Ernesto Ferrero, La misteriosa storia del papiro di Artemidoro

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Ernesto Ferrero, La misteriosa storia del papiro di Artemidoro
Ernesto Ferrero, La misteriosa storia del papiro di Artemidoro, Einaudi,
Torino 2006, pp. 136, € 9.00 ISBN 88-06-18368-0 (a cura di Vincenzo
Blasi)
La storia di Artemidoro e del famoso «papiro» è
diventata anche un romanzo. Commissionato dalla
Compagnia di San Paolo, prima di essere
pubblicato nei Tascabili Einaudi, era uscito come
allegato del quotidiano torinese “La Stampa”. Per
stessa ammissione dell’autore, si tratta di una
«libera reinvenzione narrativa di fatti veri». I fatti
sarebbero quelli legati alle vicende biografiche del
geografo efesino, vissuto nel II secolo a.C., e
all’avventuroso recupero del papiro: dalle origini
al molteplice utilizzo come supporto di altro
genere, dalla vendita in Europa alle peripezie che
avrebbe affrontato prima di arrivare fino a noi.
Ma in realtà i fatti certi e documentati sono
esigui. Poco si sa di Artemidoro, se non da fonti
indirette come Strabone e Marciano di Eraclea.
Formatosi ad Efeso, passata sotto il governo
romano, coltivava interessi geografici, etnografici
e scientifici. Ad Alessandria ebbe modo di assimilare il patrimonio di conoscenze della
Biblioteca e, attraverso la lettura delle opere di antichi geografi e scienziati, riuscì ad
affinare le proprie tecniche di misurazione e di viaggio. Altrettanto scarse sono le
notizie sulla «pratica quotidiana» e sulle consuetudini artistiche delle botteghe d’arte del
periodo incaricate di realizzare e utilizzare i papiri. Come dire, ci sono tutti i presupposti
e lo spazio necessario per innescare un meccanismo narrativo.
Nella prima parte del testo, Memorie di Artemidoro, il vecchio geografo racconta
in prima persona la storia della propria vita: i viaggi avventurosi, gli incontri con culture
e popoli lontani, e la permanenza ad Alessandria d’Egitto, «città degli astronomi e
matematici», patria adottiva. Sotto la premurosa devozione dello schiavo Stazio ricorda
con nostalgia la propria giovinezza ad Efeso, la città «terragna» affacciata sul mare; il
padre, anch’egli «terragno», la madre che personificava il vento e lui che riconosceva
nell’acqua il proprio elemento naturale. E poi gli studi e il maestro Timoleo di Samo,
l’amore per le scienze esatte, il desiderio di misurare il mondo e le distanze siderali, la
necessità di avventurarsi in ciò che non era esplorato.
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Dalla sua città aveva raggiunto Roma per risolvere una contesa amministrativa
riguardante i proventi dalle imposte sulla pesca alla foce del Caistro. Roma non era
Efeso, né Alessandria. Priva di un regolare impianto urbanistico, cresceva nel disordine
degli empori, con le case alte e basse, le insulae e le botteghe che si accavallavano.
Plebe e stranieri, patrizi e plebei non si frequentavano. Gruppi e quartieri erano estranei
gli uni agli altri, eppure ogni tanto erano costretti a incontrarsi, ai giochi del Circo
Massimo o al Foro, il vero teatro di Roma.
Dopo il ritorno ad Efeso aveva intrapreso il viaggio verso l’Iberia, ossia «l’ultimo
lembo di terra conosciuta prima della grande distesa del mare Oceano». Omero avrebbe
collocato proprio in Turdetania (l’attuale Andalusia) i Campi Elisi; a Gadeira, Eracle
aveva posto le sue colonne.
È qui che Artemidoro era stato raggiunto dall’invito ufficiale della corte tolemaica
di Alessandria. Navigando lungo le coste cartaginesi e libiche, raggiunse la grande
capitale. Il Faro in lontananza non lasciava dubbi sulla esattezza della rotta. I palazzi
reali affacciati sul mare, il Teatro e il Ginnasio, i templi di Dioniso, Iside e Serapis. E
poi il Museion e la Biblioteca, la più grande biblioteca del mondo, sorta in una città che
conosceva pochi libri ma produceva i papiri.
Durante i viaggi Artemidoro aveva raccolto le descrizioni dei luoghi, le notizie sui
costumi delle genti incontrate; aveva accumulato sulle tavolette il nome di decine e
centinai di popoli, città e fiumi larghi e navigabili. Ma non aveva mai dimenticato gli
odori e i sapori della giovinezza di Efeso. Un geografo – lo aveva ammonito il maestro
Timolo – non deve avere sentimenti. Ma nonostante il suo impegno, quell’elenco di
popoli e di città steso con cura «non era diverso dall’indistinto canto notturno di mia
madre sulle colline di Efeso».
La seconda parte del testo, Il papiro, segue le peripezie del celebre documento
che, secondo una pratica quotidiana molto comune, sarebbe passato attraverso le vari
botteghe d’arte del periodo. Per il suo racconto, l’autore trae ispirazione da una
movimentata vicenda – nota come «teoria delle tre vite» – che spiegherebbe la singolare
e straordinaria compresenza sulla superficie del papiro di scrittura e immagini. Il papiro
doveva essere destinato ad una pregiata edizione di un’opera andata perduta, la
Geografia, che avrebbe dovuto contenere il testo e le mappe. Preceduta da un ampio
proemio sulla metodologia geografica, la parte pervenuta conteneva la descrizione della
Iberia (qui nominata per la prima volta come Hispania) accompagnata da una cartina
che riproduceva verosimilmente la Betica o Turdetania (l’odierna Andalusia). Alla
destra del testo, un ampio spazio vuoto, probabilmente destinato ad accogliere un’altra
cartina.
Ma il lavoro non fu mai concluso. E nel corso dei secoli il papiro venne perciò
reimpiegato. Secondo Salvatore Settis – già direttore della Normale di Pisa e autore del
saggio Il papiro di Artemidoro: un libro di bottega e la storia dell’arte classica – il
documento sarebbe l’antica prova dell’esistenza dei cosiddetti «disegni a progetto» che
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precedevano la realizzazione di decorazioni parietali e musive. Dapprima venne
utilizzato il verso, sul quale furono raffigurati animali di ogni specie, reali o fantastici.
Quando il verso fu completamente coperto di disegni, toccò al recto che, fino a tutto il I
sec. d.C., si riempì in ogni spazio disponibile. Comparvero studi di mani e piedi in ogni
posizione e da diverse prospettive, ritratti di uomini o più probabilmente divinità, eroi,
sovrani, forse poeti e filosofi: si trattava probabilmente di esercitazioni eseguite dagli
allievi del laboratorio.
Venuta meno la sua utilità pratica, negli ultimi decenni del I sec. d.C. il papiro
sarebbe finito in un ammasso di altri rotoli abbandonati che ospitavano vari documenti
amministrativi e burocratici. Secondo l’uso del tempo, quei materiali di scarico, fatti a
pezzi servivano per la costruzione del supporto cartonato, la cartapesta trattata con colla
e gesso, che costituiva la base di modeste maschere funerarie.
In questa seconda parte del romanzo la narrazione corre parallela alle vicissitudini
del papiro. L’autore dà voce ai protagonisti, veri o immaginati, della vicenda. Ad ogni
capitolo muta il punto di osservazione. Il testimone delle vicende coincide esattamente
con l’io narrante, ossia con l’artista che ha fra le mani le mani il papiro.
Ed ecco che ci ritroviamo ad Alessandria, nel 30 a.C., nella bottega di scrittura
dove lavora Demetrio, nipote di Stazio, il servo fedele di Artemidoro. «Diventato
copista per imitazione e tradizione famigliare», si ritrova tra le mani il secondo libro
della Geografia di Artemidoro, il libro che gli consentirà di conoscere tutti quei posti
che non potrà visitare.
Dopo la copiatura dei primi due capitoli il papiro passa alla bottega dei pittori. Su
di esso l’apprendista Horo si esercita a disegnare animali, veri e immaginari: la lince, la
capra, il pellicano, lo struzzo, la tigre, il camelopàrdalos, ma anche il pesce volante con
la testa di falco, il leone alato con la testa di cane, un tonno-sega dalla coda piena di
aculei.
Ci spostiamo poi intorno al 60 d.C. Seguiamo le vicende dell’apprendista scultore
Silanos, nipote di Horo, che frequenta la stessa bottega del nonno. Qui gli allievi si sono
specializzati nella creazione di figure umane. Ma prima hanno dovuto apprendere le
tecniche di base del disegno. Riproducevano per tutto il giorno le figure di Afrodite,
Eracle, Pan, Apollo, Zeus, Dioniso, e i particolari anatomici, soprattutto mani e piedi
che, rispetto ai volti, sono più difficili da realizzare. Per i suoi disegni, Silanos può
utilizzare lo spazio all’inizio del rotolo tratto dalla scaffale più alto.
Alla morte del padre, Eirene commissiona una maschera funeraria. Insieme ad
altri papiri più umili, il papiro di Artemidoro viene fatto a pezzi da un vecchio artigiano
e amalgamato con colla e gesso. Diventa la base per plasmare la maschera votiva sulla
quale Eirene può dipingere il ritratto del padre.
Ai giorni nostri, un collezionista tedesco di Treviri, appassionato dell’Egitto
ellenistico, acquista la maschera. Cerca di decifrare quegli occhi malinconici. Con gli
anni intorno al viso emergono i segni di una scrittura che chiede di essere liberata.
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Le ultime vicende del papiro sono ormai note. E non hanno a che fare con viaggi e
peripezie. Nel 2004 la Fondazione per l’Arte della Compagnia di San Paolo acquistò il
papiro, che venne trasferito presso il laboratorio di Papirologia dell’Università di
Milano. Qui Claudio Gallazzi, papirologo presso l’Università di Milano, e Salvatore
Settis ultimarono i lavori di restauro e di edizione. Il papiro fu ospitato dal museo
Egizio di Torino e fu al centro di una mostra, sempre nel capoluogo piemontese, dal
titolo Le tre vite del papiro di Artemidoro. Voci e sguardi dall’Egitto greco-romano,
curata dai due studiosi.
Da qualche anno si discute, anche con toni accesi e polemici, sull’autenticità del
documento. La querelle si è presto trasformata in uno scontro metodologico tra due
“scuole di pensiero”. La prima – cui appartengono Salvatore Settis, Claudio Gallazzi e
Bärbel Kramer, professoressa dell’Università di Treviri – ritiene che la serie di
frammenti appartenga ad un antico rotolo risalente al I secolo a.C. Questo antico
supporto conteneva l’incipit del secondo capitolo di un’opera andata perduta, la
Geografia di Artemidoro di Efeso, avente come oggetto l’Iberia. Il testo era
accompagnato da una riproduzione cartografica della Betica o Turdetania, l’odierna
Andalusia.
Di parere opposto a questa ricostruzione dei fatti è un altro gruppo di archeologi e
studiosi dell’antichità, capeggiato da Luciano Canfora che, ritornando più volte sulla
questione, ha cercato di dimostrare come il rotolo di papiro costituisca in realtà un falso.
L’autore di questa contraffazione sarebbe il greco Costantino Simonidis, geniale e
controverso falsario dell’Ottocento, noto agli studiosi per le sue imprese truffaldine.
Alla base di questa posizione la peculiarità stessa del papiro che – finito in una
maschera funeraria e da lì recuperato una trentina di anni fa – presenta accanto al testo
numerosi disegni di animali, veri e fantastici, e di particolari anatomici (mani, teste,
piedi) che sembrerebbero appartenere a epoche diverse.
Vero o falso che sia, poco importa. All’autore rimane il piacere di raccontare,
sullo sfondo dell’affermazione politica di Roma, gli ultimi anni dell’Egitto ellenistico;
di mescolare le memorie dell’età dei Faraoni, il ricordo di Alessandro, le ambizioni dei
tolomei, le scoperte scientifiche, la conservazione dell’eredità classica, la febbre dei
viaggi; e di dare spazio «agli aspetti minuti della vita quotidiana e della mentalità
collettiva».
Il papiro può così vivere un’altra vita. Del resto, come racconta Demetrio il
grammateus, il copista aveva a quei tempi due modi di copiare. Poteva trascrivere
meccanicamente il testo, lettera per lettera. Oppure leggere prima, con attenzione,
quello che doveva copiare, come a guidare la composizione dell’opera. Scrivere cioè
come se fosse l’autore, intuendone e anticipandone i pensieri e le parole. Inutile dire che
Demetrio preferisse questo secondo modo, perché gli dava la possibilità di imparare e di
patire meno il peso dell’immobilità.
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