente per la ballata minore, media e
grande), due "piedi" identici quanto a numero di versi e rime, e una
"volta", identica alla ripresa, in cui il primo verso rima con l'ultimo dei piedi
e l'ultimo verso rima con il primo della ripresa; la musica si articola in due
sezioni: la sezione A intona la ripresa e la volta, la sezione B intona i piedi.
In precedenza, le strofe erano spesso più d'una, come nel virelai francese.
esempio 19a
testo di ballata
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Questa fanciulla, Amor, fallami pia,
che m'ha ferito 'l cor ne la tuo via.
Ripresa
Tu m'ha, fanciulla, sì d'amor percosso,
che solo 'n te pensando trovo posa.
Piede
El cor di me tu ha' rimosso
co gli ochi belli e la faccia gioiosa:
Piede
però al servo tuo, deh sie pietosa;
merzé ti chieggio a la gran pena mia.
Volta
Questa fanciulla, Amor, fallami pia
Ripresa
esempio 19b
Francesco Landini, Questa fanciull'amor, in S. Fuller, The European cit., pp. 122-123
I principali musicisti della prima fase fiorentina furono Gherardello da
Firenze (morto nel 1362), Lorenzo Masini da Firenze (morto nel 1372),
Vincenzo da Rimini: le loro poche ballate sono ancora monodiche; alla
seconda fase appartengono Donato da Cascia e Nicolò del Preposto da
Perugia, autore di cacce).
4.8 Francesco Landini
E' solo con Francesco Landini, detto Francesco degli Organi, il più
famoso musicista italiano del XIV secolo, che la ballata ricevette
intonazione a due e a tre voci, e divenne il genere della polifonia misurata
con testo volgare tipico della seconda metà del secolo.
Il ritorno della sede papale da Avignone a Roma (1377), determinò
una serie di contatti e scambi culturali tra italiani e francesi che portò alla
formazione del cosiddetto 'stile misto', nel quale coesistono elementi sia
dell'arte francese, sia di quella italiana; di conseguenza anche la notazione
musicale diventò 'mista', perché nel sistema delle divisiones di Marchetto si
inserirono le suddivisioni di Vitry (i "tempi" e le "prolazioni"), con i
meccanismi del sistema mensurale di Francone. La ballata divenne
polifonica e divenne la forma musicale più diffusa rispetto al madrigale. Le
prime ballate erano a 2 voci e di carattere umoristico; Francesco Landino,
o Landini (1335-1397), trasferì poi i contenuti lirici della ballata monodica
nella ballata polifonica, a 2 e a 3 voci, nella quale trasferì la complessità
delle tecniche francesi. Nella sua produzione le ballate sono molto più
numerose dei madrigali (140 ballate contro 10 madrigali).
Le ballate a due voci sono ancora vicine allo stile dell'Ars nova
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italiana tradizionale, hanno melismi non molto estesi e sono interamente
vocali perché la parte inferiore imita a volte la voce superiore. Le ballate a
tre voci sono posteriori, concentrano l'interesse melodico nella voce
superiore, secondo lo stile "a cantilena" , hanno un contrappunto raffinato,
e nelle terminazioni dei "piedi" adottano la doppia formula dell'ouvert e del
clos (come Machaut nelle formes fixes). Inoltre, come nei mottetti francesi,
Landini impiega a volte la tecnica isoritmica, e testi differenti per le
diverse voci di una stessa composizione. Nelle ballate di Landini, più che
nei suoi madrigali, si nota la tendenza a privilegiare negli incontri verticali
delle voci gli intervalli di terza e sesta invece dei più arcaici intervalli di
quarta e di quinta. La cosiddetta cadenza alla Landini sarà impiegata
frequentemente anche dai compositori borgognoni del Quattrocento.
4.9 Ars subtilior
L'espressione Ars subtilior ("arte più sottile"), presente negli scritti
teorici dell'epoca, definisce lo stile di fine secolo (manierato o manieristico)
prevalente nelle composizioni su testi francesi della fine del Trecento e
dell'inizio del Quattrocento. Caratteristiche di questo stile sono l'estrema
complessità ritmica e l'aspetto oscuro ed enigmatico della scrittura
musicale, la cui complicazione è a volte fine a se stessa. Il messaggio di
questi pezzi spesso viene trasmesso non solo dalla musica, ma anche dalla
grafica che si carica di significati simbolici: famosi sono alcuni brani scritti
in forma di cuore o di arpa.
Tra i più importanti compositori francesi e italiani troviamo
Johannes Cuvelier, Filippotto da Caserta, e, a cavallo tra i due secoli,
Antonello da Caserta e Matteo da Perugia. Le loro opere sono
caratterizzate dalla presenza contemporanea di metri diversi nelle varie
voci; da complicate combinazioni proporzionali fra i valori delle note (es.
sette note in una voce contro tre note di un'altra); da sincopazioni, canoni.
Per poter registrare graficamente queste difficili combinazioni ritmiche,
furono elaborati nuovi segni e nuove forme bizzarre per le note, e oltre alle
note nere e rosse, comparvero note bianche (vacuae), con contorno nero
o rosso. Tra la fine del Trecento e l'inizio del Quattrocento i segni di tactus
su esposti (v. es. 13) furono usati con sempre maggiore frequenza,
rendendo inutile l'adozione delle note rosse. Nella stessa epoca si nota una
generale tendenza a scrivere piuttosto in note vuote o piene che non con
due inchiostri diversi, anche perché la graduale sostituzione della carta alla
pergamena suggeriva di evitare al massimo l'uso dell'inchiostro, che
passava spesso sull'altra parte del foglio. Intorno al 1450 si attuò un vero
e proprio capovolgimento nella scrittura musicale per cui le note di valore
più lungo, da nere diventarono bianche.
esempio 20
27
28
esempio 21
Figure della notazione mensurale bianca
L'esistenza contemporanea di due sedi papali, a Roma e ad
Avignone, durante lo Scisma d'Occidente (1378-1415) determinò
numerosi incontri e scambi stilistici tra musicisti francesi e italiani. Così la
musica italiana assorbì caratteri dell'Ars subtilior e delle formes fixes
francesi. Nei primi decenni del Quattrocento questa rinnovata letteratura
musicale italiana fece capo a Bologna, sede dal 1410 al 1415 di due
antipapi eletti dal Concilio di Pisa (Alessandro V e Giovanni XXII); i musicisti
in questione sono Matteo da Perugia, Magister Zachara, Antonello da
Caserta e Johannes Ciconia, nativo di Liegi, ma italianizzato, che è uno dei
più importanti musicisti della fase di transizione verso la grande scuola
fiamminga del Quattrocento.
5 L'ETA' FIAMMINGA (XV secolo-inizi del XVI secolo)
5.1 Introduzione
Dall'inizio del XV secolo si manifestò e sviluppò la grande civiltà
musicale franco-fiamminga, i cui protagonisti erano originari della Francia
settentrionale, della Borgogna e delle Fiandre. Da questi paesi numerosi
compositori, maestri di cappella, cantori e strumentisti andarono alla
conquista del resto dell'Europa dando vita a uno stile internazionale al
quale contribuirono in modo decisivo, verso la metà del secolo, anche
numerosi compositori inglesi.
La guerra dei Cento anni tra Francia e Inghilterra (1337-1475) favorì
indirettamente il consolidamento politico ed economico del ducato di
Borgogna, alleato degli inglesi e dunque svincolato dalla soggezione al
regno di Francia; sotto la guida di Filippo il Buono (1419-1467) e Carlo il
Temerario (1467-1477) il ducato conobbe una straordinaria fioritura
culturale, conseguenza della floridezza economica e della stabilità politica,
che trovò nelle arti figurative e nella musica i veicoli privilegiati di
espressione.
Tra l'altro, l'alleanza tra l'Inghilterra e la Borgogna contro la Francia,
aveva creato frequenti occasioni ad alti personaggi inglesi e al loro seguito
di musicisti, di transitare sui territori francese e borgognone: queste
occasioni favorirono contatti con la musica e i musicisti del continente. Già
alla fine del XIV secolo era iniziato un processo di fusione tra gli stili italiano
e francese: questo incipiente stile internazionale doveva essere
incrementato, nel secolo XV, dal contributo di altre scuole, in particolare
quella inglese e quella franco-fiamminga.
5.2 La scuola inglese
La scuola inglese fiorì nella prima metà del Quattrocento attraverso
la fusione della tradizione locale con elementi assimilati e tratti dall'Ars
28
29
nova francese; nei secoli XII e XIII la musica inglese aveva avuto una
continua evoluzione assimilando le conquiste tecniche più preziose dell'Ars
nova. Quando, a cominciare dalla battaglia di Azincourt (1415), vinta da
Enrico V d'Inghilterra, che assicurò ai re inglesi ampi domini sul territorio
francese favorì gli scambi culturali con il continente, i musicisti inglesi
esportarono nei paesi francesi e fiamminghi la loro tradizione musicale.
Dopo il XIII secolo l'Inghilterra aveva mantenuto e arricchito quei caratteri
che formavano il fascino e l'interesse specifico della sua polifonia:
predilezione per uno stile consonante e melodico, eufonia e senso di
pienezza armonica, naturalezza ritmica, aumento del numero delle voci,
libero impiego di movimenti paralleli per successioni di intervalli di terze e
seste.
La maggiore espansione della musica inglese ebbe luogo nella prima
metà del secolo, dall'avanzare dell'Inghilterra sul continente fino alla sua
sconfitta e alla fine della guerra dei Cento anni che coincise con la morte di
Dunstable, il più grande compositore della scuola inglese.
John Dunstable (1380 ca.-1453), compositore, astronomo e
matematico, è il compositore più rappresentato nei manoscritti diffusi nel
continente. Fu a Parigi al seguito del duca di Bedford, e fu ben noto anche
ai musicisti della corte di Borgogna, sui quali ebbe un influsso
determinante, e dai quali, a sua volta, ricevette stimoli importanti. La sua
produzione comprende messe e tempi di messe, mottetti isoritmici e di
libera composizione, inni, chansons su testo francese e inglese.
La musica inglese, e Dunstable in particolare, dettero contributi alla
musica europea soprattutto nel campo della musica sacra con nuove
tecniche compositive su canto fermo. Il cantus firmus, o, più precisamente
cantus prius factus, è una melodia preesistente posta come punto di
partenza a supporto della costruzione polifonica, data in valori larghi e
uniformi. Oltre a ciò la musica inglese mise a punto innovazioni quali la
forma ciclica nella messa, l'arricchimento delle sonorità, lo sviluppo della
variazione sul canto fermo e dello stile imitativo.
Le messe o parti di messe dell'inizio del Quattrocento adottarono
diversi stili come quello del mottetto isoritmico, ereditato dall'Ars nova
francese, o lo stile della ballata (una parte vocale superiore sostenuta da
due parti inferiori strumentali), o della caccia (con due voci superiori in
canone), ereditati dall'Ars nova italiana. Il manoscritto Old Hall, importante
fonte della musica inglese di questo periodo, contiene le forme suddette
insieme ad altre forme più arcaiche (come quella nello stile del conductus,
o ancora quelle articolate sul contrasto soli-coro). Se le messe o movimenti
di messe su canto fermo liturgico erano diffuse già dalla seconda metà del
XIV secolo e dall'inizio del XV, come anche gli abbinamenti di tempi di
messa costruiti sul medesimo cantus firmus (Sanctus-Agnus Dei, o GloriaCredo), tuttavia l'affermazione definitiva della messa ciclica, in cui tutti i
tempi sono scritti sul medesimo cantus prius factus e trattati secondo le
regole mensurali dell'isoritmia, è da attribuire alla scuola inglese.
Altro procedimento compositivo usato nella messa dagli inglesi (ma
29
30
anche dai fiamminghi) allo scopo di uniformare l'elaborazione dei vari
movimenti, è quella di impiegare motti introduttivi uguali o poco variati
nelle medesime voci all'inizio di ciascun movimento. Altrettanto importante
ai fini della coesione formale nelle messe polifoniche, è lo sviluppo della
tecnica imitativa, ancora poco usata all'inizio del Quattrocento, ma
destinata a progredire nella musica sacra e profana dei decenni successivi.
Nelle composizioni polifoniche inglesi su canto fermo, quest'ultimo poteva
trovarsi in ogni voce, oppure passare dall'una all'altra; nella voce superiore,
di per sé più melodica, il canto fermo veniva fatto oggetto di
ornamentazioni e variazioni, tecnica che gli inglesi del primo Quattrocento
frequentarono e svilupparono alquanto. Tipicamente inglese è anche la
pratica dell'improvvisazione a vista che fu esportata sul continente e lasciò
tracce importanti nella polifonia d'arte come, ad esempio, il gusto per
armonie piene, e dunque per una maggiore eufonia. Questa pratica
consisteva nel raddoppio estemporaneo di uno stesso cantus firmus a
intervalli diversi da parte di più esecutori. A questo procedimento si rifanno
il gymel (canto gemello, tradizionale della musica inglese) e il faburden, il
raddoppio rigoroso di un motivo dato da parte di un tenor e di un superius
che procedono per seste, e un contratenor che procede a una quarta sotto
il superius. Questo modo di procedere si inserisce in quella secolare
abitudine di amplificare il canto liturgico attraverso raddoppi che, nella
fattispecie, formano intervalli all'epoca ritenuti imperfetti (terze e seste),
ma tipici della tradizione musicale inglese.
Al di fuori dell'ambiente liturgico le forme coltivate in Inghilterra
erano i carols polifonici (canzoni a ballo con ritornello corale e stanze di
argomento sacro); e le chansons (simili nella forma al virelai francesi e alla
ballata italiana), che avevano carattere profano, raffinato, e venivano usate
negli intrattenimenti musicali delle corti e dell'alta società. Anche nelle
chansons inglesi prevale la pienezza armonica; spesso prevale
melodicamente la voce superiore il cui canto viene ornato con un gusto
raffinato che rimarrà tipico del gusto e della prassi vocale inglese di questo
periodo.
5.3 Evoluzione dello stile musicale alla fine del Medioevo
L'evoluzione dello stile musicale può essere considerato, dal
Medioevo in poi, come un percorso che va dalla prevalenza assoluta del
principio contrappuntistico-orizzontale all'evolversi graduale e al prevalere
del principio armonico-verticale, ovvero dalla maggiore indipendenza e
importanza del percorso orizzontale delle linee melodiche di ogni parte, al
progredire e all'affermarsi delle regole riguardanti gli incontri verticali delle
parti, e quindi all'affermarsi del gusto armonico. Nel mottetto del XIII
secolo prevaleva lo stile contrappuntistico perché l'interesse era rivolto
soprattutto alle linee melodiche indipendenti, mentre ai loro incontri
verticali si riservava un'attenzione minima. Durante il XIV secolo invece, la
tendenza cominciò a cambiare direzione verso una sensibilità crescente
30
31
verso l'organizzazione armonica.
Un'ulteriore indicazione dell'accresciuta importanza della tecnica
armonica, rispetto a quella contrappuntistica, fu nel XIV secolo anche il
mutamento dei criteri di scelta dei testi per musica vocale. Al mottetto del
XIII, composto da più testi diversi, subentrarono le nuove forme del XIV
secolo, che avevano un unico testo affidato solo alla voce superiore,
oppure distribuito tra voci diverse ma in modo che le parole fossero
sempre comprensibili, o ancora, il testo veniva pronunciato
simultaneamente, come nel falso bordone.
Altri mutamenti dello stile musicale, tra il XIII e il XV secolo, furono
il graduale abbandono dei principi costruttivi astratti, la rivalutazione del
piacere del suono per se stesso e una chiarezza strutturale evidente, libera
da riferimenti e significati esoterici.
5.4 La tradizione franco-fiamminga
Con il XV secolo ha inizio una importante fioritura musicale in molti
centri della Borgogna, delle Fiandre e del regno di Francia: un gran numero
di musicisti nativi di questi paesi e della vasta area culturale francofiamminga furono protagonisti indiscussi della musica europea dal XV alla
metà del XVI secolo. Per quasi due secoli occuparono i posti più importanti
e prestigiosi presso le corti, le cappelle principesche e le grandi chiese
cittadine in qualità di compositori, strumentisti e cantori di polifonia, e
divulgarono conquiste tecniche e formali di fondamentale importanza per la
musica occidentale. Con queste loro tecniche determinarono la formazione
dei musicisti di altre nazioni, che nel Cinquecento, su queste basi, ebbero
modo di elaborare scelte personali e sviluppare ulteriormente la loro arte.
Nella prima metà del Quattrocento si assestarono in Europa le monarchie
occidentali: alla fine della guerra dei Cento anni (1357-1453) la Francia si
liberò delle ingerenze inglesi sul suo territorio; l'Inghilterra iniziò la sua
ascesa dopo la guerra delle Due Rose (1455-1485); in Spagna nel 1469 ci
fu la unificazione dei regni di Ferdinando d'Aragona e Isabella di Castiglia; il
papato, reduce da Avignone, subiva il Grande e Piccolo Scisma
d'Occidente.
Come abbiamo già detto, i musicisti borgognoni e fiamminghi
provenivano dalla Borgogna, dallo Champagne, l'Artois, la Piccardia e le
Fiandre. Il ducato di Borgogna, in particolare, svolse tra il 1363 e il 1477
un ruolo importante nella storia europea, soprattutto nel corso della guerra
dei Cento anni durante la quale, grazie alla sua alleanza con l'Inghilterra, si
era affrancato dalla dipendenza e sottomissione alla monarchia francese.
Conseguenza della sua potenza politica e del suo benessere economico,
all'inizio del XV secolo, fu il sorgere in esso di una grande fioritura
culturale, artistica e musicale che si manifestò contemporaneamente anche
in molti centri delle Fiandre e del regno di Francia.
Si usa solitamente distinguere, in questa fioritura, una fase
propriamente borgognona, relativa alla prima parte del secolo, il cui
31
32
massimo rappresentante è Dufay, e una fase franco-fiamminga, iniziata,
alla metà del secolo, dal grande Ockeghem.
Il termine 'borgognone' non ha nessuna connotazione nazionale,
perché nella prima parte del secolo la cappella borgognona fu formata da
musicisti provenienti da vari paesi europei, da Parigi, come, più tardi,
dall'Inghilterra e dalle regioni franco-belghe; tuttavia il termine nasce dal
fatto che, essendo la corte e la cappella di Filippo il Buono (1419-1467) le
più splendide d'Europa, ed essendo il suo mecenatismo musicale influente
ed esteso, il termine borgognone venne dato proprio allo stile musicale e ai
suoi compositori. L'atmosfera cosmopolita di questa corte
quattrocentesca era ancora più accentuata dalle frequenti visite di
musicisti stranieri e dal fatto che gli stessi membri della cappella erano
continuamente in viaggio, passando da un servizio all'altro. In tali
circostanze lo stile musicale non poteva che essere internazionale; inoltre il
prestigio della corte borgognona era tale da influenzare gli altri centri
musicali europei, come le cappelle papali a Roma, quelle dell'Imperatore di
Germania, dei re di Francia e d'Inghilterra, e delle varie corti italiane.
Tuttavia nel XV secolo è più corretto considerare le Fiandre e la
Borgogna un'area culturalmente omogenea, anche per il fatto che i
compositori appartenenti alle due generazioni, quella di Dufay e quella di
Ockeghem, ebbero modo di rapportarsi e influenzarsi vicendevolmente.
La formazione musicale dei compositori avveniva presso le
cattedrali; dapprima i pueri cantus apprendevano la lingua latina e il
repertorio liturgico gregoriano, successivamente i più dotati venivano
introdotti alla esecuzione polifonica e alla vera e propria scuola di
composizione: i migliori intraprendevano la carriera di compositoriesecutori, ed erano molto richiesti sia in patria sia all'estero: per esempio,
nella Cappella pontificia, nella prima metà del secolo, durante i regni di
Martino V ed Eugenio IV, i musicisti nordici erano già in maggioranza, e tra
essi c'era anche Dufay. Il più delle volte però i cantori e i maestri di
cappella che svolgevano la loro attività presso le cattedrali o le cappelle
principesche non erano necessariamente musicisti di professione, ma
personaggi importanti con cariche prestigiose (dignitari ecclesiastici,
segretari di alti prelati o di principi, tesorieri, diplomatici) tutti
naturalmente dotati di notevoli capacità musicali. Dufay, per esempio, fu
cappellano e poi maestro di cappella del duca di Savoia, canonico delle
cattedrali di Cambrai e di Mons, e frequentava in amicizia i Malatesta, i
Colonna, Piero dei Medici e Luigi di Savoia.
Molto in basso nella scala sociale era invece il livello dei menestrelli,
ovvero degli esecutori strumentali e vocali impiegati nelle feste, banchetti,
cerimonie politiche o religiose come matrimoni e funerali.
Nella prima metà del secolo lo stile musicale dei compositori mirava
a sintetizzare forme e tecniche della tarda Ars nova francese, della musica
inglese e italiana; la polifonia, sacra o profana, veniva sempre più intesa
come insieme vocale-strumentale, nel senso che la parte superiore era
scritta per la voce, mentre le parti inferiori erano destinate agli strumenti
32
33
musicali.
I compositori della generazione successiva aspiravano invece
sempre più a un contrappunto destinato totalmente alle voci, (considerate
di eguale importanza), i cui singoli andamenti melodici fossero autonomi
(ma accomunati dal materiale ritmico e melodico del canto fermo che
rende omogeneo l'insieme), e tuttavia in grado di convivere nel rispetto
delle regole riguardanti i loro incontri verticali.
Questa perizia contrappuntistica realizzò una concezione
architettonica della musica che è confermata anche dall'uso dei canoni, una
tecnica compositiva, anzi una esibizione di tecnica per cui la struttura che
si rivela all'ascolto è in realtà sostenuta da un'altra struttura latente, di
natura rigorosa; si trattava della stessa tendenza che aveva condotto i
compositori medievali a scrivere mottetti isoritmici, tendenza in parte
dovuta al puro piacere di esercitarsi in una tecnica virtuosistica, e in parte
dovuta al desiderio di esibire pubblicamente le proprie capacità
professionali. Il termine canone nel XV secolo non aveva lo stesso
significato che ha assunto oggi, cioè di una composizione o di un passo
basato sull'imitazione stretta delle parti: questo stile veniva allora
denominato fuga. Il termine canone in origine indicava invece la 'regola' o
l'indicazione da seguire per poter ricavare da una parte data una o più parti
non scritte.
La tecnica del canone consiste nel derivare da una singola voce
data (detta antecedente), una o più voci (conseguenti): queste voci
possono essere scritte per esteso dal compositore o possono essere
ricavate da un'unica voce scritta (l'antecedente) modificandola secondo
particolari indicazioni. La voce di volta in volta aggiunta si può ricavare in
vari modi: ad esempio iniziando a cantarla dopo la voce originale a un certo
numero di tempi o battute; può essere un'inversione della prima (cioè si
muove sempre con gli stessi intervalli ma eseguiti in direzione opposta);
oppure la voce derivata può essere ricavata leggendo la voce originale al
contrario e allora si parla di un canone retrogrado (cancrizans). Abbiamo
dunque canoni per moto retto, moto contrario, retrogrado retto e
retrogrado contrario.
Un altro tipo di canone è quello mensurale, e consiste nel variare
ritmicamente i conseguenti rispetto all'antecedente, mediante l'adozione di
diversi segni di misura (di tactus): sono notati anteponendo a un'unica
melodia scritta tanti segni mensurali quante sono le voci che si vogliono
ricavare. In un canone mensurale il rapporto tra le due voci può essere di
semplice aumentazione (la seconda voce si muove con note di valore
doppio rispetto a quelle della prima), di semplice diminuzione (il valore è
dimezzato nella seconda voce), o un rapporto a volte più complesso. Le
tecniche suddette possono essere combinate tra loro; inoltre la voce
derivata può riprodurre la melodia a un qualsiasi intervallo più alto o più
basso rispetto all'antecedente. Una composizione può anche presentare un
canone doppio, cioè due o più canoni cantati simultaneamente. Un'altra
possibilità era il far procedere due o più voci in canone, mentre altre voci si
33
34
muovevano su linee indipendenti.
I canoni 'enigmatici' sono quelli non scritti per esteso, ma indicati
da segni convenzionali, da motti o indovinelli dal cui scioglimento
l'esecutore deve ricostruire la parte e dedurne l'esatta collocazione nel
contesto musicale. Era un piacere segreto per i compositori dell'epoca
simulare la propria abilità; le indicazioni per individuare le voci non scritte
sono spesso indicate in modo intenzionalmente oscuro o scherzoso invece
di essere chiaramente formulate. Ad esempio: "Clama ne cesses"-ignora le
pause; oppure "qui se exaltat humiliabitur, qui se humiliat, exaltabitur": il
conseguente deve essere cantato al contrario, in modo che se
l'antecedente sale nella melodia, il conseguente deve discendere, e se
l'antecedente scende il conseguente deve salire.
Le forme musicali utilizzate dai compositori borgognoni e francofiamminghi sono la messa, la forma più nobile e importante, il mottetto, e
la chanson, e sono composizioni evidentemente segnate da quei caratteri
apportati nei primi decenni del Quattrocento sul continente dalla scuola
inglese, e da Dunstable in particolare: tendenza alla eufonia, alla
naturalezza ritmica, alla chiarezza formale, alla raffinatezza melodica.
Ma un altro importante influsso stilistico nella musica dei compositori
borgognoni e fiamminghi dell'epoca di Dufay era stato determinato dalla
musica italiana, e consiste nel cosiddetto "stile di ballata" (o di chanson),
riscontrabile non solo in musiche profane, ma anche in messe o tempi di
messe, e mottetti. Consiste in una scrittura in cui su un basso di natura
strumentale e con funzione armonica una o due voci di carattere melodico
fluiscono liberamente.
5.5 I Faux-bourdons
Il faux-bourdon è uno stile nato sul continente e documentato in
fonti musicali dal quarto decennio del Quattrocento. Sembra essersi
generato dalla fusione di diversi elementi: la predilezione per l'andamento
in terze e seste, e lo stile di discanto (del gymel e del faburden) tipici della
musica inglese, e la contrapposizione fra la melodia vocale e il tenor
strumentale in funzione di sostegno armonico tipica della musica italiana.
Dunque, il faux-bourdon non è una forma, ma una tecnica
compositivo-esecutiva che si trova applicata all'interno delle messe e dei
mottetti o altre forme come inni, antifone, sequenze, Magnificat, in
alternanza al canto gregoriano o alla polifonia contrappuntistica.
Nell'ambito di composizioni polifoniche costituiscono episodi scritti a due
voci, un tenor e un cantus (generalmente un cantus prius factus variato),
che procedono per seste e ottave. Vicino al cantus è scritta l'indicazione
faux-bourdon, che prescrive una terza voce da cantarsi una quarta sotto il
cantus e parallelamente ad esso.
Non è ancora chiaro il significato del termine faux-bourdon, perché
potrebbe significare il "falso sostegno" che la voce ricavata alla quarta
inferiore dal cantus (il contratenor altus) fornisce al cantus stesso (il cui
vero sostegno è invece il tenor), oppure potrebbe voler dire "bordone per
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Fa", ossia bordone alla quarta, o ancora, secondo un'etimologia inglese,
"scrittura ingannevole".
Nella prima metà del secolo prevalgono nei faux-bourdons (143050) il contrappunto, l'ornamentazione nella voce del cantus, le dissonanze,
il tenor strumentale, le cadenze arcaiche "alla Landini"; mentre nella
seconda metà del secolo si controllano e si diradano gradualmente le
dissonanze, si limitano le ornamentazione nel cantus, si affermano cadenze
più aggiornate, un parallelismo più evidente e una uniformità ritmica tra le
voci di tenor e cantus. Vengono ampliate le funzioni e gli ambiti vocali delle
voci basse, nel faux-bourdon si inserisce una quarta parte (il contratenor
bassus), e si stabiliscono le regole per poterla improvvisare; tutte le parti,
inoltre, sono pensate come vocali. Questo procedimento, con la sua
omoritmia, lascia ben trasparire le parole quando questo effetto sia
volutamente ricercato dal musicista, e costituisce un elemento di varietà
perché è alternato con episodi in canto piano o in contrappunto.
5.6 Guillaume Dufay
Nel Quattrocento la messa fu la forma più importante tra le
composizioni polifoniche; se ne musicava l'Ordinario nelle sue cinque
sezioni: Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus, Agnus Dei.
Si è già detto che all'inizio del secolo la messa polifonica seguiva modelli
formali diversi: quello del mottetto isoritmico, quello di libera composizione
(senza cantus firmus), quello della messa-ballaya o chanson di matrice
formale profana. Con i compositori inglesi contemporanei di Dunstable si
era affermato un modello sonoro che partiva da un organico-base di
quattro voci, e si era anche manifestata l'esigenza di una qualche unità fra
le parti della messa che si otteneva, come vedremo, con l'uso del canto
fermo ciclico e dei motti introduttivi.
Tuttavia la vera e propria affermazione della messa ciclica
concepita unitariamente, e il superamento della molteplicità formale
caratteristica della messa polifonica di inizio secolo, sono ascrivibili a quei
musicisti franco-fiamminghi appartenenti alla generazione di Dufay e
Binchois (che produssero a iniziare dal 1430 circa), che vengono designati
per convenzione 'borgognoni'.
In particolare sono conquiste di Guillaume Dufay, nato nell'Hainaut
intorno al 1400, che si formò presso la cattedrale di Cambrai. Tra il 1419 e
il 1426 prestò servizio presso Carlo Malatesta a Rimini. Tra il 1428 e il
1437 fu cantore della cappella papale, dopo essere diventato diacono. Al
seguito di papa Eugenio IV si recò a Firenze dove scrisse alcuni mottetti
dedicati alla città, tra cui il famoso Nuper rosarum flores per
l'inaugurazione del duomo (S. Maria del Fiore). Visitò Nicolò III d'Este a
Ferrara, e i Savoia presso i quali, dal 1437, fu in servizio stabile. Col tempo
si fecero più strette le sue relazioni con la corte di Borgogna dove fu
cantore del duca. Negli ultimi anni della sua vita fu a Cambrai (vi morì,
pare, nel 1474) da dove continuò a coltivare relazioni internazionali e ad
aggiornarsi sulla produzione musicale contemporanea.
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Nelle sue messe, Dufay tende a passare dalla messa-cantilena (a 3
voci, in cui il superius presenta la melodia accompagnata dalle altre due
voci in stile strumentale), alla messa costruita su un unico cantus firmus
uguale per tutte le parti dell'Ordinario, affidato al tenor (messa ciclica),
nella quale le 4 voci intessono una polifonia libera e di carattere
essenzialmente vocale. Al primo gruppo appartengono tre messe a tre
voci: la Sine nomine, composta liberamente senza cantus firmus; la Sancti
Jacobi, nel cui post Communio appare per la prima volta il procedimento
del faux-bourdon; la Missa Sancti Antonii Viennensis, che costituisce un
primo passo in direzione del nuovo genere di polifonia essenzialmente
vocale, in cui tutte le voci hanno uguale importanza.
A quest'ultimo genere di polifonia appartengono le 5 messe che
Dufay comporrà dopo il 1430 e che costituiscono il secondo gruppo: la
Missa Caput è la prima messa ciclica di Dufay costruita su un unico cantus
firmus (la melodia del tenor enunciata due volte in ogni parte della messa,
assicura l'unità strutturale dell'insieme); tre messe in cui Dufay introduce
come cantus firmus una melodia profana (una scelta dettata da ragioni
musicali e non dall'aspirazione a una simbolica liberazione dai temi
gregoriani), di cui le più importanti sono la Missa Se la face ay pale, in cui il
maestro utilizza il motivo di una sua chanson, e la Missa l'homme armé che
inaugura una lunga serie di messe che utilizzeranno il motivo di questa
chanson. Nelle due ultime due messe Dufay ritorna ai temi gregoriani con le
due antifone Ecce ancilla Domini, e Ave regina coelorum, e raggiunge la sua
piena maturità creativa.
Anche per quanto riguarda la struttura musicale dei mottetti di
Dufay, possiamo dividere questa produzione in due gruppi: i mottetti
isoritmici e i mottetti-cantilena. I primi sono una diretta eredità del passato
e, tra questi, troviamo il famosissimo Nuper rosarum flores, capolavoro
scritto per l'inaugurazione del duomo di Firenze, mentre i secondi segnano
un momento decisivo verso lo stile dell'avvenire: tra essi ricordiamo Salve
regina e Ave regina coelorum, con i quali si giunge alla vera e propria
composizione polifonica in cui tutte le voci hanno uguale importanza.
La chanson borgognona e fiamminga poggia sul filone poetico
aulico-amoroso che tratta temi del dolore inteso come rimpianto o
malinconia, della lontananza, degli amori non condivisi, e di temi comunque
ispirati alla letteratura cortese del secolo precedente. La chanson
borgognona della prima metà del Quattrocento è a tre parti di cui la
superiore è vocale e le due inferiori di sostegno. Dufay ne scrisse circa
200, ma per questo tipo di composizione emerge per la sua raffinatezza un
altro musicista, Gilles Binchois (nato a Mons intorno al 1400), che fu al
servizio del duca Filippo il Buono.
Le messe su cantus firmus a quattro parti di Dufay sono tarde e
furono scritte dopo il 1450, dunque sono composizioni che non hanno
molte relazioni con la musica tipicamente borgognona scritta nella prima
parte del secolo, anzi, alcune delle nuove caratteristiche delle Messe su
cantus firmus di Dufay sono indicative dello stile dominante dopo il 1450.
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Le tendenza stilistiche posteriori al 1430 evidenziano gradualmente
le caratteristiche che saranno tipiche dello stile musicale del Rinascimento:
dissonanze controllate, ammissione tra le consonanze degli accordi di
sesta, pari importanza delle voci, uso saltuario dell'imitazione e stesura a
quattro voci. A questo proposito è importante notare come dalla seconda
metà del Quattrocento la concezione musicale esigeva che la voce più
bassa fosse libera di assumere il ruolo di base per le successioni armoniche
volute, soprattutto nelle cadenze. La consuetudine di affidare alla voce più
grave una linea melodica determinata, che non aveva perciò molte
possibilità di essere modificata, avrebbe limitato la libertà del compositore
e aumentato il rischio di cadere nella monotonia armonica. Questa difficoltà
fu risolta togliendo al tenor il ruolo di parte più bassa dell'organico
polifonico e inserendo sotto ad esso una parte inizialmente detta
contratenor bassus, (in seguito semplicemente bassus); inserendo inoltre
sopra il tenor un secondo contratenor detto contratenor altus (in seguito
detto altus) e mantenendo nella posizione più acuta il soprano, detto
variamente cantus, discantus o superius. Si cominciò ad adottare
stabilmente queste quattro parti vocali verso la metà del XV secolo, e la
loro distribuzione è rimasta un modello anche ai giorni nostri.
5.7 Johannes Ockeghem
Il rigoroso rinnovamento della polifonia a partire dalla metà del
secolo inizia con Johannes Ockeghem, del quale tuttora si ignora la data
precisa di nascita, avvenuta comunque a Termonde tra il 1410 e il 1420.
Fu cantore presso la cattedrale di Anversa e poi a Moulins (tra il 1446-48)
al servizio di Carlo I di Borbone. Nel 1452 entrò a far parte della cappella
del re di Francia, e nel 1465 ne diventò direttore, carica che conservò fino
alla morte avvenuta nel 1497. I suoi lavori comprendono circa 12 messe,
10 mottetti e una ventina di chansons.
E' difficile collocare le messe di Ockeghem in ordine cronologico.
Alcune sono comunque più arcaiche come la Quinti toni e la Sine nomine,
ancora a tre voci, e la Caput e l'Homme armé, a 4 voci, ma con nette
differenze ritmiche e tematiche fra cantus prius factus e le voci in
contrappunto. In esse la scrittura vocale procede con linee melodiche che
fluiscono in frasi di largo respiro, non articolate da cadenze regolari e
spunti ripetitivi. Una messa tarda è la Fors seulment, costruita con la
tecnica della parodia, destinata a trionfare nel Cinquecento: è scritta sulla
melodia del superius della omonima chanson dello stesso Ockeghem a 4
voci, della quale riprende e rielabora molti spunti tratti anche dalle altre
voci. Ockeghem scrisse diverse messe su melodie tratte da composizioni
profane (Au travail suis, Ma maistresse, De plus en plus), ma ne scrisse
anche senza cantus prius factus. Per esempio la messa Cuiusvis toni (Di
qualunque tono), è scritta per poter essere cantata in quattro diversi toni
attraverso un cambiamento di chiavi. Nella messa Prolationum (Delle
prolazioni), le quattro voci sono organizzate in due canoni mensurali, uno
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tra le due superiori e uno tra le due inferiori. La messa Mi-Mi, è
caratterizzata da un inciso che corrisponde alla lettura in solmisazione
dell'intervallo iniziale della voce più bassa. Spesso Ockeghem, per variare la
forma all'interno dei tempi di messa, alterna sezioni a sole due o a tre voci
alla polifonia piena, oppure alterna episodi in tempo binario a episodi in
tempo ternario.
Nei mottetti Ockeghem adotta lo stesso stile delle messe. Le voci,
se lette in modo orizzontale, procedono autonome, con andamenti
individuali regolari; se viste nell'insieme tendono più a condividere spunti in
libera imitazione.
Nella seconda metà del secolo, dunque, le due scuole, la
borgognona e la fiamminga, convergono nella stessa direzione, e sono
dominate dalle novità di Ockeghem e dalla produzione matura di Dufay,
capace, anche nella piena maturità, di continui rinnovamenti. Al teorico e
musicista Johannes Tinctoris (1445?-1511) si deve l'aver schematizzato,
soprattutto nell'opera Liber de arte contrapuncti (1477), la tradizione
fiammingo-borgognona e averne individuato le personalità portanti.
5.8
I fiamminghi in Italia
Le figure più importanti della generazione successiva ad Ockeghem furono
Jacob Obrecht, Henricus Isaac e Josquin des Prez, tutti nati intorno alla
metà del secolo.
La polifonia in Italia nella seconda metà del '400 faceva capo ai
compositori franco-fiammimghi, tuttavia le loro tecniche
contrappuntistiche, a contatto con la cultura italiana, subirono adattamenti
in funzione di esigenze nuove.
Grazie all'ideale umanistico basato sul primato della parola, e quindi
dei contenuti espressivi del testo, le forme musicali si adattarono a questa
esigenza, alternando, a questo fine, strutture omofone a strutture
polifoniche, scansioni ritmiche differenti, contrapposizioni di gruppi di voci,
o fra due o tre voci e l'insieme polifonico. Il contrappunto, pur mantenendo
al suo interno complicazioni tecniche, scrittura a canone, e dissonanze,
dette maggiore disciplina e ed equilibrio a questi procedimenti in senso più
eufonico e razionale.
Furono gli allievi di Dufay e Ockeghem che operarono in Italia a
iniziare questo processo evolutivo nella polifonia, i cui frutti matureranno
nel Cinquecento avanzato. Jacob Obrecht (ca 1450-1505), fiammingo del
Brabante, fu attivo a Utrecht, Cambrai, Bruges, Anversa, e fu due volte a
Ferrara (1487 e 1504-5) per invito di Ercole I d'Este.
Obrecht usò le tecniche tipicamente fiamminghe, ma con notevole
libertà e originalità. Le sue messe sono in genere a quattro voci e su canti
fermi sia liturgici sia profani (in francese, fiammingo e tedesco): trattò
questo tipo di messa polifonica con fantasia e facilità nella invenzione
melodica e nella variazione sul cantus firmus. Obrecht in alcune messe (Je
ne demande, Fortuna desperata) applicò, come Ockeghem, la tecnica della
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"parodia", per cui, come si è già detto, da una precedente composizione
polifonica, non si utilizza solo una voce, (un cantus prius factus), ma si
traggono spunti melodici anche da altre (o da tutte) le voci di quella
composizione, inserendole nel gioco contrappuntistico ed estendendo
anche a essi la variazione. Egli sperimenta inoltre sempre qualcosa di
nuovo. Per esempio nella messa Caput egli inserisce il cantus firmus in una
voce diversa per ogni movimento successivo al Kyrie, dove, come di
norma, si trova al tenor: nel Gloria è al discantus, nel Credo al tenor, nel
Sanctus all'altus e nell'Agnus al bassus. La melodia di Obrecht è fiamminga
nel suo carattere melismatico, ma diversamente dalla linea melodica lenta,
tortuosa e ininterrotta di Ockeghem, quella di Obrecht si organizza in
pensieri musicali relativamente brevi, in frasi di proporzioni perfette con
cadenze periodiche, sostenute sempre da armonie chiare e adeguate: il suo
contrappunto risulta dunque più melodico ma forse meno complesso di
quello di Ockeghem.
Nei mottetti Obrecht applica gli stessi procedimenti costruttivi della
messa e introduce talvolta dei declamati allo scopo di sottolineare parole
importanti. Scrisse inoltre diverse chansons, fra le quali la bellissima Fors
seulement, a 4 voci.
5.9 Josquin Despres
Josquin des Pres (Despres, Desprez, Des Prez) nacque verso il
1440 nella provincia di Hainaut, attualmente al confine franco-belga. Tra il
1459 e il 1472 era a Milano cantore del Duomo e membro della cappella
del duca Galeazzo Sforza. Alla morte di questi (1476) passò al servizio del
fratello di lui, il cardinale Ascanio Sforza. Dal 1486 visse a Roma, al seguito
del cardinale, e qui risulta essere stato anche membro della cappella
pontificia. All'inizio del '500 si collocano un suo viaggio a Firenze e il suo
ritorno in Francia presso la cappella di Luigi XII; nel 1503 era a Ferrara per
invito di Ercole I d'Este. Nel 1505 tornò a Condé-sur l'Escaut, suo luogo di
nascita, dove morì nel 1521. Alla sua morte molti musicisti e poeti gli
dedicarono déplorations. La sua notorietà era enorme, Petrucci aveva
stampato un gran numero di sue composizioni sacre e profane e Martin
Lutero lo stimava come importante musicista del suo tempo.
Josquin svolse buona parte della sua lunga carriera presso i
maggiori centri di vita musicale in Italia. Egli rappresenta il fondamentale
punto di raccordo fra la polifonia fiamminga del tardo '400 e quelle
fiamminga e italiana del '500.
Dalla tradizione della scuola di Ockeghem, Josquin aveva appreso il
dominio delle tecniche contrappuntistiche su canto fermo, i procedimenti
imitativi e canonici e la loro funzione strutturale, l'andamento melismatico
delle voci, la concezione totalmente vocale della polifonia. A tutto ciò si
aggiunge al suo bagaglio compositivo una serie di nuovi caratteri
provenienti dagli ambienti culturali italiani da lui frequentati e basati sulla
nuova concezione del rapporto testo-musica: i declamati polifonici usati
per conferire più evidenza al testo, le melodie perfettamente adeguate alle
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inflessioni della parola, l'articolazione della forma basata sull'avvicendarsi
contrastante di duetti, terzetti e la polifonia piena, oppure scandita in
episodi contrappuntistici che sviluppano temi adeguati alle corrispondenti
parole del testo.
La forma musicale in cui questa nuova concezione del rapporto
testo-musica produce maggiore qualità espressiva è il mottetto; Josquin
compose mottetti a 4, 5, 6 voci, per la maggior parte su canto fermo (sia
sacro, sia profano), ma anche in forma libera, quindi scritti in successione
di episodi in contrappunto con propri spunti tematici agganciati l'uno
all'altro senza soluzione di continuità.
Nelle messe (quasi tutte a quattro voci) Josquin affronta problemi diversi
da quelli riguardanti l'espressione del rapporto testo-musica, e si rivolge a
curare l'estensione della concezione architettonica, la molteplicità e la
ricchezza dell'articolazione interna, lo studio sulla pienezza ed espressività
del suono, l'eleganza della variazione sul canto fermo. In tutte le tecniche
compositive mostra padronanza di sé, come nella scrittura canonica dove
raggiunge estrema complessità con grande finezza (per esempio nella
messa Di dadi (basata su canoni proporzionali la cui soluzione è indicata
con i numeri scritti sulle parti di dadi dipinti ai lati delle parti), e nelle messe
Ad fugam e Sine nomine. Sulla tecnica del "soggetto cavato" (in cui le
note del canto fermo sono ricavate dalle sillabe di parole o nomi) si
fondano le messe Hercules dux Ferrariae e La sol fa re mi (il cui cantus
prius factus traduce scherzosamente in suoni una promessa di pagamento
non mantenuta dal cardinal Ascanio: "Lascia fare a me"). Le due messe
l'Homme armé (una, Super voces musicales, trasporta di grado in grado il
canto fermo nei diversi episodi; l'altra, più recente, Sexti toni, è basata su
un raffinato uso di canoni) sono affermazioni di capacità creativa e di
fantasia nell'affrontare due volte, e in due maniere ben differenti, la
composizione sul medesimo canto fermo; le messe Fortuna desperata,
Mater patris, Melheur me bat, Faisant regretz sono messe-parodie.
La musica profana di Josquin, in gran parte pubblicata nelle raccolte
a stampa di Ottaviano Petrucci e di Andrea Antico, è estremamente varia e
comprende chansons da 3 a 6 voci, tra le quali alcune molto famose come
Si j'avois Marion, Baysiez-moi, En l'ombre d'ung buissonet, Petite
camusette, Nynphes des bois (che è una déploration per la morte di
Ockeghem), che usano anch'esse di frequente, come le composizioni sacre,
il canone strutturale; frottole (Il grillo, Scaramella) e composizioni varie su
testi francesi o tedeschi.
Fra gli allievi di Josquin in Italia e in Francia sono da citare Adrianus
Petit Coclico, Gaspar van Werbecke, Loyset Compère, Jean Mouton. Tra gli
autori francesi che subirono l'influsso di Josquin furono Jean Mouton e
Antoine de Févin.
La tradizione della scuola di Ockeghem si mantenne immune dagli
influssi italiani in diversi compositori franco-fiamminghi che non si
allontanarono mai dalla loro regione di origine, come Pierre de La Rue e
Matthaeus Pipelare.
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6. LA POLIFONIA CINQUECENTESCA
6.1 La generazione franco-fiamminga dal 1520 al 1550. Adriano Willaert
Nei decenni compresi tra il 1520 e il 1550 lo stile cosmopolita
dominante dei fiamminghi, cominciò a subire modifiche nei vari paesi,
dando luogo a una diversificazione dell'espressione musicale. Gli stessi
compositori fiamminghi successivi a Josquin non rimasero immuni da questi
mutamenti, e coloro che lavoravano all'estero, soprattutto in Italia,
subirono l'influenza degli idiomi musicali dei paesi adottivi. Alcuni
compositori tentarono, soprattutto nella musica sacra, di ristabilire lo stile
contrappuntistico ininterrotto di Ockeghem, come reazione agli
esperimenti di Obrecht e Josquin; ben presto però anche i compositori più
tradizionalisti abbandonarono quasi completamente le tecniche antiquate
del canone o altre tecniche analoghe ad esse.
Nella Messa la tecnica su cantus firmus fu sostituita con quella
della parodia; i canti liturgici furono ancora usati di norma come sostanza
melodica sia nelle messe, sia nei mottetti, ma furono però trattati in modo
libero; l'organico nelle messe e nei mottetti si allargò, e accanto alle 4 voci,
si arrivò a usare le cinque o le sei voci.
Compositori che operarono nel nord Europa come Nicolas Gombert e
Jacobus Clemens non Papa (così denominato per distinguerlo dal poeta
Jacobus Papa che viveva nella stessa città di Ypres) sono esponenti dello
stile conservatore del mottetto fiammingo nella prima metà del '500.
Di tutt'altra tendenza è invece Adrian Willaert (1490 ca.- 1562), il
fiammingo più importante che operava in Italia nello stesso periodo. Dopo
aver studiato nelle Fiandre, successivamente a Parigi con Mouton, e aver
lavorato a Roma, Ferrara e Milano, Willaert fu nominato nel 1527 maestro
di cappella della basilica di S. Marco a Venezia, e conservò questa carica
fino alla morte. Willaert fu uno dei più eminenti compositori del XVI secolo,
e anche se la sua fama di fondatore della scuola veneziana deve essere
ridimensionata, tuttavia è fuori di dubbio che egli, insieme ai suoi numerosi
allievi, esercitò un'influenza essenziale sullo sviluppo musicale di Venezia e
dell'Italia settentrionale, distinto dal contemporaneo sviluppo della scuola
romana. Tra i suoi allievi sono da menzionare Gioseffo Zarlino, Andrea
Gabrieli, Cipriano de Rore, Niccolò Vicentino.
La parte più importante della sua produzione è costituita dalle
composizioni sacre, il cui il testo letterario diventa sempre più
determinante ai fini della forma. Willaert fu tra i primi compositori a
pretendere che le sillabe del testo corrispondessero esattamente alle
relative note da cantare. Non è casuale il fatto che il suo allievo Gioseffo
Zarlino pubblicasse nelle Istitutioni harmoniche (Venezia 1558) anche delle
regole riguardanti l'adattamento musicale di un testo, per cui le sezioni e le
frasi nella musica devono essere delineate in accordo con il significato,
l'accentuazione e la punteggiatura del testo corrispondente.
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Per molto tempo Willaert fu considerato l'inventore della tecnica
policorale, detta del "coro spezzato". L'esecuzione musicale a cori
alternati è una pratica che risale all'esecuzione polifonica dei salmi. I cori, a
una o a più voci, si alternavano a ogni versetto e si riunivano nella
dossologia finale. In realtà fu Ruffino Bartolucci di Assisi (maestro di
cappella nella basilica di S. Antonio a Padova) a scrivere per la prima volta
(intorno al 1510-20) salmi a otto voci "a coro spezzato", cioè per un coro
diviso a metà, ovvero due cori a quattro voci. Già qui si trova, oltre
all'alternanza dei cori a ogni versetto, quella a ogni parola o unità
significativa all'interno dello stesso versetto: questa è la tecnica del coro
spezzato. Willaert però elaborò ulteriormente questo procedimento in
particolare nei suoi Salmi spezzati a otto voci (Venezia, 1550). Nei brani
musicati da Willaert si osserva che la struttura antifonale del canto
salmodico è in genere perfettamente rispettata: infatti, ad eccezione della
dossologia, uno dei cori canta quasi sempre un intero verso senza
interromperlo, mentre l'altro coro, sovrapponendosi al primo nella cadenza,
riprende il verso successivo. Solo nella dossologia finale questo schema
viene abbandonato a favore di un più vivace alternarsi dei due cori in un
crescendo sonoro. E' rispettato anche il tono salmodico, con il suo
fraseggiare caratteristico: soprattutto nel cantus o nel tenor traspaiono le
formule dell'initium, della mediatio, e della terminatio. Nella tecnica
compositiva si fondono la polifonia tradizionale e il falso bordone locale,
che da tempo nell'Italia del nord veniva impiegato per la formulazione
plurivocale della salmodia. Al posto della rigorosa imitazione di stampo
fiammingo compare un libero adattamento di motivi declamati
sillabicamente e talvolta persino un movimento prevalentemente
omoritmico.
Nel campo della musica profana le composizioni più rilevanti di
Willaert sono i madrigali che, partendo da una palese influenza italiana,
raggiungono poi uno stile maturo e personale. Sono composizioni in cui
domina la voce superiore e prevale l'elemento armonico verticale, con
passaggi omofoni dove tutte le voci declamano contemporaneamente il
testo; domina una scrittura tersa e tranquilla tendente a mettere in risalto
il testo: del testo la musica cerca di rendere l'accento delle parole, senza
tuttavia proporsi di interpretarlo.
6.2 Dal dominio musicale fiammingo all'egemonia italiana
Anche se, nella prima parte del XVI secolo i compositori fiamminghi
erano sparsi in tutta l'Europa occidentale, e il loro idioma era diventato
linguaggio internazionale, ogni paese coltivava tradizioni musicali
autoctone; questi idiomi nazionali durante il XVI secolo emersero sempre di
più costringendo a volte lo stile fiammingo a modificarsi in funzione delle
esigenze stilistiche ed espressive.
In Italia prese avvio una sequenza di avvenimenti che portò al
passaggio dal dominio musicale straniero a quello propriamente italiano:
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come si è già detto, nel 1520 giunse in Italia Adrian Willaert, che nel 1527
fu nominato maestro di cappella della basilica di S. Marco, una delle cariche
più prestigiose in Italia; tra i suoi numerosi allievi italiani ci fu Andrea
Gabrieli (1520 ca.-1586), che in seguito ebbe degli incarichi a S. Marco, e il
cui nipote e allievo Giovanni Gabrieli (1556 ca.-1613) diventò il più famoso
compositore veneziano della sua generazione ed ebbe tra i suoi allievi
Heinrich Schütz, un tedesco venuto in Italia per studiare con lui. Dunque, in
meno di un secolo l'Italia aveva ribaltato la situazione rispetto ai
Fiamminghi, diventò il centro della vita musicale europea, e la sua
supremazia, una volta affermatasi, durò per più di due secoli. In tutti i
paesi europei, alla dipendenza musicale dai Fiamminghi, si sostituì
gradatamente la dipendenza dall'Italia.
Un evento fondamentale per la diffusione della musica è
rappresentato dall'invenzione della stampa musicale. Il primo editore a
usare i caratteri mobili per la stampa della musica polifonica fu Ottaviano
Petrucci da Fossombrone (1466-1539), operante a Venezia. La sua prima
edizione fu un'antologia di 96 chansons intitolata Harmonice Musices
Odhecaton A, stampata nel 1501. A Petrucci dobbiamo la pubblicazione di
numerosi libri contenenti chansons, mottetti, messe, inni, Magnificat e
lamentazioni dei più importanti compositori franco-fiamminghi conosciuti
ed eseguiti in Italia in quel periodo (Josquin Desprez, Obrecht, Agricola,
Isaac, Mouton, Pierre de La Rue, Gaspar van Weerbecke). A lui dobbiamo
anche, tra il 1504 e il 1514, la stampa di undici libri di "frottole", un
repertorio di composizioni polifoniche profane molto diffuse nelle corti
dell'Italia del nord tra Quattro e Cinquecento (cfr. più avanti).
Contemporaneo a Petrucci è Andrea Antico, operante tra Roma e
Venezia; il primo a incidere la pagina musicale su lastre di rame fu Simone
Verovio, nel 1575. Altri importanti editori attivi a Venezia nel corso del
Cinquecento furono Girolamo Scotto, i Gardano, Ricciardo Amadino e i
Vincenti.
Quando Ottaviano Petrucci cominciò a stampare musica a Venezia
nel 1501, iniziò con chansons, Messe e mottetti; ma dal 1504 al 1514
pubblicò almeno undici raccolte di canzoni strofiche italiane, musicate in
modo sillabico a 4 voci, con schemi ritmici marcati, semplici armonie
diatoniche, uno stile omoritmico e con la melodia nella voce più alta.
Queste canzoni venivano dette frottole, un termine generico entro il quale
si possono distinguere vari sottotipi.
6.3 La frottola
"Frottola" è un termine che sta a definire una serie di composizioni
strofiche che furono coltivate nelle corti dell'Italia settentrionale come
Mantova, Ferrara, Urbino, tra la fine del secolo XV e i primi decenni del XVI.
Lo schema poetico più usato dalla frottola vera e propria è detto
"barzelletta" ed è simile, nella struttura metrica, alla ballata trecentesca;
vengono usati però anche altri metri poetici come lo strambotto, un'
ottava formata da 4 distici, l'oda, con strofe di 4 versi, il capitolo,
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composto da una serie di terzine, il sonetto, formato da due quartine e due
terzine, e la canzone, con vari schemi metrici. La struttura della musica,
che è polifonica a quattro voci, è naturalmente condizionata dai diversi
schemi letterari. La fortuna e la diffusione del genere frottolistico sono
testimoniate dalle 11 raccolte pubblicate da Petrucci tra il 1504 e il 1514
e da altre stampe uscite in anni successivi. Le frottole potevano essere
eseguite in due diversi modi:
- affidando tutte le quattro parti vocali ai cantori;
- affidando la parte piu acuta (il cantus) a una voce solista, e le altre parti
(in particolare il tenor e il bassus) a uno strumento polifonico (in genere il
liuto). Prevaleva senz'altro il secondo tipo di esecuzione, a dimostrazione
che la frottola era concepita il più delle volte per canto accompagnato.
Tra i compositori di frottole spiccano i nomi di Marchetto Cara (14751525), Bartolomeo Tromboncino (1470-1533) e Michele Pesenti (14751521), che sicuramente assommavano alle capacità compositive, quelle
esecutive.
Nello stile musicale della frottola prevale dunque la parte superiore,
spesso affidata al canto solistico, mentre le altre parti svolgevano la
funzione di accompagnamento con un procedere prevalentamente
accordale. La linea vocale superiore si muove in maniera sillabica, con pochi
melismi là dove li richiedono le sillabe accentate delle parole: melismi più
estesi sono invece presenti alla conclusione delle frasi.
L'articolazione interna degli episodi è nettamente scandita da
formule cadenzali, e al loro interno gli schemi ritmici sono uniformi e
ricorrenti in sintonia con la regolarità metrica dei versi poetici. Gli
argomenti dei testi sono più che altro amorosi, patetici, arguti e comici.
Lo schema della frottola-barzelletta è identico a quello della ballata
trecentesca: è composto da una ripresa ( in genere di 4 versi) ripetuta alla
fine di ogni strofa, e di una serie di strofe formate da 6-8 versi ottonari
(nella ballata trecentesca i versi erano invece endecasillabi o settenari). Le
intonazioni musicali sono due, A e B, che a loro volta sono suddivise in due
frasi. Eccone la struttura poetico-musicale che ricorre con più frequenza:
Rime dei versi:
Musica:
RIPRESA STROFA
abba cdcdda
A B
A A B
La RIPRESA è ripetuta
tutta o in parte
Sono rimaste poche fonti, e molto tarde, riferibili ai canti
carnascialeschi, appartenenti alla tradizione fiorentina. Sono canti strofici,
che seguono molto liberamente la struttura della ballata, e si avvalgono di
una scrittura polifonica a tre o quattro parti (in parte anche imitativa)
estremamente semplificata.
Un'altra forma è la villotta polifonica a quattro voci, originaria delle
regioni venete (a volte il testo è in dialetto), con una trama
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contrappuntistica essenziale le cui melodie spesso sono di origine popolare.
Le due sezioni musicali corrispondono alle strofe (quattro versi) e a un
ritornello.
6.4 Il madrigale
Nel quadro della musica profana, la forma più importante e diffusa
nel corso del Cinquecento (più precisamente a partire dagli anni Venti fino
agli anni Trenta del Seicento), era il madrigale; la sua circolazione non si
limitò alle corti e agli ambienti aristocratici ma si estese anche a quelli altoborghesi, alle accademie e ai circoli intellettuali. Non ha niente in comune,
se non il nome, con il madrigale del XIV secolo: questo aveva una forma
strofica con un ritornello, quello del Cinquecento non usava nessun
elemento delle vecchie formes fixes con le loro ripetizioni di frasi testuali e
musicali, ma consisteva in un adattamento continuo, non strofico, di una
breve poesia, ed era costruito con una serie di sezioni generalmente
contrastanti, alcune contrappuntistiche e altre omoritmiche, ognuna
espressione di una singola frase del testo, o parte di essa avente
comunque senso compiuto. Questa impostazione formale assomiglia a
quella del contemporaneo mottetto.
Il mottetto del '500 era concepito in base alla suddivisione del testo
letterario in tante sezioni, a discrezione del compositore, aventi ognuna
significato compiuto. Queste sezioni venivano messe in musica con
procedimenti diversi, scelti per rendere al meglio il significato testuale, per
cui alcune erano trattate in omoritmia, con tutte le voci che procedevano
con lo stesso ritmo producendo un andamento accordale che rendeva
chiara la declamazione delle parole, e altre erano trattate con il
contrappunto imitativo. In quest'ultimo caso, il compositore sceglieva per
ogni sezione un motivo musicale adatto a renderne il significato testuale, e
tale motivo, enunciato da una voce, veniva poi a turno imitato dalle altre
voci che intervenivano con entrate sfalsate e procedevano poi a una
elaborazione personale del materiale musicale esposto. Conclusa
l'elaborazione di tutta la sezione testuale, mentre alcune voci
cadenzavano, altra o altre voci rientravano sovrapponendosi alla cadenza,
per enunciare il motivo esplicativo della frase testuale successiva ed
elaborarla. Solo alla fine le voci si ritrovavano concordi sulla cadenza finale.
Dunque il mottetto si componeva di una serie di tessere o sezioni, più o
meno collegate l'una l'altra. L'abilità artistica dei compositori, sia nei
mottetti sia nei madrigali, consisteva nella capacità di organizzare le
sezioni della composizione dando loro il senso della continuità e della
coerenza. Il madrigale era una forma basata su un testo poetico italiano a
carattere lirico e amoroso, o idilliaco e arcadico, introspettivo o narrativo,
spesso di tono leggermente epigrammatico, in genere monostrofico e con
una struttura metrica libera e svincolata da schemi fissi e precostituiti;
tuttavia non mancano, specialmente nel periodo iniziale, testi poetici a
forma fissa quali il sonetto, l'ottava, la ballata e la stanza di canzone. Sul
piano musicale il madrigale è in genere quasi esclusivamente vocale (anche
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se non si può escludere, nella prassi esecutiva, la presenza di alcuni
strumenti musicali), a più voci (corredate tutte di testo poetico), costruito
secondo un percorso melodico fondamentalmente libero e coerente nel
contempo, cioè non legato a schemi fissi o a ripetizioni melodiche, in stile
generalmente imitativo, anche se non mancano sezioni in stile accordale e
omoritmico, o basate su contrasti ritmici quando il testo, o il suo
andamento metrico lo richiedano.
Sembra che il madrigale abbia avuto origine in ambiente fiorentinoromano intorno agli anni Venti. Il termine "madrigale" appare per la prima
volta nella raccolta Madrigali novi...Libro primo de la Serena stampata a
Roma nel 1530. A Firenze operarono personalità quali Arcadelt e Verdelot,
due musicisti che portarono alla maturazione e alla diffusione questo
genere appena nato che fino a quel momento era circolato principalmente
attraverso copie manoscritte.
Il madrigale nasce in quel clima culturale inaugurato da Pietro
Bembo(1470-1547) con le Prose della volgar lingua scritte tra il 1506 e il
1512 (ma pubblicate a Venezia nel 1525) che mirava al recupero della
purezza della lingua italiana attraverso l'imitazione del Petrarca. Questo
spiega anche l'uso di un termine quale "madrigale", già impiegato nel
Trecento per denominare una forma poetico-musicale che però, come
abbiamo detto, aveva caratteristiche morfologiche e musicali del tutto
diverse da quelle cinquecentesche.
Dunque dal punto di vista formale il madrigale cinquecentesco è
una forma "aperta" (durchkomponiert), a invenzione continua, priva di
ritorni o simmetriche ripetizioni di frasi ed episodi musicali. Se nella frottola
contava il tono generale e l'insieme, nel madrigale è importante la resa e
l'illustrazione di ogni singola parola o immagine verbale: a questo scopo il
madrigalista ricorreva ai più vari procedimenti melodici, armonici, ritmici o
contrappuntistici alternando lo stile imitativo, accordale, arioso o
declamatorio.
Gli artifici tecnici che servivano a tradurre in musica i significati e i
concetti espressi dal testo poetico, vengono denominati madrigalismi. E'
abituale l'impiego del madrigalismo inteso come resa pittorica della singola
parola che, isolata dal testo, suggerisce un'immagine attuata musicalmente
mediante veri e propri atteggiamenti descrittivi: parole esprimenti angoscia
o dolore quali "pena", "duolo", "martiri" sono rese con passaggi cromatici
o comunque realizzando intervalli dissonanti tra le voci; parole quali
"vento", "rivi", "canto", con melismi più o meno rapidi; le parole "sospiro",
"respiro" vengono spesso inframezzate da pause; concetti come "alto",
"cielo", vengono scritti su registri acuti, mentre "basso" o "terra" su
registri gravi; valori più o meno lunghi e brevi per esprimere concetti di
velocità o rallentamento ecc.. La cosiddetta musica "visiva" arrivava
addirittura a rendere graficamente concetti come "occhi", "chiaro",
"giorno" con note bianche, vuote, oppure vocaboli come "notte",
"tenebre" con note nere. Questi ultimi artifizi grafici dimostrano come la
letteratura madrigalistica era destinata soprattutto agli esecutori, e non ad
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ascoltatori che non erano messi in grado di "vedere" la parte. Ma troviamo
anche tentativi di cogliere le frasi testuali nel loro significato d'insieme,
secondo una concezione musicale più ampia: in questi casi, come vedremo,
sono contrapposte fra loro intere frasi i cui contrasti espressivi vengono
musicalmente resi mediante un diverso trattamento stilistico- strutturale.
Nella storia del madrigale si possono identificare tre fasi principali:
nella prima, oltre ad Arcadelt e Verdelot, si distinguono Adriano Willaert,
Costanzo Festa, Girolamo Parabosco e Francesco Corteccia. Nella seconda
fase, a partire dalla metà del secolo, il madrigale raggiunse maggiore
equilibrio tra i suoi elementi costitutivi.
A partire dal 1540 ricorre spesso nelle raccolte a stampa, la
denominazione di madrigali "a note nere", o "a misura di breve", o anche
"cromatici"; in questa fase, il termine cromatismo si riferisce all'impiego di
valori musicali brevi, di note di valore piccolo, notoriamente colorate "in
nero", e dunque intende la consuetudine a realizzare combinazioni ritmiche
più complesse.
Altri madrigali, denominati "ariosi" sui frontespizi delle edizioni a
stampa, tendono a far prevalere la voce superiore, depositaria dell'"aria"
(=melodia all'epoca); le altre voci hanno un andamento accordale, o
comunque un contrappunto che non compromette il carattere
declamatorio del brano. Rappresentanti principali di questa fase sono
Andrea Gabrieli (1510 ca.-1586), Vincenzo Ruffo (1510-87), Claudio
Merulo e Cipriano de Rore (1516-65).
Nella terza fase il madrigale è caratterizzato dall'uso frequente del
cromatismo inteso in senso moderno (sia melodico sia armonico), come
impiego di alterazioni semitonali, spesso dissonanti, in funzione espressiva.
Questi e altri procedimenti compositivi erano naturalmente sempre
indirizzati a migliorare e approfondire la resa espressiva dei testi poetici;
anche la tecnica del madrigalismo infatti è, in questa fase, impiegata in
modo più meditato e meno meccanico, ed è orientata più verso la
definizione del contenuto espressivo dell'intero testo che non soltanto
verso la descrizione minuta di singole parole o concetti. La tendenza a
esprimere il testo poetico nel suo insieme, cogliendone l'idea complessiva,
portava ad articolare il discorso musicale in una serie di periodi e di passi
strutturalmente o ritmicamente contrastanti atti a illustrare i
corrispondenti passaggi meditativi o narrativi del testo.
In questa direzione determinanti furono le nuove scelte poetiche
dei musicisti. Accanto a Petrarca, che comunque detiene il primato tra i
poeti prediletti dai madrigalisti, nella seconda metà del secolo vengono
utilizzati poeti contemporanei. Molta fortuna incontrò Ludovico Ariosto, e
le strofe del suo Orlando Furioso venivano musicate singolarmente o anche
in cicli di madrigali. Giovanni Guarini (Ferrara 1538-1612) emerse a
cominciare dagli ultimi anni del secolo; i versi della sua tragicommedia
pastorale Il Pastor fido (1589) sono alla base di almeno 550 madrigali di
125 compositori: in particolare i monologhi Cruda Amarilli (Atto I, scena 2)
e Ah dolente partita (III, 3) compaiono con frequenza nelle raccolte
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madrigalistiche dei più importanti compositori. Altrettanto frequente, a
cavallo tra i due secoli, è la scelta delle opere poetiche di Torquato Tasso
(1544-1595), sia le Rime (1582), sia episodi singoli o gruppi di stanze
tratti dalla Gerusalemme liberata (1581) (es. La morte di Clorinda, il
lamento di Armida contro Rinaldo, Erminia tra i pastori ecc.), brani
comunque sempre densi di pathos, di forti contrasti emotivi e di situazioni
commoventi.
Altri poeti presenti nelle raccolte madrigalistiche sono: Gabriello
Chiabrera, Jacopo Sannazzaro, Pietro Bembo, Giovanni Guidiccioni, Luigi
Cassola, Giambattista Marino e Luigi Tanzillo. Testi poetici dei suddetti
poeti, aulici e raffinati, ma meno distaccati e più coinvolgenti, obbligano i
madrigalisti a sperimentare tecniche compositive nuove, atte a renderne
sempre più a fondo la natura. Così troviamo l'uso di intervalli melodici
inusitati (settime, decime, tritoni), registri vocali ampliati all'estremo, sia
nelle note basse che in quelle acute, variazioni ritmiche repentine, passaggi
in stile declamatorio, pause improvvise, uso di cromatismi arditi, temerari,
sia melodici, sia armonici.
Tra i compositori che presero parte allo sviluppo del madrigale
italiano dopo la metà del secolo, e che sperimentarono le nuove tecniche,
ci sono ancora molti musicisti nordici (fiamminghi), e vanno ricordati in
particolare Orlando di Lasso (1532-94), molto prolifico anche nell'ambito
della musica sacra, Philippe de Monte (1521-1603), attivo in Italia, ma
anche al servizio degli imperatori di casa Asburgo, e Jacques de Wert,
operante tra la corte dei Gonzaga a Mantova e la corte estense a Ferrara.
I maggiori madrigalisti verso la fine del secolo furono invece italiani.
Luca Marenzio (1553 o 54 - 1599), fu uno dei più famosi madrigalisti del
suo tempo, e trascorse gran parte della sua vita a Roma. Il suo stile giunse
a conciliare una grande abilità tecnica, con la quale riesce a rendere
sentimenti contrastanti e dettagli descrittivi, ad una estrema qualità e
raffinatezza espressiva. Famoso è il madrigale sul sonetto del Petrarca
"Solo e pensoso", in cui il clima espressivo dei primi due versi è
caratterizzato: dalla ininterrotta curva cromatica nella voce superiore, che
sale lentamente lungo un intervallo di nona e poi scende di una quinta; dal
gioco contrappuntistico delle parti sottostanti che si imitano nell'originale
disegno di settime sciolte in arpeggi discendenti, e dal moto contrario che
si realizza fra le due voci estreme.
Esempio 22
Il culmine delle possibilità cromatiche (del cromatismo) nel madrigale
italiano fu però raggiunto da Carlo Gesualdo, principe di Venosa (1560 ca.1613), appartenente all'alta aristocrazia napoletana. Dopo aver ucciso la
moglie nel 1590, si recò a Ferrara dove sposò Eleonora d'Este (1594),
nipote del duca Alfonso II. Nel 1597 tornò nel castello di famiglia situato
nell' Irpinia, mantenne una cappella musicale e passò gli ultimi anni di vita
afflitto da gravi problemi psichici. Durante la permanenza a Ferrara, il
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contatto con l'ambiente culturale fertile e stimolante della città estense
determinò una svolta stilistica nella sua produzione, grazie soprattutto
all'incontro con Luzzasco Luzzaschi (1545-1607). Tale evoluzione lo portò
ad usare un cromatismo esasperato e una serie di arditezze e bizzarrie
melodiche, ritmiche e armoniche (finalizzate a rendere emozioni intense e
travolgenti), che si alternano a passaggi semplici, con melodie diatoniche e
contrappunto imitativo: le sue scelte poetiche si basano infatti su testi
brevi e non di grande pregio letterario, in cui, però, si alternano stati
d'animo fortemente contrastanti.
Estremamente cromatico e a note lunghe è l'incipit del madrigale
Moro, lasso al mio duolo in stile accordale, seguito dal passaggio ritmico
nettamente contrastante, in stile imitativo, che rende la contrapposizione
emotiva delle parole "e chi mi può dar vita":
Esempio 23
I centri più importanti nei quali il madrigale fu coltivato sono, oltre a
Firenze e Roma, Venezia, Ferrara, Mantova e Napoli. Alla corte estense di
Ferrara operava il famoso "concerto delle dame" nel quale si distinguono
tra l'altro Laura Peverara, Tarquinia Molza e Lucrezia Bendidio, cantanti che
si dedicavano espressamente all'esecuzione di questo repertorio, e che
erano celebrate per la bravura con cui eseguivano passi estremamente
complessi e di stampo quasi solistico. A loro furono dedicate composizioni
da parte dei più famosi maestri del tempo (Jacques de Wert, Marenzio,
Gesualdo e Monteverdi). Si tratta di un primo repertorio pensato e scritto
in funzione dell'ascolto privato della corte invece che all'uso e
all'intrattenimento degli stessi esecutori. Alcuni madrigali di questo
repertorio sono caratterizzati da uno stile vocale complesso e pieno di
ornamentazioni e in particolare i 12 Madrigali per cantare et sonare a uno,
a doi, e tre soprani, stampati nel 1601, ma composti vent'anni prima per il
gruppo di virtuose cantatrici da Luzzasco Luzzaschi (1545-1607,
organista a Ferrara e maestro di cappella al servizio privato del duca),
offrono i primi esempi, nella musica profana, di un accompagnamento
pensato espressamente per strumenti polifonici (liuto o tastiere). Questo
tipo di accompagnamento contribuì all'avvio di una nuova concezione
monodica del madrigale di cui si dirà più avanti.
Nella città di Venezia invece prevalse uno stile madrigalistico
conservatore, non sperimentale. La scrittura prevedeva due o più gruppi
corali trattati secondo la tecnica policorale o dei "cori spezzati" impiegata
nella contemporanea musica sacra.
Una variante del madrigale "classico" è il cosiddetto "Madrigale
rappresentativo", o "Madrigale drammatico", o ancora "Commedia
madrigalesca", un genere formato da una serie di madrigali riuniti in cicli,
che svolgono una vicenda drammatica articolata in più episodi. Sono
madrigali a carattere dialogico e narrativo che implicano vari personaggi
che agiscono in un teatro senza scena e su un palcoscenico ideale, astratto
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e immaginario. Sul piano musicale esso è costituito da una serie di
madrigali, alcuni in stile contrappuntistico e imitativo, altri di tipo accordale
e omoritmico. Il più famoso è l'Anfiparnaso "comedia harmonica a 5 voci"
(1594) del modenese Orazio Vecchi (1550-1605), formato da 15 brani
che evocano personaggi e situazioni tipici della commedia dell'arte, molto
noti al pubblico contemporaneo.
Sulla scia di Orazio Vecchi opera il bolognese Adriano Banchieri: la
sua opera più famosa fu La pazzia senile 1598), in cui si descrivono, in una
lingua ricca di cadenze dialettali, le velleità amorose di due vecchi, eluse da
giovani innamorati. Molto conosciuta, dello stesso autore, è anche la
commedia madrigalesca Le veglie di Siena. Da ricordare, dello stesso
genere, Il cicalamento delle donne al bucato di Alessandro Striggio.
Grande importanza ebbe, nel campo delle forme polifoniche profane
del Cinquecento, la villanella alla napoletana, o canzone villanesca, la cui
prima raccolta risale al 1537: fu un genere molto sofisticato pur nella sua
apparente semplicità melodica e armonica e nel tono ancora vagamente
popolare, anche se ormai già molto stilizzato. Fu praticato, fra gli altri da
Giandomenico da Nola, Tommaso de Maio, Tommaso Cimello, Adrian
Willaert, Baldissera Donato e Luca Marenzio.
Generi affini alla villanella furono la Giustiniana, la Grechesca, la
Villotta, la Moresca e la Bergamasca. Molto semplice e raffinato nel
contempo è anche il genere della Canzonetta praticato principalmente da
Giuseppe Caimo e Orazio Vecchi. Giacomo Gastoldi (1555-1609)
primeggiò invece nel genere del Balletto, composizione polifonica strofica
su versi particolarmente agili e bizzarri.
6.5 La musica sacra del Cinquecento italiano. Repertorio e istituzioni
Come si è già detto a proposito dei compositori fiamminghi vissuti
a cavallo tra il XV e il XVI secolo, la grande tradizione della polifonia sacra
fiamminga quattrocentesca si innestò senza soluzione di continuità
nell'esperienza compositiva liturgico-musicale cattolica del XVI secolo.
I generi della musica sacra erano sempre strettamente connessi alla
liturgia o a un evento devozionale. A parte il canto gregoriano che
continuava ad essere praticato (pur con le ovvie varianti, rispetto al
repertorio più antico, che si erano venute accumulando nel corso dei
secoli), nell'ambito della musica polifonica il genere maggiormente eseguito
fu quello della Messa, limitatamente però alle cinque parti che compongono
l'Ordinarium Missae: Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus, Agnus Dei. Il tipo di
messa più diffuso fu senza dubbio la "messa ciclica", nella quale tutte le
cinque parti sono costruite su uno stesso cantus prius factus, che poteva
essere una melodia tratta dal repertorio gregoriano o da un canto profano
italiano o francese, posta generalmente nella voce del tenor. Grande
fortuna ebbe anche la cosiddetta Missa parodia, in cui, come si è già detto,
i prestiti da una composizione preesistente non si limitavano a una sola
voce, ma a intere sezioni polifoniche. Infine le messe venivano composte
50
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con particolari tecniche musicali (canone mensurale, canone enigmatico,
ecc.) o anche liberamente.
Tra le parti del Proprium Missae quelle più frequentemente
realizzate in forma polifonica sono gli Offertori e le Sequenze (in
particolare lo Stabat mater). Nell'ambito dell'Ufficio liturgico le parti poste
in musica polifonicamente sono per lo più gli Inni, i Magnificat (nella liturgia
del vespro), le Lamentazioni, gli Improperi, i Salmi, i responsori, e il Passio.
Comunque il genere che avrà maggior fortuna nel corso del
Cinquecento è il mottetto, già in parte praticato nella seconda metà del
secolo precedente (da non confondere con il mottetto celebrativo di
carattere sia sacro sia profano in uso dal Duecento fino alla prima metà del
Quattrocento). Come si è già detto si tratta di una composizione
esclusivamente vocale (da quattro a più voci) su testi religiosi in latino
ispirati, desunti o liberamente tratti dalle Sacre Scritture, dal testo del
Proprium Missae o da quelli dei Padri della Chiesa. Il successo di questa
forma è dovuto principalmente alla sua brevità, alla sua concisione e al
fatto che la presenza di un testo non canonico, non "ufficiale", poteva
ispirare in vari modi la fantasia del compositore, esprimendo in questo il
vero spirito della musica rinascimentale. Si tratta di una composizione
quasi "paraliturgica", cantata nel corso di celebrazioni o festività
particolari, o utilizzata talvolta anche nella Messa in sostituzione di pezzi
liturgici "ufficiali", oppure durante l'Offertorio, l'Elevazione o la Comunione.
Nel Cinquecento la musica sacra, sia vocale, sia strumentale, si sviluppò
non soltanto in tutti i luoghi dove normalmente si praticano le funzioni
liturgiche (cappelle private, chiese, parrocchie e conventi) ma anche in
istituzioni religiose e laicali (fondate in seguito alla Controriforma), quali i
seminari, i collegi, gli oratori, gli orfanotrofi, i conservatori e le
congregazioni. Lo sviluppo maggiore si ebbe nelle cappelle private più
rappresentative (delle corti signorili più prestigiose, delle più illustri
famiglie, o di cardinali), nelle grandi chiese cattedrali e basilicali e in
generale nei centri politici e culturali di maggiore importanza. Tra le
cappelle private sono da ricordare, oltre a quella papale, quella vicereale a
Napoli, quella degli Estensi a Ferrara, dei Medici a Firenze, dei Gonzaga a
Mantova (S. Barbara), dei Savoia a Torino. Tra le cappelle delle grandi
chiese o cattedrali si distinsero, oltre a quelle delle principali chiese e
basiliche romane, la cappella della basilica di San Marco a Venezia, quella
del duomo di Milano, di San Petronio a Bologna, di Santa Maria del Fiore a
Firenze, della SS. Annunziata a Napoli e della cattedrale di Palermo. In tutti
questi luoghi hanno operato nel corso del Cinquecento illustri compositori,
sia fiamminghi sia italiani, in qualità di maestri di cappella, di cantori o di
organisti.
Tra i centri maggiori il ruolo più importante spetta certamente a
Roma, costante punto di riferimento non soltanto per tutta la Cristianità
occidentale ma anche per tutto il mondo culturale e intellettuale in qualche
modo legato alla committenza papale ed ecclesiastica in genere. A Roma la
musica polifonica veniva praticata dappertutto, non soltanto in Vaticano e
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nelle quattro grandi basiliche, ma in ogni chiesa, ogni convento e in ogni
istituzione religiosa.
La cappella papale o Cappella di Nostro Signore, successivamente
chiamata cappela sistina, era la cappella privata del papa. La sua istituzione
risale al XIV secolo e nel corso del Quattrocento vi operarono i maggiori
cantori e compositori del tempo fra i quali Dufay (dal 1428) al 1437) e
Josquin Despres (dal 1486 al 1494). Un momento particolarmente felice è
rappresentato dal papato di Sisto IV (1471-1484). Ma la sua importanza
aumenta decisamente nel corso del '500 sotto i pontificati di Leone X
(1513-1521), Paolo III (1534-49) e Giulio III (1550-1555) al quale si deve
la nomina di Palestrina a cantore pontificio.
Grande rilievo ebbe anche la Cappella Giulia fondata da papa Giulio II
(1503-1513) intorno al 1513 e destinata ai servizi liturgici all'interno della
Basilica di S. Pietro. Essa fu potenziata successivamente da Giulio III, che
chiamerà alla sua direzione, nel 1551, Pierluigi da Palestrina (Palestrina
tornerà a dirigere la Cappella Giulia nel 571 sotto Pio V, dopo la morte di
Giovanni Animuccia).
Fra le altre cappelle romane, particolarmente importanti furono
quelle di S. Giovanni in Laterano e di S. Maria Maggiore, che ebbero tra gli
altri, come maestro di cappella, proprio Palestrina, rispettivamente dal
1555 al 1560 e dal 1561 al 1565. Tra le altre istituzioni religiose romane
bisogna ricordare anche il Seminario romano fondato in pieno clima
controriformistico da papa Pio IV nel 1565, di cui il Palestrina fu il primo
maestro di cappella. In tutte le istituzioni romane operarono durante il
'500 i più illustri musicisti del tempo, sia franco-fiamminghi sia italiani, tra i
quali, oltre al Palestrina, Arcadelt, Costanzo Festa, Rubino Mallapert,
Francois Roussel, Giovanni Maria Ferrabosco, Giovanni Animuccia, Felice
Anerio, Giovanni Maria Nanino, Cristobal Morales e Francois Roussel.
Tutto questo fervore ha fatto sì che Roma sia stata considerata,
non solo nel Cinquecento ma anche nei secoli successivi, come il punto di
riferimento principale per la composizione della musica sacra caratterizzata
fondamentalmente dallo stile "a cappella". Ma sarà principalmente
Palestrina ad essere considerato il modello ideale per la polifonia liturgica
fino a tutto il Settecento inoltrato, e il suo mito rimarrà legato alla nozione
di "stile alla Palestrina". In effetti Palestrina rappresenta un perfetto
equilibrio tra le istanze contrappuntistiche di stampo franco-fiammingo e
l'esigenza di trasparenza nell'amalgama armonico creato dalla
sovrapposizione delle varie linee melodiche, che garantisce anche una certa
comprensibilità del testo. Quest'ultima era una delle necessità avanzate
dalla commissione (di cui facevano parte anche i cardinali Carlo Borromeo
e Vitellozzo Vitelli) che, dopo il Concilio di Trento, nel 1564-65, aveva
avuto l'incarico di definire le caratteristiche della musica da impiegare nella
liturgia e di regolamentarne l'uso.
6.6 La musica nella riforma luterana. Il corale
Lo sviluppo dottrinale e liturgico del luteranesimo determinò la
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necessità di un repertorio musicale appropriato alle specifiche esigenze del
culto protestante. Com'è noto, nel 1517 Martin Lutero (1483-1546),
monaco agostiniano e teologo, affisse alla porta del Duomo di Wittemberg
95 tesi riguardanti l'infondatezza teologica della dottrina e della pratica
della vendita delle indulgenze. La critica luterana, inizialmente limitata alla
denuncia di abusi ecclesiastici, si estese presto anche a questioni
dogmatiche determinando la frattura decisiva con la Chiesa di Roma. Alcuni
principi propri del Cristianesimo riformato, come il sacerdozio universale e il
libero esame dei testi sacri, comportarono conseguenze rilevanti
nell'organizzazione liturgica. Anzitutto Lutero rese accessibili i testi sacri e
liturgici anche a chi non conosceva il latino, traducendo in tedesco la
Bibbia, affinché ogni credente potesse attuare direttamente e
responsabilmente l'interpretazione del Verbo, e per confermare le Scritture
come unica forma di fede. La stessa messa, adattata alle specificità
dottrinali protestanti, adottò la lingua tedesca allo scopo di garantire la
partecipazione attiva e consapevole dei fedeli.
L'azione riformatrice di Lutero non si limitò agli aspetti testuali
della liturgia, ma operò anche sull'articolazione musicale del repertorio
sacro. La complessa polifonia sacra cattolica, affidata ad esecutori
professionisti, escludeva il coinvolgimento diretto dell'assemblea nel canto,
e fu dunque necessario elaborare un corpus musicale idoneo alle necessità
della nuova liturgia. Lutero, che possedeva una certa conoscenza teorica e
pratica della musica, approntò dunque, con l'aiuto di alcuni musicisti come
Johann Walter (ca. 1496-1570) e Conrad Rupsch (ca. 1474-1530) un
repertorio di canti religiosi in tedesco, in gran parte consistenti in
rielaborazioni di canti gregoriani. Questi canti sono inni strofici assembleari
chiamati in tedesco Choral o Kirchenlieder, corali in italiano. Quattro
raccolte di corali furono pubblicate nel 1524, e altre ne seguirono.
Inizialmente i canti erano destinati a essere cantati all'unisono dai fedeli
(che li imparavano a memoria), senza armonizzazione o
accompagnamento, dunque le melodie erano semplici, procedevano per
intervalli facili da intonare, ed erano articolate in frasi regolari. La struttura
melodica dei primi corali aveva lo stesso schema A A B tipico della
Barform usata dai Minnesänger. Successivamente i compositori luterani
iniziarono a scrivere versioni polifoniche dei corali: la melodia, in questo
caso, era affidata alla voce superiore, ed era accompagnata da altre tre
voci che procedevano in stile omoritmico-accordale; questa prassi
esecutiva non veniva affidata ai fedeli, ma a cori di cantori professionisti.
Un'altra possibilità esecutiva era quella di affidare la melodia alle voci, e le
parti sottostanti all'organo.
Il corale è tuttora il nucleo liturgico-musicale fondamentale del
culto luterano; il repertorio cinquecentesco è stato utilizzato e rinnovato
attraverso i secoli applicando alle melodie originarie nuove armonizzazioni
(famose sono quelle di J. S. Bach), che sono il riflesso dei differenti gusti
storici. I corali saranno anche posti alla base di elaborazioni più complesse
nell'ambito delle forme strumentali organistiche.
53
54
6.7 La controriforma
In seguito alla rivoluzione religiosa provocata da Martin Lutero,
buona parte dell'Europa si convertì e si staccò dalla Chiesa di Roma. Il
grave pericolo in cui quest'ultima venne a trovarsi, provocò un forte
impulso verso un rinnovamento che non tradisse lo spirito della religione
cattolica e delle sue istituzioni e che potesse in qualche modo far fronte al
dilagare delle dottrine protestanti. Questo movimento ha preso il nome di
Controriforma. La manifestazione più evidente dei nuovi fermenti cattolici
fu la convocazione, nel 1545, del Concilio di Trento, che, con varie
interruzioni e interventi dall'esterno, si concluse nel 1563 dopo aver
rinsaldato la compagine gerarchica della Chiesa e l'autorità del papa,
precisato dogmi e fissati gli obblighi disciplinari del clero e dei fedeli.
Riguardo alla musica sacra, il Concilio di Trento condannava lo
spirito profano presente, ad esempio, nelle messe costruite su un cantus
firmus profano, o nelle Messe parodie basate su chansons, e le complessità
contrappuntistiche che rendevano incomprensibili le parole del testo.
Inoltre si riprovava la negligenza e il malcostume dei cantori nel fiorire la
propria parte per emergere nel contesto vocale, e la loro cattiva pronuncia
delle parole; infine si riprovava l'uso di strumenti rumorosi in chiesa.
Tuttavia, al di là di questi pronunciamenti, il Concilio di Trento non prese in
considerazione le questioni tecniche e non fornì le regole musicali da
seguire, ma demandò le soluzioni pratiche ai vari vescovi e alle diocesi.
Dunque non vennero ufficialmente proibite né la polifonia, né la parodia su
modelli profani: l'importante era che, qualunque soluzione tecnica fosse
adottata, il testo cantato rimanesse intelligibile, e fossero evitati abusi
esecutivi.
6.8 Giovanni Pierluigi da Palestrina
Tutto il fervore musicale della Roma del Cinquecento di cui si è
detto, ha fatto sì che questa città divenisse, anche nei secoli successivi, il
punto di riferimento principale per la composizione della musica sacra. Ma
sarà principalmente Palestrina ad essere considerato il modello ideale per la
polifonia liturgica fino a tutto il Settecento inoltrato.
Giovanni Pierluigi da Palestrina (Palestrina 1525 o 26-1594)
fu fanciullo cantore nella Basilica di Santa Maria Maggiore a Roma, dove
ricevette la sua formazione musicale. Nel 1544 divenne organista e
maestro del coro nella cattedrale di Palestrina. Nel 1551 fu nominato
maestro della cappella Giulia (o Vaticana) in S. Pietro da papa Giulio III, suo
protettore (in precedenza vescovo di Palestrina) al quale dedicò nel 1554
il suo primo Libro di Messe a 4 voci. Dopo un breve e contestato incarico di
cantore nella cappella di Nostro Signore (la cappella privata del papa oggi
detta sistina), fu nello stesso anno maestro di cappella della basilica di S.
Giovanni in Laterano, e sei anni dopo ebbe la stessa carica nella basilica di
S. Maria Maggiore. Nel 1571 fu richiamato a collaborare con la Cappella
Vaticana in S. Pietro. Svolse attività didattica anche presso il Seminario
54
55
Romano, lavorò per il cardinale Ippolito d'Este a Roma e a Tivoli, e per la
"Compagnia dei Musici di Roma" (da cui trarrà origine l'attuale Accademia
di Santa Cecilia).
Palestrina è il compositore al quale fu riconosciuto di aver
interpretato al meglio l'essenza dello stile della Controriforma, per la sua
polifonia sobria e lontana da suggestioni profane. La sua formazione
musicale è di ascendenza franco-fiamminga, perché fiamminghi furono i
suoi maestri, e dunque alla base del suo stile c'è il contrappunto imitativo
affidato a un organico esclusivamente vocale, le cui singole parti hanno un
andamento ritmico melodico autonomo e continuo, pur nel rispetto
dell'andamento delle altre parti. Gli elementi conservatori nello stile di
Palestrina, derivati dalla vecchia tradizione fiamminga sono: l'uso
frequente di un organico a 4 voci invece delle ormai consuete 5 o 6 voci;
alcune messe scritte con la tecnica, ormai datata, su cantus prius factus,
come ad esempio la prima delle due messe scritte sulla tradizionale melodia
della chanson francese L'homme armé; inoltre l'uso rigoroso della tecnica
del canone, nelle messe Missa ad fugam (interamente in doppio canone) e
Repleatur os meum, in modo rigoroso, e in molte altre messe, in modo
meno severo. Altro dato interessante è che la maggior parte delle messe di
Palestrina sono costruite su cantus firmus gregoriano, e inoltre, alcune
messe parodia sono basate su mottetti polifonici a loro volta fondati sul
canto gregoriano. Questo dato non è casuale, per il fatto che Palestrina
permea la sua polifonia non solo dello spirito, ma anche della tecnica del
canto gregoriano. Le linee melodiche delle sue parti vocali procedono
infatti prevalentemente per grado (i pochi intervalli superiori alla terza
vengono immediatamente riequilibrati con intervalli che procedono in
direzione inversa), con rare note ribattute, in frasi sinuose e di lungo
respiro, non articolate da cadenze regolari, e in ambiti che non vanno oltre
l'intervallo di nona.
Dal punto di vista armonico la produzione palestriniana esclude ogni
cromatismo, e gli intervalli che le voci formano nei loro incontri verticali,
sono quelli che, nella grammatica armonica, si chiamano triadi e accordi di
sesta. La linea del basso spesso procede per intervalli di quarta o di quinta,
che producono cadenze pseudo tonali, per cui si verificano situazioni a
metà strada tra il sistema modale del XV secolo e l'armonia tonale del
secolo XVIII. Il procedere diatonico, l'assenza di cromatismi e il trattamento
discreto delle dissonanze, conferisce alla musica di Palestrina un clima
sobrio e distaccato.
Altro elemento importante nella polifonia palestriniana è il sapiente
trattamento della sonorità che deriva dal saper raggruppare, spaziare o
raddoppiare le voci nelle loro combinazioni verticali: una sorta di
"orchestrazione vocale". Un medesimo accordo produce sfumature
differenti se viene eseguito da combinazioni vocali diverse: in Palestrina è
sempre felice la scelta delle voci e quindi la giusta sonorità in rapporto alle
varie situazioni espressive.
Il ritmo nella polifonia cinquecentesca viene scandito da un metro
55
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identico per tutte le voci, e nell'ambito di questo appuntamento collettivo,
ogni voce conserva l'indipendenza del suo ritmo personale, che asseconda
la declamazione delle parole del testo nel suo procedere. Nelle musiche di
Palestrina più che altrove, il metro collettivo che contiene il fluire ritmico di
tutte le voci dà come effetto la sensazione di una successione ritmica
regolare messa in evidenza più che dagli accenti tonici, dai cambiamenti
d'armonia e dalla collocazione di ritardi sui tempi forti.
L'equilibrio stabilito tra il procedere orizzontale delle voci e i loro
incontri intervallari verticali produce nell'ambito della polifonia palestriniana
una trama sonora trasparente dalla quale non è difficile far emergere con
chiarezza il testo letterario. A questo scopo peraltro Palestrina,
soprattutto nella Missa papae Marcelli, organizzò il discorso musicale in
modo che una data frase fosse spesso pronunciata dalle voci in modo
simultaneo, e non attraverso un contrappunto imitativo eccessivamente
sfasato: ma per evitare la monotonia di questo procedimento (il falso
bordone), egli divise l'organico di sei voci in vari gruppi minori, ognuno
dotato di un proprio colore sonoro, riservando l'insieme delle sei voci per
parole esprimenti una tensione particolarmente significativa. Così nessuna
voce arriva ad avere il testo per intero, dato che vi sono scarse ripetizioni
di esso. In questo modo la musica di Palestrina, basata sulla purezza della
sonorità vocale e sull'uso controllato del contrappunto, riflette gli ideali di
conservatorismo e di interiorità della Controriforma. Tra i compositori
contemporanei di Palestrina, legati al suo stile musicale e come lui
esponenti della scuola romana sono da ricordare Giovanni Maria Nanino
(1545 ca.-1607), Felice Anerio (1560-1614), Giovanni Animuccia (1500
ca.-1571). Altro importante esponente della scuola romana fu lo spagnolo
Tomàs Luis de Victoria (1549 ca.-1611), la cui presenza a Roma dimostra
come durante tutto il XVI secolo vi furono stretti rapporti tra i compositori
spagnoli e romani.
Gli ultimi compositori franco-fiamminghi del XVI secolo furono
Philippe De Monte e Orlando di Lasso, autori anche di molta musica
profana. Orlando di Lasso è considerato, insieme a Palestrina tra i grandi
compositori di musica sacra del tardo Cinquecento, ma mentre Palestrina
eccelse soprattutto nelle Messe, la fama di Lasso è legata principalmente ai
mottetti, la cui forma complessiva e i dettagli particolari sono informati ad
un approccio drammatico e descrittivo del testo.
6.9 La scuola veneziana
Il centro della cultura musicale di Venezia era la basilica di S. Marco,
e in essa l'organizzazione musicale dipendeva direttamente da funzionari
statali, che non risparmiavano sulla sua gestione, in quanto le
manifestazioni musicali erano concepite ed esibite con sfarzo a
dimostrazione della magnificenza dello stato. La carica di maestro di
cappella era molto ambita, e anche gli organisti erano scelti con selezioni
rigorose.
56
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A differenza della scuola romana che coltivava prevalentemente il
contrappunto tradizionale e lo stile solamente vocale ("a cappella"), la
scuola veneziana tendeva a uno stile più accordale che contrappuntistico in
senso tradizionale, in cui le voci procedevano piuttosto omoritmicamente;
inoltre coltivarono molto le sonorità e i contrasti timbrici, e la tecnica
policorale detta anche del "cori spezzati", che in S. Marco venne stimolata
dalla presenza di due organi posti su due cantorie collocate una di fronte
all'altra. In effetti, come si è già detto, l'usanza di scrivere pezzi per doppio
coro (per cori spezzati) non aveva avuto origine a Venezia, perché fin dai
primi anni de XVI secolo si era sperimentata in area veneta la tecnica di
contrapporre raggruppamenti corali diversi: ma questa tecnica si rivelò
congeniale al tipo di scrittura corale omoritmica prediletta dai compositori
veneziani.
Anche la tradizionale polifonia franco-fiamminga metteva in atto,
ma in maniera saltuaria, meccanismi musicali basati sul contrasto sonoro:
per esempio contrapponeva passi affidati a due o tre voci, a passi cantati
dall'intero organico vocale oppure alternava episodi scritti in contrappunto
imitativo a episodi in struttura accordale. La scuola veneziana invece fa dei
contrasti sonori la sua cifra stilistica privilegiata, impiegando anche gruppi
di strumenti mescolati alle voci o contrapposti ad esse: la tecnica
policorale prevedeva dunque la contrapposizione di cori vocali e gruppi
strumentali, o la contrapposizione di cori misti di voci e strumenti insieme.
Se la pratica polifonica vocale del Rinascimento consentiva che gli
strumenti sostituissero o raddoppiassero le parti vocali, comparve ora una
nuova pratica denominata "concertato" o "concerto", un termine che
divenne fondamentale per la prima musica barocca. Il termine, "concertare"
(probabilmente dal latino 'gareggiare') si riferiva di solito a gruppi in
concorrenza o in contrasto fra loro, oppure alla combinazione di voci e
strumenti; venne usato come titolo per la prima volta nei Concerti...per
voci et strumenti (1587) di Andrea e Giovanni Gabrieli. Andrea Gabrieli
prescrive, nella premessa ai suoi Psalmi davidici, l'uso di strumenti e voci
"insieme e separatamente" senza però precisare i tipi di combinazione che
(come anche nella precedente suddetta raccolta) sono lasciati alla
discrezione dell'esecutore.
Negli ultimi anni del secolo il termine entrò nell'uso comune, come
per esempio nel titolo Concerti ecclesiastici, che troviamo in tre famose
raccolte: una con opere di Andrea Gabrieli e altri autori (1590); una
seconda con opere di Adriano Banchieri (1595) e una terza contenente i
famosi Concerti di Lodovico Grossi da Viadana (1602).
Giovanni Gabrieli nelle sue Sacrae symphoniae (1597) fu il primo
compositore a indicare esattamente nella partitura gli strumenti specifici
da usare nell'esecuzione; in genere suonavano insieme alle voci non solo
l'organo, ma anche tromboni, cornette e viole. Naturalmente le voci erano
abbinate agli strumenti in base ai timbri: quelli acuti della viola da braccio
duplicavano le voci superiori, mentre il suono dei cornetti e quello dei
tromboni sostenevano le voci basse. L'andamento semplificato delle voci,
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che procedono per lo più a blocchi accordali, serviva allo scopo di mettere
in rilievo e con estrema chiarezza il ritmo naturale delle parole, che in
questo modo erano facilmente percettibili. Willaert aveva pubblicato nel
1550 i suoi Salmi a uno et a duoi chori a Venezia e questa produzione
ebbe seguito attraverso i suoi discepoli, a cominciare dal teorico Gioseffo
Zarlino che trattò questo procedimento compositivo nella sua opera
intitolata Istitutioni harmoniche del 1558.
Il procedimento antifonico regolare dei Salmi di Willaert, con sezioni
alternate regolarmente tra i due cori, venne arricchito e amplificato dal suo
allievo Andrea Gabrieli (1533-1585), che sfruttò questa tecnica con una
numerosa serie di effetti sonori: anzitutto con un maggior numero di cori
contrapposti, e inoltre con episodi espressi attraverso dialoghi serrati
seguiti da episodi che vedono i cori riuniti in procedimenti omoritmici,
frequenti effetti d'eco e ripetizioni di parole. Non è del tutto assente il
contrappunto imitativo, ma questo cede il posto principale allo stile
omoritmico accordale che viene usato per meglio sottolineare la
declamazione del testo. Il vocabolario è in genere diatonico, salvo la
presenza di qualche cromatismo teso a evidenziare concetti significativi.
Andrea Gabrieli operò spesso al di fuori di Venezia, in Italia e all'estero,
soprattutto nei paesi di lingua tedesca, tanto che fino alla metà del
Seicento le sue opere sacre e profane, ebbero larga diffusione in edizioni e
ristampe. Furono suoi allievi, tra gli altri, il teorico Lodovico Zacconi (15551627), autore del trattato Prattica di musica e il nipote Giovanni Gabrieli
(1557 ca.- 1612).
La raccolta intitolata Concerti...per voci, et stromenti musicali,
pubblicata a Venezia nel 1587, contiene opere di Andrea e Giovanni
Gabrieli, sacre e profane, per organici che comprendono dalle 6 alle 16
parti sia vocali, sia strumentali, anche se di queste ultime non vengono
precisati gli strumenti esecutori.
Giovanni Gabrieli proseguì l'opera di evoluzione delle tecniche
policorali soprattutto nella sperimentazione di sempre nuovi impasti di voci
e strumenti e relativi effetti timbrici e sonori. Con Giovanni il mottetto
policorale arrivò a dimensioni mai raggiunte, perché vi furono impiegati fino
a cinque cori, ognuno con una diversa combinazione di voci acute e gravi,
e ognuno combinato con strumenti di timbro diverso. Famosa è la sua
Sonata pian'e forte, contenuta nelle Sacrae Symphoniae del 1597; si
tratta, formalmente, di un mottetto a doppio coro per strumenti, ed è
importante, più che per il valore musicale, per il fatto che è uno dei primi
pezzi stampati per un insieme strumentale in cui sono specificati
esattamente quali particolari strumenti sono richiesti, nell'esecuzione, per
ogni parte: il primo "coro" prevede una cornetta e tre tromboni, il secondo
"coro" un violino e tre tromboni. Ma la raccolta è importante anche perché
Giovanni in questa sonata fu uno dei primi a usare indicazioni di dinamica,
sia nel titolo, sia nella partitura, di "pian[o] e "forte" (la prima indicazione è
usata quando ogni "coro" suona da solo, la seconda quando i due "cori"
suonano insieme). Nelle citate Sacrae symphoniae del 1597 e nelle le
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Symphoniae sacrae del 1615, Giovanni Gabrieli sperimenta contrasti
ritmici, dinamici, e, a volte, cromatismi sia melodici sia armonici. Nelle
Sacrae symphoniae del 1597 troviamo anche una Canzon in echo per otto
cornette e due tromboni (con un arrangiamento alternativo per organo), e
una Canzon da sonar per viola, cornetta e nove tromboni.
La scuola veneziana ebbe larga fama in Italia e nell'Europa
settentrionale (Germania, Austria), tra la fine del XVI e l'inizio del XVII
secolo. Tra gli allievi di Giovannni Gabrieli fu Heinrich Schutz, il più
importante esponente della musica sacra tedesca della sua epoca.
7. CLAUDIO MONTEVERDI TRA RINASCIMENTO E BAROCCO
Un discorso a parte merita l'opera di Claudio Monteverdi, perché
nell'ambito della sua intera produzione, ma soprattutto dei suoi otto libri di
madrigali (stampati a Venezia dal 1587 al 1638) possiamo percorrere
gradualmente il passagio dal XVI al XVII secolo, dalla tradizione polifonica
rinascimentale della seconda metà del Cinquecento, alle innovazioni
espressive, stilistiche, formali e strutturali del primo Seicento barocco.
Monteverdi (1567-1643) studiò a Cremona, sua città natale, con
Marcantonio Ingegneri, maestro di cappella del Duomo di quella città. Nel
1590 entrò al servizio del duca di Mantova Vincenzo Gonzaga, dapprima
come suonatore di viola, e, dal 1602, come maestro della cappella ducale.
Dal 1613 fino alla morte fu maestro di cappella della basilica di S. Marco a
Venezia.
I primi cinque libri di madrigali, e parte del sesto, vennero composti
a Mantova, e rispecchiano la padronanza della tecnica madrigalistica del
tardo Cinquecento, con l'alternarsi di sezioni in contrappunto imitativo e
sezioni in stile omoritmico-accordale (che a volte realizzano una sorta di
declamato polifonico), e la resa fedele del testo poetico attraverso una
serie di "madrigalismi" tra i quali anche l'uso di dissonanze. Già in questa
prima fase tuttavia si rintracciano segnali evidenti di evoluzione stilistica,
come alcuni passi che non sono melodici, ma declamatori, come dei
recitativi: ne è un esempio l'incipit di Sfogava con le stelle (Quarto libro dei
madrigali), in cui questo verso viene declamato da tutte le voci su un
accordo che l'autore pone all'inizio senza specificare il valore da attribuire
all'intonazione delle sillabe: ne scaturisce una sorta di recitazione, in
declamato polifonico che si rifà allo stile recitativo della contemporanea
monodia accompagnata. In questo senso va interpretata la graduale
trasformazione dell'organico che esegue, e della tessitura che spesso si
allontana dall'ideale rinascimentale dell'uguaglianza delle voci, e si
assottiglia spesso in duetti sostenuti dalla parte del basso che funge da
sostegno armonico.
Le scelte poetiche di Monteverdi si diressero, in una prima fase, ai
versi del Tasso (Gerusalemme liberata), per passare, a partire dal Libro
quarto, prevalentemente a G. Battista Guarini (Il Pastor fido), e poi ancora
a Gabriello Chiabrera (1552-1638) e Giovanni Battista Marino (1569-
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1625).
Per quanto riguarda gli incontri dissonanti delle voci, questi in molti
casi possono essere interpretati come abbellimenti, ma in effetti essi
venivano prevalentemente impiegati da Monteverdi allo scopo di rendere e
comunicare il significato e gli "affetti" contenuti nel testo poetico. Anche
se Monteverdi non usa i cromatismi e le conseguenti dissonanze nel modo
esasperato di Gesualdo da Venosa, tuttavia, soprattutto a cominciare dal
suo Terzo libro di madrigali lo vediamo derogare dalle regole
contrappuntistiche riguardanti gli incontri consonanti delle voci.
Furono proprio le deviazioni dalle regole grammaticali
contrappuntistiche riguardanti le combinazioni armoniche dissonanti che
sollecitarono il biasimo del teorico bolognese Giovanni Maria Artusi, allievo
di Zarlino, il quale nella sua opera L'Artusi, ovvero Delle imperfettioni della
moderna musica (1600) e nella successiva Seconda parte dell'Artusi
(1603), criticava le innovazioni armoniche di Monteverdi che
contrastavano con la regola, per esempio, per cui ogni dissonanza deve
essere preceduta e seguita da una consonanza. Tra i vari passi
monteverdiani contestati dall'Artusi c'è quello iniziale del madrigale Cruda
Amarilli (pubblicato per la prima volta nel quinto libro di madrigali a cinque
voci, del 1605, ma sicuramente in circolazione in forma manoscritta già
all'inizio del secolo): in esso Artusi disapprovava le licenze
contrappuntistiche causa di aspre dissonanze negli incontri vocali. Ma
proprio tali dissonanze poste su parole-chiave sono indice della volontà di
Monteverdi di comunicare attraverso l'insieme armonico il significato
emozionale del messaggio poetico.
La risposta di Monteverdi all'attacco di Artusi appare
dapprima nella lettera agli Studiosi lettori, pubblicata nello stesso quinto
libro, dove afferma di essere consapevole di ciò che scrive ("..io non faccio
le mie cose à caso"), ed enuncia l'esistenza di una "seconda prattica",
successiva e diversa da quella "insegnata dal Zerlino". Due anni dopo, il
concetto di "seconda prattica" fu spiegato dal fratello di Monteverdi, Giulio
Cesare, nella dichiaratione anteposta alla pubblicazione degli Scherzi
musicali (Venezia, 1607) con le seguenti parole: "[...] prima prattica
intende che sia quella che versa intorno alla perfetione del armonia [della
musica], cioè che considera l'armonia non comandata ma comandante, e
non serva ma signora del oratione [testo] [...]; seconda prattica, della
quale è stato il primo rinovatore ne nostri caratteri il divino Cipriano Rore
[...] intende che sia quella che versa intorno alla perfetione della melodia,
cioè che considera l'armonia comandata non comandante, e per signora del
armonia pone l'oratione, per cotali ragioni halla detta seconda e non nova".
Secondo Monteverdi dunque, l'Artusi criticava le innovazioni armoniche
senza tenere conto delle esigenze illustrative del testo ("[...] nulla
curandosi dell'oratione, tralasciandola in maniera tale come se nulla
havesse che fare con la musica"). Era infatti ormai da tempo in atto un
mutamento nei rapporti tra musica e poesia, e la parola, lungi ormai
dall'essere considerata mera base fonetica e sostegno delle complicate
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costruzioni musicali, si immedesimava con la musica costituendone l'anima
e determinandone il carattere espressivo.
Nel linguaggio monteverdiano, la profonda aderenza tra musica e
testo, che si impone sin dalle prime composizioni madrigalistiche, e si
conferma in tutti i successivi lavori come suo tratto personale, non è
basata esclusivamente sulla resa pittorica della singola parola (i suddetti
madrigalismi), ma è intesa in senso più ampio, offrendo musicalmente una
visione d'insieme del significato testuale: la cosiddetta "teatralità
monteverdiana" coglie nel testo il momento poetico centrale, e adegua ad
esso il clima generale della musica. Attraverso gli otto libri di madrigali
assistiamo al progressivo e naturale modificarsi della struttura musicale in
funzione delle esigenze espressive. Scelte poetiche spesso complesse e
artificiose portano Monteverdi alla ricerca di un'"oratoria musicale" e alla
costruzione di forme più estese e articolate. Il confronto, essenziale, con
l'assetto strutturale del testo letterario non pregiudica però l'autonomia
del linguaggio propriamente musicale, che va invece scoprendo nessi
formali e mezzi tonali che superano gradatamente l'orizzonte modale della
polifonia madrigalesca.
Fondamentale in questo processo di rinnovamento musicale è
l'adozione, sin dal quinto libro dei madrigali, del 'basso continuo', premessa
indispensabile all'impiego della voce solista nella compagine di un madrigale
polifonico. A partire dal settimo libro (Venezia, 1619), intitolato concerto,
si verifica una vera e propria frattura formale: il termine assai estensivo di
madrigale si trova applicato anche a composizioni che, per la molteplicità
degli stili musicali e dei generi letterari in esse adottati, più nulla hanno a
che fare con la polivocalità contrappuntistica della tradizione
cinquecentesca; nella varietà degli "altri generi de canti", il numero delle
voci, sostenute dal basso continuo, varia da uno a sei e ad esse si
associano varie formazioni strumentali con funzione concertante.
Lo stile concertato o concertante, inteso come unione di parti
vocali e strumentali non sempre paritarie, ma il più delle volte con funzioni
distinte (melodiche e di accompagnamento prevalentemente armonico),
ha le sue origini nelle composizioni policorali della scuola veneziana, oltre
che nei madrigali polifonici a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, che dal
contesto polifonico delle 5 voci, arrivò alle 3, 2, o anche a una voce
solista.
Il basso continuo è una sorta di accompagnamento armonicoaccordale posto a sostegno di parti vocali; consisteva in una parte di basso
scritta per esteso al di sotto della, o delle altre parti vocali, sulla quale
erano scritte delle cifre che suggerivano il tipo di accordo (non scritto) da
realizzare estemporaneamente durante l'esecuzione. In genere veniva
affidato almeno a due esecutori: uno per eseguire la linea del basso (in
genere uno strumento ad arco con registro grave come la viola da gamba),
l'altro o gli altri per realizzare estemporaneamente gli accordi adeguati, e
spesso suggeriti dalla numerica sovrapposta alla parte del basso (tastiere,
liuto, tiorba, chitarrone). Questo basso si dice continuo perché nelle
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composizioni del XVII e XVIII secolo in cui è impiegato, accompagna
ininterrottamente il discorso musicale a differenza delle parti di basso nella
musica polifonica, che, come tutte le altre voci, aveva le sue pause. Il
contrappunto del XVII secolo dunque si diversifica da quello del
Rinascimento: consisteva sempre in una combinazione di linee melodiche
differenti, ma ora le linee dovevano adattarsi alle regole strutturali di una
serie di successioni armoniche di accordi esplicitamente definiti e suonati
dal continuo, dunque era un contrappunto controllato armonicamente.
Tornando a Monteverdi, l'intitolazione di Concerto attribuita al suo
settimo libro di madrigali sta a registrare una pluralità di stili e di mezzi
espressivi sperimentati in questa opera.
Questa sperimentazione prosegue nei Madrigali guerrieri et amorosi.
libro ottavo (Venezia 1638), l'ultimo libro di madrigali stampato durante la
vita dell'autore (perché il Nono Libro uscirà postumo), notevole per la
varietà di generi e di forme, tra cui si hanno madrigali a cinque voci, assolo,
duetti e trii con basso continuo, e composizioni per coro, solisti e
orchestra. Già la prefazione "Claudio Monteverde a chi legge" costituisce il
programma estetico della raccolta; in essa Monteverdi spiega la sua
poetica, la quale tende a uno stile espressivo che valorizzi al massimo
l'oratione costituita dall'intrecciarsi di "affetti" contrastanti: alla
realizzazione espressiva di questi affetti dovevano tendere insieme voci e
strumenti per incontrarsi in quella "imitazione unita" che costituisce
l'ideale esecutivo monteverdiano.
Tra le tante tecniche formali usate c'è il del basso ostinato: nel
Lamento della ninfa, la parte di basso adotta uno schema melodico fisso
(una quarta discendente), che viene ripetuto in modo identico, per 34
volte, mentre la voce solista (la ninfa) melodizza con ricchezza di
espressione il suo "lamento".
Ma di importanza fondamentale nel Libro ottavo è il Combattimento di
Tancredi e Clorinda. Il testo si basa sul famoso episodio descritto dal Tasso
nel XII canto della Gerusalemme liberata, i cui versi (ottave 52-62 e 64-68)
sono stati parzialmente modificati e frequentemente contaminati dalla
versione della Gerusalemme conquistata. Lo stesso Monteverdi, nella
prefazione sopra citata, spiega le ragioni della sua scelta: "[...] diedi di
piglio al divin Tasso, come poeta che esprime con ogni proprietà et
naturalezza con la sua oratione quelle passioni, che tende a voler
descrivere et ritrovai la descrittione, che fa del combattimento di Tancredi
con Clorinda, per haver io le due passioni contrarie da mettere in canto
guerra cioè preghiera, et morte [...]". Questa scelta poetica richiede
l'introduzione del "concitato genere", in aggiunta a quelli già usati "molle
et temperato", necessario alla resa delle caratteristiche guerriere del testo
tassiano che descrive l'incontro dei protagonisti, il duello, il ferimento di
Clorinda, il riconoscimento da parte di Tancredi, il battesimo e la
commovente morte. La composizione prevede un organico di tre voci (un
soprano, Clorinda, e due tenori, Tancredi e il narratore del testo) e quattro
parti strumentali: "quattro viole da brazzo, soprano, alto, tenore et basso,
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et contrabasso da gamba che continuerà con il clavicembano".
Il fatto che il Combattimento sia "in genere rappresentativo", come
le istruzioni esecutive di Monteverdi prescrivono, è ampiamente
confermato dalle sue caratteristiche musicali che mirano a "rappresentare"
la concitazione drammatica e "i contrasti, che sono quelli che scuotono
grandemente l'animo nostro", e richiedono espressamente la realizzazione
mimica. A questo scopo vengono sperimentate diverse innovazioni. Dal
punto di vista ritmico l'adozione del pirricchio (giustificata da un discutibile
accostamento del ritmo musicale con la metrica classica:"[...] è tempo
veloce nel quale tutti gli migliori filosofi affermano in questo genere essere
stato usato le saltazioni belliche, concitate [...]"), si traduce nel
frazionamento della semibreve (paragonata allo spondeo) "in sedeci
semicrome et ripercosse ad una per una (il famoso effetto di 'tremolo')
con agionzione di oratione contenente ira et sdegno". Questo
procedimento sottolinea i momenti guerreschi del racconto già sulle parole
"quai due tori gelosi e d'ira ardenti", ma soprattutto durante la prima
battaglia ("l'onta irrita lo sdegno alla vendetta/ e la vendetta poi l'onta
rinnova"; "tornano al ferro, e l'uno e l'altro il tinge / di molto sangue") e
durante il secondo duello ("torna l'ira nei cori e li trasporta"). Il contrasto
espressivo dell'episodio della morte di Clorinda, che conclude il lavoro,
viene reso invece attraverso l'adozione degli stili "molle" e "temperato",
che ben si adattano, secondo Monteverdi, all'espressione degli 'affetti'
dell'umiltà e della temperanza. Vengono anche applicati, nella partitura,
procedimenti realistico-descrittivi come la figurazione strumentale
'rotatoria' sulle parole "va girando", quello del "trotto del cavallo" o degli
squilli di tromba (realizzati con gli archi) che precedono il suono delle armi;
oppure quelli più sottili come l'incedere cadenzato dei due guerrieri che
"vansi incontro a passi tardi e lenti", la pausa meditativa dell'invocazione
alla notte, ed altri effetti espressivi ottenuti con la ripartizione degli incisi
tra strumenti e narratore, con ritmi puntati incalzanti, scale rapide,
recitazione veloce di alcuni passaggi del testo in gara con i ribattuti degli
archi, i pizzicati, il contrasto dinamico tra piano e forte. Ma gli effetti
tecnici e strumentali di questa straordinaria partitura musicale, lontani
dall'essere semplici compiacimenti imitativi, aderiscono intimamente ai
contrastanti moti dell'animo rispecchiando progressivamente l'ira, l'odio,
l'accanimento, il dolore, e costituendo in questo senso la grandezza della
musicalità monteverdiana.
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