Untitled - Barz and Hippo

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Untitled - Barz and Hippo
Dopo Bruni, sceneggiatore dei lavori cinematografici di Virzì e di molti altri, tocca a Cotroneo, altro
sceneggiatore di indubbie qualità, esordire alla regia. Si tratta di un film divertente e delicato, capace di
affrontare i ricordi delle passate generazioni con un senso di omaggio misto a ironia che chiede anche
a quelle presenti di riappropriarsi della storia dei loro genitori.
scheda tecnica
durata:
98 MINUTI
nazionalità:
ITALIA
anno:
2011
regia:
IVAN COTRONEO
soggetto:
IVAN COTRONEO
sceneggiatura:
IVAN COTRONEO, MONICA RAMETTA, LUDOVICA RAMPOLDI
fotografia:
LUCA BIGAZZI
scenografia:
LINO FIORITO
montaggio:
GIOGIÒ FRANCHINI, DONATELLA RUGGIERO
colonna sonora:
PASQUALE CATALANO
costumi:
ROSSANO MARCHI
distribuzione:
LUCKY RED
interpreti:
VALERIA GOLINO
(Rosaria),
CRISTIANA CAPOTONDI
(Titina),
LUCA
ZINGARETTI (Antonio), LIBERO DE RIENZO (Salvatore), LUIGI CATANI (Peppino), VINCENZO
NEMOLATO (Gennaro), MONICA NAPPO (Assunta), MASSIMILIANO GALLO (Arturo), LUCIA RAGNI
(Carmela), GENNARO CUOMO (Federico), SERGIO SOLLI (Vincenzo), ANTONIA TRUPPO (Valeria),
FABRIZIO GIFUNI (Matarrese), ROSARIA DE CICCO (Maestra Lina), NUNZIA SCHIANO (Zia
Spagnola), CARMINE BORRINO (Elio).
Ivan Cotroneo
Nato a Napoli nel 1968, dopo aver abbandonato gli studi di giurisprudenza si trasferisce a Roma, dove
nel 1992 si diploma in sceneggiatura presso il Centro Sperimentale di Cinematografia. I suoi primi
approcci con il cinema avvengono grazie al regista Pappi Corsicato, per il quale Cotroneo scrive
l'episodio La stirpe di Iana incluso nel film collettivo I vesuviani e la sceneggiatura del lungometraggio
Chimera. Nel 1999 pubblica una raccolta di citazioni intitolata Il piccolo libro della rabbia. Nello stesso
anno collabora alla sceneggiatura di In principio erano le mutande di Anna Negri, e a quella di Paz!,
che porta sul grande schermo i personaggi creati da Andrea Pazienza. Nel 2003 collabora con Daniele
Luchetti e Stefania Montorsi per Dillo con parole mie e scrive per Alex Infascelli il cortometraggio
L'ultimo giorno. Nel 2003 pubblica il suo primo romanzo, Il re del mondo, mentre nel 2005è la volta di
Cronaca di un disamore.
Lavora come sceneggiatore per diverse produzioni televisive, fiction come Un posto tranquillo e
programmi come L'ottavo nano e Parla con me. Lavora inoltre anche per il teatro, sia con adattamenti
sia con testi propri.
Nel 2007 collabora alla sceneggiatura di Piano, solo, adattamento cinematografico di un libro di Walter
Veltroni. Nello stesso anno pubblica il suo terzo romanzo, La kryptonite nella borsa. Nel 2008 scrive
assieme a Maria Sole Tognazzi L'uomo che ama, film d'apertura del Festival Internazionale del Film di
Roma 2008, e torna a scrivere la televisione, con la fiction Tutti pazzi per amore. Nel 2009 partecipa
alle sceneggiature di La prima linea, Io sono l'amore e Mine vaganti: con quest'ultima ottiene diversi
premi. Nell'ottobre 2010 pubblica il suo quarto libro per Bompiani, Un bacio. È il traduttore ufficiale delle
opere di Hanif Kureishi e Michael Cunningham.
Nel 2011 debutta alla regia cinematografica con La kryptonite nella borsa, presentato in concorso al
Festival Internazionale del Film di Roma 2011.
la parola ai protagonisti
Intervista a Ivan Cotroneo
Come sei arrivato a dirigere un suo libro?
Come spesso capita i produttori del film hanno acquistato i diritti del mio libro dopo averlo letto.
All'epoca non c'era ancora idea di chi sarebbe stato il regista e ogni volta che io incontravo i produttori
davo un'idea precisa di cosa avesse o non avesse dovuto fare questo fantomatico regista indefinito.
Dopo lunghe chiacchierate, e forse esausti delle mie osservazioni, mi hanno proposto di girarlo. Da lì è
diventata un'avventura collettiva, dalla scrittura alla troupe, al cast, tutto è stato fatto insieme.
Nel film una connotazione fortissima è data dal contesto temporale degli anni Settanta. I Tuoi anni
Settanta, quelli che ha vissuto a Napoli da bambino. Cosa significa per lei quel periodo storico?
Gli anni Settanta erano degli anni modesti, non c'era ricchezza nei vestiti, nelle case, ma c'era allegria,
non c'erano tante barriere sociali. Chi non aveva disponibilità economiche usciva con chi ne aveva,
erano anni più liberi. I miei anni Settanta nel film non hanno una chiave nostalgica, ma una struttura
contemporanea, come se fossero adesso. Elemento fondamentale la figura della donna che è la
colonna della famiglia. Luca Zingaretti è un padre presente e affettuoso per quell'epoca, ma non ha gli
strumenti che abbiamo noi oggi per affrontare il suo ruolo. Stessa cosa gli zii che portano Peppino a
fare esperienze anche non adatte per la sua età ma gli vogliono bene. Ecco, mi piaceva raccontare
questo modo di essere famiglia senza strumenti, senza pedagogia. Ma comunque con grande amore.
Il quadro che ricostruisci è affascinante. Cosa ti piacerebbe fosse rimasto di quegli anni?
La ricostruzione è stata fatta con molta passione. Mi ero già occupato di anni '70 nella sceneggiatura di
Paz! e La prima linea, ma non avevo mai raccontato i primi anni '70, quelli del sogno, della ribellione,
del mondo a cavallo tra generazioni. Ne La kryptonite nella borsa le due schegge impazzite di Titina e
Salvatore pensano di cambiare il mondo, anche se non ci riescono. Oggi avremmo bisogno molto di
questo sentire. In quegli anni anche io avevo una zia giovane che mi portava in giro con lei: le donne
allora volevano essere indipendenti, si arrabbiavano per gli apprezzamenti che ricevevano per strada. I
giovani erano reattivi. Nella società di oggi mi piacerebbe ci fosse ancora questa capacità di essere
reattivi.
Tutto il film è raccontato dal punto di vista di un bambino. Come mai questa scelta?
Questo è senz'altro un racconto di formazione. Lo sguardo del bambino, il suo punto di vista, è una
cosa per me importante da sempre. È un interesse che nutro e in questo film lo confermo.
Altro elemento determinante nella narrazione del film è la musica: dai brani cult fino alla colonna
sonora firmata dai Planet Funk...
Ci sono brani che sono sempre stati nella mia testa per certe scene. Quando Rosaria scopre che il
marito la tradisce non poteva esserci altro che Mina che canta Quando ero piccola. L'esplosione della
fantasia di Peppino con poteva essere che essere cantata da David Bowie (Life on Mars). L'amore
tenero in cabina non poteva che essere cantato da Peppino Di Capri. L'armonia familiare per me era
solo possibile con Iggy Pop (Lust for Life). E poi ho chiesto ai Planet Funk, che conosco e ammiro da
tempo, di rifare la cover di Dalida These boots are made for walkin'. Un commistione bizzarra di pop
italiano e capolavori anglosassoni, piena di suggestioni diverse, per raccontare la vita.
Il discorso finale sulla diversità è una scelta precisa per dare un senso forte a un film che è a tutti gli
effetti una commedia? Un po' come dire che i diversi non trovano spazio nemmeno in questi anni
Settanta così liberi e colorati?
Per me era molto importante che il film finisse con quel discorso sul tetto. C'è una parte di speranza nel
discorso, ma era importante trasmettere quanto faticosa sia la ricerca della felicità, che però arriva
sempre attraverso esperienze dolorose. Il messaggio è: la felicità non è impossibile, ma non è
nemmeno una passeggiata. È bene saperlo fin da piccoli.
Valeria Golino ha subito accettato la parte?
Conosco Valeria da molto tempo e lei conosceva già il romanzo. Inizialmente ha replicato dicendo di
aver già fatto il ruolo di madre con bambino, sia in Respiro che in L'uomo nero. Poi quando le ho
raccontato meglio che si sarebbe trattato di qualcosa di più di un ruolo di semplice madre, come in
effetti è, ha accettato. Però l'ho dovuta corteggiare un po'.
Raccontaci di questo particolare sguardo sulla donna, sulle parole mai dette tra marito e moglie e tra
madre e figlia? Perché hai deciso di concentrare su questa femminilità?
Ho scritto la sceneggiatura insieme a due donne, Monica Rametta e Ludovica Rampoldi, e preferisco
leggere libri di scrittrici piuttosto che di scrittori. Credo che il cinema non riesca a raccontare bene la
femminilità. Mi piace la resistenza delle donne e la loro capacità di riprendersi la vita in mano. Mi piace
lo scarto finale di Rosaria: suo marito ha capito l'importanza per lui della moglie e sarà lei a decidere
quando interrompere la relazione con lo psicologo.
La storia è anche il confronto tra tre generazioni di donne che hanno percorsi sentimentali e affettivi
molto diversi. C'è Carmela, la vecchia generazione di stile matriarcale, interpretata da Lucia Ragni. C'è
Rosaria, la Golino, un modello di donna in fase di cambiamento. E poi c'è Titina, la Capotondi, giovane
che pensa di avere il mondo ai suoi piedi. Alla fine Rosaria, le generazione di mezzo, quella che
sembra incastrata dentro gli stereotipi, risulta la più libera. Io e le sceneggiatrici volevamo restituire
sullo schermo dei personaggi femminili credibili, veri, ma volevamo anche farlo in maniera affettuosa
mostrando le trappole familiari in cui si incappano, situazioni molto frequenti per quegli anni.
Nel cast, la sorpresa più bella, è Luigi Catani, il bambino che interpreta uno stupendo Peppino, di una
tenerezza unica: ci racconti come l'hai scovato?
Da sceneggiatore ho frequentato molto i set, ma da regista è molto diverso. La mia preoccupazione era
trovare il bambino giusto: il suo sguardo è così fondamentale. È ancora bambino ma comincia a capire
il mondo che lo circonda, tante bugie non gli si possono più raccontare. Luigi aveva questa cosa nello
sguardo. Nella finzione il padre cerca di dirgli cose affettuose e rasserenanti, lui è come se rispondesse
"sì sì" sapendo però che non tutto è come gli viene raccontato. Negli occhi di Luigi leggevo questo. Ho
visto tanti bambini. Luigi era nella prima cinquantina. Ne ho visti in tutto più di 500 ma io continuavo a
tornare a lui. Quando ho visto Luigi con Valeria mi sono del tutto convinto: era lui.
Ma come hai realizzato la scena del pulcino suicida?
Sono un grande direttore di pulcini - sorride Cotroneo -. Nelle scene sono mischiati insieme pulcini veri
e pulcini creati al computer. Le cose più rischiose le fanno quelli creati al computer. Il pulcino che corre
verso il balcone è vero, quello che si butta è finto.
Qual'è la kryptonite di oggi in Italia?
È la paura che ci portiamo dietro di tutto quello che non conosciamo. CI hanno fatto diventare sempre
più spaventati di quello diverso da noi. Degli anni '70 mi piace tanto la curiosità verso quello che non ci
somiglia. La paura ci impedisce di crescere.
Nella storia recente abbiamo visto una Napoli immersa nell'immondizia, una Napoli maleodorante e in
continuo dissesto, l'hai fatto apposta?
Sì, questa è la città che mi ricordo io da piccolo è quella che si vede, io ci sono nato e ci ho vissuto fino
a ventidue anni, me la ricordo come una città dei sogni, dove si può immaginare una vita piacevole e al
tempo stesso c'è il rischio di ritrovarsi in una realtà completamente distaccata rispetto a quella
durissima della strada. La kryptonite nella borsa è un film fatto per amore, ma anche per ripulire
l'immagine negativa della città comparsa sui giornali di tutto il mondo in questi ultimi mesi. La mia è una
sensazione di rimpianto non di nostalgia, mi chiedo spesso perchè non possiamo averla oggi una
Napoli così.
Ivan Cotroneo scrittore è soddisfatto di come è stato portato il suo romanzo sullo schermo?
Non ci ho parlato molto ultimamente - scherza Ivan -, ma mi piacerebbe che se la prendesse col
regista. Ho cercato di tradirmi come scrittore. Spero di aver fatto altro rispetto al libro, come dovrebbe
essere nel caso delle trasposizioni cinematografiche. Ho fatto il lavoro da regista insieme alle due
sceneggiatrici, ai produttori, al direttore della fotografia, a tanti altri, e spero che il film abbia vita propria
dal libro e sia molto di tutti.
Intervista al cast
Valeria Golino, come hai lavorato sul personaggio di questa mamma distratta e di questa moglie
insoddisfatta?
Non sono una che lavora molto ma cerco di farlo solo con le persone che stimo. Ricordo di essermi
sentita molto protetta durante le riprese, questo ruolo mi ha dato la possibilità di recitare senza vanità,
di liberarmi dell'esteticità e dei cliché. E' come se Rosaria mi avesse aiutato a dimenticarmi dei fronzoli
che di solito noi attori usiamo e di tutte quelle complicazioni che ci creiamo in testa prima di girare. Ero
sicura che sarebbe stato lo sguardo di Ivan ad abbellirmi più di ogni altra cosa. In questa tana che è la
nostra amicizia, fatta di coccole e di attenzioni, Ivan e tutti loro mi hanno fatto sentire come in un'altra
dimensione, è stato come stare a casa mia e mi sono talmente inmmedesimata nel personaggio di
Rosaria che tutto quello che faceva male a lei faceva veramente male anche a me.
Non c'è molta distanza tra Rosaria e la madre che interpreti in Respiro...
In un modo o nell'altro tutte e due si spingono ai margini, si autoescludono dalla realtà che le circonda
per entrare in una parallela. Parte come una donna più equilibrata di quella di Respiro, contenta
adeguata alla sua vita, ha un lavoro che fa volentieri e un marito e un figlio che ama, quando avrà
questo dispiacere e dovrà sopportare questo senso di abbandono in modo del tutto improvviso, una
depressione molto forte che trattiene il suo essere, vive il dolore conj pudore e con vergogna.
Luca Zingaretti, cosa ti ha convinto a partecipare nel ruolo di quest'uomo anni '70 un po' anaffettivo?
La cosa che più mi ha divertito del mio personaggio è stato vedere un uomo degli anni '70 così ben
fotografato, inserito in una società non ancora intrisa di dottrine psicologiche o psicanalitiche, mi ha
aiutato molto a capire come eravamo all'epoca e come siamo oggi. Antonio è un padre normalmente
presente che però non ha a disposizione alcuno strumento di quelli che abbiamo noi oggi, gli stessi zii
che portano in giro il bambino gli vogliono tanto bene ma il loro è un affetto senza pedagogia, un affetto
distaccato che poi alla fine è la cosa che di più salva Peppino dal crollo.
Che ricordo hai tu degli anni '70? Cosa rimpiangi?
Non c'è dubbio che noi stiamo vivendo in maniera assai più comoda di quel periodo, ma rimpiango il
borsello (ride) pensate quante tasche in meno potevo avere, era un oggetto di una bruttezza estetica
incredibile ma di grande utilità. Più di tutto però rimpiango la capacità che c'era in quegli anni di lottare
per le cose che ognuno di noi voleva, oggi non facciamo in tempo a desiderarle che un minuto dopo le
abbiamo già in tasca. I giovani Titina e Salvatore sognavano e lottavano per un futuro migliore, Rosaria
e Antonio nel film lottano per rimanere insieme, oggi alle prime difficoltà ci si molla. Non voglio fare il
nostalgico ma quasta capacità oggi è venuta un po' meno e non posso fare a meno di provare
nostalgia.
Come ti ha spinto Ivan Cotroneo a rischiare in questo film?
Credo che per un attore sia doveroso rischiare e lasciarsi andare, non sempre è possibile perchè non
sempre ci sono le condizioni per farlo, magari il regista non sa dove andare e devi sceglierti tu la
strada. Quando ti ritrovi in un film così ben congegnato è tutto molto più facile, il regista era colui che
aveva scritto il romanzo quindi chi meglio di lui sapeva dove andare a parare. Se non ci fossimo buttati
in questo film saremmo stati dei cretini.
Recensioni
Stefano Biolchini e Boris Sollazzo. Il Sole 24 Ore
Difficile prevedere che La kryptonite al cinema non nuocesse a Ivan Cotroneo, che con questo libro
aveva "messo in borsa" gran parte del recente successo. Eppure, in un festival di Roma
insoddisfacente, soprattutto sul fronte italiano (…) ha fatto capolino questa commedia divertente, agra e
dolce che con trovate surreali ha riportato il sorriso nel pubblico e tra i critici. Il film di Cotroneo, tratto
dal suo libro omonimo edito da Bompiani, è finalmente scritto con levità e arguzia, diverte senza
scadere nella commedia facile, introduce elementi vintage (Libero De Rienzo e Cristina Capotondi figli
dei fiori) e fantasy (il Superman napoletano) che raramente si trovano nel cinema italiano. (...) Senza
false pretese La kryptonite nella borsa, sembra seguire la sensibilità e la delicatezza di un certo cinema
indipendente americano che sa colpire al cuore senza preoccuparsi troppo di blandire gli appassionati
e i cinefili. E, va detto, la morale sulla diversità, che rimane sottotraccia per tutto il film per poi
esprimersi alla fine con un monologo forse didascalico ma di sicuro efficace, è originale e in parte
inaspettato. E cosa assai più difficile, riesce tra immagini e parlato a conservare la delicatezza della
pagina scritta. Sembra cercare Cotroneo, quel neo(sur)realismo magico di Miracolo a Milano, e quella
divertita presa in giro di pregiudizi e stereotipi che c'era in Incantesimo napoletano, il meridione che
troviamo qui è di sicuro una buffa cartolina che non vuole essere esaustiva, ma che piace e non irrita. Il
risultato è un'opera che, se non fosse italiana, non esiteremmo a chiamare "deliziosa", un Little Miss
Sunshine in cui una famiglia un po' disfunzionale e molto mal funzionante, trova una strana unità anche
grazie a quel bizzarro supereroe che, in fondo, tutti avevano sottovalutato. Senza aspirare al
capolavoro, il film di Cotroneo, è una di quelle creazioni che fanno un gran bene al nostro cinema: ai
botteghini e anche ai registi troppo presuntuosi. Con un giovanissimo protagonista della storia,
Peppino, in grado di conferire levità e dolcezza anche ai passi più scabrosi, Cotroneo autore e regista,
da un po' a tutti una lezione su come si possano veicolare messaggi e contenuti senza per forza
inseguire lo scandalo, il volgare e trash gratuito, la battuta scontata. E di questi tempi tutti sappiamo
quanto ciò sia arduo e vieppiù necessario.
Alessandra Levantesi Kezich. La Stampa
È sulla base di un proprio romanzo edito da Bompiani che lo sceneggiatore Ivan Cotroneo ha scelto di
esordire nella regia. Ed è stata idea giusta perché, essendo scritto sul filo dell’autobiografia, La
kryptonite nella borsa contiene un mondo di riferimenti noto, cosa che deve aver semplificato al neoautore il compito di ritrovare sullo schermo atmosfere, luoghi, colori, caratteri. Per altri aspetti però si
tratta di un soggetto non facile: gioca su un doppio registro reale-surreale, è un po’ commedia di
costume e un po’ storia intimista, ovvero un piccolo romanzo di formazione con tanti personaggi da
raccontare. E’ riuscito Cotroneo a padroneggiare tutte queste fila?
Peppino (il simpatico Luigi Catani) è un bambino di nove anni che vive a Napoli circondato dall’affetto di
genitori e parentado. A parte un cugino balzano che si crede Superman e vede pericolo kryptonite
ovunque, il suo quadro familiare è dei più normali fino al giorno in cui la mamma cade in un inspiegabile
stato depressivo. L’inconfessata verità è che Rosaria si è scoperta tradita dal marito: ed essendo donna
all’antica è l’intera sua scala di valori a crollarle addosso. Con la madre così ripiegata nella malinconia,
Peppino si consola inventandosi un rapporto immaginario con il cugino Superman nel frattempo
defunto; e intanto riceve un’educazione alternativa da due giovani zii che, fra sesso libero e spinelli
(siamo nel 1973), lo introducono allo spirito nuovo dei tempi. Nel finale, quando Rosaria riprende il suo
posto in famiglia, ha maturato una forza. Impersonata con misura e grazia dalla Golino, è lei il cuore
della storia, mentre Peppino resta figura di semplice osservatore, senza riuscire ad assumere statura di
protagonista. Il che non aiuta il film a trovare il suo centro, conferendogli una certa frammentarietà.
Tuttavia la cornice di una Napoli piccolo borghese innestata di magmatici fermenti ribellistici, il buon
livello di recitazione, l’umanità dei personaggi, alcuni felici spunti di regia: sono elementi che rendono la
visione gradevole e inducono ad attendere con fiducia un’opera seconda.
Dario Zonta. L’Unità
C'è stato un tempo, a cavallo tra gli anni sessanta e settanta, in cui Napoli era luminosa, colorata,
vivace, attraversata da mille influssi, avvolta dalle sue tante contraddizioni e contaminazioni,
felicemente orgiastica, sicuramente verticale, proletaria e sotto-proletaria, una città con ancora un
popolo, piena di bambini, di povertà e di mense, di vicoli malavitosi e impuniti, una Napoli ancora
ingenua, sempre incurante del futuro, sorda al domani. Il cielo plumbeo che l'avrebbe attesa al varco
dei decenni, fino a questo presente cupo e grigio, sembrava non potersi formare, sempre sciolto dalla
pozione magica di incredulo ottimismo e molesto disfattismo. Questa è stata, un tempo, una città.
Questa è la Napoli descritta da Ivan Cotroneo in La kryptonite nella borsa. È un film di strana bellezza
perché si sostituisce alla nostalgia, portandoci nel cuore di un sentimento ancora pulsante. Quello di
Cotroneo non è un viaggio nel tempo ma è il viaggio dentro l'emozione ancora viva di un momento
specifico della vita, quando ancora bambini tutto sembra deforme e strano, ambiguo e alterno, e
sempre senza una vera ragione. Non si può parlare di un film in costume (sebbene sia un film calato
nella moda del tempo), non si può parlare di un film storico (sebbene sia ambientato agli inizi degli anni
settanta), non si può parlare di un film nostalgico (anche se gira intorno al rimpianto per quel che
eravamo), non si può parlare di un film politico (perché quel rimpianto contiene una domanda su ciò
che siamo). Non si può parlare di tutto ciò perché nessuno, tantomeno meno il regista, sembra essere
sopravvissuto alla devastazione che ne è seguita, all'apocalisse che tutto ha cancellato nei decenni a
seguire Ed è questo azzeramento, questo tempo interrotto in un eterno presente, che rende La
kryptonite nella borsa un film utopistico fino a quando cerca di trasformare in reale una visione emotiva
del passato, un film fantascientifico fino a quando la formazione del giovane protagonista è delegata
alla visione di un super eroe locale in calza maglia. Peppino è un bambino riccioluto, ha gli occhi chiari
incorniciati da occhiali troppo spessi. Guarda gli adulti da dietro quegli occhiali, ma non li capisce. La
mamma è depressa perché il papà la tradisce, il papà è distratto ma ha i sensi di colpa, i giovani zii
sono presi da femminismo, sesso, droga e musica, i nonni sono increduli e spaesati. L'unico che
sembra avere un po' di saggezza, è uno «scemo», il cugino Gennaro che si crede Superman e che
pagherà il suo sogno sotto le ruote di un bus. Questo supereroe, non più santo, porterà Peppino a
vedere le cose dall'alto, dove soffia il vento. E da lassù anche a noi tutto sembra più bello.
Paolo D'Agostini. Repubblica
Il debutto da regista di Ivan Cotroneo è di quelli che, sulla base di un ottima fattura e di un cordone di
sostegno che va dalla fotografia di Luca Bigazzi a un cast estremamente accurato, ha i numeri per
portare pubblico al cinema. Cotroneo usa la chiave della commedia per interpretare il mondo con una
storia adulta vista ad altezza di bambino. Protagonista è Sansone Peppino da Napoli, colto da questa
storia sulla soglia dei 9 anni nel 1973. Intorno a Peppino una famiglia multicolore (è il caso di dirlo: le
ricercate mostruosità cromatiche della mostruosa moda di quelle stagioni sono parte importante del
film) dove papà Luca Zingaretti tradisce impunemente mamma Valeria Golino che cade in uno stato di
muto sgomento dal quale la risolleva il più che sollecito psichiatra Fabrizio Gifuni; mentre i due zii
Cristiana Capotondi e Libero De Rienzo spupazzano il nipotino. Insomma un gran casino, simpatico e
vitale. Che sa distillare, nella forma più accattivante ma non superficiale, una classica lezione di vita: sii
sempre te stesso e segui la tua strada.
Gianluca Arnone. Cinematografo.it
E' stato probabilmente l'italiano più applaudito del concorso, almeno dalla stampa. E, rispetto ai suoi
fratelli di bandiera, gli va riconosciuta una maggiore freschezza, un côté più definito, una cornice più
accattivante e due-tre trovate riuscite. Ma a uno sguardo meno autarchico La kryptonite nella borsa scritto e diretto da Ivan Cotroneo, tratto dal romanzo di Ivan Cotroneo, cotroneizzato insomma anche
troppo - sembra un film che ristagna tra carineria e aurea mediocritas, cappa del moderno (?) cinema
italiano. A suo modo esemplare nell'esplicitarne umori, ambizioni e limiti.
Siamo a Napoli, anni '70, in casa Sansone, spicchio di una famiglia allargata: non ci sono solo i genitori
di Peppino, 9 anni e protagonista di questa storia; ma i nonni materni custodi di tradizioni e folklore; gli
zii più giovani, due fricchettoni e il "genio" di casa che si rivelerà un bamboccione; il cugino Gennaro
che "si vede" Superman e poi muore...
Ma la macchina da presa di Cotroneo (all'esordio in regia) si spinge oltre, allargando lo spettro delle
storie e la galleria dei caratteri - dall'amica sfigata della madre di Peppino, allo psichiatra interpretato da
Fabrizio Gifuni - senza approfondire la visione, che resta indecisa tra il tipo e il personaggio, la favola e
la commedia corale, la memoria e il folklore. Dopo un inizio promettente, il film si affloscia, incapace di
andare avanti con brio. Smaltisce velocemente leggerezza e inventiva impantanandosi nel tipico
psicologismo da fiction italiana (un esempio è la deriva depressiva della madre), nel melò all'acqua di
rose o, se preferite, nella commedia triste. Perde per strada troppi personaggi (nonostante l'ottima
prova di quasi tutti i suoi interpreti), non prende una direzione precisa né potrebbe, stretto com'è tra
due intenzioni forti e litiganti: da una parte il racconto di maturazione, il bisogno di cambiare che hanno
tutti; dall'altra la nostalgia, la malinconia compiaciuta del ricordo, il desiderio impossibile che tutto torni
com'è. Cambiare, non cambiare: questo è il problema. Del film in primis, che rinnova il look ma non la
faccia rievocativa (e allusiva: fuga dal presente?) del cinema italiano di questi anni, da Notte prima degli
esami a Mio fratello è figlio unico. Il nostalgismo non fa memoria e, al netto dell'ottimo lavoro di Luca
Bigazzi (fotografia), Lino Fiorito (scenografia) e Rossano Marchi (Costumi) - grandi tecnici del
"rivestimento", che lavorano sul make-up degli anni settanta, non sulla sostanza - la sceneggiatura
resta materia grezza ed esile, con pochi giri e troppi (e troppo furbi) surrogati emozionali - le evergreen
musicali come Lust for Life (Iggy Pop), Quand'ero piccola (Mina), Life on Mars? (David Bowie).
Pezze su un vestito sdrucito, a conferma che La kryptonite nella borsa del cinema italiano è la
sceneggiatura: sempre più un problema in un sistema avaro di registi-Superman.
Paola Casella. Europa
In pochi anni lo scrittore e sceneggiatore Ivan Cotroneo si è ritagliato una identità espressiva: c’è la sua
firma dietro la sitcom televisiva Tutti pazzi per amore ma anche dietro i melodrammi diretti da Ferzan
Ozpetek e Luca Guadagnino Mine vaganti e Io sono l’amore, ed è ancora lui l’autore dei recenti
successi editoriali La kryptonite nella borsa e Un bacio.
Basta citare questi titoli per mettere a fuoco il suo stile narrativo ironico e sopra le righe, profondamente
sentimentale e moderatamente irriverente. Ora Cotroneo è passato dietro la macchina da presa per
mettere in scena La kryptonite nella borsa, da lui anche sceneggiato insieme a Monica Rametta e
Ludovica Rampoldi e presentato in concorso al Festival del film di Roma.
La kryptonite nella borsa è una storia di formazione che costruisce un percorso per ognuno dei suoi
personaggi, anche se il punto di vista resta prevalentemente quello del piccolo Peppino, e che vede
Napoli coprotagonista nella sua dimensione folkloristica: spassosa la rilettura del femminismo e del
movimento dei figli dei fiori in una città sbullonata per natura e in cui il matriarcato la fa da padrone.
Grande attenzione è dedicata dal film alla figura femminile il cui archetipo culturale nell’Italia del sud,
secondo Cotroneo, si riassume in un immaginario podio su cui si elevano, in ordine gerarchico
decrescente, la Mamma, la Madonna e la Maestra, legittimate ma nello stesso tempo intrappolate da
questa categorizzazione assoluta. Il podio è già un classico «tocco Cotroneo»: ironico, pop, lievemente
surreale. Ed è questo il tono dominante di un film che riesce a parlare con leggerezza (ma non
eccessiva superficialità) di temi delicati come la depressione femminile, frutto non di una
predisposizione interiore ma della discriminazione socioculturale, e l’omosessualità come esclusione.
Solo nella scena finale capiremo fino in fondo che l’argomento principale del film è la necessità di
accettare la diversità con consapevolezza e con coraggio, invece di sacrificarla all’omologazione o
trasformarla in radicale rinuncia del sé.
Pur nella confezione apparentemente scanzonata (e ricca di canzoni: la colonna sonora fa parte
integrante della narrazione, che si apre in siparietti danzanti al limite del musical, come in Tutti pazzi
per amore), sempre a rischio di sconfinare nei codici della sitcom televisiva, La kryptonite nella borsa
possiede un doppiofondo drammatico che si rivela nei momenti più imprevisti.
Anche alcuni accorgimenti drammaturgici, primi ancora che registici, come un paio di sdoppiamenti del
protagonista che vede se stesso dall’esterno o lo sguardo in camera di uno dei personaggi, servono a
stratificare e rendere tridimensionale una narrazione al limite del cartoon. La costruzione narrativa e
registica de La kryptonite nella borsa ricorda quei libri illustrati pop up che aggiungono qua e là una
profondità inaspettata, senza mai abbandonare del tutto il conforto della bidimensionalità che rende la
narrazione apparentemente innocua.
Meritano un’attenzione particolare la recitazione di Valeria Golino che, abbandonata ogni vanità di
attrice, si offre al suo ruolo di casalinga disperata con un’onestà e una mancanza di filtri commovente, e
il delicatissimo rapporto fra lo zio Salvatore, forse gay forse solo possibilista in un momento in cui la
rivoluzione sessuale sembrava aver abbassato i freni inibitori anche al sud, e il cugino Gennaro, corpo
estraneo catapultato in un microcosmo limitante anche se apparentemente indulgente nei confronti
della diversità. Pur nel suo stile pop Cotroneo crea un mondo che consente l’identificazione emotiva,
grazie anche all’effetto nostalgia di musiche, scenografie e costumi, e che solo alla fine rivela la sua
vera intenzione, segnando un bel goal a porta vuota.
Federico Gironi. Comingsoon.it
Basterebbe il titolo. Quella parola proveniente dal mondo dei fumetti fa intuire da subito, senza
nemmeno dover vedere un singolo fotogramma del girato, come l'esordio nella regia dello
sceneggiatore e scrittore Ivan Cotroneo trovi nella categoria vasta e ambivalente del "pop" il suo
riferimento fondante. Ma se il pop è la più facile e accessibile delle coperte, può risultare lo stesso
irrimediabilmente corta, se non usata nel modo opportuno.
Portando al cinema il suo romanzo omonimo, che ha rielaborato assieme a Monica Rametta e Ludovica
Rampoldi, Cotroneo ha commesso un errore di fondo che non sappiamo se essere dovuto a un
eccesso di confidenza o all’ansia di dimostrare qualcosa. Perché, paradossalmente, La kryptonite nella
borsa è un film molto più attento alla regia, che non alla scrittura e alla narrazione.
Il ritratto di una famiglia normalissima nella sua sregolatezza, nel contesto della Napoli sospesa tra
tradizione e progressismo del 1973, è infatti portato avanti con grande attenzione formale, con scelte
insolite (e persino apprezzabili) per quanto riguarda le soluzioni estetiche. Dalla scelta delle
inquadrature alle scenografie e i costumi, passando per le musiche, Cotroneo è attentissimo a curare
ogni dettaglio, a ricoprire tutto di una patina fatta di bizzarri surrealismi immaginativi e vagamente
psichedelici. L'estetica della tazzulella e cafè e quella dell'LSD che si fondono insieme, strizzando di
continuo l'occhio allo spettatore.
Ma parlavamo di coperte. E allora non si può non constatare che sotto il gradevole abito indossato, La
kryptonite nella borsa nasconde un'ossatura esile, ai limiti del fragile. Né singolare coming of age del
bambino Peppino (comunque centro gravitazionale del film) né reale vicenda corale che tocchi con la
dovuta attenzione le parabole narrative dei singoli familiari, il film di Cotroneo pare curiosamente incerto
su cosa (e come) raccontare, finendo con l’appiattirsi sull'elogio della differenza nel primo caso e su
una nostalgica rivendicazione del diritto alla libertà di scelta.
La kryptonite nella borsa diventa allora un assemblaggio di episodi, quasi di sketch, magari
singolarmente anche riusciti, ma mancanti di un vero collante e di un trait d’union narrativo. E la singola
battuta, l'esplosione improvvisa di una bolla surreale o la canzonetta giusta al punto giusto sono
espressioni di programmatica carineria più che di un progetto estetico organico e sentito.