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Il coma di Biancaneve1
Snow White’s Coma
Daniela Zylberman1
Riassunto
L’utilizzo della favola per sanare problematiche di tipo medico risale al tardo Medio
Evo. La favola infatti veniva utilizzata nei momenti di socializzazione, in cui tramite un
cantastorie si celebrava un importante evento. Egli aveva infatti la funzione di mediatore fra questioni politiche, intellettuali e ludiche; mostrando l’uomo nella sua totalità. Il
presente lavoro si pone l’obiettivo di affrontare le tematiche riguardanti gli stati vegetativi da un punto di vista razionale ed emotivo, unendo il rigore scientifico al senso
comune. Il linguaggio delle fiabe consente di riflettere sui contenuti emotivi e di evocare le sensazioni primitive legate alle malattie di tipo vegetativo.
Parole chiave
Favola, stati vegetativi, cantastorie, emozione.
Abstract
Tales were used during Middle Ages to heal medical problems. In fact the tale was used
in social events and celebrated by ballad singer. The ballad singer mediates the relationship between political, intellectual and ludic themes; showing the human being in
all its features. The present work aims to show degenerative diseases by relational and
emotional point of view throught scientific and no-scientifc method. Tale’s language allows to reflect about emotional contents and to evoke primitive sensations connected to
vegetative deseases.
Keywords
Tale, vegetative deseases, ballad singer, emotion.
Introduzione
Perché una favola? Ci si chiederà quale attinenza possano avere le argomentazioni della
fantasia con i concetti e le competenze della scienza medica che tanti illustri esperti
hanno ampiamente discusso in questa Tavola Rotonda. La scelta di trattare dulcis in
1
L'articolo è già stato pubblicato agli Atti della Tavola Rotonda "LO STATO VEGETATIVO", svoltasi
nel 1998 a cura del DIPARTIMENTO SCIENZE MOTORIE E RIABILITATIVE DELL'UNIVERSITÁ
DI GENOVA, presso il Polo Didattico Permanente dell'Istituto S. Anna - Crotone.
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fundo una favola riflette un antico schema organizzativo, adottato fin dal tardo Medio
Evo, in occasione di importanti riunioni a carattere sociale, politico e religioso. I sovrani
illuminati avevano l’abitudine di tenere presso le loro corti un giullare o un cantastorie,
che apparentemente aveva solo il compito di intrattenere e divertire gli ospiti, ma in
realtà, sciogliendo le tensioni, consentiva di rafforzare vincoli di solidarietà, di suggellare accordi e soprattutto di celebrare, con un rituale, la straordinaria importanza di un
evento. Il cantastorie aveva un ruolo marginale ma estremamente delicato, quello di avviare un processo di integrazione tra l’attività intellettuale e le esigenze emotive degli
individui. Inoltre esprimeva e divulgava, attraverso la semplicità dello spirito ludico, significati e messaggi di grande utilità sociale non altrimenti accessibili per l’uomo della
strada.
Nell’affrontare qualsiasi argomento, anche se complesso, usava un unico denominatore:
l’uomo in quanto tale.
In questo convegno, nel quale sono confluite conoscenze vaste e specifiche, soprattutto
maturate attraverso esperienze reali nel campo di una terribile malattia, il ruolo di chi
non è addetto ai lavori non può che essere quello del cantastorie. La sua funzione consiste nell’attraversare il territorio tra due mondi che sembrano molto distanti: quello
dell’uomo di scienza, in cui albergano il rigore logico e la metodologia della ricerca, e
quello dell’uomo comune, in cui albergano l’emozione, la magia e talvolta l’aspettativa
di guarigioni miracolose. Si tratta di un percorso non privo di difficoltà, ma si può giungere a destinazione se si adotta un comune denominatore: l’uomo in quanto tale.
Molti hanno illustrato quali sono le ragioni di questa malattia, qual è la ragione della cura, qual è la ragione giuridica e la ragione sociale; il cantastorie si chiede che senso ha
la malattia. Questa è la domanda che, di fronte allo stato vegetativo o a patologie come
l’encefalite letargica, si pone inevitabilmente l’uomo comune e lo stesso medico come
uomo. Oliver Sacks (1987) in “Risvegli”, bellissimo libro a metà tra la scienza e la metafisica, si chiede infatti “qual è il senso di queste vite murate, di questa sospensione del
rapporto col mondo, di questo inquietante paesaggio arcaico, preumano, quasi preistorico, che sembra condurre al cuore oscuro dell’essere”. Quando ci troviamo a trattare il
congelamento dell’essere ciò di cui abbiamo bisogno è un approccio, un linguaggio che
sia adeguato all’argomento. Il linguaggio della scienza con i suoi modelli e concetti è
sufficiente a descrivere una situazione umana o non è invece necessario un linguaggio
simbolico fatto di metafore e figure poetiche?
Attraverso i secoli, il linguaggio dei miti e delle favole trasmette alla collettività significati universali affrontando in modo semplice e chiaro i grandi dilemmi, come ad esempio il bisogno d’amore, la paura della morte, l’esistenza di Dio. Risponde alle domande
sul mistero dell’essere e dell’esserci non con argomentazioni razionali, ma con argomentazioni fantasiose e intuitive, allo scopo di trasformare e risolvere i problemi particolari in un contesto universale. Un contesto metafisico in cui ogni nodo della trama
compone un disegno, ma per scorgere il disegno occorre fare un salto di paradigma dal
piano contingente dei meccanismi a quello trascendente del senso della vita.
La condizione elementare dell’uomo nell’universo è quella dell’essere che si esprime e
si manifesta nel divenire, cioè si tira fuori dal nulla, dall’indeterminato, e si pone in uno
spazio-tempo determinato, obbedendo alla spinta che Bergson (2002) definisce slancio
vitale. Questo slancio, che è alla base di tutta la realtà, solo nell’uomo si manifesta come
coscienza, intesa come qualità degli stati mentali e degli strati profondi dell’io, che
sfugge a qualsiasi misurazione.
Nel “Saggio sui dati immediati della coscienza” Bergson (ibidem) sottolinea il divario
tra il tempo della scienza, che è fatto di istanti diversi solo quantitativamente, reversibili, astratti e il tempo della coscienza, ovvero della vita, che è fatto di istanti qualitativamente diversi, irreversibili, concreti e interiori. La qualità del tempo interno muta, cre92
sce come un gomitolo di filo e regola il rapporto dell’uomo con il mondo. Tutti sappiamo che un minuto di dolore sembra interminabile mentre un minuto di gioia è già passato. Ognuno di noi, anche se non è malato, vive il rapporto con le coordinate spaziotempo in modo sempre problematico. Gli studi di antropologia culturale hanno messo in
luce che, a seconda della latitudine, l’uso dello spazio è inversamente proporzionale
all’uso del tempo. Ad esempio, un anglosassone dilata lo spazio, evitando il contatto
corporeo, e restringe il tempo, arrivando in anticipo agli appuntamenti; viceversa un latino-americano restringe lo spazio, cercando il contatto del corpo, e dilata il tempo, arrivando sempre in ritardo.
Se già individui sani manifestano disagi nell’uso dello spazio-tempo, c’è da chiedersi
quanto sia grande il disagio di malati costretti a vivere uno spazio ristretto che presuppone un tempo molto allungato. Se è vero che una riduzione spaziale comporta un ampliamento temporale, possiamo solo immaginare quanto sia rallentato e interminabile il
tempo interno di queste persone. La loro vita viene da noi intuita, è una vita che viene
attribuita di riflesso, quello che emerge è solo un rallentamento dello slancio vitale
dell’essere, che fluisce nel divenire non avendo più gli strumenti del riconoscimento di
sé: l’azione e l’espressione.
In queste circostanze si ripropone il problema della coscienza e del suo rapporto col
corpo, problema che comunque, sia per la filosofia che per la scienza, resta un enigma.
Come scriveva Shelling (2013) nel Sistema dell’Idealismo Trascendentale “ciò che
chiamiamo natura è un poema chiuso, ma se l’enigma si potesse svelare, vi conosceremmo l’odissea dello spirito che perennemente si cerca e perennemente fugge se stesso”. E’ importante sottolineare la qualità degli eventi psichici non per ostacolare le nuove acquisizioni della scienza in difesa della vecchia metafisica, ma per riannodare il dialogo tra filosofia e medicina in vista di una migliore interpretazione della condizione
umana. Una cosa è certa, nonostante la coscienza (o unità psichica o anima, comunque
si voglia chiamarla) non si presti ad essere calcolata secondo i parametri della scienza,
l’uomo non rinuncia a sentirne la fragranza, soprattutto quando si affacciano nel suo
universo materiale, così ben congegnato, le incognite della malattia e della morte. Cerca
allora il conforto della fede e della fantasia, se non per trovare la soluzione ai problemi,
almeno per trovare la forza di affrontarli. Questo spiega l’importanza che hanno assunto
nel corso della storia le costruzioni fantastiche, i miti e le fiabe; sono diventati un balsamo per l’anima che soffre ed ha bisogno di reintegrarsi. Non a caso nella medicina
tradizionale Indù, come prima terapia, a un individuo malato e psichicamente disorientato, veniva assegnata una fiaba che interpretava il suo particolare problema, chiariva la
natura delle sue difficoltà e indicava i modi per affrontarle.
Il linguaggio delle favole non è obiettivo e non fornisce spiegazioni, esprime semplicemente il mondo attraverso le risonanze emotive dei personaggi.
È un linguaggio antico che non si limita a raccontare una storia, ma canta una storia,
perché raccontare è come descrivere i fatti dall’esterno, cantare significa invece usare la
voce dell’anima per vivere le situazioni dall’interno.
Tale linguaggio ben si presta ad evocare le condizioni dei malati in coma, perché non si
tratta di una malattia qualsiasi, che lascia intatta la possibilità di comprensione razionale, è una malattia che porta l’uomo a regredire ad uno stadio primitivo. I sistemi da cui è
regolato il suo rapporto col mondo sono arcaici, pertanto la favola non ha la pretesa di
definirli né di essere recepita dal malato stesso, semmai ha l’obiettivo di fornire
un’occasione di riflessione e di conforto a tutti coloro che, medici o familiari, si rapportano quotidianamente e coraggiosamente all’impenetrabilità di questa malattia.
Con un pizzico di retorica si possono definire dei pionieri in una terra di nessuno e, come i pionieri, per avanzare, hanno sviluppato forti motivazioni. Questo intervento ha lo
scopo di riconoscerle ed evidenziarle attraverso alcuni spunti estrapolati dal mito e dalle
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favole, senza presumere di illustrare esaurientemente le valenze culturali di un argomento così vasto, ma soltanto di individuarne le risonanze umane.
La selezione degli argomenti da trattare è sempre difficile e in questo caso resta comunque arbitraria perché sono innumerevoli i percorsi letterari e filosofici antichi e moderni,
che descrivono un sonno simile alla morte e un risveglio che porta una nuova consapevolezza di vita.
Per citarne alcuni: il Mito di Er nella Repubblica di Platone, in cui l’eroe, caduto in battaglia, rimane come morto per dodici giorni e, al suo risveglio, racconta agli altri la sorte
che li attende nell’aldilà, cioè la scelta del proprio destino nella successiva reincarnazione; il sonno di Parsifal, in prossimità del castello del Graal; il sonno di Pinocchio,
che nella favola di Collodi precede la trasformazione da burattino a bambino; il sonno
dell’opossum, che nella tradizione sciamanica degli Indiani d’America si finge morto
quando tutto il resto fallisce; il Bardo (o transito, o esistenza intermedia) nel Libro Tibetano dei morti. La lista di esempi potrebbe continuare a lungo, fino ad includere la celeberrima morte e resurrezione di Lazzaro nel Vangelo.
Ma ciò che conta è circoscrivere quelle immagini, quegli stati d’animo, quelle suggestioni, che accompagnano il silenzio devastante di questi malati e consentono di immedesimarsi nelle condizioni dei medici, degli operatori sanitari e soprattutto dei parenti,
che vivono questo dramma come personaggi principali. Noi siamo venuti qui a narrare
una storia, la storia dello stato vegetativo e questa non è la solita storia che ha una trama semplice, discorsiva, è una storia che, per disgrazia, contiene tante microstorie, è
una scatola cinese. Chi ha letto Risvegli sa benissimo che, in una buona parte del libro,
Sacks va per storie: la storia di Leonard L., la storia di Rosa R., la storia di Tina L., piccole storie individuali spesso non a lieto fine. Storie fatte di lunghi sonni senza risveglio, oppure di risvegli che sono autentiche tribolazioni, poiché a volte il malato apre gli
occhi in una terra sconosciuta, l’universo che c’era prima è scomparso irrimediabilmente sia per lui che per quelli che lo circondano. Sono comunque storie di sogni infranti, di
incubi inenarrabili e di dolori reali, storie i cui protagonisti sembrano lontani dagli eroi
dei miti e delle fiabe, tuttavia una cosa li accomuna: “la meraviglia dell’essere che lotta
per ottenere e conservare un’identità”(Sacks, 1987). Avvicinarsi a questi malati è come
percorrere una landa deserta in cui vengono a mancare i consueti punti di riferimento e
si è costretti ad attingere alle risorse di una profonda natura istintiva. Allora, come
nell’antica favola de “La Lupa”, raccogliamo nella caverna le ossa, cioè quello che resta
delle creature morte, e cantando una storia speriamo di riportarle in vita.
Nel vasto repertorio di storie che si possono prestare a questo rituale, due esemplificano
in modo suggestivo la condizione di isolamento provocato dal coma e indicano alcuni
valori universali a cui appellarsi nell’interazione con esso: il Mito di Eros e Psiche e la
Favola di Biancaneve (Grimm & Grimm, 1989).
La scelta di questi argomenti non vuole essere limitante e tantomeno esaustiva, vuole
solo indicare una traccia, un filo interno di collegamento tra il linguaggio della scienza
medica e quello delle scienze umane.
Il Mito di Eros e Psiche
Attraverso questo mito è possibile leggere in chiave analogica le tappe dei nostri processi interiori di fronte a una malattia così grave. Già nel titolo vengono definiti i mezzi
che abbiamo a disposizione per combatterla: scienza e affettività, ovvero i nostri modelli razionali, i nostri concetti, il nostro metodo, ma anche tanto amore.
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Secondo il mito, Psiche, bellissima principessa, deve essere sacrificata per decreto di un
oracolo; viene quindi esposta su una rupe dove nottetempo sarebbe passato un mostro a
ghermirla.
La divinità dell’Olimpo vuole che un dolce vento la trasporti in una reggia e qui, nel
buio, viene raggiunta da Eros. Il giovane la sposa a condizione che lei non gli veda mai
il volto, perché qualora fosse stata rivelata la sua identità si sarebbe dileguato. Ma Psiche vuole scoprire chi ha vicino e le sorelle le suggeriscono di prendere una lanterna per
vedere il volto di Eros mentre dorme. La fanciulla segue il loro consiglio, però lascia
cadere dalla lanterna una macchia d’olio sulla spalla di Eros, che si sveglia e si dilegua.
Con lui si dilegua un universo, qualcosa che lei comunque aveva acquisito.
La serie di modalità con le quali Psiche reagisce a questa situazione contiene importanti
indicazioni simboliche per i medici, gli operatori e i familiari dei malati in coma.
La prima reazione dell’eroina esprime lo schema di un comportamento sintomatico seguito dall’umanità quando è in preda alla disperazione. L’impulso iniziale è quello di
recarsi al fiume e uccidersi, ma incontra il dio Pan che la dissuade dal suo proposito.
Non a caso la prima emozione che incontriamo nelle disgrazie è proprio il panico (ciò
che è relativo al dio Pan), un’improvvisa sensazione di sgomento, che può spingere ad
atti inconsulti e tuttavia costituisce anche una fisiologica valvola di scarico alle forti
tensioni. Pan rappresenta un sano istinto di radicamento e Psiche viene aiutata a ricollegarsi con la terra, a tornare in sé e ricomporsi. Comincia allora a cercare una soluzione
al problema e il dio le suggerisce di recarsi a pregare sull’altare di Eros.
Tutti sappiamo che, quando una terribile disgrazia colpisce un nostro congiunto, per
prima cosa ci chiediamo “perché proprio a me” e siamo anche spinti da un atteggiamento di ribellione a non credere più in Dio. Ma la storia viene ad insegnarci questo: per
ironia della sorte, dobbiamo andare proprio da quel Dio che ci ha ferito e sembra averci
abbandonato. Così Psiche gira, come tanti parenti dei malati in stato vegetativo, da un
altare all’altro finché non capisce che, se vuole avere una possibilità di uscire dalla sofferenza, deve andare a chiedere aiuto ad Afrodite, la sua rivale. Afrodite si configura
come una divinità terrifica, “amara e tirannica” che le risponde: “non c’è più posto per
te in questo mondo normale, d’ora in poi sarai obbligata a svolgere compiti più umili
nella scala sociale”. Quanti genitori dei malati hanno sentito pronunciare simili sentenze, valga ad esempio la testimonianza del papà di Edoardo, che nel suo viaggio intorno
al coma è approdato, con grande dispendio economico, ad un famoso specialista ed ha
ricevuto una sola, laconica risposta: “Suo figlio deve morire”. Oggi Edoardo è fuori dal
coma, ma c’è da chiedersi se suo padre sia già uscito dalla dolorosa sensazione di impotenza e annientamento che quella risposta ha generato.
Purtroppo la disperazione è una tappa obbligata di queste vicende, ma il mito ci fa capire che proprio nella disperazione, in questo “arido spiazzo”, Psiche può maturare i quattro famosi compiti che servono alla sua liberazione.
- primo compito: separare, prima di notte, una grande quantità di semi di specie diverse.
La fanciulla riesce a portare a termine questa difficile operazione grazie alla sua eccezionale capacità di analizzare e differenziare gli elementi. Il simbolismo si può esplicitamente correlare all’attività del medico che, al primo impatto con questo tipo di malattia, si assume sia il compito di condurre un’accurata analisi clinica, differenziando in
tutti i modi possibili i sintomi, sia il compito di scegliere e filtrare l’afflusso delle emozioni e degli umori che provengono dal mondo esterno. Come scrive Sacks (ibidem) si
tratta di “tenere in equilibrio due condizioni del paziente: l’assenza patologica, cioè il
coma, e la presenza patologica, cioè i problemi di un eventuale risveglio” e soprattutto
di capire che tra queste due posizioni esiste una differenza qualitativa. Si potrebbe anche
aggiungere un’altra valenza, quella di tenere in equilibrio l’assenza patologica del pa95
ziente e la presenza patologica di alcuni congiunti, che non sempre hanno gli strumenti
per reagire a tanto dolore.
Siamo di fronte a una malattia diversa, non solo diversa dalle altre, ma diversa per ciascun paziente, una malattia che nel libro di Sacks viene chiamata a ragione fantasmagoria. Il dottor McKenzie sottolinea “Il medico, a differenza del naturalista, ha a che fare
con un singolo organismo in lotta per conservare la propria identità in circostanze avverse. Lo sforzo di un essere nella sospensione del suo rapporto col mondo”.
Il coma rappresenta per tutti una sfida perché, quando decadono le strutture della personalità e il nucleo dell’ego sembra dissolversi, emerge la natura umana primordiale che
spinge a confrontarsi col problema dell’identità propria e altrui. Ci si trova, come Psiche, in un “arido spiazzo”, costretti a “ripensare che cos’è l’essere e l’esserci quando
non coincide più con l’io penso”. Si è obbligati a fare un salto di paradigma tra il conoscere e il comprendere, il guardare e il vedere, il biologico e l’umano, la personalità e
l’individualità del malato. Di conseguenza coloro che lavorano a contatto con questi pazienti sembrano sviluppare una particolare sensibilità, per cui non si regolano secondo i
canoni di un astratto sapere clinico, ma secondo quelli di una comprensione profonda
dell’individuo.
- secondo compito: Afrodite assegna a Psiche il compito di andare nel campo vicino al
fiume dove pascolano gli arieti e di impossessarsi, prima che scenda la notte, di una parte del vello d’oro. L’ariete, da sempre, rappresenta il simbolo del potere e della forza,
una forza coraggiosa e primordiale, che però può diventare distruttiva. I giunchi, che
rappresentano l’elemento più flessibile della natura, consigliano a Psiche di non andare
direttamente contro i pericolosi arieti e di accontentarsi di prendere piccoli lembi del
vello depositati sui cespugli. Qui la simbologia più importante è riferita alla cautela con
la quale il medico si avvicina a questo tipo di malati. Sa che non può pretendere tutto in
una sola volta, dosa gli stimoli che servono a ridare consapevolezza al corpo, capisce
che qualsiasi evoluzione può avvenire con una lentezza esasperante e accoglie come
grandi successi anche progressi di proporzioni millimetriche. Raccoglie pazientemente,
come Psiche, piccoli frammenti del vello d’oro, segue la logica che, dal punto di vista
qualitativo, una piccola parte dell’individuo vale per la riconquista del tutto; una logica
umile che rinuncia all’ariete, il potere, e conserva il vello, cioè la ragione e la comprensione. Mantiene la consapevolezza dei propri limiti e non pretende a forza risultati
straordinari anche se vive assieme ai pazienti una condizione straordinaria, quella che
prevede di “essere umani e rimanere umani pur di fronte a minacce inimmaginabili”
(ibidem).
- terzo compito: Psiche deve riempire una coppa di cristallo con l’acqua dello Stige, il
fiume sacro controllato da mostri che impediscono di avvicinarsi. Un’aquila riempie per
lei una coppa, volando al centro del fiume. Simbolicamente il fiume rappresenta la vita,
con la sua vastità, le sue correnti infide, le anse di acque stagnanti che sembrano morte.
Riempire la coppa di cristallo significa, nel nostro caso, fare affluire le funzioni vitali
nel corpo del paziente, sapendo che il contenitore è fragile e si può rompere
all’improvviso. L’indicazione riguarda l’essenza stessa della funzione del medico, che si
trova di fronte a grandi responsabilità e opera delle scelte non solo in base alle prospettive offerte dalla diagnosi e dalla farmacopea (il vasto fiume), ma soprattutto in base a
una visione d’insieme e alla capacità di mettere a fuoco, come l’aquila, un unico punto.
Sceglie di fare una cosa alla volta e di farla bene, nell’ordine appropriato; capisce che,
in questo tipo di malattia, è la significatività del gesto che è diversa. Infine, sa che le acque morte dipendono dalla prospettiva dalla quale si guarda il fiume e che anche in queste pozze di acqua stagnante la vita non è chiusa, il risveglio è possibile.
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- quarto ed ultimo compito: prevede che Psiche si rechi nell’oltretomba. Deve andare da
Persefone, regina degli Inferi, prendere un cofanetto contenente l’unguento della bellezza e tornare indietro senza rimanere uccisa. È un compito molto difficile, ma anche questa volta l’eroina riceve aiuto, una Torre le dà una serie di consigli: deve tenere in bocca
due monete per il traghettatore, che le farà attraversare lo Stige, e nelle mani due pezzi
di pane d’orzo per il Cerbero, che sorveglia la porta dell’inferno; non deve cedere alla
tentazione di aiutare le persone che trova sul suo percorso, cioè uno zoppo, un moribondo e tre donne, che sono impegnate nella tessitura del destino; una volta giunta
all’inferno deve mangiare poco e solo cibo semplice; infine, sulla via del ritorno, deve
ripetere le stesse operazioni. Queste simbologie forniscono espliciti suggerimenti circa
l’atteggiamento che devono tenere medici, operatori e familiari quando compiono un
viaggio nell’inferno di tale malattia. In effetti, il malato in stato vegetativo si trova nella
condizione di chi rimane incagliato nell’oltretomba e coloro che vogliono portarlo fuori
devono seguire le indicazioni di una torre, cioè seguire un sistema, un costrutto, un insieme di regole scientifiche e umane. Le monete e il pane d’orzo indicano la necessità di
possedere l’energia, cioè le risorse economiche e professionali sufficienti ad intraprendere il viaggio, pronti ad arrivare fino in fondo, a pagare il pedaggio al traghettatore.
Chi opera nelle Unità di Risveglio, conosce bene questi meccanismi e sa quante risorse
personali e finanziarie occorre mettere a disposizione, quanti Cerberi o cavilli burocratici, bisogna affrontare per realizzare un progetto di riabilitazione dei malati.
Il consiglio di rifiutare aiuto allo zoppo e al moribondo rappresenta la necessità di frenare una generosità eccessiva, che porta ad essere troppo disponibili e identificati con la
condizione del paziente a scapito dell’obiettività terapeutica. Evidenzia anche la capacità di saper dire di no ad una serie di richieste poco importanti che provengono
dall’ambiente esterno. Ma l’indicazione è soprattutto quella di individuare le priorità e
dar loro la precedenza, privilegiando quotidianamente solo gli interventi mirati esclusivamente a vantaggio del malato.
Il rifiuto di tessere la trama del destino esemplifica un atteggiamento deontologico del
medico, che non deve arrestare la sua vita in funzione del lavoro, ma curare il proprio
destino per rendere un miglior servizio all’umanità; e ancora, non deve sentirsi onnipotente fino al punto da considerarsi responsabile del destino ultimo del paziente; può solo
creare le condizioni affinché questo destino si sviluppi nel migliore dei modi.
Nel mito si sottolinea che Psiche mangia poco all’inferno, solo pane e acqua, poiché
mangiare in un luogo significa stabilire legami permanenti con esso. Allo stesso modo
le persone che circondano il malato non devono legarsi all’inferno della malattia, ma
consumare insieme a lui un pasto semplice, cioè creare un legame improntato sulla sobrietà e sul rispetto della sua individualità.
Psiche, grazie ai suggerimenti della Torre, riesce ad ottenere lo scrigno contenente
l’unguento della bellezza, però sulla via del ritorno non resiste alla tentazione di aprirlo.
Dallo scrigno esce un sonno mortale che la fa stramazzare a terra: è il sonno della morte, è la regressione ad una coscienza primordiale o forse all’assenza di coscienza. La
fanciulla precipita in un limbo in attesa che Eros, il dio dell’amore, venga a strofinare
via il sonno dai suoi occhi e lo riponga nello scrigno.
Questa è la parte del mito che ha una maggiore attinenza con lo stato vegetativo e con
l’aspettativa di un risveglio che genera nell’umanità un atteggiamento fideistico.
Il viaggio di Psiche nell’oltretomba è il viaggio della speranza e il ritorno a casa costituisce sempre la parte più problematica, vuoi perché il miracolo non si è verificato, vuoi
perché si è verificato solo in parte, vuoi perché si è verificato e poi è svanito.
Nel libro Risvegli questo percorso è esemplificato in modo toccante dall’esperienza del
dottor Cotzias: egli usa la dopamina ad alti dosaggi sul paziente Leonard per provocarne
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il risveglio dall’encefalite letargica; dopo grandi sforzi gli sembra di essere finalmente
riuscito a tirarlo fuori dal limbo e Leonard, risvegliato, batte sulla sua tavoletta questa
frase: “La dopamina è resurrectina e Cotzias è il Messia chimico”. Poi, quando la sperimentazione fallisce, Leonard scivola di nuovo e inesorabilmente nel sonno. Il fallimento bello e drammatico, testimoniato da Oliver Sacks, ricorda a noi tutti che per crescere è necessario sbagliare e che il progresso non sempre coincide con il successo, ma
comporta anche qualche fallimento in itinere. L’importante è continuare senza perdere il
senso della trascendenza nella medicina ovvero, come scrive Sacks, “la forma di una
medicina che trascende i medicamenti”.
La favola di Biancaneve
Tutte le favole possono fornire alcune interessanti indicazioni dell’inconscio in merito
al contegno da seguire nei momenti più difficili della vita. Ciascuno di noi segue la
traccia di una storia interna, che ha subìto un processo di identificazione con i personaggi delle favole.
La favola preferita, quella che ha avuto un impatto significativo sul nostro vissuto infantile, suscita talvolta meccanismi proiettivi che, nel tempo, codificano impercettibilmente
scelte e gusti. La sua trama diventa un programma e una risorsa dalla quale attingere soluzioni esistenziali e anche un pizzico di fantasia per rendere più sopportabili le nostre
tribolazioni. Quindi è stato arduo trovare una favola che si accostasse in modo univoco
al problema dello stato vegetativo, la malattia che rappresenta una delle più grandi tribolazioni della vita. L’unico sostegno a cui affidarsi era il potere di evocare immagini attraverso la parola e individuare una trama che, per sua connotazione, favorisse una comunicazione empatica tra coloro che vivono quotidianamente nella trincea di un male
impenetrabile.
Diverse favole raccontano di un lungo sonno e tra queste una delle più famose è La bella addormentata nel bosco. Nella sua trama l’eroina ha sicuramente un periodo di tempo dichiarato per dormire, addirittura cento anni, e per la nostra mentalità, abituata a ragionare secondo il tempo analitico di una scienza che separa, cento anni rendono meglio
una lunghezza temporale.
Ma, se ci poniamo dal punto di vista qualitativo della coscienza, questo tempo diventa,
rispetto all’eternità, un battito di ciglia e non è una condizione sufficiente a creare accostamenti più significativi di altri nella nostra trattazione. Inoltre, la Bella Addormentata
evoca un “bel dormire” e tutti sappiamo che quello di cui si tratta non è certo un bel
dormire!
Così la scelta è caduta su Biancaneve, la favola che nella stessa titolatura contiene implicitamente un’assonanza con il candore e il congelamento ontologico. Nella storia si
evidenziano alcune componenti che possono creare efficaci risonanze emotive intorno al
problema del coma.
- L’innocenza giovanile: l’esuberanza e l’aspirazione all’indipendenza degli adolescenti
creano normalmente conflitti generazionali e talvolta - vedi il caso della matrigna nella
favola - vengono avvertite dai genitori come una minaccia e trasformate in competitività
e distacco. Questo taglio del cordone ombelicale, fisiologico e necessario nel processo
di maturazione, si esprime in un atteggiamento di rifiuto del codice comportamentale
degli adulti. I ragazzi cercano esperienze di prima mano e attraversano una fase di iperattività che spesso si manifesta come incoscienza e pulsione di morte propria e altrui (a
questo proposito esistono interessanti ricerche sull’insorgenza del carcinoma in genitori
con figli adolescenti). Creano, in modo inconsapevole, situazioni che li espongono
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maggiormente al rischio di incidenti con trauma cranico. Come Biancaneve, vanno verso la vita per gustare la mela, ma questa risulta avvelenata e scivolano verso il coma.
- Lo specchio, ovvero il principio di riflessione: al di là del significato che il termine ha
nel linguaggio ordinario e dell’uso che ne fa la matrigna nella favola, lo specchio esprime simbolicamente l’attività del pensiero e la necessità per un genitore di riflettere sul
rapporto con il figlio quando cominciano a rivelarsi inadeguate le proiezioni e le aspettative che ha creato nei suoi confronti. Questa attività riflessiva, che è carente nei giovani - non a caso Biancaneve non ha uno specchio - diventa dominante nel medico, che è
alla continua ricerca di soluzioni terapeutiche, ed è destinata ad intensificarsi nei genitori dei ragazzi in coma, che si devono confrontare con un incessante e doloroso dialogo
interno.
- I sette nani: la presenza di questi piccoli uomini nella storia può essere la connotazione emblematica di una serie di simbolismi. Per cominciare, il loro numero non è casuale, perché il sette, secondo la più antica tradizione filosofica, rappresenta l’iniziazione,
l’elevazione spirituale. È un numero che di solito quantifica le cose importanti: sette
sono i giorni della creazione, sette sono le note, sette i re di Roma e via discorrendo, ma
nel nostro caso potrebbe designare le conseguenze nefaste dei sette vizi capitali e il valore di sostegno morale che hanno le sette virtù.
Inoltre i nani rappresentano il blocco permanente dell’organismo ad un livello di sviluppo che precede la maturità umana: sono esseri asessuati, non si sposano e non hanno
figli, cioè non stabiliscono una normale vita di relazione da adulti; le loro funzioni vitali, come mangiare, bere e agire, sono ridotte.
È noto che quando Biancaneve entra nella loro casetta si trova scomoda, mangia soltanto un boccone dai loro piatti, beve solo una goccia da ciascun bicchiere, è costretta a sedersi su una seggiolina e a servirsi di un coltellino. Il loro status rappresenta in modo
chiaro il blocco o la riduzione delle funzioni vitali che costituiscono il problema dominante dei pazienti in stato vegetativo.
I nani non conoscono ricreazione o svaghi, hanno solo una condizione esistenziale - il
lavoro e la fatica - e purtroppo questa diventa, più o meno, la condizione standard di tutti coloro che sono a contatto con una malattia estenuante.
La favola specifica che fanno i minatori, sono talmente piccoli che grazie alle loro ridotte proporzioni possono entrare nelle buie cavità della montagna e portare fuori gemme e
metalli preziosi. Anche i malati entrano nei buchi neri della malattia, regredendo ad uno
stato di sospensione e di isolamento. In qualche modo medici e familiari devono seguirli
dentro questi stretti cunicoli, per riportare faticosamente in superficie quanto di più prezioso la malattia ha sepolto.
- Il coma: tema centrale della favola è il lungo sonno di Biancaneve che cade a terra
come morta, dopo aver assaggiato la mela stregata. Un pezzo di questo frutto le ostruisce la gola, il canale della parola rimane bloccato e il corpo diventa immobile. I nani,
dopo aver tentato inutilmente di rianimarla, la mettono in una cassa di cristallo e la vegliano insieme agli uccellini del bosco. La simbologia esprime la condizione classica
dello stato vegetativo: il rapporto con il mondo sembra interrotto, la cassa non ha uscite,
ma è fatta di cristallo, perciò lascia comunque la possibilità di vedere e di essere visti.
Questo status viene tratteggiato dal paziente Leonard con la frase: “Sono intrappolato in
me stesso. Questo stupido corpo è una prigione con finestre, ma senza porte”.
Quanto alla presenza degli uccellini del bosco, esemplifica sia la sopravvivenza di una
forma di vita animale, sia una specifica tendenza che si sviluppa nell’umanità di fronte a
circostanze drammatiche. Tutti ci appelliamo a qualcosa che sta in alto, in cielo, che può
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volare, cioè fare quello che noi non possiamo fare. La metafora suggerisce anche di
cambiare prospettiva e di elevarsi sul piano metafisico per attingere non solo consolazione, ma anche nuove idee su come rapportarsi al problema fisico. Infatti gli uccellini
rappresentano tre virtù: il gufo incarna la saggezza, il corvo la consapevolezza e la colomba l’amore.
- Il dilemma: Biancaneve cessa di esprimersi ma è fisicamente presente e vive attraverso la memoria affettiva dei frequentatori del bosco. Quindi è presente solo di riflesso,
ma è ancora parte del mondo come lo sono i nani e gli uccellini. La sua condizione, che
si potrebbe definire come una forma vicariante di appartenenza al contesto sociale, viene stigmatizzata da una frase formulata dal paziente Leonard il quale batte sulla tavoletta di scrittura: “Sono parte del mondo, la mia malattia e la mia deformità sono parte del
mondo. A loro modo sono belle come un nano e un rospo”.
Si pone dunque il dilemma di come comportarsi di fronte a un individuo che è divenuto
un’incognita.
E’ per sciogliere tale dilemma che ci siamo riuniti intorno ad una tavola rotonda quasi a
cercare la coppa del nostro santo Graal. Stiamo tentando di scioglierlo attraverso una
serie di proposte terapeutiche, giuridiche, sociali e ci chiediamo se sia legittimo spegnere l’interruttore che collega il filo della vita.
La favola accenna in proposito all’atteggiamento adottato dai nani: quando capiscono
che per Biancaneve non ci sono più cinture da slacciare né mezzi di rianimazione, semplicemente, accettano e aspettano.
- Il risveglio: il risveglio di Biancaneve è fortuito. Mentre la cassa di cristallo viene trasportata per ordine del principe, uno dei servi inciampa, provoca una scossa e fa uscire
il pezzo di mela avvelenata che ostruiva la gola della fanciulla. Queste circostanze si
possono ricollegare analogicamente al problema del coma; difatti il risveglio è sempre
fortuito, nessuno può sapere se e quando il malato si sveglierà.
Nella favola, però, è espressa anche un’altra metafora confortante: il principe vede
Biancaneve e se ne innamora durante una battuta di caccia, cioè mentre svolge l’attività
di una élite e nello stesso tempo provvede ai bisogni alimentari della sua comunità. Il
personaggio incarna l’aristocrazia del sapere e la forza dell’amore indispensabili a creare le condizioni del risveglio.
Anche la medicina crea tali condizioni nel momento in cui unisce alle conoscenze scientifiche la dedizione e la pratica d’amore nelle corsie.
Il medico è il principe cacciatore, che svolge un lavoro d’élite e il suo talento nel cacciare si manifesta sia come capacità di mettersi al servizio dei bisogni più importanti della
collettività, sia come abnegazione nello sforzo di eliminare la bestialità della malattia e
restituire all’uomo la dignità del corpo e della mente. È soprattutto il suo amore che crea
le condizioni alchemiche del risveglio. Questo è un amore di tipo speciale, perché dà il
coraggio di sopportare quel che si vede senza distogliere lo sguardo e di fare quello che
si sa fare finché è possibile. Per citare una frase tratta dagli insegnamenti degli Esseni “è
un amore con il quale non si tergiversa e non consente al cuore di andare per il sentiero delle scuse”.
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Docente di Filosofia e Scienze umane.
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