Il cavaliere, la strega, la morte e il diavolo - interno

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Il cavaliere, la strega, la morte e il diavolo - interno
Le Storie
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I racconti Il cavaliere, la strega, la Morte e il diavolo; Seravezza, Alpi Apuane, Toscana,
1526; Roma 1692; Capua 1860; Santa Maria Capua Vetere, provincia di Caserta, 1943; Una
storia come tante sono stati pubblicati sulla rivista «Inchiostro».
In copertina: Pieter Bruegel il Vecchio, Proverbi fiamminghi (1559)
Berlino, Staatliche Museen zu Berlin - Preussischer Kulturbesitz, Gemäldegalerie
Copertina di Dada Effe - Torino
© 2009 Lindau s.r.l.
corso Re Umberto 37 - 10128 Torino
Prima edizione: ottobre 2009
ISBN 978-88-7180-837-6
Silvana De Mari
IL CAVALIERE,
LA STREGA, LA MORTE
E IL DIAVOLO
Questo libro è dedicato a Mohamed Taha, sudanese, credente, paladino della libertà e della misericordia.
Questo libro è dedicato a Theo Van Gogh, olandese, libero pensatore, paladino della libertà e della misericordia.
Questo libro è dedicato ai loro assassini e tutti quelli che
li hanno applauditi, con i più calorosi e sinceri auguri
che escano dalla melma di imbecillità che li avvolge e ritrovino il pensiero, che è quello che ci rende simili a Dio,
Suoi figli e non Suoi servi.
IL CAVALIERE,
LA STREGA, LA MORTE
E IL DIAVOLO
Il cavaliere, la strega, la Morte e il diavolo
Prologo
L’assedio
I mori attaccarono poco prima del tramonto.
L’aria era caldo e polvere. Da quasi due mesi non c’era
più stata pioggia e anche la rugiada si era asciugata. Tutto
quello che poteva seccare si era seccato. Di vivo erano rimasti solo le mosche e i contadini, ma i contadini ancora per poco: la cavalleria musulmana non era mai passata alla storia
per la bontà di cuore.
La cavalleria musulmana apparve all’orizzonte prima che
il sole se ne andasse, annunciata da un gran polverone, che
sembrò all’inizio una nuvolaglia scura.
I cafoni alzarono dai campi le facce, poco più chiare di
quelle dei loro sterminatori, e guardarono l’ombra nera che
scuriva l’orizzonte.
Se si fossero trovati meno disperati e con meno fame, si
sarebbero forse stupiti di quel temporale, che oltre che tardivo era pure bizzarro: veniva dalla terra e non dal cielo, senza tuoni, né fulmini, né starnazzare di polli. Ma la stanchezza di quel loro vivere li aveva svuotati e nemmeno lo stupore li risvegliò. Quando la polvere fu abbastanza alta da co-
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prire il sole che era rosso e basso ed enorme, il clamore e gli
stendardi divennero chiari, la cavalleria mora ormai era su
di loro.
La disperazione e le bestemmie evaporarono, lasciando la
decisione ferma quanto inutile di campare ancora.
Nei minuti frenetici durante i quali si cercò di organizzare una resistenza qualsiasi, ognuno chiese misericordia al
Creatore, si scusò per le bestemmie di poco prima, la scortesia, quelle insulse dichiarazioni che, per campare così, era
meglio schiattare.
Non era vero niente. A loro campare così gli piaceva, anche così, anche da morti di fame, anche con la siccità, il freddo, il ballo di san Vito e il fuoco di sant’Antonio.
Ai contadini campare così gli piaceva: purché si campasse ancora. Purché non si crepasse subito, in quel giorno torrido che loro non volevano più che potesse essere l’ultimo e
che invece lo sarebbe stato.
Ovunque si invocò l’inestimabile dono di ancora un po’
di stenti e un po’ di miseria.
Ma il cielo restò sordo, come da sempre era sordo: per la
fame, la miseria, i figli morti bambini.
Pure quel giorno il cielo non intervenne, come sua abitudine, e la cavalleria mora macellò tutto quello che si trovò
sulla strada, con la stessa facilità e la stessa incuria di una
manata sopra un nugolo di moscerini.
Loro creparono tutti, fino all’ultimo bambino pulcioso, fino all’ultimo pollo mezzo morto di fame, persero per sempre
il diritto ad ancora un po’ di fame e di infelicità terrena.
Il cielo si coprì di una rete di nuvole sottili, tra le quali le
prime stelle cominciavano a brillare; finalmente, sulla polvere impastata di sangue, si mise a piovere.
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Dopo il volgo fu la volta dei signori. I mori attaccarono il
castello, che se ne stava un po’ più sopra, sull’unica altura
che sovrastava la piana, che in realtà non era neanche una
collina, ma era comunque qualche cosa.
Anche i signori stavano un po’ più sopra dei cafoni, un
po’ meno stracciati, un po’ meno morti di fame. Loro i calzari ce li avevano e tenevano pure, tra tutti, un cavallo, un mulo, due capre, tre conigli e undici galline.
Il castello fu attaccato che ormai era buio. La pioggia attesa da mesi cadde. Non un acquazzone pieno, ma una pioggerellina lieve e disuguale che a qualcosa servì. La paglia si
era bagnata e le micce pure, e questo fu una fortuna.
Le mura del maniero, che già prima che l’attacco cominciasse erano le più diroccate di tutta la cristianità, qualche
giorno erano in grado di resistere. Forse anche qualche settimana.
Fu la miseria che favorì l’immediatezza della distruzione.
Avevano sostituito i tetti di pietra, danneggiati dal tempo e
dall’incuria, con la paglia dei covoni, che non costava nulla.
La paglia era intrecciata insieme ai giunchi raccolti sul
greto del fiume e intonacata con la creta: era leggera, facile
da trovare, teneva l’umidità, si sostituiva con poca fatica; l’unico difetto era la sua formidabile capacità combustibile. In
parole più povere: se le si dà fuoco, la paglia brucia. Brucia
subito. Brucia dannatamente bene. Brucia talmente in fretta
che la dizione «fuoco di paglia» è stata coniata per indicare
qualcosa di violento e breve, che brucia appunto senza lasciare nulla, se non un pugnetto di cenere, come giustamente bruciano i covoni, i tetti di paglia e gli amori che non valgono niente.
Fortunatamente pioveva e per tutta la notte l’assedio si limitò a esserci, senza ulteriori danni per nessuno.
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All’alba il vento si alzò, disperse le nuvole e incominciò
ad asciugare la paglia dei tetti e le travi del portone, costituito dal ponte levatoio sollevato, dall’altra parte del fossato
asciutto che la pioggia aveva solo trasformato in fango.
I saraceni fecero un rapido conto sulle possibili ipotesi:
darsi da fare ad abbattere il portone, darsi da fare a scalare le
mura, non fare un accidente di niente e affidare il lavoro alle frecce incendiate con la pece greca, una volta che il sole di
giugno avesse fatto la cortesia di asciugare tutto. Qualcuno
fece osservare che, in qualunque bisogna, solo gli stolti faticano potendone fare a meno e la scelta fu per le frecce incendiarie.
Il giorno passò, scaldato dal sole, asciugato dal vento: le
ore furono lunghe e immobili, gli assedianti a farsi gli affari
loro, l’orizzonte vuoto di qualsiasi soccorso. Alla sera la paglia era secca e asciutta come se mai avesse conosciuto l’acqua in vita sua.
Il tramonto fu pieno di rosso e di oro. Il cielo si scurì. Le
prime frecce incendiarie si stagliarono con il caldo colore del
loro fuoco contro la luce fredda delle miriadi di stelle che
brillavano nel cielo estivo.
Alla prima freccia incendiaria che riuscì ad attecchire, il
castello si trasformò in una luminaria. La paglia prese fuoco,
e crollò su tutto quello che le sottostava: travi di legno, mobili, polli, cavalli, capre, uomini: tutte strutture combustibili,
per dirla in termini tecnici, e tutto bruciò anche se con diverse implicazioni cognitive, che tradotto in parole povere
vuol dire che i polli di cervello ne hanno meno dei cristiani
e, quindi, anche a bruciare e a vedere i propri figli crepare,
soffrono meno.
Questo successe solo a notte avanzata. In più i saraceni
erano un poco ubriachi, non per il vino, ché non ne avevano
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bevuto: a loro era vietato; ma per il sangue, per le vittorie:
tutto quel loro correre a cavallo per quella terra che altro non
aspettava che di essere conquistata con il sangue, il ferro e il
dolore.
Erano ubriachi di avere il loro Dio che combatteva con loro e che era contento della loro guerra, veramente convinti,
come tutti gli utenti di guerre giudicate sacre e sante, che Dio
sia veramente contento dei loro morti ammazzati. Chissà
perché a nessuno viene in mente mai che Dio forse ha creato
pure gli altri, quelli da sterminare.
E grazie all’ubriacatura di tempo ne impiegarono un sacco, con le micce bagnate e l’anima sbronza: impiegarono tutta quella nottata di pioggerelle, per riuscire a incendiare il
vecchio maniero.
Da dentro ebbero il tempo di scavare, con le pale e con le
mani, nella polvere che diventava fango, per la pioggia, il sudore che gli colava dalla fronte e il sangue che gli colava dalle mani.
Scavarono alla luce delle frecce incendiarie. Mentre i primi tetti cominciavano a bruciare, si completò una galleria da
talpa che passava sotto le mura di cinta e finiva in quello che,
se ci fosse stata l’acqua dentro, sarebbe stato il fossato, e che
era vuoto sia per la siccità che per l’incuria, e fu una fortuna,
perché così i fuggiaschi non si annegarono, ma restarono nascosti dall’ombra delle ciliate e si poterono salvare.
Nessun uomo e nessuna donna poterono infilarsi nel buco, ma i bambini sì e loro scamparono al rogo.
Si salvarono Baldassarre che aveva i vermi, Girolamo che
aveva i piedi piatti e lei, Beatrice Adalguisa Matilda Antenora, che per fare prima chiamavano Bradamante.
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Era lei che sarebbe poi diventata il flagello degli infedeli,
la loro croce, perché lei li combatté con tutte le sue forze, fino a che anche lei non fu colpita al cuore da un saraceno e allora il mondo cambiò.
Lei, Beatrice Adalguisa Matilda Antenora, detta Bradamante, in quella notte di fuoco e di fango, sdraiata con due
bambini più piccoli di lei, sotto la ciliata del fossato, mentre
i suoi bruciavano vivi e i saraceni inneggiavano al loro Dio,
giurò che avrebbe avuto vendetta o sarebbe morta nel tentativo; giurò che mai, finché aveva vita, altro avrebbe fatto che
sterminare saraceni.
La notte fu lunga e terribile: loro se ne stavano lì con il colore del fuoco negli occhi, il suo orribile odore nelle narici, il
fracasso dell’incendio che li assordava: di continuo qualcosa
crollava, qualcosa franava; si sentivano urla; pietre cadevano
dagli spalti, non più trattenute da nessuna impalcatura. Travi infuocate li evitarono per un pelo.
Si salvò anche il cane, che si chiamava Spartaco, come
l’antico guerriero che aveva detto che la crocifissione era meglio dell’essere schiavi. Era un nome altisonante quanto ingiustificato, perché la creatura teneva paura anche della sua
ombra. In quella notte di fango e di fuoco pure Spartaco riuscì a infilarsi nel buco, ma poi scappò, si dileguò nel buio con
il suo terrore e le urla dei saraceni che lo inseguivano, e fu
una fortuna perché così non attirò con il suo abbaiare l’attenzione sul fondo del fossato.
Quando l’alba arrivò, il fuoco si spense e gli sterminatori
se ne andarono, Bradamante se ne stava nel fosso con i due
bambini più piccoli sotto di lei, e lì se ne restò anche quando
il sole fu alto e i saraceni lontani, forse per la paura, forse per
la speranza che dalle rovine si alzasse una qualche voce a
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chiamarli, a dirgli che la minestra era in tavola, che era ora
di cambiarsi i vestiti pieni di fango e della pipì che si erano
fatti addosso.
Solo al tramonto osarono alzarsi e allontanarsi; se ne andarono a cercarsi qualcosa da mangiare e un po’ d’acqua che
calmasse la loro sete infinita, con il sogno inutile nel cuore di
qualcuno che li potesse consolare. Non cercarono morti calcinati tra le macerie. Neanche si guardarono indietro. Se ne
andarono e basta. Solo quando si alzò la luna lei, Bradamante, si girò, guardò le rovine e pensò alla voce di suo padre, all’odore della pelle di sua madre: non ci sarebbero più stati;
mai più, mai più. Si ripeté ancora nella sua testa quelle due
parole: mai più, mai più. Le lacrime le scesero lungo la faccia. Se le leccò per sentirne il sapore, che le restasse impresso come quella notte di luna, quel mai più che le risuonava
nel cranio. Mai più. Mai più. Mai più. Mai più. Mai più. Mai
più. Mai più. Mai più. Mai più. Mai più. Mai più. Mai più.
Mai più. Mai più. Mai più. Mai più. Mai più. Mai più. Mai
più. Mai più.
Se ne erano andati tirando dritto, senza levare gli occhi
dal fango della strada. Neanche spostavano lo sguardo
quando le pozzanghere erano rosse per vedere che ci aveva
sanguinato, così da non aggiungere altri ricordi a quelli che
già avevano dentro e che già li stavano per soffocare.
Traversarono il loro villaggio e poi si accamparono a dormire in mezzo a un prato, sotto l’unico albero che c’era, che
era la quercia più grande della regione. Lì passarono la notte, morti di freddo, di fame, di sete, di paura. Lì prima dell’alba li ritrovò il cane, e a loro il suo quieto russare diminuì
la paura perché per combattere non combatteva, ma per
scappare era un valore, e perciò, se lui era ancora lì, voleva
dire che si poteva dormire senza tema.
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All’alba si rimisero in marcia. Lasciarono l’ombra della
quercia e traversarono un pezzo di terra bruciata e poi un altro villaggio, pieno di mosche e di morti ammazzati, e poi un
altro po’ di terra sassosa e poi un altro villaggio annientato,
poi ancora un’altra strada in mezzo ai capperi e ai fichi d’india e ancora i resti dell’ultimo dei villaggi cristiani, quello
più lontano, quello vicino al mare.
E in questa loro marcia con gli occhi fissi e bassi, che tenevano aperti solo per non inciampare, neanche videro che
tra i morti ammazzati dell’ultimo villaggio, quello dove le
onde battevano, ce ne stava pure qualcuno saraceno: sulla
spiaggia assaliti e assalitori erano in numero pari.
Nel caso se ne fossero accorti, si sarebbero stupiti che dei
pescatori fossero riusciti a resistere in qualche maniera, e poi
i nemici morti avevano gli inconfondibili segni dei colpi netti e definitivi dati da un guerriero: gli elmi e i crani erano
spaccati come meloni e puliti come sassi nel mare, senza le
ammaccature e la terra dei colpi di zappa e di roncola delle
contese contadine.
Neanche videro che mancavano le donne e i bambini.
Neanche poterono capire che non erano del tutto abbandonati e soli.
Qualcuno aveva combattuto per loro.
Il diavolo
Lui si chiamava Rhug-er Bhar-hid-Amin e veniva dalla
terra del Leone di Giuda, vale a dire dalle sorgenti del Nilo,
dall’Etiopia, da una terra che già da sempre era contesa tra
cristiani, musulmani ed ebrei.
Gli ebrei erano i figli della regina di Saba ed erano quelli
venuti per primi, e che per ultimi avrebbero avuto il loro
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Messia, perché ancora lo stavano ad aspettare. Poi erano venuti i cristiani che erano andati un po’ più avanti, ma avevano scambiato il penultimo dei profeti per un parente dell’Altissimo, neanche l’Altissimo figliasse come un cammelliere.
E finalmente la Verità, il Profeta, il Popolo dei Credenti.
Loro.
E quando si era sparsa la voce della Guerra Santa che tutti avrebbe ricondotto alla vera Fede e al vero Profeta, i guerrieri migliori avevano lasciato i villaggi in festa e le madri
piangenti e se ne erano andati a raggiungere le armate, attraverso deserti interminabili e impenetrabili paludi che già
li avevano decimati molto prima che il mar Mediterraneo si
arrivasse a vedere. E forse fu quello il motivo: erano arrivati
a metà, quando gli altri stavano in guerra da anni.
Gli altri stavano in guerra da anni e stando in guerra già di
morti ammazzati ne avevano visti a cataste: cataste di morti,
cataste di mani tagliate, cataste di teste mozzate, infiniti eserciti di vermi nelle orbite vuote, infiniti eserciti di mosche sul
sangue rappreso. La guerra era durata tanto che neanche più
si ricordavano di quando i morti gli ripugnavano, quando la
sofferenza altrui non era un divertimento, ma un dolore.
Perché quel periodo c’era stato: in tutti gli eserciti, anche
i più immondi, c’è uno spazio di pietà, all’inizio, prima che
l’abitudine abbrutisca fino alle ultime molecole dello spirito
e le atrocità diventino un passatempo.
Tanto più l’armata è costituita da figli non amati, da figli
partoriti e cresciuti solo per diventare guerrieri, lanciati poi
nel mondo come sassate, tanto più questo periodo di pietà è
breve, piccolo, limitato come un battito d’ali, come un sussulto lieve. I figli non amati possono essere formidabili guerrieri, perché non amano la vita, e inneggiano alla morte, non
solo a quella dei nemici, ma anche alla loro: la cercano come
una liberazione.
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Non era questo il caso dell’Etiopia, il regno del Leone di
Giuda, dove i figli erano amati, cresciuti come beni inestimabili, pianti come ferite incolmabili quando la malattia veniva a ghermirli, la morte veniva a portarli via.
Lui, Rhug-er Bhar-hid-Amin, non ce l’aveva ancora l’addestramento ai villaggi bruciati, alle donne sventrate, ai bambini usati per colorare di rosso gli scogli e il mare, e oltre all’addestramento era proprio la vocazione che gli mancava.
Nella terra del Leone di Giuda le regole erano altre: ci si affronta tra armati, e mai un guerriero poteva abbassare la sua
arma su un inerme, una donna, un contadino o un bambino,
mai per nessun motivo, meno che mai se fossero degli infedeli, perché nella terra del Leone di Giuda gli infedeli sono da
sempre i vicini di casa, quelli con cui si gioca da bambini.
Lungo tutta la strada fino al Mediterraneo Rhug-er Bharhid-Amin aveva visto morire uno dopo l’altro i suoi fratelli e
cugini, uccisi dalle febbri o dagli scorpioni di quel viaggio
micidiale, e quando era arrivato al mare sapeva che c’era rimasto solo lui a poter coprire di gloria la sua gente con il suo
valore.
Sulla nave dove lo avevano imbarcato lui era quello più
scuro, quello venuto da più lontano. Per tutto il tragitto, che
era stato di perplessità quando non di scherno, Rhug-er
Bhar-hid-Amin, guerriero nero, aveva giurato che si sarebbe
coperto di onore, per la sua terra oltre che per la sua fede.
Non fu così.
Alla sua prima battaglia, appena sbarcati dalla nave, in
quel villaggio di pescatori dove le onde battevano, lui non
eseguì gli ordini, perché gli ordini erano di massacrare a filo
di spada gli infedeli.
Vagò come un fantasma tra le urla e il sangue che schizzava, come si vaga nei sogni, anzi negli incubi, fino a quan-
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do arrivò davanti a una bambina che cercava di difendere il
fratello minore e che teneva in mano una piccola bambola di
paglia ritorta, con la testa di terra rossa cotta come i mattoni.
Il bambino stava contro il tronco di un albero di fichi, la bambina gli stava davanti. Con una mano spingeva il corpo del
fratello contro l’albero, per allontanarlo il più possibile dal
guerriero, con l’altra teneva la bambola. Mentre guardava
terrorizzata Rhug-er Bhar-hid-Amin, altissimo, nero, armato
fino ai denti, istintivamente, tanto per fare qualcosa, gli offrì
la bambola. Fu uno di quei gesti scemi, che uno fa tanto per
fare, perché nemmeno un bambino crede veramente che possa funzionare lo scambio di un giocattolo con la possibilità di
sopravvivere, e invece funzionò. Il saraceno la guardò, e uscì
dal sogno. Ci pensò un attimo e poi annuì lievemente, appena un accenno, e accettò lo scambio: la bambola contro la salvezza, perché, anche senza una lingua comune, il discorso
era stato chiaro. Prese la bambola, se la mise nella bisaccia,
poi estrasse la scimitarra, si girò e abbatté il guerriero che gli
stava dietro, spaccandogli il cranio come un melone.
Poi affrontò gli altri.
Li fermò.
Con la scimitarra perché altri mezzi non ce n’erano.
Ne abbatté fino a che poté, dando la possibilità alle donne e ai bambini di mettersi in salvo al di là delle colline che
li nascosero definitivamente, e poi, quando tutti i vivi erano
scappati, lasciò il campo, ancora sul cavallo e senza un graffio, e se ne andò.
Era un grande guerriero.
Per questo lo chiamavano Rhug-er Bhar-hid-Amin il
Diavolo.
Cavalcò per ore, cercando il gruppo delle donne e dei
bambini per soccorrerlo, proteggerlo e passare il tempo a
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non pensare alle cose sue. Le cose sue erano terribili. Era diventato in quel suo primo giorno, che avrebbe dovuto essere di onore e di gloria, colui che aveva impugnato le armi
contro il suo stesso popolo e la sua stessa fede.
Quel suo primo giorno di battaglia lo aveva sognato per
mesi attraverso deserti sterminati, e paludi impenetrabili,
sognato come una promessa di gloria e di onore.
In effetti un giorno di gloria era stato. La massima gloria
possibile per l’appartenente a qualsiasi armata. Non aver obbedito, non avere creduto, non avere combattuto quando il
prezzo sarebbe stato l’anima propria e i bambini altrui.
Durante quella sua prima notte da soldato sbandato ed
eroe solitario Rhug-er Bhar-hid-Amin il Diavolo non era
conscio di tutto quell’onore, altro non era che un ragazzo disperato e solo, con l’impressione di non avere più niente al
mondo se non una vita che non valeva un fico.
Vagò solo nel buio di quella notte senza luna, notte che si
prolungò, con la sua amarezza, per i giorni a venire.
La sua corazza perse ogni splendore; la buttò alle ortiche,
perché il peso era diventato insopportabile al suo corpo affamato e perché con il suo tintinnare gli rendeva ancora più
dura la caccia ai sorci che, soli, lo separavano dalla morte per
inedia.
La spada gli si spezzò, mentre cercava di accoppare una
lucertola che dormiva sopra un sasso. Il sasso si scheggiò. La
lucertola riuscì a scappare.
Il suo cavallo si azzoppò e lui lo lasciò libero lungo la via,
non avendo il coraggio di abbatterlo e mangiarselo, nonostante la fame che lo attanagliava.
I cani lo cacciavano quando si avvicinava alle case per rubare qualche gallina o un po’ di fagioli.
Per i cristiani era il Nemico, per i suoi compaesani il Traditore.
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Non aveva né accampamento né bandiera.
Divenne Rhug-er Bhar-hid-Amin il Reietto, il Cane, Vomito della Terra, Escremento del Mondo.
Un giorno, mentre si trascinava sempre più stanco, stracciato e affamato, incontrò un lebbroso lungo la via, e spaventato corse via. Anche il lebbroso scappò terrorizzato, davanti alla sua statura statuaria e alla sua pelle nera. L’incontro gli dette l’idea.
Trasformò il mantello che aveva ancora in lunghe bende
scure, in cui si avvolse lasciando solo una fessura meno spessa agli occhi. La campanella se la fabbricò ritorcendo su se
stesso il simbolo del Leone di Giuda che portava al collo da
quando era bambino. Imparò a camminare curvo. Si procurò
un bastone.
Con quello che gli restava della spada si intagliò una ciotola: era un lavoro che non sapeva fare e infatti si tagliò. Il
sangue gli macchiò le bende, già sudice, in cui se ne stava avvolto e questo aumentò il terrore di quelli che incontrava.
Gli tiravano i sassi, ma non chiamavano gli armigeri né
aizzavano i cani. Qualcuno, ogni tanto, quasi sempre di nascosto, veniva a buttargli del pane.
Una giovane donna gli portò della focaccia con il cacio e
con le olive: gli posò tutto su una pietra e gli parlò in una lingua a lui ignota con le lagrime che le rigavano il suo bel viso. Un vecchio monaco gli portò per giorni un secchio di acqua pulita perché potesse bere senza chinarsi sul fango delle pozzanghere. Conobbe la carità: l’attimo in cui lo sguardo
del soccorritore e del soccorso si incrociano, e fu contento di
essere un reietto perché, da figlio di un signore e giovane cavaliere, quella sguardo non avrebbe potuto conoscerlo mai.
Rese lode all’Altissimo per la sua pietà.
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La strega
La strega era stata cacciata dal villaggio sul mare anni
prima.
Erano anni miti. Gli inquisitori si occupavano solo degli
eretici; delle streghe si occupava ancora solo la voce comune.
Le avevano bruciato i libri e la casa, l’avevano presa a sassate e le avevano tirato addosso lo sterco di capra che si tenevano per concimare. Lei se ne era andata che respirava ancora, con la ferrea convinzione che avrebbe potuto andare
peggio e che era meglio usare il fiato per strisciare via senza
perdersi in lamentazioni.
La strega sapeva leggere e scrivere, non si era mai sposata e distillava le erbe: la digitale purpurea per quelli che avevano il fiato corto e la belladonna per quelli che avevano il
respiro stridulo, per il mal di pancia e contro i funghi velenosi. Assisteva ai parti e medicava le ferite. La sua scienza le
veniva dal padre medico, che aveva studiato sugli antichi testi dei latini, che erano pagani, e degli ebrei, che erano nemici di Gesù Cristo, e lei oltretutto era femmina, per natura
più corruttibile, anzi già corrotta ancora prima di venire al
mondo.
Nessuno riuscì poi a ricordarsi chi per primo aveva cominciato a parlare della sua stregonaggine. Quello che fu certo è che nessuno osò opporsi alla diceria, se non altro per non
fare la figura dello stolto, di quello che non aveva capito niente: una costante della storia è che le peggiori ingiustizie avvengono più per imbecillità che per autentica cattiveria.
Da quando la voce cominciò a girare al momento della
sua cacciata passarono poche settimane. Lei si trascinò via e
alle donne per un attimo si strinse il cuore pensando ai parti dove più nessuno avrebbe teso le mani per far uscire le te-
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stoline incastrate nei corpi delle madri, ai mal di pancia che
sarebbero rimasti incurati.
Ma gli uomini non potevano essersi sbagliati.
L’idea della stregoneria mica poteva avere torto.
Forse ora che la figlia del demonio se ne era andata, chissà, forse Domineddio sarebbe stato un poco più clemente,
non gli avrebbe più fatto crepare i figli con i polmoni marciti o la dissenteria, avrebbe fatto che gli uomini pescassero di
più, picchiassero di meno e non restassero annegati in mare.
A nessuno venne in mente – ma questo a onore loro non
sarebbe venuto in mente neanche ai più colti inquisitori dei
secoli a venire – che se il demonio le avesse mai dato, a lei, la
strega, un qualche straccio di potere, lei lo avrebbe usato per
fulminarli mentre la prendevano a sassate; o se le folgori erano troppo, almeno per fargli venire il fuoco di sant’Antonio
o il vermocane.
La strega se ne era andata. Aveva trovato rifugio in una
grotta tra i castagni, dove si sistemò abbastanza comoda,
perché ci aveva portato qualche giorno prima, nell’ovvia
previsione di tempi bui, due pentole, un coltello, un po’ di
paglia per dormire, una lampada, un orcio di olio, uno di vino, uno di miele e i libri. Quelli migliori. Il resto era andato
bruciato. Pazienza. Era ancora in vita.
Come diceva Marco Aurelio, imperatore di Roma, ogni
mattina che mettiamo i piedi sul pianeta tirandoci giù dal
nostro giaciglio bisogna mettere in conto che i malvagi ci
perseguiteranno e che gli imbecilli ci intralceranno la via.
E ogni giorno che possiamo tirare il fiato e andarcene in
giro per i nostri affari non ci dobbiamo lamentare, perché al
mondo le cose potrebbero andare peggio e prima o poi peggio andranno.
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
La strega si sistemò come poté. Tra castagne, funghi, mirtilli e more e qualche leprotto un po’ tonto e un po’ lento, che
restava nelle sue complicatissime trappole da ingegnere militare, per mangiare mangiava.
Ora che nessuno la distraeva più con i parti delle femmine e i vermi degli intestini cominciò a battere i boschi per fare uno studio, trascritto su un rotolo di pergamena vergine
che aveva ereditato da suo padre, sui funghi tossici e quelli
che si possono mangiare. L’opera si dipanò con difficoltà,
lentamente, accompagnata da disegni e inframmezzata dalle macchie che faceva con le lacrime, quando pensava ai
bambini che sarebbero nati senza di lei che usava l’acqua e
l’olio per farli uscire meglio, e a tutti i vermi che senza di lei
sarebbero rimasti negli intestini.
Poi le macchie diminuirono. Dal villaggio qualcuna delle
donne, molto prima delle luci dell’alba quando ancora tutti
dormivano, si avvicinava per chiedere qualche rimedio e un
po’ di consolazione. Una a una vennero tutte.
Portavano piccoli doni. Olio per la lampada. Qualche
suppellettile di casa sua che avevano salvato. Mezzo pesce.
Un quarto di pollo. Un terzo di sacco di farina.
Alla fine arrivarono anche gli uomini. In ore più buie e
con doni di maggior valore.
Un pesce intero. Un pollo intero. Un intero sacco di farina. Per qualche infuso o magari un po’ di magia, visto che lei
era strega, che tenesse lontana la malasorte o, perlomeno, la
spaventasse un po’.
L’opera sui funghi si arrestò e anche le lacrime non sgorgarono più, fino a quella notte, quando dalla sua grotta si videro fuochi che erano troppo alti per essere stoppie che bruciavano e si udirono urla che erano troppo atroci per essere
litigi tra comari.
IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
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Lei se ne restò lì, accoccolata, al sicuro, con lo stomaco che
era un grumo di orrore e le lacrime che le scendevano per
quella gente, che l’aveva cacciata, ma restava la sua gente.
Lei non poteva far niente se non restare accoccolata a piangere fino alla notte, che scorse cupa e illuminata dai fuochi
dell’orrore, che si dipanavano villaggio dopo villaggio, come
i grani di una catena.
Poi, all’alba, un gruppo di donne e bambini arrivò. Lei si
sentì allargare il cuore per la felicità come mai le era successo in vita sua, ma rimase con la faccia seria e tranquilla come
se le importasse poco. Distribuì qualche straccio per riparare i bambini dal freddo del mattino e un po’ di castagne secche che rosicchiarono seduti per terra e che erano tutto quello che c’era.
Era talmente felice che non fossero morti tutti come aveva creduto, che nemmeno si arrabbiò per l’imbecillità dei discorsi, ché ancora continuavano a trattarla da strega, mentre
le raccontavano come erano andate le cose. Uno dei guerrieri saraceni si era rivoltato contro gli stessi suoi fratelli e le
aveva salvate. Loro e i figli loro. Doveva essere l’Altissimo
che gli aveva toccato il cuore. Sì, avevano fatto bene a cacciarla, lei che era fattucchiera e aveva letto i libri dei pagani
e dei giudei. Per questo Dio era stato buono con loro.
Lei che era strega, perché non gli faceva una fattura ai saraceni? Così Domineddio si sentiva vendicato e non la faceva bruciare all’inferno da defunta.
Coi morti ci sapeva parlare?
E la lingua degli animali la capiva?
Lei se ne stette zitta, senza né affermare né negare il suo
essere strega, medicò le ferite, preparò i decotti per la diarrea
e si mise a preparare le trappole per acchiappare qualsiasi
cosa si potesse mangiare.
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
Il cavaliere
Le trappole acchiapparono due lepri e per cucinarle si dovette accendere un fuoco. Fu una fortuna perché saraceni nei
paraggi non ce ne stavano più, ma Bradamante e i bambini
poterono trovare la strada.
Erano tre bocche in più da sfamare, ma erano pur sempre
tre cristiani ancora vivi e tutti furono contenti, mollarono anche qualche castagna secca e tre briciole di lepre, perché anche i nuovi venuti potessero non crepare di fame.
Baldassarre e Cesariello si misero a piangere, visto che finalmente qualcuno si era trovato per asciugare le loro lacrime: il mangiare era contato, la consolazione, almeno quella,
abbondava.
Bradamante non pianse. Le sue lacrime le aveva finite sotto la luna e indietro non si torna. Tirò fuori da sotto il mantello una spada.
«Rendila invincibile» chiese alla strega con la sua voce resa roca dai giorni di silenzio e disperazione.
Bradamante era femmina e non avrebbe avuto diritto a
un’arma, ma suo padre figli maschi non ne aveva avuti e allora aveva insegnato a lei, e lei si era poi esercitata da sola
contro i polli e i piccioni del cortile.
Nell’assemblea era calato il silenzio: anche i bambini avevano smesso di frignare. Persino gli uccelli si erano azzittiti.
Era il silenzio totale del cambiamento di stato.
Era che per la prima volta si affacciava l’idea che il destino non erano soltanto gli altri a deciderlo: i re, i guerrieri, i
vescovi, la cavalleria cristiana o quella dei nemici, come una
manata sui moscerini.
Era che per la prima volta si affacciava l’idea che loro, le
femmine e gli infanti dei morti di fame, forse non stava scrit-
IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
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to che il destino non se lo facevano mai. Forse non stava
scritto che il destino loro altro non fosse che il capriccio di un
guerriero, la strada scelta dal suo cavallo in corsa, come una
manata sui moscerini.
Forse non stava scritto che loro e i loro figli altra parte mai
avessero nella storia se non quella del moscerino.
La strega alla stregoneria non ci credeva, quello che sapeva fare era il decotto di malva contro i vermi e quello di belladonna per il fiato stridulo e lì la sua scienza si arrestava. Restò impietrita davanti alla richiesta, mentre il silenzio calava,
i neonati si zittivano, persino le mosche smettevano di volare.
Lei, la strega, restò lì in mezzo all’assemblea di donne e
bambini che da sempre la cacciavano e che ora, tutti, avevano gli occhi a lei: lei, unica fonte di speranza e fiducia. Tutti
gli sguardi erano su di lei.
Nessuno l’avrebbe più chiamata figlia di Satana, nessuno
le avrebbe più inviato maledizioni. Il gelo della solitudine
sarebbe stato del passato come le sassate dei ragazzini. La
strega voleva dirlo, cercò di dirlo che lei non era capace, che
non si poteva, che queste cose esistono solo nella fantasia degli uomini, perché è troppo atroce accettare che tutta la sofferenza non è per l’odio del demonio, ma solo per il caso. Ma
non ce le aveva avute mai in vita sua tutte quelle facce che la
guardavano, mai neanche nei suoi sogni più pazzi aveva
osato sognarla tutta quella fede.
Disse di sì, era capace, si poteva.
Tra la pentola dove bollivano le castagne secche e la corda su cui asciugavano i camicini dei più piccoli dei bambini
tenne la lama della spada sopra del fuoco e poi invocò i suoi
spiriti, e siccome i sortilegi delle streghe vere non li conosceva si affidò agli elementi delle filosofia greca e a un po’ di
senso comune.
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
Acqua del mare, acqua in pioggia caduta,
resti per sempre spada imbattuta.
Fuoco che brucia, fuoco che cuoce,
tremi il nemico per la tua voce.
Tremi il nemico per la tua vista,
brezza dell’alba, cupa tempesta.
Terra che nutre, frana che uccide,
a chi non teme fortuna gli arride.
Sempre fortuna arride e viene,
a chi pruriti di amore non tiene.
Ma sofferenza, sconfitta e mestizia
a chi dimentica la giustizia.
A lungo la strega invocò tutti gli spiriti della terra, del
fuoco, dell’acqua e dell’aria, perché la giovane guerriera fosse armata contro il nemico: ma l’invincibilità avrebbe protetto la sua spada solo nelle cause giuste e solo finché né la paura né l’amore le avessero toccato il cuore. Tanto nessun cristiano può non sdilinquirsi di terrore davanti ai saraceni e
nessuna donna giovane può stare più di tre giorni senza sdilinquirsi d’amore.
Che male c’era? Bradamante si sarebbe illividita di paura
e si sarebbe innamorata. Neanche dopo quella pagliacciata la
ragazzina sarebbe andata a cacciarsi nelle battaglie armata
del suo spiedo rugginoso.
Ma dopo la strega, una dopo l’altra, tutte le donne si alzarono e ognuna ricordò il nome degli uomini e dei figli che
aveva perduto; ognuna, una dopo l’altra, ricordò la casa che
le era appartenuta, la vita come era stata, anche il nome delle bestie che i nemici avevano ammazzato per mangiarsele o
per pura idiozia, ché per i poveri le bestie sono un po’ come
persone di casa, estremo baluardo perché la fame, la miseria
e la solitudine non diventino totali.
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E dopo le donne parlarono i bambini, quelli che sapevano
parlare.
Uno dopo l’altro ricordarono i padri, i nonni, i fratelli, i
cuccioli con cui avevano giocato e i giocattoli che avevano
avuto, perché tutti i bambini, anche i più miserabili, hanno
un giocattolo, un pezzo di legno o una pietra a cui hanno dato un nome.
E così il cerchio del dolore attorno al fuoco si chiuse.
Il sortilegio attecchì.
La spada di Bradamante divenne invincibile.
Il silenzio lentamente si sciolse, divenne meno granitico,
meno statuario. Si ricominciò a sentire il canto degli uccelli,
qualche bambino ricominciò a frignare.
Ma erano suoni diversi.
Anche il canto degli uccelli, anche il pianto dei bambini.
Non erano più moscerini.
Il giorno dopo si passò alle parti pratiche della fabbricazione di un guerriero.
Le donne recisero i capelli di Bradamante e trasformarono la sua sottana in un paio di brache, per farla sembrare un
uomo, per lo meno un ragazzo, così che almeno i nemici da
temere si riducessero agli infedeli, non includessero tutti i
maschi che avrebbe incontrato sulla via.
Bradamante partì a piedi, visto che cavalli non ne teneva,
insieme a Cesariello e Baldassarre che si consideravano suoi
scudieri e che più niente e nessuno avrebbe staccato da lei.
Partirono in tre seguiti da Spartaco, il cane, per ristabilire la
giustizia che il mondo aveva perduto.
Il mondo era grande, la strada era lunga, il cane era rognoso, festoso e abbaiante ed era tutto quello che avevano
contro lo sconforto e la solitudine.
Bradamante aveva la sua spada.
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
I primi saraceni che le sbarrarono la via furono piccole
bande di disertori, che avevano abbandonato il proprio esercito vincitore non per bontà di cuore verso le vittime dell’invasione, ma per le gravissime sanzioni a chi non rispettava
l’interdizione al vino. Loro erano pochi, sporchi, stracciati,
con le scimitarre scheggiate, con le facce da avvinazzati, forti più della paura altrui che della valentia loro, sempre meno
acclini al cimento a ogni giorno di vino che passava; neanche
si reggevano più sui piedi.
Lei era il guerriero, il vendicatore. Neanche per un secondo la paura le toccò il cuore.
La leggerezza della sua spada ne aumentava la velocità e
la precisione. I duelli con i polli e i piccioni avevano reso i
suoi passi rapidissimi, i suoi scarti duravano infinitesime
frazioni di quelli degli avversari.
Li mise tutti in fuga, perché tutti si squagliavano appena
i duelli si mettevano male, cioè subito, disorientati dalla velocità che solo chi ha imparato a combattere nei pollai può
avere, annientati dalla dichiarazione, che lei lealmente faceva, sull’invincibilità sua e dell’arma che portava.
Dopo la prima vittoria che liberò un minuscolo borgo di
boscaioli da una male armata marmaglia di taglieggiatori e
cialtroni, fu applaudita da una folla festante che rapidamente si ammutolì mentre le sue brache sbilenche e asimmetriche si macchiavano di sangue perché in quel momento preciso smise di essere una bambina ed entrò così nella sua vita
di donna vera, con le sue perdite a ogni luna.
E ancora dovettero spiegarle che era, ché lei manco lo sapeva.
Così che lei fosse femmina si notò e si riseppe poi in giro,
nonostante i suoi capelli arruffati e la sottana trasformata in
brache, ma lei restò il guerriero, il vendicatore, il migliore,
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anzi l’unico cavaliere che mai fosse andato a soccorrerli,
stracciato, appiedato, femmina, in compagnia di un cane rognoso e di due ragazzini che erano un castigo di Dio, lei con
una spada invincibile e un coraggio da leone, cavaliere senza paura e senza macchia, a eccezione di quelle delle brache.
Anzi, fu proprio la sua pochezza ad aumentarne il valore:
se ci riusciva lei, battersi era possibile, vincere si poteva.
Bradamante, Cesariello e Baldassarre liberarono villaggi e
fattorie dalla soldataglia, trasformarono bande di ragazzini
in truppe d’assalto, armarono le donne con i coltelli da cucina, i contadini con le falci e i bastoni, insegnarono sistemi di
segnalazione basati su fuochi, che già facevano greci e romani e che loro avevano imparato dallo stalliere del castello,
che era stato un po’ monaco e sapeva un po’ di latino.
Inventarono e insegnarono una nuova guerra, fatta dalle
donne, dai bambini, dagli straccioni e dai poveri, una guerra povera, micidiale, fatta senza armi, fatta di furti e fughe,
una guerra impensabile per gli eserciti e i cavalieri, una
guerra dove la sopravvivenza valeva più dell’onore e un
mezzo pollastro più di una bandiera, perché l’occupazione
gli scivolasse sopra, a loro, donne, bambini, straccioni e poveri, come un’ondata sopra un sasso della riva.
La guerra era cambiata. La cavalleria era servita all’inizio
per terrorizzare e domare: ora servivano schiavi.
I brutti, i vecchi, i malati potevano restare a sputare quello che rimaneva del loro fiato intisichito perché la terra producesse e sfamasse gli invasori; gli altri, i giovani, i belli,
quelli la cui pelle era rosa e che avevano ancora la luce delle
stelle nello sguardo partivano per le terre degli invasori, dove la loro sorte sarebbe stata di morire senza discendenza e
soli, ché di loro non restasse più nulla al mondo se non le ossa calcinate al sole.
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
Era una guerra dove le piccole bande che fuggivano e si
nascondevano ce la potevano fare. Nei villaggi non c’erano
mai donne, non c’erano mai bambini, nemmeno polli da portare via. Era come se un incantesimo fosse calato dal cielo a
fare il vuoto davanti agli invasori.
Baldassarre aveva sempre più vermi e Cesariello aveva i
piedi sempre più piatti, ma erano considerati due eroi e loro
raccontarono le panzane più folli, che nessuno osò mai mettere in dubbio, sulla regalità delle loro origini, il numero di
servi e cavalli che avevano tenuto e quanti saraceni avevano
sterminato sulla via.
Sentirono dire che a Palermo si stava organizzando il contrattacco e decisero, tutti e tre, di arruolarsi anche loro nel vero esercito dei re cristiani.
Il mondo era sempre grande, la strada era ancora più lunga, e oltre al cane c’erano anche la loro forza e le loro vittorie
a riconfortargli il cuore, ma quando la sera calava se ne restavano stretti e abbracciati, risentendo gli scoppi e le urla
della notte della fine del mondo, e le lacrime cadevano nel
buio e nel silenzio per le voci che mai più si sarebbero alzate dalle rovine fumanti per dirgli che la minestra era in tavola e che dovevano essere bravi.
Che Bradamante era femmina oramai lo sapevano tutti e
questo ulteriormente le spianò la strada, perché tutti i campioni musulmani si guardarono bene dall’affrontare una
contesa che non solo in caso di sconfitta, ma anche di vittoria li avrebbe coperti di disonore.
Palermo era lontana. Impiegarono dieci mesi ad arrivare. Bradamante diventava sempre più alta. Gli stracci che
portava si accorciarono sul suo corpo che cresceva e che si
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allungava; le spalle, squadrate dall’uso della spada, si alzarono e si allargarono. I calzari le divennero piccoli e si sfondarono.
Combatteva scalza, come i paesani che addestrava alla
guerra, la sua zazzera incolta si allungò sulla sua faccia sudicia e scurita dal sole, cui davano la luce i suoi occhi che
non si abbassavano mai.
Palermo era grande, splendida, piena di palazzi immani,
con antiche colonne, archi, volte e architravi che si intersecavano, dividendo il cielo in strane geometrie. Molti degli archi erano spezzati, le volte erano mezze crollate. Gli antichi
palazzi ospitavano i lazzaretti.
La città se ne stava crollando, quello che ancora non se ne
era crollato tre secoli prima, quando già vandali e visigoti
c’erano passati e di loro ancora ci si ricordava. Bradamante e
suoi scudieri ci arrivarono da ovest. La parte orientale della
città era già in mano ai mori. Nella parte di centro si combatteva.
Per strada i feriti con i loro lamenti e le bende sudice sulle piaghe mal curate si alternavano alle bancarelle dei frutti
di marzapane. C’era un tanfo insopportabile; enormi gelsomini che grondavano dai muri diroccati mischiavano il profumo dei loro fiori all’odore della putrefazione.
Nelle strade di fango bambini abbandonati si rotolavano
con i gatti e con i cani.
Bradamante seguita da Cesariello, Baldassarre e Spartaco
si trascinava per la città cercando qualcuno che le indicasse
dove erano i capi militari.
Un lebbroso enorme, completamente fasciato in bende
sudice con una strana campanella su cui c’erano indecifrabili iscrizioni, la terrorizzò con l’orrore della sua condizione.
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
Lei gli regalò pane e cipolla, che era tutto quello che aveva, e poi gli fuggì lontano.
I due bambini vagavano persi nei colori e negli odori senza neanche capire bene dove si trovassero e da che parte fosse la via da cercare.
Bradamante li lasciò vicino a un pozzo insieme al cane e
si avviò da sola. Per non presentarsi scalza al cospetto delle
armate cristiane rubò dei calzari viola con le borchie di
cuoio, che erano troppo piccoli e le facevano male.
Cercò il palazzo del governatore.
Lì la stavano ad aspettare.
In effetti la fama della sua spada e del suo coraggio era arrivata, ma si era preferito che lì si fermasse, perché l’armata
cristiana teneva già abbastanza guai senza ancora dovere aggiungere che si era ridotta a farsi difendere da chi avrebbe
dovuto solo pregare e stare a casa a partorire.
Lei fu ricevuta dal Grande Inquisitore che aveva l’ingrato
compito di convincere all’abiura un vincitore, il che è sempre
difficile essendo gli sconfitti quelli più propensi a riconoscere di essersi sbagliati di via.
Il Grande Inquisitore doveva spiegare come le leggi di
Dio siano inviolabili e come la pietà sia una trappola del demonio, la sua ultima tentazione, affinché le leggi di Dio siano ignorate.
La legge di Dio era che le femmine stiano a casa a partorire e soffrire e che solo vescovi e cavalieri, unti del Signore,
possano impugnare la spada.
La legge di Dio non era che i villici si difendano da soli.
La legge di Dio non era una guerra dove campare vale più
dell’onore e un mezzo pollastro più di stendardi e bandiere.
Sangue, dolore e lacrime non sono una scusante perché le
leggi siano violate.
IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
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L’inquisitore dovette spiegare quanto una sconfitta fosse
più onorevole di una vittoria conquistata da una figlia del
demonio armata di una spada resa invincibile da una stregoneria.
Il palazzo del Governatore era grande. Nei cortili centrali
si combatteva. Una parte del palazzo era già in mano ai mori, e ai rumori della battaglia si aggiungevano quelli dei muratori che stavano erigendo una moschea sopra le antiche
cappelle che si sgretolavano sotto i loro mazzuoli. Il minareto era già sovrastato da una cupola di turchesi e ori su cui le
tortore avevano nidificato, e questa era una fortuna perché
di tanto in tanto qualcuna sconfinava in campo cristiano e se
la mira era buona si poteva mangiare.
Il Grande Inquisitore attendeva nella sua grande sala dove niente c’era se non le pareti scrostate, un tavolo e un crocifisso enorme, che grondava sangue dalle sue piaghe, perché neanche del figlio suo l’Altissimo aveva avuto pietà.
La pietà è la tentazione, la più grande, la più alta, la più
dura da rigettare.
Tutto il resto può essere sacrificato senza strazio e senza
dolore. Il Grande Inquisitore sognava talvolta il latte e il miele che non aveva avuto, il sonno che aveva perduto, la donna che aveva rinunciato ad amare, i figli di cui non era stato
padre: i sogni gli lasciavano una nostalgia triste, un rimpianto dolce come le foglie di autunno che il vento porta via,
come la nebbia mattutina che il sole asciuga.
Era la pietà soffocata che gli perseguitava e inacidiva l’anima, gli straziava la memoria: le urla, il sangue, il dolore
che riempivano di angoscia le sue notti e le pause delle sue
preghiere.
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
Quietamente l’inquisitore aspettava la propria morte, che
lo venisse a liberare dei suoi ricordi e dell’obbligazione di
dover fare la giustizia di Dio: la sua morte gli avrebbe restituito la pietà.
Bradamante era stanca, sperduta e le facevano male i piedi.
Fu con sterminata tristezza che il Grande Inquisitore le
parlò del dolore, della dolcissima trappola della pietà. Lui le
parlò di Dio, che sempre riaccoglie il suo popolo dopo qualsiasi prova, purché il suo popolo non abbia trasgredito le
leggi e la consegna.
Ora c’erano i musulmani. Vandali e visigoti c’erano già
stati. E poi erano passati.
Un po’ convertiti, un po’ scacciati.
Anche i musulmani sarebbero passati.
L’inquisitore parlava. Bradamante ascoltava l’inquisitore
che parlava. Bradamante capì. Sentiva la voce disperata, si
perse dentro gli occhi dell’inquisitore come dentro un lago
dove non c’erano né fondo né confini.
La tristezza le colò dentro, stinse la sua anima di guerriero.
Tutto le sembrò follia.
La logica atroce di quel vecchio disperato le scolò dentro
e la annientò.
La sicurezza la abbandonò. Il dubbio la travolse. Non era
il suo valore che Dio voleva, ma la sua obbedienza e il suo
dolore.
Aveva violato il volere di Dio.
La disperazione pervase il suo essere. Tutto il suo essere.
Tutto meno i piedi.
Lì c’erano le vesciche, per i calzari viola che erano piccoli
e facevano male.
IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
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La voce dell’inquisitore scolò dentro come del miele misto all’assenzio e al fiele, ma tutto non poté riempire e tutto
non poté addormentare perché i maledetti calzari non permisero alla coscienza di abbandonarsi e soffocare.
La sua anima di guerriero vacillò e si accartocciò, ma non
si spense.
L’inquisitore non si accorse di avere fallito.
Le chiese di consegnare la spada, la sua spada che non
perdeva mai.
Lei aveva gli occhi dell’inquisitore nei suoi, tutto il dolore di lui per la legge di Dio violata, ma le facevano male le
vesciche ai piedi, si distrasse a cercare di spostare il peso sui
calcagni per sollevare gli alluci dalla tortura, ma questo rischiava di peggiorare i malleoli. Si distrasse e non fece in
tempo a consegnare la spada.
Il guaito di Spartaco la risvegliò.
Il cane era nei cortili del palazzo insieme ai due bambini.
Arrestati tutti e tre per associazione in stregoneria. Se ne stavano, i due bambini e il cane, in mezzo a quattro paladini
che, invece di usare il loro valore per proteggere i villici dai
saraceni, preferivano dare la caccia ai violatori delle leggi di
Dio, meglio se bambini o cani.
Bradamante si svegliò del tutto, la sua anima di guerriero
risorse, come una fiammella sotto il vento, e incendiò tutto
quello che c’era da incendiare; la sua mano si strinse sulla
sua elsa invincibile e lei attaccò tutto quello che c’era sulla
sua strada. Saltò dalla finestra giù nel cortile, dove tutti si
squagliarono come poterono: la strega non era stata disarmata dalla sua malefica spada e qualunque tenzone sarebbe
stata, oltre che una sconfitta, un disonore.
L’unico che fece un tentativo fu l’inquisitore, che si fiondò
giù per le scale, ma inciampò nei calzari viola, che Brada-
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
mante si era tolta e aveva lanciato il più lontano possibile
dalle piaghe dei suoi piedi martoriati.
Il Grande Inquisitore inciampò rovinosamente e cadde,
rotolò e rotolò, la sua vecchia testa si ruppe e gli atroci ricordi che conteneva si dispersero lontano da lui insieme alla follia che lo aveva perduto, la boria di essere il tenutario della
giustizia di Dio.
Il vecchio uomo morì. Prima di morire si rasserenò: ritrovò l’innocenza e la pietà.
Bradamante, i bambini e il cane correvano per le strade
della città.
I bambini non avevano capito un fico di quello che era
successo e mentre le frecce sibilavano, le bancarelle di marzapane si rovesciavano sugli agonizzanti e il cane abbaiava,
Bradamante dovette spiegare che, pur di non farsi difendere
da loro, la cristianità preferiva schiattare.
Le strade si srotolavano e si raggomitolavano, tra piazze
piene di gelsomini e strade tappezzate di capperi in fiore.
Alla fine si ritrovarono stretti tra gli armigeri cristiani che
avevano alle spalle e gli assedianti musulmani che avevano
davanti.
Il lebbroso enorme che li aveva terrorizzati intervenne in
loro favore rovesciando un carro contro gli inseguitori. La
sua mole su un fronte e la spada di Bradamante sull’altro
dissuasero tutti i possibili assalitori. Il lebbroso disarmò un
arciere, si impossessò di una spada e nella confusione si issò
con loro sopra un muro. Poi li guidò di tetto in tetto, sopra le
cupole dei minareti che già si stavano costruendo, attraverso
gli archi e le volte che se ne stavano crollando, fuori, al sicuro, lontano, in mezzo alla campagna, dove gli uccelli cantavano e non c’erano né armate né inquisitori.
IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
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In mezzo a un boschetto di limoni si tolse le sue bende da
lebbroso e gli altri lo fissarono furiosi e spaventati. Bradamante estrasse la sua spada e gliela puntò alla gola, pronta a
sgozzarlo, ma il saraceno fece un gesto strano: dalla bisaccia
di velluto ricamata in oro che aveva tenuto nascosta sotto le
bende sudice estrasse una bambola di corda ritorta con la testa fatta di creta come i mattoni e loro lo riconobbero.
Era il saraceno buono, quello del villaggio sul mare. Il saraceno di cui avevano sentito parlare. Quello che aveva combattuto per loro. Era lui. Non era né una leggenda né un sogno. Era vero.
Lo avevano ritrovato. Era con loro.
Bradamante abbassò la spada.
I suoi occhi si persero in quelli del guerriero. In quel momento fu colpita al cuore. Fece quello che succede alle donne giovani, anche se sono ancora quasi bambine. Si innamorò.
Rhug-er Bhar-hid-Amin detto il Diavolo e anche, successivamente, il Reietto, il Cane Vomito della Terra ed Escremento del Mondo faceva di nuovo parte di un’armata, sia
pure infinitesimale: due bambini e un ragazzetto incazzoso e
ingrugnito, che però aveva un coraggio da leone.
Ai due bambini insegnò a fischiare e tirare con l’arco,
mentre il ragazzetto più grande, quello sempre ingrugnito –
forse era malato –, se ne stava sempre cupo e fiero per i fatti
suoi, qualche volta aveva gli occhi persi nel nulla, qualche
volta li aveva pieni di pianto, e neanche faceva con loro a chi
faceva pipì più lontano.
Bradamante stava male.
La cristianità non la voleva tra i suoi difensori. Meglio
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
schiattare che non la sua guerra di pezzenti e morti di fame,
meglio la morte al disonore.
Pensava alla sua notte sotto la luna, mai più mai più mai
più, pensava ai cavalli che aveva rubato ai mori e a quanti
bambini ci avevano mangiato.
Pensava a quanto erano stati ridicoli i paladini mentre rovinavano al suolo con tutta la loro ferraglia sotto il carro rovesciato dal moro e a quanto aveva sognato di avere un’armatura come loro.
Pensava anche che il saraceno enorme che li aveva salvati era un reietto per tutti i suoi, come lei lo era per la cristianità, e che le regole della guerra erano da riscrivere.
Lo guardava tendere il suo arco, senza sbagliare mai, agli
uccelli dell’aria, ai pesci dei torrenti e ai conigli delle pianure. Avevano finito con il pane e cipolla: ora si mangiava carne anche per colazione. I bambini rifiorivano, anzi fiorivano
per la prima volta, perché anche quando il castello era in piedi, con le pietanze si andava piano.
Bradamante sentiva il saraceno che fischiava e insegnava
ai suoi scudieri a tirare con l’arco e cercava di decifrare la
propria faccia bruciata dal sole riflessa nell’acqua delle pozzanghere, pensava alle croste che aveva sui piedi e ai mesi di
fango e sudore che aveva sotto i suoi stracci scuri.
Il suo respiro si fermava davanti ai muscoli che si inseguivano sotto la pelle del moro, lo stomaco le si chiudeva, gli
occhi le si riempivano di un pianto insulso che non riusciva
più a fermare.
La Morte
Da quando il saraceno si era tolto i suoi stracci sudici e vagava, coperto solo dalle sue brache e dall’arco rubato, per le
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campagne in fiore, Bradamante era diventata insopportabile.
Cesariello e Baldassarre non ne potevano più del suo umore
livido e dei suoi pianti improvvisi.
Le avevano giurato fedeltà eterna, ma tutto ha dei limiti e
poi la loro era da intendersi come fedeltà in battaglia.
Quando lei gli chiese ingrugnita e scura di fare la guardia
ai suoi stracci mentre lei si lavava in un canneto dissero di sì
e poi se ne andarono per i fatti loro, nella vaga speranza di
trovare un coniglio e dare prova di capacità di arciere.
Bradamante restò sola nell’acqua del canneto, che le portò
via le croste dai piedi e il sudore dalle ascelle, e poi, lentamente, mentre le passavano sulla testa le rondini che venivano ad abbeverarsi in volo, lei chiuse gli occhi e si lasciò
galleggiare sulla corrente lieve che si muoveva tra le canne,
e si sciolsero nell’acqua anche lo scoramento, la tristezza, la
delusione di non essere un paladino, la paura di non essere
abbastanza bella e che lui non l’avrebbe voluta mai.
Lei se ne restò lì, con gli occhi chiusi, il fresco dell’acqua
che la circondava, la pace che riempiva il suo corpo forte di
donna giovane, e tutta la sua paura se ne andò. Lei veniva
dalla Cristianità e lui dalla Terra dei Leoni, ma se c’era un
Dio, li aveva creati tutti e due.
Doveva solo aspettare. Il momento buono sarebbe venuto, di dirgli che lei era femmina. Non c’era fretta. Non c’era
niente che non andasse bene.
Andarono avanti, loro quattro, giorno dopo giorno in
quel viaggio che era sempre più lungo e greve, con la pioggia che di nuovo non cadeva, tutti i contendenti da evitare,
non solo le armate ufficiali, ma anche gli sbandati, i disertori, i paesani armati di falcetto, le donne armate di coltelli di
cucina, i bambini armati di sassi, e tutte le bande irregolari
di quella guerra miserabile e senza onore dove si attaccava
quando si poteva.
42
IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
Una banda di bambini incrociò Rhug-er Bhar-hid-Amin,
il guerriero, su una scogliera, mentre sia lui che loro cercavano uova di gabbiano. Dall’alto delle falesie, nascosti tra le
ginestre, saldarono con le fionde il conto dell’invasione. Lui
era armato di arco, ma vide che erano bambini e non tirò.
Uno dei colpi andati a segno lo fece precipitare in basso sulla scogliera dove il suo sangue si mischiò col mare.
Lo raccolsero Bradamante, Baldassarre, Cesariello, gli uomini, le donne dei paraggi, i bambini che avevano tirato che
si scusarono: loro non sapevano, non potevano sapere, anche
se fino lì era arrivata la leggenda di un gigante moro che
combatteva perché la gente campasse e non per la patria o
per l’onore.
Dispiaceva a tutti e tutti, loro, mezzo morti di fame, di
stenti e di fatica, raccolsero giunchi per fabbricare una specie
di giaciglio e portarlo a spalla, un po’ per uno, fino a dove lo
si potesse curare.
L’unica che poteva curarlo era la strega. Impiegarono
giorni ad arrivare e ogni giorno il guerriero si allontanava di
più dalla vita, ogni giorno di più il suo sguardo si appannava, la sua pelle si ingrigiva.
La strega ora regnava su un vero paese. Dove prima c’era
stata solo una tana ora c’era un vero e proprio accampamento di donne e bambini, dove le pentole delle castagne secche
bollivano e i camicini asciugavano in lunghe file ordinate.
Gli uomini depositarono il ferito davanti alla strega e dopo qualche ora, visto che nessun miracolo succedeva, se ne
andarono per i fatti loro.
Bradamante piangeva.
La strega se ne restava immobile a guardare quell’am-
IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
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masso di ossa rotte e piaghe che scivolava sempre più lontano in un buio opaco da dove nessuno lo poteva più richiamare.
La luce scomparve. Il gelo riempì la radura. Gli uccelli si
azzittirono, i neonati tacquero, i vocii delle donne cessarono.
Anche le fronde si fermarono e la brezza calò in un’immobilità assoluta, come solo hanno le statuine di porcellana o gli
attori sulla scena, mentre si abbassa il sipario.
Bradamante alzò gli occhi.
Davanti a lei stava la Morte, proprio lei in persona.
Era alta, molto più alta di un uomo, era molto più alta di
lei, un enorme scheletro con un mantello sbrindellato che
svolazzava e la falce sudicia di sangue raggrumato.
Bradamante non aveva mai avuto paura di nessuno, ma
davanti a quel buio, davanti a quel gelo il suo coraggio si infranse, come una scodella di maiolica che cade a terra.
Tornò il ricordo di quella notte, mai più. Tornò il ricordo di tutto il sangue che aveva visto versare. Tornò il ricordo di tutto il sangue che aveva versato. Tornarono le parole dell’inquisitore. Tutto era stato follia. Nulla aveva senso se non aspettare che la vita passasse e si arrivasse alla
morte.
«Succede di rado, anche in questi tempi bui, che la Morte si scomodi per qualcuno, forse solo per i re, a volte,
neanche sempre, ma Rhug-er Bhar-hid-Amin è stato più di
un re: la sua fama di cavaliere e di rinnegato è stata talmente grande che io, la Morte in persona, me lo sono venuto a cercare» disse lo scheletro. La sua voce risuonò dolcissima.
«No» disse Bradamante. La paura le aveva attanagliato il
cuore, ma per lui era disposta a combattere, anche con il cuore spezzato dal terrore.
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
«No» ripeté. Era un bel suono. Enne e o. Gran bel suono.
L’ombra scura della Morte si abbatté sul guerriero, che restò esanime e immobile sul suo giaciglio. Tutti indietreggiarono per l’orrore.
«No» disse ancora Bradamante. La paura sparì.
Tutti indietreggiarono meno lei.
Tutti meno lei.
Lei che non si arrendeva mai.
Lei impugnò la sua spada e attaccò.
Ma la sua spada non era più invincibile, e con un solo colpo la Signora con la falce la tagliò in due. Bradamante cadde
per terra e la lunga ombra nera si allungò su di lei. Tutti erano fermi. Tutto divenne buio.
E qui Spartaco, il cane, si infuriò come una iena. Si infuriò
per la paura, per il continuo farsela addosso, per quel suo
continuo dover scappare, davanti a tutto e a tutti.
Spartaco attaccò. Per la prima volta da quando era al
mondo mostrò i denti, ringhiò e attaccò.
O forse non fu la furia, forse fu la fame, per quelle lunghe
ossa mal spolpate, su cui svolazzava il mantello nero. Forse
le due cose. Forse fu il fatto che nessuna regola è assoluta:
ogni eroe ha un momento di vigliaccheria; prima o poi i vili
si alzano e combattono.
Spartaco attaccò, e per un attimo affondò anche i suoi
denti giallastri e cariati nello stinco dello scheletro, perché la
sorpresa fu tale che la Morte ebbe bisogno di un attimo per
riprendersi: poi la falce calò.
Il bastardino guaì e quella fu l’ultima volta che il mondo
udì la sua voce.
Ma quell’attimo di sorpresa bastò: la Morte fu perduta.
In quell’unico attimo il coraggio di Spartaco aveva brillato come una candelina nel buio. La paura non era più un unico monolite: una minuscola crepa si era creata.
IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
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«Un’ultima scelta c’è sempre: se non dove e quando, almeno come e perché morire» disse la strega.
«Noi mica sempre siamo moscerini» disse Cesariello.
«E questa, mo’, chi si crede di essere» aggiunse Baldassarre.
Dopo Spartaco vennero i bambini, primi Cesariello e Baldassarre, che ormai si erano addestrati a fare i guerrieri, e
poi gli altri, tutti, tutti quelli che sapevano parlare. Si armarono di sassi e bastoni e del nome dei fratelli che avevano
perso, dei padri che avevano visto riversi nel sangue, dei
cuccioli che erano stati sterminati insieme ai cristiani, dei
giocattoli che non avrebbero più avuto.
E dopo i bambini vennero le donne, tutte, con il ricordo di
quello che era stato e che mai più avrebbe potuto essere, e sapendo che se qualcosa ancora avrebbe potuto esserci, per loro e per i loro figli, era perché uno dei guerrieri nemici si era
fatto corrompere dalla pietà.
Il cerchio del dolore si chiuse di nuovo.
La Morte sentì il gelo sulle sue vertebre scarne, sotto le
sue orbite vuote, sotto la volta del suo cranio rimbombò il
suono dei sassi e dei bastoni, e per la prima volta conobbe il
dubbio e la paura.
Indietreggiò.
Vacillò.
E indietreggiò ancora.
Il cerchio degli attaccanti si strinse.
L’ombra nera si dissolse fra le ombre del sole che tramontava. Scomparve nel buio sotto gli alberi, dove lo scuro del
sottobosco si univa a quello della sera che cominciava.
Bradamante si rialzò. Il cane era ai suoi piedi, aperto in
due.
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
La strega fu la prima a cominciare a darsi da fare. Bisognava curare il saraceno: mandò i bambini a cercare finocchio e malva da far bollire nell’acqua per lavargli le ferite.
Avevano un po’ di miele che avrebbe dato la forza al ferito per riprendersi e aiutato le piaghe a chiudersi. E poi cercarono della legna liscia e diritta per fare le fasciature alle ossa rotte.
Bradamante si chinò sul ferito e gli lavò la faccia con un
po’ di acqua pulita trovata nel vuoto di un albero cavo.
Ognuno dette un pezzo dei pochi stracci che li coprivano
per fare delle bende. Forse le ossa rotte non sarebbero tornate diritte come prima, ma un uomo è un uomo anche se la vita lo ha azzoppato.
Seppellirono il cane.
Verso l’alba il ferito si era ripreso abbastanza da riuscire a
mangiare.
Bradamante restò china su di lui a bagnargli la fronte e a
farlo bere. Il sole brillò dietro la sua testa e filtrò tra i suoi capelli sudici, mentre le lacrime addolcivano di tanto in tanto la
sua faccia di guerriero imbattuto. Finalmente lui capì che lei
era femmina e ringraziò l’Altissimo per la sua misericordia.
Seravezza, Alpi Apuane, Toscana, 1526
Erano nati tra i castagni; erano stati bambini insieme.
Poi, in quel loro borgo sperduto sulle montagne della Toscana, era venuto messer Michelangelo a scegliere i marmi
per la sua gloria e le cave del padre della bambina furono all’improvviso un grande valore, ma mentre lei diventava la figlia di un ricco signore lui rimase quello che era, un figlio
senza nome, con un padre che diceva la messa e una madre
che impastava ortiche e grasso di capra per curare i vermi e
la tosse canina.
E a lui sembrava che qualsiasi cosa sarebbe stata meglio
della vergogna e del dileggio di essere il bastardo del prete e
della fattucchiera; forse era vero che lei si era venduta per la
protezione dal Sant’Uffizio, forse era vero che invece si erano voluti bene davvero.
Tanto l’ignominia era uguale. Tutto gli sembrava meglio
del suo esistere, anche la fame dei figli dei bifolchi, i lividi
dei figli non amati. Anche non essere nato mai gli sarebbe
parso un partito migliore di quella sua infinita tristezza, di
quella sua solitudine senza confini.
E poi c’era il suo amore per la bimba; quella che era diventata la figlia di un ricco signore. Decise di andare a conquista-
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
re il mondo per lei. Aveva tredici anni. L’impresa non gli parve mai né eccessiva né folle e gli prese sei anni della sua vita.
Partì senza nulla e senza la benedizione dei suoi, che se
avessero saputo lo avrebbero fermato e lui non voleva farsi
fermare. Arrivò al mare e lì si fermò, non sapendo più né cosa fare né come, ma prima che avesse il tempo di perdersi di
coraggio e tornarsene da sua madre arrivarono i pirati saraceni a farlo schiavo, lui e tutti quelli che trovarono sulla via,
e così il problema del viaggio si risolse.
Nelle stive pianse finché ebbe lacrime, poi la sete gli
asciugò anche quelle. Aveva la faccia piena di moccio di naso e le braghe piene di escrementi, i suoi e quelli dell’uomo
a cui era incatenato. Costui a metà viaggio morì, forse perché
era più fragile, forse per il dolore di riconoscere tra le urla
delle donne la voce di quella che era stata la sua. Morì: smise di delirare e cominciò a marcire.
Quando arrivarono i morti erano uno su due, ma tutto
quel dolore, uno schiavo su due perduto, non fu crudeltà
inutile, ma saggezza; ché dopo quel viaggio senz’acqua, respirando tanfo di fogna e il marcio dei morti con le urla della donne nelle orecchie, i vivi erano troppo vinti, spezzati,
umiliati, per poter far altro che non fosse tenere la testa china ed essere schiavi.
Prima di venderlo, perché il suo odore non uccidesse i
compratori, lo misero un giorno a bagno nel porto di Algeri.
Lasciò all’acqua quello che gli era rimasto attaccato dei suoi
escrementi, ma non quello che restava della sua dignità di
creatura umana, che però non era molto: dopo quel viaggio
anche lui era proprio uno schiavo.
Le prime ore nell’acqua furono di piacere e gioia, poi il
freddo diventò feroce e il sole dell’Africa cominciò a brucia-
SERAVEZZA, ALPI APUANE, TOSCANA, 1526
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re sulla sua faccia livida di europeo. Mentre rabbrividiva con
il volto in fiamme giurò che mai più avrebbe osato considerare infelici i giorni in cui gli fosse stato concesso di respirare senza schifo e defecare fuori dalle proprie braghe. Neanche allora dubitò che avrebbe conquistato il mondo per lei e
che lei lo avrebbe accettato come sposo.
Lo comprò un vecchio solo che non aveva più alcuna sposa vicino, e che più di uno schiavo cercava un figlio che non
lo abbandonasse mai. Gli chiese di credere al Profeta, ché
senza quello non se lo sarebbe potuto tenere in casa e il ragazzo accettò, senza troppo dolore. Suo padre gli aveva insegnato che se Dio non amasse perdonare, non ci avrebbe
fatto di così poco valore. Anche a leggere e a scrivere gli aveva insegnato, chissà se sua madre l’aveva comprata o le aveva voluto bene davvero, forse tutte e due le cose.
Il suo nuovo padrone aggiunse l’arabo e l’aramaico al suo
sapere. Gli spiegò i capisaldi del commercio e le leggi della
contrattazione. Gli affidò la bottega e poi se ne disinteressò,
sempre di più. Un giorno il ragazzo smise persino di andargli a rendere conto per evitare la sofferenza che gli riempiva
gli occhi quando doveva sollevarli dai suoi fogli.
La bottega prosperava.
Il vecchio si ammalò. Il ragazzo rispolverò quello che sapeva della scienza di sua madre per aiutarlo. Faceva bollire
l’acqua con la menta e il rosmarino. La faceva bere al vecchio
mischiata al miele o la usava, pura, per lavargli le piaghe. Il
poveruomo ne aveva sollievo e gliene era grato. Per riempire
i giorni lunghi e vuoti della malattia il vecchio gli insegnò l’enigma che da anni lo svagava, astruso e inutile come tutti gli
arcani: la lingua degli antichi cavalieri francesi che erano venuti un giorno a conquistare Gerusalemme per gli infedeli.
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
Dei Templari il ragazzo qualcosa sapeva. Gli aveva un
giorno raccontato suo padre dei monaci guerrieri creati per
salvare il Santo Sepolcro dai musulmani. Avevano dominato
l’Europa intera ed erano finiti bruciati vivi per aver baciato
il culo al diavolo in cambio della pietra filosofale. Avevano
lasciato un favoloso tesoro, che era finito equamente spartito tra il re di Francia e il papa, ma per lungo tempo ancora il
mondo ne avrebbe favoleggiato, nell’inverosimile ipotesi
che fosse ancora celato, che i cavalieri fossero riusciti a tacerne l’esistenza e l’ubicazione agli inquisitori che li avevano torturati per settimane con una ferocia che persino in
quell’epoca di iene e lupi aveva fatto scalpore.
Le carte del vecchio venivano da Gerusalemme, finite ai
musulmani quando la città era stata riconquistata alla fede
del Profeta, ed erano poi passate di mano in mano, insieme
alle schegge della vera croce e a quello che restava della cotta di re Baldovino di Gerusalemme, ché tutte le guerre, finiti il dolore e la distruzione, lasciano un infinito strascico di
cianfrusaglie senza valore. Ed era tutto quello che restava al
mondo dei cavalieri, ché quando la cristianità li aveva annientati, cosa che neanche Saladino era riuscito a fare, le loro terre erano state confiscate, i castelli abbattuti, dati alle
fiamme o devastati dalla soldataglia.
Si divertirono insieme decifrando tutti quei fogli, mentre
le giornate passavano, la bottega prosperava, il vecchio vivacchiava sospeso tra la vita e quello che ne viene dopo, come il gruppetto di mosche che svolacchiava nell’unico raggio di sole che filtrava nella penombra fresca della stanza.
Il vecchio morì. Gli lasciò la libertà e le carte, ché altro non
poteva, dovendo tutto andare ai figli suoi, quelli veri, che
SERAVEZZA, ALPI APUANE, TOSCANA, 1526
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non aveva più rivisto da prima della malattia e che non l’avrebbero fatto mai, nemmeno in mille anni, di far bollire l’acqua e il rosmarino per lui.
Il ragazzo se ne andò poco lontano e campò come sua madre, mischiando erbe e grasso di capra per guarire la gente
dai suoi mali. Finì di leggere i fogli che era tutto quello che
gli restava, oltre alla libertà, del suo antico padrone. Il grosso lavoro lo aveva fatto il vecchio con il suo aramaico, che
era la lingua con cui erano descritte le regole e le istituzioni.
Quello che mancava lo fece lui con la chiave dell’alfabeto
templare che era all’inizio del carteggio. Quel po’ di latino
che gli aveva insegnato suo padre bastò, perché i messaggi
criptici altro non erano che ricevute, buoni a rendere, garanzie: un nome, una cifra, due località, poche altre cose. E la
lingua del mistero altro non era se non latino, scritto sostituendo le ventun lettere usuali con ventun segni di nuova
fattura.
All’inizio ci restò un po’ male, non parendogli decente
che i cavalieri della guerra di Dio facessero l’usura a distanza, usando armi e manieri per garantire i mercanti e il loro
oro. Gli sarebbe forse sembrato più grandioso vendere l’anima al diavolo e baciargli l’ano, ma poi con il tempo capì che
la grandiosità era quella: moltiplicare l’oro senza magie, senza scorciatoie né mediazioni con gli inferi o con l’infinito. Solo con l’intelligenza e il lavoro. Pensò a quante botteghe avevano prosperato in tutte le terre note grazie alla possibilità
che i guerrieri avevano dato ai mercanti di spostare l’oro
senza rischiarlo sulla via. Botteghe come quella che lui aveva tenuto per il vecchio signore. Era quella la pietra filosofale: il tempo, gli spostamenti e la necessità dell’uomo di vendere e di comprare. I mercanti consegnavano il loro oro ai ca-
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
valieri all’inizio del viaggio nel proprio paese. In cambio ne
avevano una scritta oscura in una lingua ignota che si sarebbe poi ritramutata in oro al tempio di Gerusalemme, dall’altra parte del mondo conosciuto, dove si intrecciavano i tappeti, i broccati e i lini per i quali le corti europee erano disposte ad affamare i propri sudditi e a indebitarsi fino all’ottava generazione. Ai cavalieri restava un tributo, cui si aggiungeva il tesoro intero di chi periva per via e non veniva
più a riscuotere i suoi averi, cui si aggiungevano ancora i
prevedibili proventi dell’usura, che inevitabilmente arriva
ovunque ci sia qualcuno che ha dell’oro e qualcun altro che
ne ha bisogno.
E questa fu la trappola che li perdette, perché anche il re
di Francia chiese quattrini e i cavalieri non vollero o non poterono rispettare la regola principe dell’usura: che ogni prestito sia interdetto a vita a chiunque sia potente o straccione.
Un prestito meno che mai se le due disgrazie, essere re ed essere pezzente, sono alla stessa persona. Il re di Francia tra le
due scelte che aveva, ossia restituire l’oro che gli avevano
dato o considerarlo un dono e almeno ringraziare, ne scelse
una terza e dell’Ordine dei Cavalieri del Tempio nulla restò
al mondo se non i verbali delle confessioni dove le urla furono diligentemente riportate insieme alle invocazioni e alle
istruzioni per evocare il diavolo. Amen
Gli affari del ragazzo stentavano. Nessuno credette mai
seriamente che dalla cristianità potesse arrivare un’indicazione utile in qualsivoglia scienza, inclusa quella medica, anzi soprattutto quella. Fece eccezione alla sfiducia un venditore di sale venuto dalle terre dove nasce il Nilo in testa alla
sua carovana, conducendo con sé il suo figlio maggiore. Il
giovane europeo era il primo guaritore che incontravano sul
SERAVEZZA, ALPI APUANE, TOSCANA, 1526
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loro lunghissimo cammino. Il bambino si era ammalato per
via e non avevano potuto fare altro se non continuare ad andare avanti e pregare. La diarrea aveva svuotato il piccolo; il
vomito lo aveva rinsecchito. Quando giunse infine al cospetto del guaritore, sembrava un pesce pescato da tempo e lasciato a seccare al sole.
Di nuovo orci e orci di acqua bollirono insieme con la
menta e il rosmarino e il miele. Il guaritore la usò sia per calmare la sete che per lavare gli intestini usando per il clisma
un piccolo otre di agnellino, come aveva visto fare a sua madre. Bagnò il bambino con acqua tiepida fatta bollire con le
mandorle e i petali di rosa, perché la sua pelle spaccata dall’arsura avesse un po’ di sollievo. La piccola crisalide si riprese. Smise di delirare, ricominciò a mangiare. Sorrise.
L’uomo salutò il guaritore che aveva compiuto il miracolo con la calma infinita che aveva in tutti i suoi gesti senza alcuna inflessione che tradisse la portata della sua gratitudine
e della sua gioia e poi se ne andò, lasciando in dono metà dei
suoi cammelli e del suo sale: la metà dei suoi averi, bastante
appena a ripagare l’incommensurabile dono che era il ritorno alla vita del suo bambino. Salutò e se ne andò, dicendo
anche che era sempre stato pronto a ucciderlo, se lui avesse
fallito, tradito la promessa di guarigione che aveva fatto al
bimbo, ma fu un aggiunta inutile: il guaritore lo aveva capito dal momento stesso in cui si erano incontrati.
Il ragazzo vendette il sale e poi se ne partì sulla stessa pista da cui veniva il suo benefattore, verso gli altipiani del
Leone di Giuda, dove nasce il grande fiume, il Nilo. Avanzò
verso il Sud con la sua piccola carovana di servitori e cammelli e la serena certezza che un destino benevolo gli stesse
mostrando la via per conquistare il mondo per lei, ma a
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
metà esatta del deserto della Nubia si fermò e dette via tutti i suoi averi.
A metà della giornata, sul bordo della pista, in una calura
insopportabile, tra nugoli di mosche due uomini chiari, forse mamelucchi, uno intero e uno con un braccio solo, stavano legando le caviglie di un ragazzetto nero come l’ebano ai
ceppi per poi spaccargliele, che era la pena prevista per gli
schiavi fuggitivi. Gli altri uomini dell’altra carovana aspettavano sonnacchiosi che la scena finisse per riprendere il cammino. Il ragazzo chiese spiegazioni e ne ottenne fiumi, ché
l’uomo che dei due era intero, evidentemente il padrone, altro non aspettava che qualcuno con cui sfogare il livore per
quel miserabile intruglio di malfidanza, slealtà, malevolenza, neanche non fossero stati argenti buoni quelli con cui lo
aveva comprato dai mercanti abissini. Parlò di fughe tentate, pane rubato, il suo cavallo male asciugato dal sudore.
Parlò anche di quanto non valesse niente farsi fottere, tenere
le gambe aperte e farlo divertire e solo allora il ragazzo capì
che lo scheletrino scuro era femmina. Era solo grandi occhi e
ossicini, piccole ossa leggere come quelle degli uccelletti ancora implumi.
Lui dette via tutto per lei, in un gioco al rialzo che fu una
catastrofe, perché dalle prime mosse fece capire che la voleva sopra ogni altra cosa e fu perduto. Tanto era stato saggio
nella bottega del suo antico padrone, tanto era stato oculato
nel vendere il suo sale, tanto fu stolto allora, e tutto si disperse; tutto gli tolsero meno i vestiti che portava, e lui anche quelli avrebbe dato, se li avessero voluti, purché l’uomo
con un braccio solo allontanasse la sua mazza e il suo ghigno
da lei e dai suoi ossicini da uccello legati ai ceppi, dai suoi
enormi occhi neri.
SERAVEZZA, ALPI APUANE, TOSCANA, 1526
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E dopo averla salvata dal mercante e dal suo servo monco ancora e ancora la salvò: dalla sete, dalla fame, dagli scorpioni, dalle iene, ché senza di lui lei non ce l’avrebbe fatta
mai a traversare quelle montagne cupe di sassi e di sale; mai
e poi mai ce l’avrebbe fatta lei, che era un ammassetto di ossicini e piaghe dopo quasi un anno di botte, legature e fame.
Ma quando arrivarono al fiume lei era già una donna e
non più una bambina. Succhiando code di lucertola, spolpando ossa di topo, nel fango delle oasi, con il sale della via,
il suo corpo trovò il modo di sbocciare, il seno di riempirsi, i
fianchi di addolcirsi. La sua testa si alzò come quella di
un’antica regina perché il ragazzo potesse godere di lei.
Tutti i giochi che il mercante le aveva imposto con le frustate e con la fame lei li reinventò per lui, e altro ci aggiunse
ancora. L’impudicizia che le era stata estorta lei la offerse, felice che lui fosse un uomo vero e non un arcangelo, come invece le era parso la prima volta che aveva vista la sua ombra
coagularsi nel caldo del deserto per venire da lei.
Puntarono a sud verso l’Etiopia, ché da qualche parte dovevano pure andare, o forse il ragazzo sperava ancora di
comprare un po’ di sale, in cambio del suo lavoro o della sua
scienza: già altre volte il destino era stato con lui. Arrivati al
Nilo sete e fame finirono, ma la prudenza divenne una nuova ossessione. Usavano le tenebre per spostarsi e pescare, attenti agli accampamenti e ai fuochi, che forse scaldavano
mercanti di schiavi, banditi o semplicemente uomini stanchi
e soli, ben pronti per una donna giovane a perdere la propria
anima e la vita altrui.
Un giorno qualsiasi, mentre sonnecchiavano aspettando
il buio in un fosso all’ombra di antiche mura, il ragazzo scoprì incisi sulle pietre cadute gli inconfondibili segni dei Ca-
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
valieri Templari. La lunga iscrizione in alfabeto criptico spiegava lo spostamento di uomini e mezzi fino alla Nubia, fedele alleata africana di tutte le crociate, di tutte le battaglie
per liberare il Sepolcro: sotto le mura di Gerusalemme guerrieri neri avevano versato il proprio sangue insieme a sassoni e franchi… la Nubia fucina di eroi… Dio… la Virtù… la
Fede… il Coraggio… la Lealtà… l’Oro. Non c’era alcun dubbio: era proprio l’oro che insieme alla virtù e al coraggio era
stato portato in quell’antico maniero, per metterlo al sicuro
dal nemico, che chissà chi era, se i cristiani o i musulmani,
probabilmente i cristiani, l’ultimo nemico, gli sterminatori.
Gli ultimi cavalieri erano venuti in quella terra scura, che era
diventata ogni anno più arida e dura, sempre più polverosa,
non aveva più concepito eroi, era pure diventata musulmana. Chissà che era successo agli antichi custodi del tesoro;
forse li avevano uccisi i saraceni, magari erano morti da soli
di vecchiaia, che onta per un guerriero, magari si erano sgretolati come le loro pietre, se li erano mangiati gli scorpioni.
Di loro restava solo il tesoro e l’indicazione dell’intricata
strada che ci arrivava.
Il ragazzo capì che un cielo generoso gli rendeva le ricchezze che aveva dato per la piccola schiava. Era un cielo allegro e burlone, che amava gli scherzi e gli amanti, che l’oro
glielo restituì moltiplicato sino all’inverosimile, ma dopo
averlo fatto impazzire.
Al labirinto originale degli architetti templari se ne era sovrapposto un altro, senza né senso né logica, scolpito dal
vento e dalla rovina. Ritrovarono cunicoli che si interrompevano nel nulla, dopo essersi avvoltolati e incrociati, come le
spire di una serpe demente e infinita. Disseppellirono scale
che non andavano in nessun luogo. Seguirono corridoi che
finivano nella pietra. Incisioni franate li ingannarono. Scam-
SERAVEZZA, ALPI APUANE, TOSCANA, 1526
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biarono le tracce dei fuochi dei cammellieri per i segni dell’antico segreto. Dimenticarono ogni prudenza, ché l’angoscia del tesoro era troppa per aggiungerci anche quella della
paura. Scavarono sempre, illuminati dal sole o con il buio, alla luce delle fiaccole o della luna. In una notte incantata seguita a una pioggia furiosa milioni di lucciole si alzarono dal
deserto a illuminare le dune. Anche quella notte continuarono a scavare, ma nemmeno quella luce incantata fece il miracolo di illuminare la via.
A tutti i passanti di quella landa inospitale spiegarono lugubri e cupi che stavano cercando le ossa di antichi guerrieri, i cui fantasmi di morti insepolti avevano sconvolto contrade intere disseminando morte e distruzione, delitti atroci,
inenarrabili orrori. Questo e il loro aspetto da indemoniati
bastò a fermare tutti: banditi, mercanti di schiavi, uomini soli che per una donna sarebbero stati pronti ad affrontare tutto, ma non l’incubo di insulse fantasie, lo specchio dei loro
terrori.
Poco prima che morissero di sfinimento e di fame lei inciampò nel tesoro mentre cercava radici e chioccioline. Era
sepolto sotto le pietre della prima iscrizione e uno spigolo affiorava. La ruggine e la polvere l’avevano reso simile a una
pietra e lei dovette cadere per capire che era proprio la cosa
che cercavano.
Lo riconobbe, ci si sedette sopra e pianse. Dalle prime
notti che avevano passato insieme, quando lui si teneva
stretto il suo corpo di bambina impubere, le aveva raccontato della sua sposa, la fanciulla per cui aveva deciso di combattere e conquistare ricchezza e gloria.
Lei non aveva capito bene di quella sposa mai comprata,
neanche contrattata, forse già data a un altro, anche perché
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
dell’unica lingua che avevano in comune, che era quella dei
mamelucchi, conoscevano solo le parole aspre della fame,
della sete e del lavoro: niente che potesse spiegare nessun tipo di amore.
Lei si sedette e pianse, ché fino a quando la miseria li aveva inchiodati in quel deserto di rovi e scorpioni lui era stato
suo, ma ora tutto finiva. Era stato un sogno insensato quello
di poter essere lei, schiavetta comprata sul bordo della via,
già deflorata da altri, la vera sposa: un posto con qualche albero, qualche bestiola, qualche bimbo loro; lui che le diceva
che le voleva bene, che non glielo aveva detto mai. Era un sogno da fiaba, come quando da bambini si sogna di poter volare, che l’aveva consolata nelle notti gelate, nei giorni infuocati, mentre si trascinava passo passo per tutta la Nubia,
mentre scavava con le mani dove lui aveva detto che c’era
un tesoro. Finché il nulla del deserto li aveva uniti il suo sogno era durato: ora era finito.
Lei si asciugò le lacrime, inghiottì il dolore e poi andò a
chiamarlo, valorosamente, lealmente, ché lui le aveva salvato la vita, e quello era ancora il meno; le aveva fatto conoscere la libertà e la gioia. Una notte lei gli aveva chiesto di
amarla e lui lo aveva fatto con infinita dolcezza riempiendola di tenerezza, forse per amicizia, per allegria: l’amore vero,
lei lo sapeva, era per l’altra sposa. E anche se ora tutto sarebbe finito lei ormai lo sapeva che al mondo poteva esserci
altro che non gli abissini, il mercante mamelucco e il suo orribile servo monco che era quello che aveva usato peggio di
tutti il suo corpo ancora piccolo di bambina.
Mentre disseppellivano il forziere ancora sperò che fosse
vuoto, che contenesse solo sassi, solo qualche moneta appena bastante a comprare una capanna con qualche albero e
qualche bestiola; qualcosa che fosse troppo misero e troppo
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poco perché lui potesse tornare dall’altra sposa, ma dopo che
lo ebbero aperto, senza alcuna fatica, ché le serrature erano
inviolabili, ma il legno massiccio delle pareti si sbriciolava
eroso da migliaia di piccoli termiti, lei sorrise a quello che
non era più il suo uomo, lieta della sua gioia davanti a quell’immensa ricchezza, che era più di quanto lui avesse osato
sperare anche nei suoi sogni più avventati.
Nuove paure si crearono ora che avevano qualcosa. Ci
furono momenti in cui rimpiansero i giorni poveri, quando
possedevano solo se stessi e gli stracci che portavano e l’unica paura erano i mercanti di schiavi. Prima andarono a
Cassala lasciando il tesoro solo, protetto soltanto dalle loro
preghiere, a procurarsi i primi cammelli, qualche vestito decente e soprattutto gli orci per nasconderci l’oro. Tornati alle rovine organizzarono la spedizione e si avviarono verso il
Mar Rosso, portandosi dietro i loro beni camuffati da carico
di sale, protetto solo dalle loro vite che sarebbero valse meno dello sterco di capra se uno degli orci si fosse rovesciato
per via. A Cassala assoldarono servi e uomini armati; comprarono un vero carico di sale e altre cose: avori, pelli e spade. Quando l’azzurro del mare apparve erano una vera carovana di mercanti agiati, la più protetta e guardata spedizione di sale che mai avesse lasciato la Nubia per le coste
europee.
Arrivarono a Suakin che un anno esatto era passato dall’inizio dei loro scavi. La città era costruita di corallo bianco
e oro e aveva il tanfo di fogna inconfondibile e immondo dei
mercati di schiavi, che passavano di lì in interminabili carovane per essere imbarcati fino ai porti arabi e persiani. Mentre erano ancora alle porte della città il ragazzo trovò un ca-
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
gnetto rognoso, un minuscolo botolo tutto ossa e piaghe che
si batteva solo contro un gruppo di avvoltoi che volevano
spolparlo che ancora abbaiava. Lo difese, lo consolò, gli
trovò da mangiare. Decise di portarselo dietro.
Il ragazzo comprò una nave, ci caricò il cane, metà degli
armati e metà dell’oro e poi salutò la sua giovanissima amica, alleata di tutte le imprese, per tornare al suo unico amore. Le lasciava metà degli armati e metà dell’oro: metà per
uno, da buoni fratelli. Lei si indignò, ché il posto di concubina le toccava. Pensò a tutta la fatica, a tutto il sudore, ai giorni e alle notti passati a mangiare scarafaggi e a scavare con le
mani; anche quando c’erano le lucciole lui l’aveva fatta scavare invece di usare quella luce incantata per dirle che le voleva bene, ché anche se c’era l’altra sposa glielo avrebbe anche potuto dire. Gli disse livida che la lasciava femmina in
un paese di uomini e negra in un paese di schiavi. Prima che
la sua nave fosse uscita dal porto i soldati a cui la affidava
l’avrebbero depredata, violentata e venduta sul mercato degli schiavi. Avrebbero venduto lei e il figlio che portava dentro, che aumentava il suo prezzo fino a quello di un uomo.
Lui seppe così che sarebbe diventato padre.
Se ne andarono insieme, favolosamente ricchi, cupamente infelici, lei per l’angoscia di vederlo livido, lui per quell’inestricabile imbarazzo: spiegare alla vera sposa che la sua
piccola amica scura e allegra, che si era trovato vicino nelle
vie della miseria e della paura, nulla toglieva alla luce del loro amore. Maledisse la caducità della morale umana: tanto
erano normali le concubine in Nubia tanto non lo erano al
suo paese. I liberatori di Gerusalemme erano degli infedeli
per il suo antico padrone.
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Il viaggio fu lungo: prima le coste del Mar Rosso, poi le
sabbie del Sinai, poi finalmente il Mediterraneo, e tutta la loro tristezza non poté impedire che passassero il tempo amandosi in tutte le posizioni che riuscirono a inventare senza che
lei o il bambino ne avessero fastidio; ché già la loro voglia era
stata grande nella fame e nella polvere del deserto, quando
lei sembrava ancora un po’ un bambina, e facevano in fretta
per non attirare né le iene né i mercanti di schiavi. Ora il desiderio divenne infinito. Ora lei era sempre più tonda, più
meravigliosamente tonda, con quel suo bambino dentro che
doveva sentirsi cullato quando loro si amavano. E poi c’era
un’altra cosa, che lei sapeva cos’era e lui no: era la tristezza di
sapere che i loro giorni e le loro notti erano contati. Dopo l’arrivo altro non sarebbe rimasto loro se non le briciole che la vera sposa avrebbe lasciato. Quando arrivarono in vista dell’ultima riva l’unico veramente contento era il cane.
Poi ci volle ancora del tempo: ci fu lo scarico, la riconversione di una parte del tesoro in moneta, l’acquisto di navi,
utensili, armi e sete per ricominciare subito il commercio con
le coste africane. Bisognò ancora procurarsi delle carte di credito, parlare con due banchieri; quando finalmente giunsero
in vista della Apuane lei stava quasi per partorire.
Lui la lasciò con la scorta ai piedi del monte, là dove i castagni si cominciano a infittire. Restò a guardare mentre
montavano le tende. Restò ancora un po’ di tempo per essere ben sicuro che tutto fosse in ordine. Poi se ne andò. Il cane lo seguì.
Prima passò a salutare i suoi, ma se ne erano già andati
entrambi.
La madre era morta in prigione, rea di tutte le erbe che
aveva pestato, di tutte le piaghe che aveva guarito, di aver
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
corrotto il prete facendogli un bambino. E lui era morto di
crepacuore, di dolore, di vergogna forse per averla amata,
forse per non averla difesa.
Era finita così. Non c’era più niente da fare, più niente da
dire; più nessuno da ringraziare per il freddo mai patito, per
la fame rimasta ignota, per il latte, la dolcezza, le storie raccontate la sera prima di andare a dormire. Saper leggere, saper scrivere; un po’ di latino. Nessuno da ringraziare per il
dono della sua vita. Nessuno con cui scusarsi per tutti gli anni di mugugno: le sue eterne lamentazioni.
La fanciulla del sogno, la vera sposa, era ancora da maritare. Con infinita fatica il ragazzo tornato dall’Africa si
staccò dalla casa che era stata di sua madre per andare da lei.
Il cavallo gli si era azzoppato per via e lui lo regalò a una vicina di casa che lo aveva guardato da bambino, quando sua
madre era chiamata lontano, a far nascere i bambini o ad aiutare gli agonizzanti a non avere troppo dolore. Si avviò a piedi sul sentiero che faceva da scorciatoia alla casa della vera
sposa. Il cane abbaiando gli impedì il passo fino a quando
una vipera che era davanti ai suoi piedi corse via con la sua
andatura di lunga strega.
Quello avrebbe potuto essere il suo ultimo giorno: per pochissimo il suo filo non era stato spezzato.
La vera sposa, quando lui arrivò, lo aspettava: la fama del
suo oro lo aveva preceduto e il ricordo del disperato amore
che gli riempiva gli occhi da bambino non le aveva lasciato
dubbi sul vero scopo della sua venuta.
Lei era sempre bellissima, con gli occhi di un cupo azzurro e i capelli d’oro. Lo aspettava con astio e sollievo: finalmente cessava la sua attesa di uno sposo ricco che venisse a
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portarla via da quelle montagne sassose, dove messer Michelangelo non era tornato, e si era tornati alla farina di castagne lessata.
Ma non per questo gli avrebbe mai perdonato di essere il
figlio del prete e della fattucchiera, ché a lei sarebbe dovuto
toccare qualcosa di meglio di un bastardo. Lei con tutta la
sua bellezza e il suo rancore.
Un bastardo che, come se ancora non gli bastasse di essere
tale, osava venire a chiederla a piedi come un pellegrino, seguito da un cane bastardo quanto lui, se lo doveva essere scelto apposta per non sfigurare nel paragone. Se quell’immondo
botolo non la smetteva di scodinzolare, abbaiare e correre lo
avrebbe fatto abbattere dai sui servi, anche se di servi ne era
rimasto uno solo. Gli altri se ne erano andati dopo che era
successa la catastrofe che messer Michelangelo se li era andati a cercare altrove i suoi marmi, e lei ora non aveva altra scelta che sposare un bastardo. Uno si, ma due no: che scegliesse
subito o lei o il cane. O la cacciava per sempre quella bestiaccia pulciosa o se ne andasse via subito insieme a lei.
Il ragazzo la prima parte del discorso non l’aveva proprio
sentita, perso com’era nei suoi pensieri: il padre e la madre
che se ne erano andati; chissà se Dio c’era e com’era, se il Dio
dei mamelucchi o dei cristiani, quello paziente di suo padre
o quello cattivo del Sant’Uffizio che campava di torture e di
morti ammazzati; o altro ancora. Chissà se in qualche punto
del cielo e della creazione suo padre e sua madre ora stavano in pace, potendosi amare senza più destini di gogna e di
umiliazione. Un posto dove avrebbe potuto incontrarli
quando fosse venuta la sua ultima ora, giorno che aveva
mancato per un sospiro. Un posto dove avrebbe potuto in-
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
contrare loro e il suo antico padrone. Anche a lui aveva voluto bene.
Pensò anche alla sposa africana: dove poterla mettere, che
fosse abbastanza vicino da poterla incontrare e tanto nascosta che la vera sposa non lo scoprisse mai. E di un notaio anche aveva bisogno, per fare un lascito inoppugnabile, che assegnasse metà dei suoi tesori al bambino scuro: sua madre se
l’era guadagnata la sua fortuna: ché nessuno potesse toccarla mai.
Poi il tono della fanciulla si alzò, divenne stridulo; traversò il muro dei suoi pensieri e gli arrivò. Che scegliesse subito tra lei e il cane e le facesse sapere.
Lui si ricordò solo allora di essere un bastardo. Per anni e
anni non gli era stato più rinfacciato e se ne era dimenticato.
Se ne ricordò all’improvviso, profondamente stupito di essersi perso dalla memoria la cosa che per tutti gli anni della
sua infanzia gli era sembrata la più importante della sua vita; più importante ancora della vita stessa e dell’amore di chi
gliela aveva data.
Si ricordò solo allora che lì, lontano dall’Africa, il suo
bambino primogenito non sarebbe stato né il figlio di una seconda sposa né quello di una concubina, ma semplicemente
e orrendamente un bastardo come già lo era stato lui ai tempi suoi.
Alzò gli occhi e li posò sul viso della vera sposa, sulla sua
bellezza che restava perfetta anche nel livore. La nostalgia
del riso della fanciulla africana lo colpì come una pugnalata.
Guardò gli occhi azzurro cupo e i capelli d’oro e si accorse
che l’unica cosa che lo legava a lei era il vecchio sogno di
pensarla sua signora e sua sposa. Era un sogno che lo aveva
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guidato sulle piste di sabbia e di sale, senza che la disperazione lo arrestasse mai. Gli aveva dato forza nello sfinimento, coraggio nella paura, ma i sogni sono qualcosa di dolce e
magico, come quando da bimbi si sogna di poter volare. Ora
il sogno spariva.
Guardò l’inutile bellezza della fanciulla d’oro. Cercò di
immaginarla mentre dava la caccia agli scorpioni o teneva
testa ai cammellieri; cercò di immaginarla nell’amore e riuscì
a vedere solo la fanciulla scura.
La sposa africana gli riempì i ricordi. Pensò alle umiliazioni a cui li stava per condannare, lei e il bimbo che lei portava, il loro bambino, anche lui per sempre un bastardo, insultato e deriso, condannato allo scherno per tutta la vita. Si
riascoltò mentre spiegava alla fanciulla scura che lui aveva
un’altra sposa. Glielo aveva spiegato prima di giacere con
lei, dal giorno in cui l’aveva incontrata, e poi ancora dopo,
quando lei gli aveva chiesto di toccarla perché lui cancellasse con le sue mani il ricordo orribile delle mani degli altri che
l’avevano usata. Glielo aveva spiegato e ripetuto e aveva
pensato che questo bastasse, neanche non fosse stato un
bambino vero quello che avevano fatto insieme; neanche
non si fossero voluti bene davvero. Lui aveva imparato da lei
come si entra in una donna. Era lei che glielo aveva insegnato e ora lui la lasciava, con il loro bambino, in una terra che
per loro era straniera.
L’enormità della sua follia lo sbalordì: la distruzione che
stava per fare; il dolore che ne sarebbe venuto.
Neanche se l’avesse amata quella bellissima fanciulla
chiara ne avrebbe avuto diritto, e in più non l’amava. Il sogno era finito. Non era stato un sogno, ma un incantesimo, il
brutto dono di una fata astiosa.
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
Disse che sceglieva il cane e se ne andò.
Per la seconda volta la bestiola gli salvò la vita. In un giorno solo. Era stata una buona cosa salvarlo e portarselo dietro; era stato il cane, non l’oro il vero dono dell’Africa, senza
di lui il tesoro altro non sarebbe stato se non una trappola
per perdere la sua vita e quella dei suoi.
I suoi. La donna e il bambino. La sua donna, il suo bambino.
Arrivò al campo correndo, insieme al cane, che era felice
anche lui per tutta quella corsa tra i castagni. La sposa africana lo aspettava seduta su un vecchio tronco poco distante
dai fuochi. Lui le disse dei genitori morti, del cavallo azzoppato e della vipera.
Le disse che l’altra sposa era già andata a un altro, per
l’orgoglio di non confessare la scioccaggine di quel viaggio
inutile, ché ormai lui avrebbe dovuto capirlo da tempo ormai che l’unica donna che voleva vicino era solo lei; lei con
il suo bambino scuro concepito tra gli scorpioni: il loro figlio
primogenito.
Lui non lo disse, ma lei lo capì. Lei lo aveva sentito ridere con il cane e non era il riso di uno sconfitto o di un rifiutato.
Se ne andarono al campo tenendosi per mano. Il cane li
seguì contento.
Scese la sera e si alzò la luna.
Roma 1692
Era figlio di un uomo che lo aveva fatto e poi se lo era
scordato. Un giorno anche sua madre sparì nel nulla: forse
una carrozza l’aveva arrotata, forse era finita nelle acque del
fiume.
Nessuno era più tornato e lui era rimasto solo, in una città
bellissima che di lui non sapeva che farsene avendone già
abbastanza di abbandonati, sorci, gatti randagi e cani a dividersi le bucce marcite e la carità cristiana.
E non avendo niente altro su cui contare che la pietà altrui, che scarseggiava, e la forza, che non aveva, per battersi
con tutti gli altri che come lui campavano di pattume, altra
risorsa non gli rimase che rassegnarsi a morire di fame.
Ma lui non si rassegnò. Volle campare.
Un giorno cominciò a cantare, per sentirsi un po’ meno
solo, perché le sue giornate vuote di tutto gli passassero
prima. Erano versi monchi e spaiati, canti che aveva sentito nel buio, fuori dalle taverne, quando nobili e signori si ricordavano di essere uomini anche loro, e dopo essersi nascosti la faccia nei mantelli andavano a fottere le serve e i
ragazzini.
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
Aveva una voce prodigiosa. La gente si fermava per starlo a sentite. Qualcuno gli tirava qualcosa e con quello poté
restare in vita.
Alla tenutaria di uno dei postriboli più miserabili venne
l’idea di metterlo davanti al lupanare a cantare in versi interi la storia dell’uccello e del suo nido. Chissà, forse che gli indecisi si sarebbero invogliati, ché anche le sue baldracche dovevano mangiare, pure loro che erano vecchie e finite, povere figlie, denti marci, zinne vuote; qualcuna arrivava già all’età di Nostro Signore quando fu messo in croce.
Il bimbo fu un po’ più vestito, un po’ meno arruffato; per
la prima volta allegro e sfamato. Si formò una piccola corte
di straccioncelli intorno a lui: loro difendevano i suoi guadagni e poi si divideva tutti insieme.
Avvertito dai devoti giunse l’arciprete a sanare quello
schifo: la sua innocenza tradita, la sua castità venduta. Portò
il bimbo al sicuro nell’ombra della sagrestia. Lì avrebbe cantato le lodi di Dio, avrebbe imparato il Canto, ché se la Provvidenza gli aveva dato quella voce, era per combattere il maligno, salvare gli animi; perché l’inferno e i lupanari restassero in eterno vuoti.
E lui imparò con la fame, le botte, le lunghe ore in ginocchio nella cripta con le ossa dei morti. Imparò i salmi in latino che erano infiniti elenchi di sillabe insensate. Imparò dalle pedate dei chierici e dei novizi il disprezzo di coloro che
hanno il verbo per chi il verbo non lo parla e non lo intende,
e solo ne ripete i suoni incompresi con la forza della memoria e della paura. Imparò l’ordine, la disciplina, l’aridità del
dovere, l’umiliazione della pena.
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Poi un giorno imprecisato, in un momento qualsiasi, nacque la gioia dell’armonia: sentì la sua voce incastrata tra le
altre voci come la gemma di una corona.
All’inizio fu un sentimento lieve, appena sentito, appena
accennato, che di giorno in giorno ingrandì, divenne più forte e sicuro.
All’inizio fu solo nelle messe grandi; poi fu sempre, anche
durante la rigida ricerca di perfezione delle prove.
Il bambino divenne sempre più insofferente alla sbadataggine e agli errori, ancora più fanatico del capo coro. La
sua voce perfetta, articolata in parole oscure, si alzava sempre più alta e più pura, coprendo le sbavature altrui con la
sua forza affinché l’armonia non si guastasse mai.
Era il più bravo, era perfetto, bravo come nessuno era stato mai.
E quella vita che dapprincipio aveva odiato con tutta la
sua anima di uccello nato libero, ora cominciò ad amarla con
tutte le sue forze perché la forza dell’armonia divenne un gigante e occupò tutta la sua anima e tutti i suoi pensieri.
Il suo canto era gioia: la voce che sale, poi scende e poi sale di nuovo, senza spezzarsi mai, dritta e intera come un raggio di sole. Nella solennità del canto spuntavano le lacrime
ai nobili e ai signori venuti a chiedere perdono per le serve e
i ragazzini.
«La voce di Dio» disse il vescovo.
Lo tolsero dal pavimento della sagrestia. Gli dettero le
scarpe con la fibbia, il vestito grigio con il collarino. Gli insegnarono a leggere e a scrivere, anche un po’ di latino. Era la
voce di Dio e doveva capire quello che cantava.
Segni incomprensibili diventavano parole; suoni insensati diventavano preghiera. Poi c’erano le prove, le messe
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
grandi, la voce che sale, che scende e poi sale di nuovo, perfetta e pura come la lama di un’invincibile spada.
Un giorno d’estate, mentre il sole cominciava a scendere,
l’arciprete venne a prenderlo, gli sorrise, lo chiamò usignolo.
Si avviarono insieme per le strade. L’arciprete parlava e parlava, il canto che redime gli uomini, la missione del cantore,
la virtù distribuita; la castità; l’inferno e i lupanari vuoti; la
meravigliosa virtù della castità, la sicurezza di mai incontrare le fiamme di Belzebù.
E lui ascoltava, cullato dalla voce. Non capì: forse lo volevano fare prete. Neanche poi capì che cosa gli stavano facendo e perché, nella bottega del barbiere, dove lo fecero orinare contro un vaso di geranio e poi lo castrarono tenendolo
fermo in tre, schiacciandogli i testicoli con uno strumento simile a quello usato per i vitellini. L’arciprete continuava a
parlare della virtù e della castità, ma le urla coprivano tutto
ed era come se parlasse solo. Il barbiere sghignazzava per la
furia del piccolo cappone: in tre a tenerlo fermo e ce l’aveva
quasi fatta a mordergli una mano.
Il cielo era color indaco. Le prime stelle brillavano. L’arciprete se lo mise in spalla e lo riportò all’oratorio. Ogni tanto, per il dolore, il bambino sveniva. Sentì in una nebbia gli
altri che lo chiamavano cappone e l’arciprete che li cacciava.
Lo misero a letto, il suo vero letto, di cui andava tanto fiero.
Il suo scroto era diventato enorme e viola. Si svegliò del tutto e si vomitò addosso, rischiando anche di strozzarsi perché non riusciva a smettere di urlare. Lo dovette pulire un
vecchio servo che si era rotto la schiena tutto il giorno a faticare, come quello schifo di castrato non avrebbe dovuto fare mai. Picchiò il bambino sulla faccia e minacciò che se non
la piantava lo avrebbe preso a calci su quello che gli restava
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dei coglioni. Il piccolo smise di urlare e cominciò a piangere piano.
Ma la storia non finisce qui, ché niente al mondo finisce
mai.
Il tempo passò, il tempo che tutto copre e tutto sana, anche le ferite dei bimbi neri resi eunuchi e venduti per guardare gli harem ai sultani. Il tempo passò anche per lui e lui
guarì, ma la sua anima si deformò; restò rattrappita e dura
come il grumo di cicatrici che erano tutto quello che restava
del suo diritto di essere padre. Si rattrappì e si raggrumò sotto il grasso che strato dopo strato si accumulava, con quella
parola, cappone, che gli risuonava nel cranio.
Non uccise e non rubò: accumulò oro e la gioia acida dell’usura fu il suo modo di odiare il mondo. E l’astio maggiore
era a chi lodava il suo canto, quel dono ignobile che gli avevano dato in un pomeriggio di fuoco vicino a un vaso di geranio.
Una delle sue serve gli morì e gli venne in casa una donna giovane, che era poco più di una bambina, e cantava, e sapeva fare il pane. Il pane era buono, il canto era orrendo.
L’uomo con l’anima rattrappita che si spegnava, mentre il
grasso si acculava, passava le notti con gli occhi aperti nel
buio in attesa che all’alba l’odore del pane e quella voce felice e sgraziata portassero un po’ di colore in tutto il suo grigio. Ma una mattina il mondo restò cupo, senza la voce della piccola serva e senza il suo pane.
La trovarono legata in una scuderia poco lontano. Tutta la
notte era stata lì; lei non sapeva contare e non si seppe mai
in quanti l’avevano violentata.
Alcuni ratti erano venuti prima dell’alba, attirati dall’odore del sangue, rassicurati dalle legature.
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
Guarì. Il tempo passò anche per lei.
Il suo grigio padrone pagò i medici, la fece curare. Se la
prese in casa.
La sposò; adottò il bambino che lei ebbe; gli dette il suo
nome. Imparò le molte cose che la mutilazione non gli aveva
tolto: imparò a farla ridere e solo lui avrebbe potuto riuscirci perché degli altri uomini, quelli interi, lei aveva paura. Rise con lei.
Usò il suo oro per fondare imprese, aprire botteghe, solcare i mari, perché per ogni uomo che ha un lavoro ci sono
una donna e dei bambini che possono campare, senza doversi vendere, senza mutilazioni.
Cantò per lei.
Capua 1860
Si chiamava Giacomo ed era figlio di un nobile.
Era la sua una schifezza di nobiltà.
Il sogno di uno Stato liberale era nato con la Repubblica
Partenopea, e si era infranto, anche perché squadracce di briganti erano state arruolate per sterminare i nemici di Dio e
del re. Il cardinale Ruffo, per salvare il regno, aveva promesso un pezzetto di terra e, chissà, magari anche la nobiltà a chi
si dava da fare a sotterrare i rivoluzionari, ma bisognava
darsi da fare sul serio, non solo aspettare gli inglesi e dire
due preghiere.
Si chiamava Giacomo ed era figlio di un nobile.
Suo nonno Pasquale se ne era partito alla testa dei tagliagola dei Mazzoni per salvare il Padreterno e il re e dei cadaveri dei giacobini si era perduto il conto.
Il cardinale Ruffo, che era un porco, ma non era stupido,
l’eroe dei Sanfedisti lo fece fare cavaliere, ché qualcosa agli
affossatori della Repubblica bisognava dargli.
Il re, che era stupido, ma non era un porco, davanti a
quella catasta di morti ammazzati non restò contento. Cavaliere va bene, ma a corte mai. Lui, figli e nipoti: cavalieri passi, ma a corte mai.
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
Era il 1799 e pioveva. Era finita la Repubblica Partenopea:
la libertà, la fraternità la giustizia. Niente più re; niente più
nobiltà; la terra ai cafoni, scuole ed educazione, i giudei
uguali agli altri. Tutto finito: troppe novità, troppe stranezze.
Per Napoli non era cosa: i suoi Lazzari erano troppo stracciati, troppo stanchi, troppo occupati a elemosinare e scansare pedate. Combatterono, versarono sangue e morirono
pure, ma per gli affamatori. Il Glorioso Popolo Partenopeo
fece del suo petto scudo alla fede e la Repubblica finì. Quelli che ci avevano creduto alla libertà e al progresso li appesero alle forche di piazza del mercato un giorno d’ottobre
che pioveva.
Amen.
E Napoli perse la via: per sempre perse la via, ché la Provvidenza di rado dà una seconda occasione, e la storia mai. E
sempre là sta, la città del sole e dei mandolini, sporca, povera, stracciata, a elemosinare, strisciare, scansare pedate, raccolta attorno a un mare sporcato, un vulcano sfiatato, un
santo giallastro e scimunito che fa il prestigiatore con il sangue raggrumato.
E il miracolo della dignità è andato perduto.
Si chiamava Giacomo ed era figlio di un nobile.
Nella Terra di Lavoro era nato il Cavalierato di Montepuzzuto, a riprova dell’imperitura gratitudine della Corona
a un suddito devoto e fedele. Il feudo risultò essere una collina sassosa che si specchiava in un acquitrino: don Pasquale ci fece costruire un casale giallo e con gli ultimi tarì si fece
anche lo stemma di pietra da appendere sul portale.
E lì finì i suoi giorni, bevendo, mangiando e fottendo le
serve. Ci furono altre storie, a Napoli e in Europa. Passò Napoleone, che fu uno strano monarca, un po’ dittatore, un po’
CAPUA 1860
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libertario; cercò di fare un impero, ma l’Europa non ne volle
sapere e non se ne fece niente. A Napoli ci fu Gioacchino Murat, che probabilmente era una brava persona, ma il popolo
napoletano, i Borboni e la storia lo cacciarono e si tornò al
reame di sempre.
E questa è la storia del Cavaliere di Montepuzzuto. Passiamo alla famiglia.
Sua moglie, donna Concetta, nonna del nostro eroe, non
appena mise le mani sul feudo si caricò del compito di trasformarlo nella terra del latte e del miele. Si indebitò. Vendette la collanina di coralli, il rosario di granati e cominciò:
le capre sulla collina e i bufali nella palude. Lei, da sola, da
prima dell’alba a dopo il tramonto, sulle pietre e nel fango,
con i calli alle mani e i piedi gonfiati dalle vesciche.
Poi arrivarono i primi pastori, i primi mandriani, le donne per la mungitura, i carri. Donna Concetta riscattò le cambiali, ricomprò il rosario, imbottì il materasso di tarì.
In termini di politica economica, la sua fu un’intuizione
geniale: l’assoluta necessità di passare da un’economia feudale a un’economia borghese attraverso l’evoluzione imprenditoriale della classe dirigente tradizionalmente parassitaria. Intuizione che avrebbe potuto salvare il Regno di
Napoli e non solo quello, ma non fu compresa. Non lo sarebbe stata neanche se donna Concetta fosse stata in grado
di teorizzarla, e lei era semianalfabeta. Nemo propheta in patria. Non solo nessuno apprezzò quel suo mettere le basi del
benessere della famiglia e della regione, ma gli fece proprio
schifo; e che cacchio, la moglie di uno che aveva la pretesa
di essere cavaliere doveva ricamare a piccolo punto e dire il
rosario.
Lei non si riposò mai, anche perché il piccolo punto non
lo sapeva fare e il rosario se lo diceva mentre accatastava
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
quattrini. Lei rimase lì, con il sole sulla testa e il fango sulle
sottane, perché i suoi figli non dovessero patire mai la mancanza di qualche cosa, perché fossero dei signori.
Ma di figli ne crebbe uno solo; gli altri uno dopo l’altro li
perse tutti: la febbre e il mal caduco glieli portarono via.
L’unico che si salvò fu Alfonso, che era piccolo, piagnucoloso, un insopportabile scriccioletto incipriato, con il cervello di un pollo, ma a lei sembrava l’ottava meraviglia del
mondo.
Dice un antico detto che ogni scarrafone pare bello alla
mamma sua, vale a dire che anche gli scarafaggi cuccioli
possono contare su una valutazione positiva da parte degli
scarafaggi madri. Donna Concetta non si accorse mai di
quanto suo figlio fosse un coacervo di scempiaggine, e gli riversò addosso tutto l’amore che non aveva dato a tutti gli altri, quelli che se ne erano andati prima di diventare uomini
e donne. Per lui avrebbe munto anche il latte delle formiche,
rubato le stelle al cielo.
Lo coprì di pizzi. Lo adorò.
L’altro girava nel cocchio con lo stemma e girava la testa
di lato quando la incontrava per lo schifo che aveva di lei,
contadina fetente; lo schifo che gli facevano lei e l’idea di
averla per madre.
La prima sposa di don Alfonso era pronipote di un conte:
morì di parto, ma con la gioia di aver generato il discendente del cavalierato. Per le seconde nozze ci si dovette accontentare della figlia del farmacista, ma per tutta la vita le fecero scontare l’onore. Vita che fu breve. Anche questa morì
di parto, come la prima sposa, ma lei morì disperata, povera
donna, per l’orfanello che abbandonava tra quella gentaglia
boriosa e cattiva, vesciche vuote, piene di spocchia e di aria.
CAPUA 1860
77
In coda al gruppo stavano i rampolli della dinastia: Giovanni, allampanato, ossuto e pallido, e Giacomo, grosso,
grasso, goffo e scuro. Mai si poterono soffrire e mai giocarono insieme, separati per sempre dalle madri diverse, dai caratteri opposti, da un reciproco, irrimediabile disprezzo.
E il disprezzo ovunque aleggiava nel feudo degli acquitrini, impregnando tutto come un odore, malefica esalazione
dello stemma di pietra, ché con lui era cominciato.
Nessun vero nobile aprì mai i portoni ai Cavalieri di Montepuzzuto, per quel blasone macchiato di sangue, mozzarella e letame. Né i Cavalieri di Montepuzzuto poterono mai ricevere alcuno, ché i nobili solo tra loro si parlano, e gli altri
nobili a casa loro non ci volevano andare. Il risultato fu una
solitudine arcigna e biliosa, vissuta nel silenzio imbronciato
di una dimora cupa e buia, dietro gli scuri chiusi.
Fuori c’era la luce, le bestie, i carri. C’erano le urla dei carrettieri, quelle dei mandriani. Donna Concetta entrava e
usciva tra i due mondi, la casa e il cortile, l’ombra e la luce.
Tutti gli altri dentro, a covare il cavalierato. Per tutta la
sua infanzia Giacomo guardò alla sagoma luminosa dell’androne come a un miraggio. Era il suo piccolo sogno di bimbo solo: correre con i figli dei cafoni, nella pioggia e nel sole,
tra pozzanghere e cacche di bufalo.
Ma non si poteva: mai il cavaliere suo padre avrebbe dato il permesso. E lui se ne stava per ore, a pochi metri dal
portone, appena sfiorato dal chiasso e dalla luce, impettito e
scuro, piccolo barbagianni desolato.
Essendo il primogenito malaticcio e acciaccoso, l’onore
del Collegio Reale toccò a Giacomo. Il ragazzino aveva otto
anni. Partì in una luminosa aurora di un limpidissimo gior-
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
no di settembre, mentre le ultime stelle brillavano ancora e il
primo sole riempiva di oro le nuvole all’orizzonte, raddoppiandole negli acquitrini. Giacomo guardava felice la sua casa rimpicciolirsi e sparire: se ne andava via, lontano, in un
posto pieno di cose e voci, senza silenzi e senza scuri chiusi.
Il pentimento per quella gioia riempì i suoi anni successivi. Era grasso, come tutti i cafoni, e nobile di una schifezza di
nobiltà. Lo chiamarono Re della Merda di Capra e gli fecero
di tutto: lo schifarono, lo picchiarono, gli orinarono addosso.
La prima settimana fu un feroce digiuno, perché con la
sua minestra fecero il tiro allo sputo. La seconda settimana
fu di avvilimento e umiliazione perché con i crampi per la fame cedette e mangiò.
Imparò a non separarsi mai dalla paura. I suoi sogni si
isterilirono. Nella casa buia di suo padre sognava la luce del
cortile. Ora sognava la casa buia di suo padre. Poi neanche
quello sognò, ché di tutto aveva schifo, per l’inevitabile
conformismo dei perseguitati.
Il peggio di tutto era sua nonna, donna Concetta. Lo carezzava. Gli parlava delle mandrie, dei campi, dei suoi figli
morti bambini: piangeva e lo carezzava. Lui di quelle mani
aveva orrore: erano scure, callose, ignobili; non nobili, appunto. Se ne restava immobile e duro, a subire le carezze e la
voce, paralizzato dal timore che quelle mani potessero lasciargli un’aura, un segno, riconoscibile poi dall’autentica
aristocrazia del regno, che l’avrebbe lavato con i propri
escrementi per levargli il marchio.
Finalmente al collegio Giacomo scoprì la biblioteca. Era in
una vecchia torre sul mare e aveva a custodirla un vecchio
prete sonnacchioso, che con la sua presenza gli avrebbe ga-
CAPUA 1860
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rantito l’impunità. Avrebbe passato lì le sue giornate, guardando le mosche e il cielo; evitando aule, scale, cortili, calci
e sputi; aspettando semplicemente che il tempo passasse
senza portare dolore.
All’arrivo di Giacomo il vecchio prete si svegliò. In un
certo senso lo stava aspettando.
Anche lui passava lì le sue giornate, guardando le mosche
e il cielo; evitando aule, scale, cortili; aspettando semplicemente che il tempo passasse.
Si chiamava don Gaetano e quarant’anni prima aveva insegnato. Erano state, le sue, lezioni memorabili. Aveva parlato di Dio, degli Uomini e della Storia. Aveva esagerato. Da
quelle parti non usava. Tutto quello che bisognava insegnare era a leggere e a scrivere e anche un po’ di latino, proprio
perché sapessero seguire una messa e non fare la figura del
bifolco a corte. Nessuno aveva mai chiesto al collegio di insegnare a pensare. O di insegnare la storia, quello che era
successo davvero, perché poi la gente imparasse a pensare
da sola, che forse di tutte era la sciagura peggiore.
Il folle aveva parlato anche di Voltaire, come se non bastasse aveva detto che anche nel Vangelo gli uomini sono
uguali. Parlò delle donne, ché non ci sono solo al mondo madonne e puttane. Disse che le puttane non nascono puttane,
nascono bambine come tutte le altre, e ci sarebbero meno lupanari se la miseria fosse un po’ di meno. Parlò un giorno
degli efebi: quelli che loro chiamavano «recchioni» avevano
avuto in altre epoche altre dignità e altri nomi. Questo fu
troppo e lo cacciarono.
L’autorità finalmente si svegliò e intervenne. L’insegnamento fu riportato ai ritmi abituali, scanditi da preghiere e
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
vergate: gli scolari a scaccolarsi il naso per non morire di
noia.
Don Gaetano fu sospeso per sempre, bandito dalle amate
aule, condannato a vita al silenzio e al tedio di quella biblioteca solitaria. Quando ormai la solitudine stava per inaridirlo e l’inutilità per spegnerlo, Giacomo arrivò: sporco, lacero,
scorticato, con il sangue al naso, l’anima a pezzi e nei vestiti
l’odore del piscio altrui. Il vecchio prete si risvegliò; si ricordò di essere ancora vivo.
Accolse il ragazzo, lo ripulì, lo consolò. Lo sommerse in
un fiume di parole, lo ascoltò. Lo ospitò: la prigione divenne
rifugio e da quel momento il suo custode la amò.
L’autorità non intervenne, anzi fu grata alla Provvidenza
che la questione del piccolo bifolco si fosse in qualche maniera aggiustata, che lui si fosse tolto da quelle aule dove il
chiasso che facevano gli altri per farlo a pezzi stava veramente diventando un ostacolo a qualsiasi cosa si cercasse di
insegnare.
Fu un incontro straordinario: il fuggiasco e l’esiliato, il ragazzo umiliato e l’educatore azzittito. Ambedue condannati
alla solitudine e all’avvilimento, insieme, evasero la consegna: nella torre sul mare nacque la letizia, quella di conoscere e quella di insegnare. Le giornate passavano veloci e lievi,
immemori e serene, rinchiuse in un universo di carta che
muffa e polvere lentamente dissolvevano.
Don Gaetano insegnò di tutto: triangoli, equazioni e mari; Carlo Martello che ferma i saraceni; il Saladino che nessuno poté fermare.
Ma era diventato saggio. Non insegnò che i cafoni non
tengono meno anima delle loro Maestà, perché queste sono
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cose che, se uno non le impara da solo, non servono. Non
parlò degli efebi del Parnaso, ché l’innocente non lo seguisse nel suo inferno, nello strazio di non essere niente, né terra
né cielo, né carne né pesce.
Al ragazzo, però, i suoi sogni li raccontò; non ne poté fare a meno: i madrigali che non aveva mai ricevuto, le poesie
che nessuno gli aveva mai scritto. Petrarca, Ovidio, il Dolce
Stil Novo: come nessun altro avrebbe mai potuto gli indicò
quali erano le parole che esprimevano maggiore amore, quali le perifrasi che davano maggior piacere. Tra citazioni, commenti e note Giacomo fu involontariamente istruito su come
far vibrare le corde e come far cadere i cuori: come amare le
donne e farsi amare.
Fu il penultimo dono del vecchio prete.
Dove don Gaetano nulla poteva era l’ardimento.
La sera era un’agonia. Le stelle si accendevano e l’anima
di Giacomo perdeva luce. Con la testa china se ne andava: al
refettorio, al dormitorio, al martirio; indifeso, solo, svuotato,
senza volontà, senza onore.
L’inverno del suo sedicesimo anno fu gelido. Battuta dai
venti la torre sul mare si disfaceva. Dalle crepe filtrava il
freddo. Dalle tegole l’acqua grondava, a marcire i pochi libri non ancora mangiati dai topi. Il mal di petto uccise don
Gaetano.
Soffocato dai rantoli, con i polmoni annegati, il pover’uomo morì sereno, ringraziando il Padreterno della giovane vita, l’ultimo scolaro arrivato nel suo naufragio di inutile vecchio prete a restituirgli la sua dignità di precettore.
Giacomo rimase una notte intera a vegliare la salma, annichilito, incredulo, sperando forse ancora in un miracolo, in
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
uno sbaglio. Quando finalmente si ricordarono di allontanarlo il sole era già alto. Il ragazzo stava male: barcollava, si
teneva ai muri; l’aria gli mancava; la nausea lo soffocava:
aveva gli occhi rossi, la faccia scurita da una precoce e fitta
barba scura.
All’inizio non distinse nemmeno nella nebbia in cui vagava gli altri collegiali, non udì lo scherno per il vecchio recchione e per il giovane Cavaliere di Montepuzzuto che era
venuto a svagargli gli ultimi anni con il suo deretano di nobiltà approssimativa.
Poi all’improvviso una risata più alta delle altre lacerò la
nebbia; il contatto tiepido e ignobile di uno sputo risvegliò
tutti i sensi, tutta la rabbia, tutto l’odio. Giacomo guarì di
colpo. Divenne una furia. Nessuno riuscì a fermarlo. Nessuno arrivò a mettersi in salvo. Li massacrò di botte: loro, le sedie i quadri, vasi, finestre e mura. Non si salvò niente e nessuno. Aveva la forza invincibile degli indemoniati, dei cani
arrabbiati. La forza della giustizia e dell’onore.
Come un secolo dopo dimostrò tale dottor Lorenz con un
famoso esperimento sullo spinarello, pesciolino che combatte seriamente solo per difendersi la casa, non è la forza fisica, ma il livello di incazzatura che nelle risse garantisce la
vittoria.
Non in corporis viribus sed in animi fortitudine victoria est.
Anche questo, però, studiato sui libri non serve.
Dopo aver saldato tutti i conti con tutti quelli che aveva
incontrato, distrutto mezzo collegio, sradicato cespugli e divelto la panca del priore, sudato, ansante e senza un graffio
Giacomo raggiunse la celletta del padre guardiano. Lo
informò con la calma dei vincitori che tutti i blasoni del mondo valgono meno degli escrementi di vacca che perlomeno
concimano qualcosa, dopo di che gli chiese, con la massima
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cortesia, che gli facesse venire una carrozza a nolo per tornarsene a casa sua.
E con questo l’opera del suo maestro fu completa.
Fu uno strano viaggio: Giacomo ne serbò memoria. Senza più la pena di essere l’ultimo dei nobili del regno, senza
più la boria di venire prima dei cafoni di Montepuzzuto, per
la prima volta fu uomo tra gli uomini, libero ma anche sgomento di non avere più la strada segnata in un mondo enorme senza più regole o costrizioni. Si sentì vuoto, nudo e
nuovo come un bambino appena nato. Il mondo era nuovo
con lui.
Guardò la campagna livida: era un inseguirsi di grigi. Gli
specchi scintillanti degli acquitrini riflettevano il cielo. L’odore della terra bagnata lo avvolse. E poi altri odori, più
aspri, più duri: fuochi, letame. Si ricordò la nonna. Fango, fumo, letame. Contadina fetente, la chiamava suo padre: fango, fumo, letame, aglio, sudore e fatica. E un altro odore, più
aspro e più lieve: le mele; le mele seccate che lei teneva nelle
tasche delle sottane per smozzicarne un po’ nelle sue giornate che non finivano mai, per spartirle, accoccolata sui gradini con i figli delle serve: i baroncini suoi nipoti sarebbero
morti prima di mangiare quella monnezza.
La rivide, mentre gli raccontava dei suoi figli morti bambini e si puliva le lacrime con il polso, perché i fazzoletti non
sono cose da contadine. Si rivide, immusonito, schifato, muto e duro davanti a quelle lacrime, mentre pregava Dio che
mai e poi mai al Collegio Reale sapessero di quelle maniche
piene di moccio di naso.
Contadina fetente la chiamava Giacomo, che più degli altri la detestava per il rancore di somigliarle, ché da lei gli venivano la sua faccia, il corpo, le mani; da lei gli veniva lui
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
stesso, detestato, deriso, grosso, tozzo, zotico, bifolco. Alla
prima occhiata l’aristocrazia del regno lo aveva riconosciuto
per quello che era, il nipote di sua nonna contadina.
Il pianto trattenuto al mattino davanti al dolore della
morte finalmente arrivò, per la vergogna e la pietà. Fu un
pianto dirotto, irrefrenabile, convulso. Scosso dai singulti e
dagli sbalzi della carrozzella a nolo, Giacomo pianse urlando, battendo i pugni, digrignando i denti, ferendosi le mani,
come appunto piangono i cafoni.
Poi venne la pace. Calò la sera. Venne il silenzio. Calò la
pace.
Poteva amare sua nonna. Poteva amare se stesso. Poteva
essere fiero di essere quello che era. Senza la boria crudele e
suicida di quel maledetto blasone poteva imparare ad amare quello che aveva e che aveva sempre avuto senza mai capire che la felicità era quello: la nonna, le mele seccate, la
terra, la palude, le bestie, anche il letame, che almeno concima qualcosa. E il casale giallo: anche quello avrebbe amato,
con le finestre aperte e pieno di luce e di bambini. Piccole
dolci creature. Come quelle che la nonna aveva perso. Per
quelle che lei non aveva cresciuto. Sarebbe stato il riscatto
per l’affetto negato, le mele rifiutate, le lacrime non asciugate, per la fatica senza tregua; per la solitudine senza consolazione.
Ma arrivò tardi. La nonna non era più sola. Già dall’autunno se ne era andata dai suoi piccoli dolci bambini. Don
Alfonso non aveva ritenuto di dovere informare Giacomo
del decesso trattandosi di persona poco grata, be’, come dire, per nulla in carattere con il resto della famiglia, che erano
loro, i Cavalieri di Montepuzzuto. Sa il Cielo come c’era finita in mezzo a loro quella vecchiaccia sudicia e pazza, ogni
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stirpe tiene i guai suoi, a loro era capitata quella strega che
trafficava bestie e latticini; anche le questioni di Giacomo al
collegio venivano da lì; e come ci si poteva aspettare che a
corte li ricevessero con quell’onta sul blasone; non appena la
strega era defunta, Dio che liberazione, non appena era morta, subito, subito il giorno stesso, lui aveva venduto tutto.
Bufali, capre, carri: tutto via; a metà prezzo purché via subito, ché a Napoli si sapesse che lui, Alfonso di Montepuzzuto, piuttosto stava con le pezze al culo, ma non vendeva
mozzarelle. La nobblesse obbligge come dicono i francesi.
L’espulsione di Giacomo arrivava giusta giusta ché tarì
per la retta non ce ne sarebbero più stati. Le spese per Giovanni erano state quelle che erano state: il giusto, il giusto.
Su certe cose non si può lesinare: calze, gilè, brache, pennacchi sui cappelli e un tiro a quattro che era una sciccheria. Ora
che non si faceva più mercato l’invito a corte era questione
di giorni, di ore. Bisognava stare preparati, non fare cattiva
figura.
Giacomo era cadetto. A lui restava la Chiesa. L’onore della fede: già c’era un po’ abituato, ché erano anni che stava in
collegio dai preti. Per lui il seminario di Caserta e poi una
bella parrocchia. Così che l’eredità restasse sana. Vero che
era una bella pensata?
Su Giacomo la stanchezza pesava mortale. Dell’inizio della giornata perdeva memoria. Cercò di ritrovare l’ordine dei
ricordi e delle emozioni.
L’amico perduto.
La dignità ritrovata.
La vergogna di un affetto arrivato troppo tardi.
Il sogno appena concepito e subito abortito di una possibile Arcadia.
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
Pensò di andare a sputare in faccia a suo padre, ma c’era
tutta la stanza da attraversare e lui non ce la faceva più a stare in piedi. E poi a che titolo, ché fino al giorno prima c’era
stato anche lui a schifare sua nonna e a sognare la corte dei
Borboni.
Cercò di pensare qualche cosa, raccattare qualche idea,
non annegare nello sconforto di una solitudine che si rivelava infinita. In nessun punto del mondo c’era un posto dove
lui potesse stare, c’era un sogno per lui. Altro non aveva se
non i suoi sedici anni e la sua faccia da contadino, unica eredità di sua nonna che gli restava.
Prete mai, ma meglio il seminario, il carcere di Gaeta, l’inferno, le miniere di sale a quella casa che non era più sua.
Qualsiasi cosa, ma non la vocetta di suo padre, la faccia di
suo fratello, quella piccola cariatide rinsecchita che ormai era
suo nonno, scopatore, sparatore, eroe del Regno.
Acconsentì.
Il Santo Sepolcro l’avevano già liberato, tanto valeva andare in seminario.
Il seminario fu l’età dell’oro, il suo periodo migliore. Giacomo incantò tutti: era un pozzo di scienza, ché nessuna
scuola del Regno avrebbe mai potuto dare tutto quello che
lui aveva avuto nella sua torre ventosa. E in più fu sempre
considerato un fiore di obbedienza e umiltà. Mai ebbe un
moto di superbia per quel blasone che pure inorgogliva tutto il seminario: era l’unico nobile; per il resto era tutta gentuccia: cafoncelli, poverelli. Mai ebbe un moto di impazienza per la regola: il distacco dagli affetti familiari, la rigida
proibizione a visitare i congiunti, che pure pesava come
piombo sugli altri novizi. Né mai il ragazzo fu avvilito da
quei terribili travagli etici e teologici che squassavano prima
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o poi ogni seminarista, ché le illusioni sulla Santa Chiesa le
aveva perdute già dai tempi di don Gaetano e di farsi veramente prete non se lo sognava nemmeno.
Era il pupillo, la gemma, il fiore all’occhiello. Nessuno lo
seguì, nessuno lo controllò. Nessuno si accorse quando cominciò a frequentare i postriboli delle Volte dei Saraceni.
Tarì il ragazzo non ne teneva, ché come seminarista non
gli toccavano, ma gli restavano liriche e poemi: Petrarca,
Ovidio, don Gaetano. Aggiustò, ritoccò, tradusse in vernacolo: fu un trionfo. In quel mondo di donne asservite, umiliate, vendute, comprate, di voci dure, di frasi rotte, di insulti, di oscenità scontate e ripetute, il suo patrimonio di parole
era una ricchezza favolosa, il tesoro dei quaranta ladroni, il
dono dei Re Magi.
Le donne per lui impazzirono; fecero a gara per volergli
bene. Nessuna si accorse che era brutto; a nessuno importò
di quanto era goffo. Fu con fermezza e fatica che lui rifiutò
ogni loro dono che non fossero le loro grazie e i loro dolci,
che erano un’altra cosa per cui lui aveva una passione.
Guappi e mezzane lasciarono fare, ché quello pur sempre un
nobile era: meglio lasciare perdere, non passare guai.
Stette anche con donna Rosa, che era brutta, chiatta e
sdentata e stava lì, tenuta solo per carità, a lavare le scale e
gli orinatoi. Ma nessuno la voleva più, e una sera, mentre
se ne stavano tutti a prendere il fresco accoccolati sulle scale, uno dei magnaccia la cacciò, via dalla sua vista e dal suo
odorato. Forse aveva avuto una cattiva giornata. Forse cercava qualcuno su cui depositare il suo livore. Le disse di
andarsene via per sempre da tutti i consorzi umani e civili,
di portare la sua bruttezza e il suo fetore in luoghi deserti e
remoti al di là dal mare, al di là dell’universo noto. Le chiarì
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
il suo non valere nulla, meno di una capra, quanto una
merda di cane. Doveva avere avuto una giornata veramente cupa.
Solo che era vero che lei valeva meno di una capra, quanto una merda di cane, a pensarci bene e anche a non starci a
pensare tanto, perché in un posto dove l’unico valore possibile era l’attitudine a farsi chiavare, l’inettitudine a destare
un qualsiasi pur minimo desiderio era un disvalore totale:
era l’annientamento, il nulla.
E la povera vecchia, per sottrarsi all’orrore di quel nulla,
che era ancora peggio di tutte le botte, di tutti gli aborti e di
tutte le chiavate non volute di quando valeva ancora qualcosa, con le lacrime agli occhi si andò a offrire a Giacomo, coram populo, ché tutti sapessero che lei valeva ancora qualcosa. Lui accettò, valorosamente, allegramente. Sorrise e cercò
un complimento anche per lei; citò la Bibbia: nigra sum sed
formosa. E lei fu di nuovo qualcuno; dopo anni e anni di cessi lavati ritornò una persona.
Ma per quanta fosse la tenerezza della sua anima, il corpo restò quello che era: sozzo, vizzo e tanto, tutto ammosciato in ripiegature scarlatte e crostose; lui dovette usare
tutta la sua dolcezza, la sua fantasia, la forza del suo corpo
da adolescente e ci riuscì ad andare alla fine, ma ancora non
finì lì, ché anche lei si dette alla cucina per sfamare il giullare e gli fece i biscotti con l’uvetta, che odoravano come lei,
impastati tra cimici e scarafaggi sul tavolaccio che le faceva
da letto. Giacomo finì tutto, fino all’ultima briciola, parlando
e parlando per non vomitare, lui si sarebbe mangiato direttamente le cimici e gli scarafaggi purché donna Rosa non sapesse mai tutto lo schifo che aveva, e Teresa finalmente si innamorò di lui.
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Teresa nei lupanari trafficava: vendeva merletti, aggiustava vestiti, lavava, pettinava. Ma non esercitava. Non ne voleva sapere. E alla sua maniera era uno scandalo, ché nella
sua famiglia il mestiere era tradizione da secoli, come per i
La Fayette fare i marchesi. Ogni stirpe tiene i guai suoi.
Teresa, lei sì, era la regina di Saba, scura, forte e fiera, ma
davanti a lei Giacomo si azzittiva, la sua lingua si seccava,
l’eloquenza si inaridiva: lui restava grosso, goffo e brutto,
con le sue enormi mani sudate strette l’una all’altra in quel
loro inutile aggrapparsi insieme, come per una specie di preghiera.
Teresa di Giacomo sorrideva: corvaccio allegro e cortese
calato nel quartiere a fare festa e confusione. Era il sorriso
tranquillo e dolce che hanno le sorelle più vecchie, le comari
più sagge. Poi lui si era fatto donna Rosa, e anche i suoi biscotti, fino all’ultima briciola, biscotti, scarafaggi e uvetta,
soffocando la nausea nelle buffonerie, ché il dono di quell’ora di gioia fosse completo.
E Teresa si era innamorata, come ci si innamora degli eroi,
ché l’eroismo non solo è fatto di eserciti e bandiere.
Era maggio: i giorni si allungavano, le stelle tardavano a
venire. I due ragazzi se ne stavano su un vecchio muro coperto di piccoli fiori, di tutto parlando e tutto dimenticando;
paventando la sera che avrebbe ricondotto lui al seminario e
lei dalla madre-mezzana, per la sua eterna battaglia di ostinazione e rifiuti.
Poi venne giugno: ci fu un temporale che sembrava se ne
stesse scendendo il cielo. I due si rifugiarono, grondanti, tra
le ortaglie sotto antichi archi, che i tuoni facevano tremare e
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
i lampi illuminavano di una luce da ira di Dio. La grandine
svuotò le strade e fu nella solitudine improvvisata di quella
penombra fradicia che, dolcemente, si conobbero.
Quando tornò il sereno Giacomo si congedò: solo per
qualche giorno, per poi tornare e non lasciarsi più.
Lei lo sapeva che non si era mai sentito che un nobile sposasse una donna delle Volte dei Saraceni, ma in quella dolcissima sera un po’ gli credette. Solo per poco; solo per qualche giorno. Poi se ne sarebbe tornata alla sua vita di sempre,
con qualche merletto da pochi soldi, senza più sogni, forse
con una creatura in grembo a ricordarle un temporale di
giugno.
Al seminario Giacomo salutò gli esterrefatti padri; ricuperò giacchetta e braghe con cui era arrivato sedicenne e se
ne partì per Montepuzzuto, la notte stessa, a piedi, digiuno
e senza un soldo, con i polsi e le caviglie lasciati scoperti dai
vestiti di quando era ancora ragazzino. Due grandinate gli
intralciarono la via e si sbagliò pure di strada: impiegò due
giorni ad arrivare.
Quando arrivò era grigio di polvere, nero di fango, con la
barba lunga, stravolto e affamato. A vederselo davanti don
Alfonso urlò di terrore, chiamando a raccolta i santi del Cielo e i servi della casa, sia quando lo scambiò per un brigante,
sia quando finalmente si accorse che era lui. Disturbato dal
chiasso arrivò anche il primogenito a vedere che succedeva.
Giacomo fu molto breve: succedeva che lui era venuto a
prendersi i soldi che gli toccavano. Suo padre lasciava tutto
all’erede primogenito della dinastia? Suo diritto. Giacomo
era venuto a riprendersi la dote di sua madre. Se ne erano dimenticati? Anche di quella non era rimasto più nulla? Non
lo riguardava; affari loro: si impegnassero le brache, si ven-
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dessero il tiro a quattro e tirassero fuori i suoi tarì. Gli servivano per sposarsi. La sua vocazione Dio l’aveva data, Dio
l’aveva ripresa, le vie del Signore sono infinite e chi erano loro per giudicare?
La sposa? Sì, l’aveva già scelta. Si chiamava Teresa Maluso; stava a Caserta; vendeva merletti alle Volte dei Saraceni.
Sissignore, le Volte dei Saraceni. No, non era uscito pazzo.
No, vendeva merletti, e anche se avesse fatto la zoccola era
la stessa cosa, ché lui se la sposava tale e quale. E adesso, con
il loro permesso, andava a riposarsi che era un poco stanco.
Il mattino dopo, con la barba fatta, la pancia piena e più
deciso che mai, affrontò fratello e amministratore. Nessuno
perse più tempo a parlargli della dinastia o della nobiltà che
obbliga. Gli mostrarono i libri contabili. La scioccaggine di
suo padre era tutta riassunta in piccole cifre ordinate. Il massimo che si poteva mettere insieme, vendendo, impegnando,
impezzentendosi erano ottanta tarì, meno di un quinto della
dote di sua madre. Se voleva trascinare suo padre e suo fratello in tribunale, padrone di farlo, ma più di quello non si
spremeva. Il tiro a quattro era già impegnato; le brache se le
erano già vendute.
Giacomo ci pensò. Poteva scordarsi il piccolo casolare
sommerso dai mandorli in fiore dove, nei suoi sogni, conduceva Teresa. Forse un campo di fagioli e un paio di bestie, se
bastava. La maggioranza dei sudditi del Regno delle Due Sicilie campava con meno. E comunque altro non c’era da fare. Accettò.
Si caricò di formaggio, ciliegie e pane e del rosario di nonna Concetta da regalare a Teresa; prese i suoi ottanta tarì e se
ne ripartì per Caserta. Era ormai giorno fatto. Davanti all’osteria c’era già gente che giocava a dadi. Teneva banco Tonino Tuttoculo, unico possidente della zona, attuale proprieta-
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
rio dei bufali che erano stati di sua nonna. Benché non vedesse Giacomo da più di un decennio lo riconobbe, lo salutò,
scherzò con lui e lo invitò al suo tavolo, ché anche gli altolocati si possono divertire con due tiri di dadi.
Più volte ripeté l’invito, ché anche gli altolocati si possono divertire con la fortuna. Dovette insistere. All’inizio la
prudenza prevalse, poi si dissolse. Il sogno del piccolo casolare pieno di fiori poteva rinascere. Alea iacta est.
Giacomo perse tutto, anche il rosario. Sperando di rifarsi
perse anche settanta tarì che non aveva.
Disperato se ne andò a Caserta, sempre a piedi, di nuovo
digiuno, sporco polveroso, con una fitta barba scura. Alle
porte della città fu arrestato: lo avevano scambiato per uno
che non era lui e che da tempo andavano cercando. Avendo
anche altro da fare che non stare dietro a lui, alla gendarmeria impiegarono tre settimane prima di convocare il priore
del seminario che lo conosceva e il poveruomo dovette guardarlo due volte per riconoscerlo, dire che sì, era proprio lui,
quell’ammasso di lividi e scorticature. Non è per cattiveria
che lo avevano conciato così male; era stata la necessità di
mantenere l’ordine con quell’ossesso che non ne voleva sapere di starsene buono. E va bene, non era lui che cercavano,
era un altro, neanche fosse la prima volta che si arrestava la
persona sbagliata; ma non era una buona ragione per restarlo a guardare mentre sfasciava le celle. E per la donna non si
stesse a preoccupare, ché quelle non si perdono; il problema
semmai è l’inverso: è che non si levano più di torno.
Non bastava ancora. Il magistrato che doveva firmare la
scarcerazione si ammalò. Quando guarì se ne andò a fare la
convalescenza in campagna e neanche lì lo si poteva disturbare. Quando finalmente Giacomo giunse alle Volte dei Saraceni cominciava agosto, l’afa avviliva gli animi.
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E Teresa se ne era andata.
Per sempre.
Per non tornare mai più.
Un miracolo, spiegò la madre. Un parente morto. Un’eredità improvvisa. La Provvidenza di Dio: giusto il biglietto
del vapore. Quale vapore? Il vapore. IL VAPORE. Il vapore dei
vapori; il vapore del sogno, il più grande dei sogni possibili.
Solo uno che non era nato pezzente poteva non capire subito. Il vapore per Nuova York.
Lei se ne era andata. A lui, Giacomo, aveva raccomandato di lasciare i suoi saluti: era un bravo giovane; gli augurava ogni bene. Ogni tanto dall’America avrebbe pensato a lui.
Se ne era andata. Donna Rosa confermò: era arrivato un
tomo curioso, lungo, secco, fiocchettoso e con la faccia da
sorcio; aveva cercato Teresa e lei subito dopo se ne era andata a Napoli giusto in tempo per il vapore. A lei però era sembrata ingrugnita: non aveva neanche salutato nessuno.
Lui era stravolto da quasi due mesi di botte e di fame. Non
resse: barcollò, gli divenne tutto nero; andò giù e ci restò.
Lei se ne era andata. Era andata via. Per sempre. Non lo
aveva aspettato. Se ne era partita a cercare fortuna nel Nuovo Mondo lasciandosi alle spalle la fogna dei lupanari, con
le loro miserie e il loro giullare, Giacomo di Montepuzzuto,
mancato contadino, possibile prete, povero citrullo.
Il mondo finiva lì: non c’era più bene, non c’era più luce,
non c’era più niente.
Dopo un’esistenza passata rinchiuso in convitti, sempre
sui libri, mangiando pane e scienza, che ne sapeva lui della
vita? Non sospettò, non dubitò: come avrebbe potuto capire?
Come poté non capire? C’erano stati troppi casi, troppe
sincronie: i dadi a immiserirlo, i gendarmi per fermarlo, un
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
giudice comatoso a imprigionarlo fino a dopo la partenza
del vapore. Non ebbe malizia, non ragionò che alle Volte dei
Saraceni tutti sommati non si facevano trenta soldi e la miseria era una tradizione storica più antica delle volte stesse;
qualcuno che lasciava qualcosa a uno di loro?
E Teresa? Donna Rosa glielo aveva detto che se ne era andata furiosa senza salutare nessuno perché, se se ne fosse andata felice, qualcuno avrebbe salutato; ma lui neanche quello aveva capito.
E neanche del notaro aveva capito, eppure la povera vecchia glielo aveva raccontato bene il notaro che aveva recato
la cornucopia. «Muso di topo» era detto a Montepuzzuto il
primogenito della dinastia dalle serve e dallo stalliere. «Faccia di sorcio» aveva detto donna Rosa. Come aveva potuto
Giacomo non capire?
Passò un altro mese. Finalmente l’amministratore della
famiglia rintracciò Giacomo. Il ragazzo era uno straccio:
sporco, smagrito, se ne stava accoccolato sul tavolaccio di
donna Rosa con la quale ormai spartiva alloggio e odore,
non perché nessun’altra lo avesse voluto, ma perché nel suo
delirio di sfascio lui a nessun’altra aveva voluto chiedere.
Il vecchio contabile gli dispiegò davanti agli occhi vitrei
il libro dei conti, che era sempre lo stesso con in più una
facciata di numerini e agonie per i settanta tarì del suo debito di gioco. Il cavaliere suo padre si permetteva di informarsi sulle sue intenzioni. Di nuovo non fu nominato il cavalierato, né la nobiltà che obbliga, né il re né Dio. Solo
quello: un’informazione sulle sue intenzioni, con tono calmo e cortese.
Giacomo considerò con pietà suo padre, che credeva ancora al suo cavalierato. Considerò anche se stesso, e la pro-
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pria vita, di cui non sapeva proprio che fare. Persino la fede
dei due imbecilli, padre e fratello, nel loro stemma di pietra
era meglio del suo non avere niente e non credere a nessuno.
Il seminario gli sembrò l’unico porto in un mondo incerto e buio.
Si fece prete.
Tutti furono felici: suo padre, suo fratello, il vescovo. Tutti meno il priore del seminario, che era una brava persona e
cominciava ad avere qualche dubbio su quella vocazione che
andava e veniva come le onde della marea.
Gli dettero una piccola parrocchia tra la periferia di Capua e il fiume. Vocazione non ne aveva mai avuta. La fede si
era persa. Tutte le illusioni possibili gli erano morte: fu un
grande prete; rischiò di diventare un santo.
Tentazioni della carne non ne ebbe, ché la piaga lasciata
da Teresa ancora lo lacerava.
Dette al pulpito la sua rabbia, al confessionale la sua dolcezza, ai bimbi abbandonati la tenerezza che non avrebbe
più potuto dare a un bimbo suo.
L’amore che era stato rifiutato lo dette ai disperati.
La cialtronaggine che non aveva mai perduto la tenne per
il vescovo: di dispacci e missive, ingiunzioni e minacce faceva barchette, che affidava poi alle onde del fiume, per la
gioia di tutti i cafoncelli, che mai in vita loro avevano avuto
della carta e ci avevano potuto giocare. La corrente prima di
affondarle le cullava un poco.
Il suo idillio con la terra germogliò; gli orti della canonica
traboccavano; i meli si piegavano per il peso della loro ricchezza, perché anche i Lazzari del Volturno potessero avere
il loro fazzoletto di terra promessa, di terra del latte e del
miele.
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
Anche questo finì. Come tutte le sue cose, finì all’improvviso e finì male.
Don Tonino Tuttoculo che, in buona salute, aveva distrutto la sua vita di uomo, trovò giusto, crepando, distruggergli
quella di prete.
Fu una morte lunga e atroce. Dopo una vita da sanguisuga il disgraziato morì di sete, con il leggendario deretano ridotto a una focaccetta avvizzita.
Quella morte prosciugata sembrò al malato non casuale,
l’ultimo avvertimento della giustizia di Dio; la prima avvisaglia delle fiamme eterne che sarebbero venute a prolungare la sua terribile arsura. Deciso a salvarsi l’anima fece convocare Giacomo, che di tutti i preti al mondo era l’unico che
potesse veramente assolverlo, perché era l’uomo che lui aveva rovinato. Per la verità di uomini ne aveva rovinati parecchi, ma gli altri non erano preti e, quindi, non andavano bene. E quando lo ebbe davanti non fece raggiri, gli parlò senza nessuna menzogna, nessun sotterfugio, come non aveva
mai più fatto da quando era bambino.
Lui aveva ormai la lingua spaccata, i piedi gonfi e piagati, il lezzo immondo della decomposizione già cominciata,
ma qualunque fosse lo sfascio che il diabete gli aveva fatto la
sua anima stava peggio di lui; ché Giacomo lo ascoltasse: era
l’unica persona che lo potesse salvare.
Lui era persona di don Alfonso. In cambio delle bestie di
sua madre al cavaliere di tarì non gliene aveva dati molti, ma
di lealtà sì. Tutta una vita al suo servizio. Qualsiasi sgarbo,
qualsiasi contesa: il cavaliere sapeva che lui era a disposizione.
Giacomo lo aveva sistemato lui. I dadi erano truccati, i
gendarmi pagati: arresto, fame e botte, tutto era stato comprato.
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L’innamorata? Era stato Giacomo stesso a uscirsene con
nome e cognome e dove stava di casa, e lo ringraziasse che
quella là il cavaliere la voleva morta, ma don Tonino queste
cose non le faceva. E non c’era stato bisogno. La madre della promessa altro non aspettava che fare qualche tarì sulla figlia: sua era stata la pensata dell’America; sua la pensata dell’abbandono: si era presentato Giovanni, con il biglietto del
vapore, ultimo dono di suo fratello Giacomo, con gli auguri
e i saluti.
E Teresa piangente e furiosa aveva accettato, ché per nulla al mondo sarebbe rimasta alle Volte dei Saraceni, a sentire
la voce di Giacomo in ogni sospiro di vento, a rivederlo dentro l’ombra di tutti i portoni. O forse peggio: era scappata a
portare in salvo una creatura, lontano dal fetore di fogna di
quel mondo di fango e umiliazione.
Lui si era straziato nella gendarmeria di Caserta più che
per le botte e la fame per Teresa che, chissà, magari portava
una creatura mentre si credeva lasciata. Lei invece se ne era
andata e a lui era rimasto il ricordo di quell’inutile strazio:
ma quale creatura, quale madre addolorata.
Mai il giovane prete aveva trascorso un’intera giornata
senza pensare almeno una volta al suo amore sognato e perduto, sognato e mai stato, ed era ormai una sofferenza lieve,
una malinconia vaga che si perdeva nel sogno, diventava
sempre più miraggio, fantasia.
Ora tutto riesplose: l’amore, il dolore, la rabbia, lo strazio.
Insopportabile. Enorme. Una di quelle enorme ondate che
spazzano il litorale lasciando solo fango e alberi spezzati.
Amore, dolore rabbia, strazio. Il moribondo chiese l’assoluzione. Giacomo non lo sentì e non gli rispose. Fu la sua unica vendetta e fu involontaria. Quando si risvegliò dal suo
stordimento era tardi: don Tonino rantolava.
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
Giacomo se ne andò, con gli occhi rossi, sconvolto e spiritato, verso i rigogliosi orti della sua canonica. I famigli del
morituro lo salutarono grati: finalmente un prete che dava
soddisfazione.
Le spalle curve, i denti serrati a trattenere la nausea, Giacomo impiegò il cammino a esaminare le rovine, lo sfascio
cui la sua vita era stata ridotta: perché non paresse brutto,
che il blasone non avesse a sfigurare, alle volte se alla corte
li volessero invitare. Ché non per denaro lo avevano distrutto, ché tra la gendarmeria e il vapore i suoi ottanta tarì se ne
erano andati, ma proprio per quello: che non fosse fatta brutta figura.
Il cammino era lungo.
La rabbia svaporò, l’odio si stinse; restarono il dolore, la
desolazione, l’avvilimento, la nostalgia per quello che avrebbe potuto essere e non era. Si vide. Era una piccola parte della fiumana enorme dei calpestati: i martiri, gli eretici, i morti di tutte le guerre della cui causa si era persa memoria; i figli dei Lazzari a crepare di fame perché a corte pure morissero di scontento e di noia; una donna senza più sogni e forse una creatura senza padre da allevare perché Alfonso il cavaliere potesse non smettere di sognare il primogenito alla
corte morente di un re cretino.
La notte fu di insonnia, di speranza, di disperazione, di
decisioni prese, scartate, cambiate, di progetti scombinati,
insensati o forse possibili. Ma anche di un’infinita gioia: lei
non lo aveva mai abbandonato, forse lo amava ancora, tutto
era ancora possibile. Doveva solo procurarsi il denaro per il
vapore. IL VAPORE, il vapore dei vapori. Più qualcosa per la
madre di Teresa, che dov’era esattamente la figlia sicuramente lo sapeva e, altrettanto sicuramente, gratis non lo
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avrebbe detto mai. Lui non aveva niente. Non c’era niente al
mondo che fosse suo. Pensò anche di vendersi i candelabri
della chiesa o assaltare il vescovado, ma non è che fare il brigante sia un mestiere che si possa improvvisare.
E poi non era solo questo, è che c’erano due amori a combattersi. Uno perduto in un paese sconfinato al di là di un
mare pure senza fine e l’altro presente, tangibile, quotidiano:
gli orfani, gli straccioni, gli abbandonati che alla sua casa
avevano consolazione, l’unico pane, l’ultimo rifugio. A chi
lasciarli, come non abbandonarli mai.
La prima messa coincideva con l’aurora.
La piccola chiesa traboccava: sembrava Natale, la Resurrezione. Le pinzocchere relegate al fondo; per il resto erano
tutti vestiti buoni, i notabili, le persone per bene. Chi qualcosa teneva, chi qualcosa contava, tutti in chiesa in quell’ora
brumosa, attorno all’altare. Se ne stavano lì, i rosari in mano,
le mani che tremavano, la paura negli occhi e nella voce.
L’Anticristo era alle porte. Morte e distruzione al mondo dei
Giusti; ché il Padreterno, almeno Lui, facesse qualcosa per
salvarli.
Dal Volturno si sentirono le prime fucilate: finalmente
Giacomo capì.
Garibaldi era arrivato.
Cominciò la messa.
Garibaldi era arrivato.
GARIBALDI ERA ARRIVATO.
La Repubblica risorgeva. La libertà, la fratellanza, l’uguaglianza. La fiumana dei calpestati si fermava per combattere. Fiat justitia ruat caelum. Scuole e giustizia. E la terra ai contadini: i latifondi si sarebbero dissolti in miriadi di casolari
immersi nei mandorli in fiore.
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
Garibaldi era arrivato.
La sua tonaca poteva andare alle ortiche: Lazzari e abbandonati di lui non tenevano più bisogno. L’America diventava sempre più piccola e prossima a lui. I quattrini del
vapore, il VAPORE, se li sarebbe fatti anticipare dal Generale in
cambio del favore che andava a fargli, di vincere la guerra
per lui. Garibaldi era arrivato e lui se ne stava ancora lì a biascicare nenie in latino.
Con furia si levò i paramenti; la tonaca se la strappò. Per
l’ultima volta della sua vita si girò al suo annichilito uditorio: le beghine pigolavano; i notabili erano allibiti: non li
aveva mai amati tanto, mai gli aveva voluto così bene. Li
mandò tutti a farsi fottere, loro, suo padre e il vescovo, scandendo bene, che si sentisse sopra le cannonate. Ma senza alcuna acrimonia, con affetto e allegria. Li salutò anche: che
gli stessero bene. E poi se ne andò alla battaglia, nella nebbia di ottobre che si scioglieva al sole, spedito trionfante;
l’unica sosta in canonica per lo schioppo, le brache, un po’
di pane.
Non fu un gran soldato. Non fu un soldato proprio.
Non era mestiere suo. Non dopo aver fatto il prete. Non
dopo il confessionale. Non dopo aver ascoltato. Non lui che
ormai sapeva che un uomo è un uomo, anche il peggiore, e
tiene sempre qualcosa da dire a sua discolpa.
Per sparare sparò, ma non mirava. Anzi mirava a non colpire, a non fare male, ché Dio non volesse che per colpa sua
restassero al mondo una donna senza più un uomo vicino,
uno storpio a ricordare come era bello stare sano.
La Giustizia, il Progresso e la Storia si perdevano in sogni
sempre più nebulosi; il sangue brillava sempre più nitido
mentre la luce del giorno aumentava sulle gambe degli am-
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putati, sulle mani degli sbudellati che ancora cercavano di riparare gli intestini.
Sperso nei dubbi, stanco e solo Giacomo vagò per la battaglia; troppo stanco per coprirsi, troppo sperso per salvarsi.
Fu tra i primi a essere colpito, ma impiegò quasi un giorno a
morire. Cadde con la faccia in giù e se ne restò lì a guardare
l’erba un po’ secca e gli ultimi fiori del primo autunno.
Il dolore all’addome, terribile subito, poi si attenuò e alla
fine tutto si perse in un’arsura senza speranza come quella
che aveva ucciso don Tonino.
Le sorti della battaglia erano incerte. Giacomo non riusciva più a ricordare perché era andato a morire. Cercò di decifrare i lamenti degli altri feriti e capire che cosa stavano rimpiangendo.
Facendo forza sui gomiti riuscì a trascinarsi. Si spostò.
Uno dopo l’altro raggiunse gli altri feriti, borbonici e garibaldini. Gli dette l’estrema unzione e ai garibaldini li consolò
pure perché morivano scomunicati. Morivano più disperati
ancora di quanto disperato normalmente muoia qualcuno su
un campo di battaglia.
Lui dette le assoluzioni e l’estrema unzione. Non aveva
olio. Usò il sangue. Con la voce che gli si spezzava, sempre
più fragile, spiegò che erano stati bravi, avevano combattuto per la libertà, Dio li stava aspettando per accoglierli. Li assolse, li benedisse. Non dovevano avere paura. Sarebbero
andati nella luce. Sarebbe andato tutto bene. Ego te absolvo.
Requiescat in pace. Ego te absolvo. Requiescat in pace.
Si trascinò. Si trascinò. Si trascinò ancora, fino a quando
non ci furono più gemiti, fino a quando tutti giacquero immobili e anche lui restò per terra. Immobile.
Pensò che la morte era uguale, qualunque fosse l’esistenza che l’aveva preparata. Libero di aver avuto la vita che vo-
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
leva la risognò da capo. Ricordò sua madre che lo faceva giocare con gli altri bambini, sua nonna che lo faceva giocare
con i vitellini; don Gaetano che gli insegnava a giocare con le
parole, don Tonino che gli insegnava a non farsi fottere a dadi. Ricordò donna Rosa, mai umiliata, mai venduta, mai
comprata, una chiatta matrona piena di figli che faceva biscotti con l’uvetta, profumati di violetta e cannella. Il temporale di giugno restò uguale, ma poi ci fu la dolcezza dell’amore coniugale, l’odore di Teresa sul cuscino, il desiderio
che rinasceva tutte le sere, la tenerezza che rinasceva tutte le
mattine. Ricordò i loro bimbi, i loro visetti tondi, i riccioletti
scuri. Cambiò la storia: abolì i sanfedisti, salvò la Repubblica Partenopea; Garibaldi ne era il generale e la difendeva dal
Borbone che veniva a riprendersela. Ma non ce l’avrebbe fatta il re maledetto: Giacomo era andato a fermarlo per salvare la giustizia, Teresa, i bambini.
La sera cominciò a calare. Un esercito di formiche riempiva la ferita.
Giacomo si accorse che era proprio la fine. Desiderò di
poter vivere ancora. Ancora un minuto. Anche solo un minuto. Anche solo quel minuto: l’ultimo. Quell’ultimo minuto, con l’erba piena di sangue e un esercito di formiche.
Le parole che aveva detto e ridetto, ego te absolvo, requiescat
in pace, erano rimaste come una cantilena sulla sua lingua
spaccata, nella sua gola riarsa e silenziosamente le ripeté.
Ripensò alla sua vita, a quanto era stata magnifica, a
quanto aveva avuto.
Una madre che lo aveva messo al mondo, un posto dove
era stato sfamato.
Ripensò a tutto quello che gli era stato insegnato, ripensò
a tutti quelli che aveva amato, tutti quelli che lo avevano
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amato, a tutte le foglie di cavolo e basilico che grazie a lui
erano germogliate, ai pomodori, le melanzane, con l’imperiosità dei loro rossi e dei loro viola.
Ripensò a Teresa, che con il loro bambino ora viveva dall’altra parte del mondo.
Aveva avuto una donna, aveva avuto un amore magnifico, aveva un figlio.
Ripensò alla guerra che era venuto a combattere: era una
guerra che lentamente, lentissimamente, avrebbe diminuito
la fame e l’ingiustizia, ed era un onore aver versato il suo
sangue su quel suolo.
Ripensò a tutti gli agonizzanti che aveva consolato su
quel campo di battaglia.
La sera divenne notte. Il buio inghiottì i colori degli ultimi fiori. Sopra Giacomo, enormi, magnifiche, brillarono migliaia di stelle.
Morì in pace.
Nell’elenco dei Caduti del Volturno il nome di Giacomo
fu omesso per non compromettere i già critici rapporti del
nascente Stato italiano con la Santa Sede.
La Casa Savoia riconobbe in blocco tutta l’aristocrazia
borbonica e sancì l’evento con un memorabile ricevimento
cui tutti i nobili partenopei furono invitati.
Senza nessuna eccezione.
Le cose peraltro non finirono lì, perché sempre qualcosa
succede e la storia va avanti senza fermarsi mai, anche se a
noi sembra che tutto sia finito e non ci sia più niente da fare.
I cafoni di Giacomo lo andarono a cercare. Sul campo di battaglia dove i morti giacevano e i feriti agonizzavano cercarono e trovarono. Soccorsero i feriti e depredarono i morti. Di-
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
stribuirono acqua, intascarono denari e orologi, trascinarono
i cancrenosi dove avrebbero potuto essere amputati, levarono gli occhiali alle salme per rivenderli. Alla fine dei tre giorni che durò la ricerca, quando finalmente trovarono Giacomo, avevano salvato più vite di quante ne potevano contare
e avevano smesso di essere pezzenti per tutto l’oro che avevano rubato.
Decisero di fare una tomba a Giacomo, lì dove era morto,
ché a lui, prete spretato morto per Garibaldi, la terra nel
camposanto non gli toccava. Si alzò una piccola lapide di vero marmo, con una scritta di vero bronzo: col nome, il cognome e il titolo, perché non si perdesse la memoria.
La memoria un po’ si perse, fino a quando arrivò l’esercito americano, partiti dall’altra parte del mare, per venire a
combattere e a morire, perché l’Europa non dovesse marciare a passo dell’oca. Uno dei soldatini si fermò, lesse la lapide
e poi disse agli altri che quel nome lo conosceva, era un parente suo, l’antenato che aveva ingravidato la nonna della
sua bisnonna o forse era la trisavola, e poi l’aveva lasciata,
sola, ma con il biglietto del vapore. Quel nome nella famiglia
sua lo conoscevano, si tramandava generazione dopo generazione, insieme alla ricetta per gli struffoli e la pastiera.
Nessuno gli credette e tutti lo mandarono a farsi fottere, ma
il soldatino riprese la marcia tutto giulivo, con qualcosa di
nuovo da scrivere a casa, alla sua sterminata selva di fratelli
e cugini.
Santa Maria Capua Vetere, provincia di Caserta, 1943
In passato si era chiamata Capua ed era stata una città di
grande valore.
Poi dall’Africa arrivò l’esercito cartaginese e in quella
città piena di gloria non solo non si opposero, ma anzi, ancora li accolsero e confortarono, gli cercarono qualcosa da
mangiare. Qualche ragazza di buon cuore a quei soldati pieni di polvere e con i piedi piagati dette consolazione. A Roma si irritarono, e la città finì bruciata e rasa al suolo; sulle
rovine sparsero pure il sale per evitare che ci rinascesse qualcosa. Qualcosa comunque rinacque: era un borgo sassoso e
povero che vivacchiò come poteva, mentre l’impero di Roma
si sgretolava e anche la città eterna si avviava a un destino
dove la gloria era poca e i tempi erano duri.
Dieci secoli dopo il primo incontro gli africani tornarono;
questa volta si chiamavano saraceni. Arrivarono armati fino
ai denti e del tutto immemori dei precedenti trascorsi di alleanza e collaborazione. Di nuovo la città finì annientata,
bruciata: una landa di desolazione dove i vecchi piangevano
i figli rapiti, venduti schiavi in terre lontane; le figlie violate;
i bimbi sventrati dagli invasori.
I pochi rimasti con il poco rimasto fecero quel che poterono: si ricominciò a campare.
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
E per prima cosa, prima ancora delle case e delle stalle, si
costruì la torre per poter avvistare i nemici di Dio quando
ancora ci fosse tempo per salvarsi e non quando ormai non
c’era più niente da fare. La chiamarono la Torre delle Civette ché dal primo istante le ospitò. Non servì più. Nessuno
tornò a mettere a ferro e fuoco la città. La torre si scrostò.
Crollò anche un poco. Dall’epoca degli Angiò in poi, di tanto in tanto, la si usò come prigione.
E così la torre che era stata alzata per evitare il dolore invece lo ospitò, dietro le sue inferriate, sotto le sue volte muffite, piene di timidi uccelli con gli occhi d’oro.
Nel 1927 la si imbiancò. Agli imbianchini veri si aggiungeva la domenica un imbianchino bambino, figlio dell’imprenditore, che era un muratore come tutti gli altri, solo un
po’ più ricco, ma neanche poi tanto. La domenica continuava il lavoro, solo col suo figlio bambino, che scontava così le
innumerevoli accuse di scolarità scadente, disciplina assente, compiti saltati.
Al termine di una di quelle domeniche di punizione e di
tedio, trascorse in solitudine con il padre, che così ristabiliva
la giustizia e risparmiava qualche soldino, l’imbianchino
bambino si rifugiò a riposare nell’angolo più buio della celletta minore. E lì, con una piccola lama, imbrattò l’immacolato di quel lavoro appena finito. VIVA A LIBBERTÀ scrisse con
mano ferma e con furore. Suo padre non se ne accorse mai e
la scritta rimase lì per sempre, livida e fiera.
Qui comincia la storia.
Nel ’27 insieme alla scritta nasce anche il nostro eroe. Si
chiamava Francesco, come suo padre, che era morto prima
che lui venisse al mondo, anzi, neanche aveva mai saputo
che lui sarebbe nato.
Il pover’uomo lo aveva concepito e poi se ne era morto di
broncopolmonite pneumococcica, come si era diagnosticato
SANTA MARIA CAPUA VETERE, PROVINCIA DI CASERTA, 1943
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da solo, prima di porre fine alla sua onorata carriera di medico condotto e a un matrimonio tutto sommato felice, anche
se fino a quel momento figli non ce n’erano stati. E dopo anni di matrimonio sterile, sua madre passò dalla disperazione
della solitudine alla scoperta di non essere più sola e lui da
sempre si era sentito raccontare di questo suo essere un dono postumo, una presenza magica, la cosa più preziosa del
mondo, l’inviato del cielo; l’angelo che aveva sconfitto con il
suo solo esserci la morte e il dolore.
Venne su un bel bambino allegro e tondo, in un mondo di
donne, sua madre, la nonna, le zie, la serva; e già che era tondo, ancora era aumentato dalle maglie in cui lo sommersero,
perché non avesse mai ad ammalarsi e continuasse, quanto
più a lungo possibile, la sua esistenza di dono del cielo. Sempre nel timore di malattie, e poi per tenerselo un po’ di più vicino, la sua mamma, che era stata maestra, per le elementari
non lo mandò a scuola; se lo tenne a casa e gli insegnò lei. Lo
riempì di gessetti, figurine album per disegnare, favole, storie,
libri colorati. Lui sognava sogni pieni di colori, fantasie piene
di luci. A tre anni sapeva leggere, a cinque inventò la prima favola; quando si presentò a scuola, sapeva già il latino.
Il suo idillio con il mondo terminò col ginnasio.
Lì non lo potevano soffrire.
Era il primo della classe. Anzi, peggio, l’enfant prodige,
quello che sapeva tutto da sempre senza né sforzo né pena.
E trovarono il punto che non andava: lui era tondo.
Lo misero in croce: era grasso e aveva gli occhiali. Non sapeva correre. Non aveva padre. Questo fu il peggio. Ribaltarono la magia della sua nascita trasformandola in un’ignominia. Chissà con chi era stato cornificato il vecchio dottore
in punto di morte? Sempre che fosse morto da solo, che non
lo avessero aiutato per nascondere le chiavate clandestine.
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
Fosse stato un po’ più grande e più cattivo lo avrebbe capito che era solo invidia e se ne sarebbe fottuto. Fosse stato
un po’ più saggio li avrebbe mandati al diavolo e loro ci sarebbero andati. Ma era piccolo, ingenuo e anche un poco tonto: lui non lo aveva mai saputo che il mondo poteva anche
non essere solo latte caldo e gessetti colorati.
Si lasciò mettere in croce: ci cascò. Le vergognose rivelazioni sulla sua venuta al mondo lo sconvolsero e neanche ne
parlò a sua madre, anche perché i perseguitati sono conformisti e lui cominciò a vergognarsi di quel mondo donnesco
da cui veniva, dove si facevano le cose sbagliate, non si dava il giusto onore alle cose giuste e dove gli volevano bene.
Ci credette davvero che correre è importante, che essere
grassi è una vergogna. Era l’epoca degli sguardi d’aquila e
del petto in fuori. Lui somigliava un po’ a un pinguino, dolce bestiola dei mari ghiacciati, che non ha mai fatto male a
nessuno.
Gli andarono anche a dire che era recchione, e di tutte le
fesserie che gli dissero in quegli anni questa fu la peggiore,
quella che fece più male e la più insensata, ché lui, Francesco, era invece l’amante ideale, o almeno lo sarebbe potuto
diventare se i tedeschi non lo avessero ammazzato ancora
ragazzino.
Perché gli amanti ideali sono i bimbi felici una volta cresciuti, quelli che portano il latte e il miele nel fondo della memoria. Chi ha già conosciuto il paradiso perduto lo sa ricreare, lo sa far rinascere per farne dono.
Per riscattarsi agli occhi della nazione, del federale e dei
mocciosi suoi compagni di scuola raccontò anche del loro
eroe, perché a casa sua erano grassi e borghesi, non volevano bene a Mussolini, ma avevano un martire dell’Unità
d’Italia.
SANTA MARIA CAPUA VETERE, PROVINCIA DI CASERTA, 1943
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Era un prete, figlio di una prozia che aveva sposato un
nobiluomo, che l’aveva sempre messa in croce, povera donna, perché lui era nobile e lei borghese. Era un prete che si
era spretato per andare anche lui a combattere sul Volturno,
dove i Borbone gli avevano sparato, anzi, lo avevano sparato, secondo la dizione partenopea che vede, giustamente,
complemento oggetto il defunto e non il proiettile.
Era stata una storia famosa quella dello zio prete barone
e di quella messa non finita, che andassero tutti a farsi fottere, tutti meno la Patria e il Generale. E lui, che si credeva poco più di una caccola negli equilibri storici, nazionali, cittadini e familiari, aveva invece il destino in comune con l’eroe:
dalla persecuzione scolastica alla dipartita eroica e prematura, la sua anzi, ancora più eroica e ancora più prematura. La
storia gira in tondo, sia perché la geografia è immutabile, sia
perché di poco cambia nei secoli l’umana stronzaggine.
Quella di Giacomo di Montepuzzuto era stata una storia
famosa, ripetuta, osannata nell’Italia di suo nonno e di suo
padre, che era una nazione scomunicata per aver osato annettersi lo stato del Vaticano. La sua era l’Italia della Chiesa
di Stato: Credere, Obbedire, Combattere, e già che c’erano
credessero pure nel papa e in tutti i suoi.
Si prese due giorni di sospensione.
La scuola ormai la odiava. Quando poteva, si squagliava.
Quando c’era, era sempre lui, il più veloce, il più bravo;
quello che non sbagliava mai. Ma questo suo essere il meglio
stranamente non lo aiutava a schifarsi di meno, mentre aumentava l’astio degli altri, quelli che lo mettevano in croce.
Davanti a quel muro di scherno lui, bimbo tondo e lieto,
si sgretolò. Cominciò a schifarsi, a disperarsi, a non volersi
più bene. Era una fetenzia: chiatto, brutto, pure con gli oc-
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
chiali. Cacatina di mosca della storia. Vergogna del popolo
italiano.
Fetenzia lui e fetenzia la famiglia sua, che era borghese,
non marciava, non avanguardava; faceva un figlio solo e lo
cresceva a bagni caldi e miele: mai avrebbe potuto spaccare
le reni a qualcuno uno come lui.
Francesco cambiò: divenne infelice, astioso, bilioso.
Francesco odiava e odiando digiunava. Il digiuno era
odio, per la madre, la nonna, la serva, le zie, tutte le donne
della casa che a furia di biscotti e bignè lo avevano portato
alla perdizione, reso com’era: cacata di mosca della patria e
della storia. Ma la fame lo straziava. Lo straziavano la fame
e la nostalgia: della dolcezza delle carezze, del paradiso
perduto, del latte e del miele. Lo straziava il desiderio di
tornare a essere lui, com’era stato, bimbo allegro, felice e
tondo. Passava giorni e giorni a pane e acqua e minestrina
di rape, e poi notti intere a ingozzarsi, strafogarsi, odiarsi,
vomitare, e ancora mangiare e ancora odiarsi e ancora vomitare.
Fesserie.
Erano fesserie. Era il ’39. I guai erano altri.
E per la regola per cui chi ha i guai se li tiene e chi non ne
ha se li inventa, Francesco che era uno che poteva starsene in
pace, sereno, sfamato, protetto e amato, si rovinava tutto con
le fesserie.
Era l’ultima estate prima dell’apocalisse. In un giorno di
afa e di luce il ragazzino se ne girava solo per la campagna,
la testa vuota e niente da fare. Capitò nella vecchia torre,
ostello di timidi uccelli e dei fantasmi di carcerati di tempi
lontani. Una serie di cancellate ne vietava l’accesso, ma con
infinita pazienza e un vecchio cacciavite riuscì a spostare
uno dei cardini e a strisciare dentro per andare a vedere.
SANTA MARIA CAPUA VETERE, PROVINCIA DI CASERTA, 1943
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La torre era sua. Era l’avventura della sua vita. Fu, in effetti, l’avventura della sua vita. La girò e la rigirò, felice di
quella giornata di mosche e di afa: nessuno a cacciarlo lui
che era grasso e suo padre che non si sapeva chi era. Gridò,
corse, saltò; inseguì le civette, in una pioggerella lieve di piumette grigioline. Sognò e sognò, di essere il più magro, il più
forte, fermare i nemici, essere l’eroe. E dopo tutto quel girare e rigirare, salire e scendere, gridare, guidare i Tigrotti a
salvare Mompracem, si accucciò a riposare su uno dei gradini della celletta minore. E qui, su un angolo protetto dal
buio, da sempre ignota a tutti, trovò la scritta dello scolaro
muratore che dal ’27 sfregiava l’intonaco con il suo messaggio rabbioso.
Ne restò folgorato. Rimase a fissare le lettere mentre il sudore gli colava, il fiato tornava, il primo alito di fresco della
giornata si formava nel buio. Il sole cominciava a calare. La
scritta si perse nell’ombra di quell’angolo buio.
Allora c’era stato qualcuno nella cella. Dietro le inferriate,
sotto le civette, un prigioniero aveva lasciato il suo messaggio al mondo. Il mondo non lo aveva raccolto, fino a quel
giorno non lo aveva sentito. Un prigioniero aveva lasciato il
suo messaggio di libertà all’umanità prima di essere ucciso e
il messaggio non era mai arrivato. Francesco era felice; la testa piena di idee, il sorriso pieno di sogni. Non i soliti vecchi
sogni: salvare la scuola in fiamme, la città inondata, fermare
il Nemico, chiunque fosse costui; i vecchi sogni di essere il
più magro, il più ardito e fascista, il più forte, il più bello. L’eroe. Ora aveva un sogno più piccolo e mite, però possibile.
Poteva studiare, cercare, scoprire chi era il martire ignoto incarcerato, immolato, che null’altro aveva lasciato al mondo
se non una scritta sul muro. Neanche per un secondo dubitò
che potesse esistere un’altra spiegazione che non fosse quel-
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la. Era piccolo e tonto: nessuno è perfetto, ognuno tiene i
guai suoi.
E forse perché, sia a scuola sia a casa sua, sempre e solo di
Risorgimento si parlava, neanche un attimo dubitò che l’eroe
fosse morto per la patria, ucciso dagli uomini dei Borbone, se
uomini quelli si potevano chiamare. Forse era successo proprio quel 2 ottobre che la battaglia infuriava. Sì, era successo
allora. I gendarmi avevano preso l’Oscuroeroe, lo avevano
rinchiuso con le civette e poi ucciso, ché mai potesse raggiungere la battaglia. E poi zitti, che non si sapesse mai: Garibaldi aveva vinto e di quella storia non si doveva mai più
parlare.
Sì, non poteva che essere un garibaldino, l’Oscuroeroe, o,
almeno, uno che lo sarebbe potuto diventare se non lo avessero ammazzato prima. E lui, Francesco, avrebbe scoperto il suo
nome e la sua storia, così gli avrebbero intitolato una strada o
una scuola. Giustizia sarebbe stata fatta, Capua e la nazione
tutta avrebbero avuto un martire in più. E, chissà, forse, alla
scoperta della lapide, il podestà, il professore di ginnastica e
tutti gli altri avrebbero dato la mano al piccolo storico e tutti
avrebbero smesso di dire che sua madre si era fatta chiavare
mentre suo padre stava morendo di polmonite. Francesco se
ne tornò a casa quasi correndo, lui che odiava correre, e lo faceva solo quando digiunava, nei giorni di astio e di odio.
Con uno sforzo si trattenne e non parlò. Salvò il segreto,
che sarebbe stato solo suo fino a quando non sarebbe riuscito a decifrarlo, trovando la firma al messaggio graffiato sull’intonaco della prigione.
Quella sera a cena non digiunò né si ingozzò; semplicemente mangiò, senza asti, né rimorsi, né questioni di principio, come quando era un’infante dolce e lieto, all’epoca dell’oro.
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Già il giorno dopo la sua gioia si arenò. Non sapeva a chi
domandare. Tentò con archivi e biblioteche, ma ci volevano
diciotto anni e a lui ne mancavano sei.
Non voleva farsi arenare.
Si adoperò a chiedere in giro che si ricordava dell’epica
battaglia. Fu un trionfo: c’erano stati tutti. Non uno dei vecchietti interrogati risparmiò aneddoti, ricordi e impressioni. In effetti, il Generale per due giorni altro non dovette fare che stringere mani ed elargire benedizioni. E nella sua
munificenza benedisse tutti: combattenti, adolescenti, infanti, feti e anche quelli che non erano nati prima del ’66.
Chiunque avesse mai ascoltato qualcuno che il generale lo
aveva visto davvero giurò di averlo incontrato lui stesso, di
averlo amato, di aver combattuto per lui. E tutti ormai, nel
continuo riportare i ricordi altrui, si erano convinti che fossero i propri, per cui la buonafede era autentica, e genuina
fu l’indignazione davanti alle perplessità del ragazzino,
che sommando anni di date e anni di vita otteneva cifre insensate.
Alla fine, restò solo il fratello del nonno di suo padre, vecchissimo avvocato, centenario autentico e autentico garibaldino. Era stato garibaldino, giacobino, repubblicano e forse
anche un po’ anarchico. Già balzano ai tempi della battaglia
era peggiorato poi. Dai borbonici, appena diciottenne, si era
preso una pallottola in un piede, poi finito amputato per una
penosa storia di infezioni. Per la famiglia era stata la rovina.
Il folle si era sperperato gli ori dei padri, impegnato i beni
dei nipoti, venduto l’anima e corrotto lo spirito in una decennale causa al Regno, pretendendo che il suo piede, o
quanto ne restava, fosse accolto nell’ossario dei martiri del
Volturno. La patria fu irremovibile: i martiri o interi o niente, e non ci fu niente da fare.
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
Il vecchietto, che si chiamava don Emilio, campava folle e
quieto con un’anziana cafona che lo assisteva. E menomale
che c’era lei ché nessuno della famiglia lo aveva mai potuto
sopportare. Che un parente andasse a trovare l’avvocato era
successo l’ultima volta trent’anni prima. La contadina che faceva da infermiera, serva e dama di compagnia guardò il ragazzino con perplessità, lo fece entrare piena di dubbi e sospetti, ché il vecchietto ormai lo considerava roba sua, proprietà guadagnata e sudata, da salvare da tutti, da non condividere con nessuno.
La casa era buia, senza centrini, quadretti, vasetti per i fiori. I mobili avevano grandi superfici polverose e deserte. Le
pareti erano anche vuote, con solo il quadro del Generale,
enorme e listato a lutto che regnava su tutta la sala.
Il vecchietto era lunghissimo, ossuto e curvo; se ne stava
chino sulla sua scodella di zuppetta. Anche l’intelligenza gli
si era accartocciata in rade spirali muffite. Francesco cercò di
spiegare chi era e che voleva. Ripetette diverse volte cantilenando e scandendo bene, come già faceva suo padre, ma lui
non lo sapeva, quando spiegava ai vecchietti come prendersi le medicine. Francesco ripeteva e ripeteva: il Generale, la
battaglia. Ma come? Non si ricordava? I patrioti, c’eravate
tutti? Non è che ne fosse mancato qualcuno? E che poi non
se ne fosse più saputo niente?
Il vecchietto sorrideva giulivo, annuiva, felice per quella
voce nuova che gli parlava. Poi, improvvisamente, qualcosa
riemerse nella nebbia fumosa del suo secolo di vita e di memorie perdute.
Il generale, la Battaglia. La BATTAGLIA: il ferro, il fuoco, il
piede, il suo piede che non c’era più, non ci sarebbe mai più
stato.
Don Emilio si mise a piangere. L’infermiera, serva, dama
di compagnia a questo punto intervenne e lo cacciò.
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Francesco se ne tornò a casa sua: era disperato. Non sapeva proprio più che cosa fare. Tradì l’impegno del segreto e
si mise a piangere davanti a sua madre.
Sua madre fu talmente lieta di quello straccio di confidenza, quel barlume di amicizia che ritornava tra loro, da
quel ragazzino che da quando andava al ginnasio si era trincerato in un mondo di astio e silenzio. Non parlò dell’assurdità di tutta la cosa, non disse, lei lo sapeva, che la torre era
stata imbiancata l’ultima volta nel ’29 e che la scritta doveva
perciò essere di poi. La soluzione, disse, poteva essere effettivamente il vecchio zio, non la sua memoria muffita, ma la
cantina e il solaio, dove per tre secoli, dalla costruzione della
casa, si erano accumulate le scartoffie della famiglia, che era
stata di notai prima e di avvocati poi. Lì forse qualcosa c’era.
Gli parlò del valore, ché là ci stava di tutto: libri di diritto, tomi dell’800, del ’700, forse di prima ancora. Senza contare che non era roba trovata su una bancarella: erano libri
che erano della famiglia; anche per la curiosità di sapere che
gli era capitato e che avevano letto quelli della generazione
prima. Gli offrì l’astronomica cifra di mezza lira al mese se
andava a mettere in ordine, da spendere come voleva. In
realtà dei libri della soffitta non gliene importava un fico,
stava solo cercando di comprarselo, di offrirgli un’alternativa a quel mondo di avanguardisti dove lui si ostinava a volere entrare e dove non lo volevano. Francesco accettò, non
per la mezza lira, ma per la sua speranza di risolvere il suo
arcano.
La madre parlò con la vecchia contadina e con quello che
restava del cervello di don Emilio e per convincerli ad accettare comprò, per atre dieci lire, tutto il contenuto dei sottotetti e del solaio. Questo l’autorizzò a mandare Francesco a
fare una specie di inventario.
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
L’infermiera, serva, dama di compagnia gli sistemò una
scala, ché potesse salire e scendere a suo gradimento passando da fuori e senza che lo si dovesse incontrare. Era
un’arrampicata su tetti disuguali, abitati da nidi di rondini e
calabroni, ombreggiati dai rami di due enormi noci fronzuti
e carichi, pieni di grazia di Dio. Francesco se ne stava appollaiato sulle finestre della soffitta, con le mani nere di mallo
delle noci rubate, e lo spirito in pace: aveva una missione al
mondo; si era un po’ riconciliato con sua madre e con la vita. Iniziò tutto lieto il suo titanico lavoro di scavo. Ci andava
la sera, ché per il resto del tempo faceva il ginnasiale. Ne
usciva nero di polvere e con gli occhi arrossati dal fumo dei
lumini.
Impiegò l’inverno solo a riordinare. Finalmente a primavera, con il profumo della terra che si ridestava, arrivarono i
primi barlumi in quell’apocalisse di muffa e di caos.
La casa era del 1636. Da quella data si era cominciato ad
accumulare carte. C’erano documenti giudiziari, antichi
diari, copie di proclami di vari reami e vicereami. Di pugno
di don Emilio restava una specie di diario. C’era la Battaglia
del Volturno, le ore nell’erba a sperare che qualcuno lo trovasse e gli desse soccorso, l’ospedale, la puzza della cancrena, la giovane donna che non lo aveva più voluto perché era
storpio.
Dopo i diari del prozio Francesco trovò le lettere di sua
nonna al fidanzato, quello che non era diventato suo nonno
perché era morto volontario sul Carso mentre combatteva
per i sacri confini. Le lettere gliele avevano rimandate i camerati del morto insieme all’armonica e alla piastrina di riconoscimento, che era tutto quello che ne restava. Lei gli parlava di spartiti, di opere, di primavere splendenti; gli rimproverava di rispondere poco e sempre di meno. Chissà, for-
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se sul Carso l’amore si era scolorito o si era scolorita la voglia di parlare; forse la guerra era meno bella di come la raccontavano i libri di storia.
Poi ci fu l’800. C’erano diari di fanciulle in fiore, di adolescenti in fiore, di amanti in fiore; c’erano antichi fiori schiacciati tra pagine dove le macchie delle antiche lacrime si
confondevano con la muffa.
Francesco perse mesi, divertendosi come un matto, a districare epistolari insulsi, ricostruire amori banali, decifrare
graforree inarrestabili.
Trovò vecchi abbecedari, libri di musica, libri di francese,
istruzioni su come fasciare i neonati, su come fare la torta di
more.
Dal ’700 recuperò un libro di farmacia e due esili tomi di
botanica e zoologia, che erano probabilmente tra i primi
esempi in Italia delle scienze nascenti. Quel bottino riabilitò
la famiglia del marito agli occhi di sua madre: erano un po’
squilibrati, ma almeno non buttavano mai niente. Francesco
trovò addirittura una lettera che ordinava mandorle e miele
allo speziale datata 1699. E così il suo lavoro terminò.
La biblioteca-soffitta era in ordine; pulita e svuotata.
Francesco era deluso, sereno e fiero. L’autore della scritta
non si era trovato, ma aveva finito il lavoro e guadagnato dodici lire, di cui, per altro, non sapeva che fare. Venne la vecchia contadina a congedarsi. Con il tempo si era addolcita.
Adesso erano amici. «Quello che è ?» chiese la settantenne
indicando il baule murato nel muro sul cui bordo sporgente
Francesco si era seduto per due anni senza mai fare caso che
non era una panca. Lo scassinarono a fatica, ché prima bisognò liberarlo a picconate. Con grande fatica e con il cuore in
gola: con la speranza di aver trovato il tesoro dei pirati, l’oro
dei quaranta ladroni.
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Il tesoro non c’era: anche lì solo carte, ma l’eccitazione restò alta, ché se quelle carte le avevano conservate così nascoste dovevano ben essere qualcosa di speciale.
C’erano carte di due diversi tipi, colore, spessore e grafia
che si alternavano come nel pianoforte i tasti bianchi con i tasti neri. Un tipo era più scolorito, spesso, distrutto dalla muffa e dai topi; era coperto da una scrittura tonda e chiara,
spesso datata. Era il resoconto di qualcosa successo tra il
1630 e il 1631. Francesco esultò davanti a quella data, ma la
prudenza gli impedì di mostrare le carte a sua madre, nel timore, forse non infondato, che, nel suo spirito legalitario, lei
avrebbe consegnato tutto a un museo o alla Civica Biblioteca e lui, poi, mai più avrebbe potuto metterci le mani. L’altro
carteggio, più recente ma meno comprensibile, alternava
meditazioni, considerazioni, ricette di cucina e la storia di
una donna con un nome strano. Avessero tenuto tutto com’era, avrebbero capito subito. Invece, la prima cosa che fecero
fu di dividere in due mucchi separati i fogli vecchi e quelli
molto vecchi, senza annotare da nessuna parte l’ordine originario, che loro avevano scambiato per disordine.
Impiegarono un anno a dipanare la matassa. Ognuno ci
mise quello che aveva: la vecchia la conoscenza dei luoghi e
del vernacolo e il grande numero di ore vuote; il ragazzino la
conoscenza del latino, della storia e il dono dell’intuizione.
Le carte vecchie erano di tale Isacco, detto Isacco il Tondo,
che era stato giacobino, repubblicano, rivoluzionario, e giudeo, anzi, figlio di una giudea, ché la sua unica fede era la
Ragione. Faceva lo scrivano, forse era studente di qualcosa.
L’età non era scritta da nessuna parte, ma doveva essere un
uomo giovane, ancora senza moglie e senza figli. Dell’aspetto fisico si sapeva solo che era stato chiattulello, da cui il soprannome.
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Nel suo scritto Isacco parlava di sé, dei suoi amori, dei
suoi studi e della sua cucina. Cucinava bene, amava tutte le
donne e studiava la storia della Chiesa. Gli amori erano due,
una donna che era già sposata e che lui amava sopra ogni altra cosa, e la Ragione, che fino allora il mondo non lo aveva
dominato, ma adesso si cambiava.
Anche Francesco aveva una voglia matta di cucinare,
amare, essere felice e dare gioia in giro. La guerra infuriava. Barricato tra vecchie carte muffite, sempre più isolato
dal mondo intero, Francesco si interessava sempre meno
alla propria carriera di liceale e alle sorti della nazione. Il
disprezzo e l’astio che lo avevano perseguitato fino al ginnasio naufragarono contro la sua indifferenza e si estinsero. Il suo professore di fronte al suo costante essere svagato e lunatico lo giudicò innamorato e se ne rallegrò. Al ragazzo tutto quello che interessava era l’altro ragazzo ebreo,
intelligente e tondo come lui. Francesco cominciò a fare un
sogno frequente. Inseguito e braccato si salvava volando.
Gli inseguitori erano oscuri. I motivi della fuga pure. Francesco volava nuotando a rana: era un volo lento e bello; forse era solo il rimpianto dei bagni di mare di prima della
guerra.
Era la fine del ’42. Gli ebrei italiani erano già da molto nei
guai, ma Francesco se ne era appena accorto, un po’ perché
non ne conosceva nessuno, un po’ perché aveva passato il
suo tempo immerso nelle vicende dei briganti del secolo prima. Ma Isacco il Tondo chiunque fosse costui cominciava i
suoi scritti con la dichiarazione di essere giudeo e allora, e
solo allora, gli ebrei entrarono nella visuale di Francesco. Era
una visuale a cannocchiale: il cannocchiale era lettura. Vedeva quello che leggeva e solo quello; quello però lo vedeva bene e da vicino. Dell’Europa che gli franava attorno non ave-
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
va notato un granché, ma Isacco il Tondo era ebreo, e allora
gli ebrei cominciarono a esistere.
La storia della Chiesa di Isacco era in realtà la storia dell’Inquisizione, storia degli eretici e delle streghe, storia di ingiustizie e atrocità senza attenuanti e senza speranza. Tutto
finito nel secolo dei Lumi diceva Isacco, da quel momento
solo libertà, fratellanza e uguaglianza.
Francesco era sempre più strano. A scuola ci fu un tema
su un eroe del pensiero e invece che di Mussolini parlò di
Giordano Bruno. A sua madre che raccontava di Cenerentola a una nipotina obbiettò che la fanciulla sarebbe finita al rogo per quella zucca diventata cocchio, per quei cavalli ritornati topini.
Ritorniamo alle carte. C’era poi stata la Repubblica Partenopea e Isacco il Tondo riuscì a mettere le mani sugli archivi
del vescovado; molto semplicemente durante i moti, dando
per scontato che con quei chiari di luna nessuno si sarebbe
sognato di fare denunce o venirlo a cacciare, trovò un passaggio dagli abbaini e si sistemò tranquillo nella biblioteca
centrale.
Il Tribunale dell’Inquisizione di Capua era stato fondato
nel 1621. Aveva vivacchiato tra fattucchierie ignobili e miserabili: morìe di polli, furti di spasimanti, sogni cattivi.
Finalmente nel 1631 si scatenò l’ira di Dio: il terremoto
venne ad annientare i peccatori. O forse fu il Maligno a far
tremare le viscere della terra, a inghiottire armenti, vigne, figli di madre, a distruggere, sterminare, storpiare; ad ammutolire tutti coloro che pensavano che il dolore fosse già tanto
e che potesse bastare. Venne il terremoto a insegnare che al
peggio non c’è mai fine.
Salute a noi.
Si scatenò l’inferno.
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Chi si era scavato, con le unghie, nel fango, i figli morti
bambini; chi li aveva salvati per vederli poi ammazzati dalle febbri e dalle pestilenze che seguirono; chi si ritrovò solo,
immiserito, storpiato: tutti insorsero, giurarono vendetta,
cercarono i colpevoli di quel massacro.
Li cercarono. Li trovarono. Li punirono.
Per sommo dell’onore toccò al Tribunale di Capua il giudizio di una strega di particolare inverecondia e livore, vera
figlia di Satana, sorella di Belzebù, che rese celebri i suoi giudici nelle terre della Chiesa; per qualche mese almeno si
parlò di lei. Nel suo abominio era giunta al punto da uccidersi da sola sottraendosi così al processo e al giudizio, unica e ultima sua possibilità di salvazione. Prima di morire
aveva scritto quello che aveva da dire al mondo sulle mura
della sua cella e poi se ne era andata, soffocandosi da sola
con le sue stesse vesti.
E come se già non bastasse la stranezza del suo saper scrivere, erano strane le scritte, né oscenità né maledizioni, ma
l’ultima tentazione del Signore degli Inganni: il delirio dell’assenza di Dio. Evidentemente era quella la nuova trappola che il Maligno preparava all’umanità. Fino da Roma vennero per lei a studiare e a discutere; a dolersi di non averla
potuta interrogare, prima che lei riuscisse a sfuggire verso i
rifugi inviolabili della morte.
La sua cella era stata la cella minore della Torre delle Civette. Il cuore di Francesco per un attimo si fermò: era il posto dove era cominciato tutto. Ma la scritta che lui aveva letto non poteva essere stata della strega. La cella dopo di lei l’avevano passata con il fuoco, per purificarne le mura, ma, chissà, la scritta era in un posto nascosto, magari era sfuggita.
Prima di distruggerlo gli inquisitori trascrissero tutto per
poterselo studiare con calma, e le pagine su cui lo avevano
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scritto le passarono poi con l’acqua benedetta, ché il maleficio non avesse a uscirne.
Erano degli inquisitori le carte molto vecchie, quelle originali del 1632, sottratte da Isacco dal vescovado durante la
Repubblica Partenopea. L’ebreo le aveva trascritte nella sua
lingua settecentesca e spiegate, interpretando il senso degli
interrogatori, ricostruendo tutta la vicenda, ed erano questi i
fogli più recenti inframmezzati ai primi. Aveva messo però
tutto insieme: le sue ricerche, forse appunti per un libro progettato e mai scritto, e tutto quello che gli passava per la testa, le sue considerazioni sulla vita e sull’universo, le donne
che aveva amato o che aveva sognato di poter amare, quello
che aveva cucinato o che avrebbe sognato di cucinare se fosse stato un po’ meno povero, se l’uvetta passa e l’acqua di rose fossero state un po’ meno care. Il risultato aveva spesso la
granitica incomprensibilità dei diari personali, l’inevitabile
ermetismo dei codici non destinati a nessuno.
Il pezzo più chiaro era quello iniziale, la scritta della cella
minore.
Io sono Maria Croce e tengo nel nome il segno del Nazareno e
quello di sua madre, e non mi dispiace, ché loro erano brave
persone e mai fecero male ad alcuno.
Io sono Maria Croce e sono nata da uno speziale e da una serva e mio padre si è dilettato ad ammaestrarmi alle scienze e al
latino, svagando così i suoi ultimi anni. Roba non me ne lasciò,
ché i figli delle serve non sono parenti. Ma per le scienze e le lettere gli porto gratitudine, ché una puttana che sa il latino piace
assai ed è assai pagata, e io di questo ho campato, di questo e
di qualche ruberia, e non è stata una brutta vita. Poi un amante
nobile e coglione mi rovinò, ché lui aveva avuto tutto e io niente, e io gli presi qualcosa per le mie creature e lui si indignò e
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mi fece castigare. E così ho avuto la gogna, la Fossa delle Ree
Pentite, le cosce aperte alla gendarmeria. È così che è stato che
i miei bimbi sono andati a ingrassare la terra della pietà.
E allora io cominciai a cercare il Maligno, per chiedere a lui giustizia e pietà, visto che Domineddio non me ne dava, lo cercai e
non lo trovai, ché il Maligno non ci sta, come non ci sta Domineddio.
Il Maligno non ci sta e solo gli scimuniti credono a lui, gli scimuniti e voi, preti stolti, grandi inquisitori, ché la prova che Dio
non c’è è che non vi ha ancora fulminato. E la prova che Dio
non c’è è che, se c’era, non faceva morire i miei bambini. E il cielo altro non è che buio e vuoto.
Questa la dichiarazione della rea, trascritta in lingua comprensibile dal settecentesco Isacco il Tondo. Il resto della sua
vita, della sua morte, dei suoi pensieri era stato dagli inquisitori puntigliosamente ricostruito data l’originalità del caso.
L’avevano ricostruito attraverso i ricordi altrui: correi e testimoni. Tutti erano stati ascoltati: amanti fratellastri, i gendarmi della Fossa delle Ree Pentite, le pie donne del Rifugio della Pietà, gli straccioni stregoni della Rocca Spaccata. Anche la
levatrice che l’aveva curata era stata interrogata. Tutto si era
saputo, tutto era rimasto scritto: anche del suo aborto e dello scolo verdastro che ne era venuto.
Con puntiglio ancora maggiore Isacco il Tondo aveva ricostruito da quei chili di scartoffie muffite tutta la vicenda,
che per lui era la storia emblematica di una martire laica,
morta nell’inutile e magnifico tentativo di salvare qualche
vita dalla distruzione. Ché questo era stato il Sant’Uffizio: distruzione della persona, del pensiero, delle ossa, delle unghie, della dignità, degli affetti. E il peggio di tutto era il tradimento, ché nel delirio del dolore tutti accusavano tutti, le
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
madri accusavano le figlie: anche bambine di dieci anni erano state bruciate.
Distruzione di povere donne, di eretici e di giudei, che,
povera gente, pure loro, da sempre erano stati derisi, immiseriti, bastonati e uccisi. Fino ad allora, il secolo dei Lumi. Da
allora in poi, luce e civiltà. Ma la civiltà poi si era arenata.
Isacco chissà che fine aveva fatto: forse lo avevano sistemato
al ritorno dei Borbone, forse se ne era morto da sé di crepacuore, e meglio per lui che non aveva potuto vedere l’ignominia di quel secolo XX che grondava orrori e giudei ammazzati ancora più dell’epoca sua. E quelle carte chissà chi
le aveva salvate; forse Isacco stesso, nella speranza di tempi
migliori, che prima o poi il secolo dei lumi sarebbe tornato e
allora la storia di Maria Croce sarebbe stata scritta e raccontata, per la maggior gloria di lei e l’ignominia dei suoi persecutori.
Lei era stata chiamata Maria Croce per accumularle la benedizione sia della Vergine che del Figlio suo, nome che
Francesco trovò brutto, ma senz’altro meglio di Crocefissa,
che in quel periodo usava molto nelle campagne delle terre
povere, ché fosse chiaro che per chi voleva nascere femmina
e diseredata, in quelle contrade, non ci sarebbero state né
speranza né pietà.
Maria Croce speranza e pietà ne aveva avute. Era la figlia
bastarda di uno speziale e di una sua serva: figlia tardiva di
un essere senile, ultimo fuoco che aveva rischiarato l’inverno del padrone, estrema testimonianza del suo vigore virile.
Maria Croce era stata amata. Non come figlia, che sarebbe
stato eccessivo. Come cane di casa, piccola scimmia, orsetto
ammaestrato. La si vestì, la si sfamò, e il vecchio si dilettò a
insegnarle il suo sapere, con la fierezza della propria qualità
sia di maestro che di fecondatore, ché la ragazzetta, benché
SANTA MARIA CAPUA VETERE, PROVINCIA DI CASERTA, 1943
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sangue di serva, lasciava tutti senza parole; filosofeggiava,
leggeva il latino, scriveva in versi e in prosa: non c’era seminarista o studente che le potesse stare a pari.
Ma attenzione, il secolo dei Lumi era ancora di là da venire, non si trattava di emancipazione. Fu ammaestramento,
gusto della meraviglia, come si insegna ai cani a ballare, alle
scimmie a elemosinare, alle pulci a tirare la carrozzella. E per
lei, scimmia, pulce, cane, nessuna cura il suo padre, padrone, ammaestratore fece sopravvivere alla propria morte, ché
lei scherzo era stato, diletto, e con la morte tutti smettono di
dilettarsi e scherzare.
E così all’improvviso lei si trovò orfana, cacciata, nullatenente e senza arte né parte, ché nessuno le aveva mai insegnato a rattoppare, a lavare o a fare cucina. Solo aveva quella sua qualità di femmina filosofeggiante, che valeva quanto
quella di cane parlante o pulce acrobata; che, cioè, poteva essere stimata qualcosa o meno di niente a seconda che ci fosse, o no, qualcuno disposto a spendere per farsi meraviglie
di lei.
Dai paesani il suo leggere e scrivere e filosofeggiare fu tenuto in grande dispregio, e nessuno la volle mai né come
moglie, né come serva e neanche per raccogliere le olive.
E fu una benedizione, ché lei non teneva l’animo di campare in quella maniera: freddo, fame, paura, raccogliere fascine e olive, farsi fottere dal padrone, e ancora freddo, fame,
paura. E aborti. E feti nati morti, mostriciattoli nati vivi per
morire poi, sudici, verminosi; qualcuno campato, qualcuno
venduto; tutti uguali, tutti con le caccole al naso e le croste
agli occhi e al culo. Non era cosa. Lei non ci era portata.
Si arrangiò. Campò di bacche, lucertole, Provvidenza di
Dio. Un po’ di furto. Un po’ di meretricio. Ché anche farsi
fottere non è una brutta cosa se uno lo fa a suo estro e suo ge-
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
nio, senza nessuno che ti obblighi o che ti rubi il guadagno,
ché magari l’altro paga e alla fine il divertimento è stato
uguale. Forse dal padre suo speziale qualcosa aveva saputo:
la sugna ferma il seme, l’aceto lo fa annegare. O forse fu fortuna: solo due figli teneva dietro, maschi, forti e scuri, sempre affamati, raminghi e randagi, con i dentini bianchi e affilati dei piccoli lupi. Due figli soli e nessuna piccola tomba
scavata nella terra con le unghie delle mani.
Ebbe fortuna.
E una fortuna era stata anche la sua scienza di pulce ammaestrata, il suo riso di femmina senza padroni, ché nessuno, a lei, le aveva tolto il guadagno, nessuno l’aveva mai battuta, affamata. Le sue unghie e la fama del pugnale che portava alla cinta erano sempre bastati a darle protezione. Lei
piaceva, piaceva tanto, allegra e piena di scienza. Svuotava
la borsa ai suoi amanti cianciando un latino un po’ muffito
dei tempi del suo precettore, dissertando di spezie e di umori. Lei rideva e godeva dell’amore. Piaceva tanto che pure i
derubati si innamoravano e tornavano di nuovo, la cercavano, solo con più prudenza e cautela, senza più borse, con le
monete contate.
Era autunno. Il 1630. Capitò che non andò bene. Lui era
bello, ma stolto e legnoso e lei lo rapinò con astio, quasi un
risarcimento per lo strazio e il tedio. Ma lui non si era incantato e la fece cercare e cercare, ché lui era figlio di un cavaliere, nipote di un cardinale, e mai si sentisse che una stracciona fetente si era presa gioco di lui.
Così lei passò l’inverno: un po’ alla gogna, un po’ alla
Fossa delle Ree Pentite, un po’ alla gendarmeria, dove le allargarono le gambe senza sua voglia né genio, ma tra gli obblighi di una giudicata ci stava anche questo. Così lei passò
l’inverno: rabbiosa, affamata, battuta e usata. A primavera se
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ne andò: gravida, smagrita, imbruttita, le zinne rinsecchite, il
riso asciugato. Cercò i bimbetti, i lupacchiotti, i figli suoi. Li
avevano messi al Ricovero della Pietà, ma quando lei arrivò
loro già se ne erano andati.
Forse era stata la fame o il buio o il chiuso, ché loro non
erano abituati. Il fiato diviso coi tisici, la paglia divisa coi
morbillosi. Forse era stata la malinconia a portarseli via: li
avevano dovuti dividere, le pie donne del ricovero, ché insieme erano due bestie selvatiche, due lupi arrabbiati.
Al ricovero solo ne restò qualche ossicino nelle fosse comuni.
Maria Croce risolvette di farsi strega. Non solo per la rabbia, lo scorno, il dolore. Non solo per le pie donne, i carcerieri, il figlio del cavaliere. Non solo per maledire, punire, incenerire. Ma proprio per lui, Domineddio. Meglio dannata
che dalla parte sua. Lui, Domineddio, che aveva fatto il mondo e non lo aveva diviso giusto. E quando qualcuno a cui
non era toccato niente si prendeva qualcosa che non era suo,
a castigarlo c’era la gogna della Fossa delle Ree Pentite. E poi
la gendarmeria con le cosce aperte a far divertire i soldati del
vicereame, e poi i suoi bambini andati a ingrassare la terra
della pietà. Proprio per lui, Domineddio, creatore dell’universo e del dolore, lei volle farsi strega. Meglio di lui era il
capro che feteva di zolfo. Meglio la dannazione, le fiamme
eterne, le forche di Belzebù.
Maria Croce andò a cercare il diavolo nelle campagne
buie, le notti senza luna, la quinta notte della settimana, che
è la notte dei nemici dei Dio: delle streghe e dei giudei. Vaneggiava per la fame. Abortì e dopo l’aborto le rimase uno
scolo fetido e verdastro e una febbriciattola perenne, che la
spossava, lasciandole, ultimi desideri, la morte e il sonno.
Girò e rigirò e aspettò e cercò, ma il Maligno non si fece ve-
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
dere. Non la venne a prendere, non le portò niente da firmare. La notte restò senza luce, il sonno senza sogni, la pancia
vuota di pane e di figli, le ossa dei lupetti a ingrassare la terra al Ricovero della Pietà.
Venne l’estate. Maria Croce trovò i segni del sabba. Li
trovò fuori da tutte le mura, lontano da tutte le strade, in una
radura sperduta circondata da stagni, in mezzo a boscaglie
irsute e spinose. Trovò i segni dei fuochi, ossa bruciate, sassi
divelti.
Lei riprese forze e colore. Lo scoramento finì e pure la volontà di morire. Lei risorse e rifiorì per avere abbastanza forza per colpire, distruggere, vendicare. Divorò vermi, formiche, ragni, farfalle e rane, qualsiasi cosa si muovesse e potesse dare forza e calore, la forza per uccidere e annientare.
Mangiò qualsiasi cosa che poté acchiappare senza mai scostarsi dalla radura. Tenne il conto dei giorni e la quinta notte della settimana la passò insonne, accovacciata nella radura in attesa che Belzebù venisse ad ascoltare il suo livore.
Ad agosto, quando la terra era carica di profumi e di
umori, i seguaci del Maligno tornarono. Erano poco più delle dita delle due mani, uomini e donne, né vecchi né bambini, e lei che di tutto sapeva, ché da sempre girava libera e
randagia, li conosceva tutti. Erano i più miserabili, i più
sciancati, quelli che tutto ormai avevano già perduto e solo
gli restava l’astio e il livore, perché vivere solo di rabbia è
meglio che vivere di sola disperazione.
Erano pochi, straccioni, zoppi, ciechi, storpi, fetenti, sciamannati, sciancati. Biascicavano tra di loro. Tutti giulivi si divisero il qualche cibo e il po’ di vino che tenevano e siccome
non ci erano abituati nacque un’allegria senza confini che
riempì la radura, il mondo, il cielo. Con urla e schiamazzi costruirono l’effigie del Capro. Ci misero fango, sterpi e una
SANTA MARIA CAPUA VETERE, PROVINCIA DI CASERTA, 1943
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pelle di gatto nero che si erano portati. Poi lo riverirono e lo
ossequiarono. Quando il Capro si animò di vita vera urlarono di giubilo e di vittoria e poi si accoppiarono.
Ma non era vero niente.
Maria Croce, che non aveva mangiato, non aveva bevuto,
non aveva né il caldo del fuoco, né quello delle chiavate, lo
vide bene che non c’era nessuno: solo il riflesso della luce e
le ombre e i sogni degli ubriachi. Non c’era niente e mai c’era stato niente. Solo qualche straccione con un po’ di allegria
in corpo e il vento che muoveva le ombre e il fuoco. Questo
era il nemico di Dio sulla terra.
Maria Croce si alzò sulle gambe di piombo con il cuore
vuoto, mentre la prima luce dell’aurora dava colore al cielo,
ché ora li conosceva le streghe e gli stregoni: erano gli straccioni già scimuniti dalla fame, ancora più stralunati da quel
po’ di pane e di vino cattivo. Si erano sognati di volare sopra
un gallo, di essere stati un gatto o un topolino. Si erano sognati di fottere con il diavolo e si erano solo chiavati tra di
loro, per la fatica degli inquisitori che avrebbero poi scritto
pagine e pagine su succubus e incubus, davanti e di dietro,
di fianco e di lato. E quello era il regno di Belzebù su questa
terra. Non c’era nessuno. Non c’era nessuno sotto la terra,
non c’era nessuno al di sopra del cielo.
E fu allora che Maria Croce dovette porsi il problema del
dolore. E Isacco il Tondo con lei, E Francesco con loro. Il
duello tra Domineddio e il Maligno andava bene per loro: gli
straccioni stregoni con il cervello in pappa per la pellagra e
la fame. Avevano le allucinazioni e stavano con il Signore
delle Mosche e delle Tenebre perché con il Padreterno stavano i re, i viceré, i chierici e la gendarmeria. Maria Croce dovette pensare che lì due erano le cose: o c’era un Dio che tutto poteva e che, tutto potendo, permetteva la fame, l’ingiu-
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
stizia e il dolore, oppure Dio non ci stava e il cielo era solo
aria, finito il mondo, vuoto il regno dei morti. Vuoto tutto. E
cos’è peggio? Lei perse la fede. E i suoi bimbi morirono di
nuovo: nessuna Madonna ad accogliere le loro animelle, nessun angioletto a pulirgli il moccio del nasino. Solo gli ossicini ne restarono, sepolti nel campo della Pietà.
Ma un Padreterno che, tutto potendo, aveva voluto il dolore, il terremoto, il colera, la fame, le tenaglie del boia, le fascine accese sotto un corpo vivo, due bimbi incatenati nella
paglia verminosa a morire di fame e di disperazione, lei non
lo volle. Era meglio che l’universo fosse vuoto. Era meglio
essere soli.
Isacco il Tondo pone le sue disquisizioni di illuminista:
che il dolore sia inscindibile dalla vita, che questo sia il migliore dei mondi possibili, o forse l’unico dei mondi possibili, ché tanto è la stessa cosa. O questo o niente, ché non può
esserci la vita senza la morte e il dolore.
Francesco piange. Piangere di dolore e di amore, badando che le lacrime non sciupino lo scritto, che è tutto quello
che ha di lei, della sua sofferenza, della sua vita, della sua
morte. Lei, che aveva un nome così bello; ora gli piaceva;
continuava e ripeterselo quel nome strano, che già aveva in
sé i semi della tragedia in quel secolo di miseria e follia che
di tragedie grondava.
Poi ci fu il terremoto. 1632. Chi aveva ucciso tutti quegli
innocenti? Chi aveva sterminato tutte quelle anime di Dio?
«Il Padreterno stesso che è cattivo, se no non ci faceva
sciancati e morti di fame, ché lo dimonio stesso è meglio di
lui» risponde la confraternita degli straccioni stregoni.
«La vita stessa che non può essere scissa dalla morte e dal
dolore, pur essendo l’universo fondamentalmente buono»
risponde Isacco il Tondo.
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«Di nessuno è la colpa, perché non ci sta nessuno né sopra né sotto di noi» risponde Maria Croce.
«La colpa è del demonio, delle streghe, degli stregoni e
dei giudei» dice la voce del popolo e quella del Sant’Uffizio.
Francesco non dice niente e piange disperato, come solo
un adolescente sa fare, per il dolore del mondo e per l’ingiustizia che non si può sanare.
Piange sul miserabile ’600 partenopeo dove già il quotidiano era orrido e ancora si dovettero aggiungere le ossa rotte del terremoto e le piaghe infette dell’epidemia; e ancora
questo fu niente, ché il peggio di tutto fu il Sant’Uffizio, che
le colpe del terremoto doveva redimere e punire.
Francesco piange di rabbia e di dolore. E di amore. Vorrebbe poter piombare nel 1632 con le armi del secolo XX: salvare le streghe a fucilate, abbattere il Sant’Uffizio a mitragliate. Ancora non sa, ma lo scoprirà tra breve che il secolo
suo non gronda scienza, ma morti ammazzati. Di nuovo sulla sua terra uomini vestiti di nero sterminano i giudei e chi si
ostina a voler pensare, per non parlare dei milioni di cadaveri che, in lande lontane, ha fatto e farà la volontà di far rinascere il secolo dei Lumi, ché anche il sogno dell’uguaglianza è stato trasformato in un incubo di annientamento e
distruzione.
Andiamo avanti con la storia. Terremoto, morte, dolore,
epidemia. Comincia la caccia alle streghe. Maria Croce, in
qualche maniera che non si riesce a sapere, radunò la confraternita degli straccioni stregoni e cercò di guidarla in salvo verso il beneventano, zona che conosceva bene, perché
per là girava all’epoca dell’oro, quando era forte e sana, con
i suoi lupetti dietro. E neanche si riesce a sapere perché lo fece: perché non teneva niente altro da fare, per simpatia tra
derelitti e perduti, per sfregio all’autorità che aveva distrut-
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
to lei e i figli suoi, per non dover sentire altre urla di bruciati vivi.
Lo fece per pietà.
Lo fece per orgoglio: l’orgoglio dei nati forti, che del tutto
non cede mai, neanche sull’orlo del patibolo o nel fondo delle fosse comuni.
L’ultima aggregata alla confraternita non volle andare.
Sua sorella, scema quanto lei, ma buona e pia, la trattenne
per ricondurla in seno alla Chiesa e alla salvazione.
Maria Croce cominciò la sua marcia nella campagna livida. Già il giorno dopo si accorsero che li seguivano. Non c’era speranza: loro lenti, affamati, con i piedi piagati avvolti in
stracci fangosi e gli altri, i soldati, forti e duri, pesanti di
provviste e di armi, ben decisi a non lasciarli andare.
Maria Croce era stanca. Era sola. Nell’universo non c’era
nessuno. I suoi bimbi erano morti.
Nascose gli straccioni e se ne scappò lei sola, lasciando
tracce su tracce. Si trascinò gli armati dietro per ore e ore, attraverso boschi e contrade che conosceva come le sue sottane. Ma poi le forze la lasciarono o fu la stanchezza dell’anima che la fermò. Quando la presero lei si difese come una furia, caso raro, ché quasi mai il Sant’Uffizio dovette penare
per le ribellioni.
Riportata all’ovile, messa al sicuro nella cella minore della Torre delle Civette, le chiusero le catene ai polsi, ma senza
poi serrare i polsi tra di loro, come spesso si faceva con le
donne, così che potessero assettarsi e orinare da sole. E quel
poco di movimento le bastò per strangolarsi con le sue proprie sottane sottraendosi così alla loro giustizia e alla loro
salvezza. Prima scrisse sul muro dov’era incatenata, graffiando l’intonaco con il gancio che avrebbe dovuto serrare i
polsi tra loro, e poi morì.
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E questa è la sua storia. Dopo di lei arrestarono le due sorelle sceme, la santa e la strega, che erano in odore di sabba
tra i vicini. Nessuna di loro combatté. E perché avrebbero
dovuto? Una era innocente e sicura che Dio l’avrebbe salvata, l’altra colpevole e ben certa che niente mai avrebbe più
potuto salvarla.
Finirono bruciate insieme, ché la strega vera, purché levassero i ferri della tortura, anche la sorella pia accusò. E la
sorella pia, straziata, confermò tutto e ancora inventò, purché il dolore potesse finire. E tutte e due rivelarono il nascondiglio della Rocca Spaccata, sia perché levassero i ferri,
sia per l’invidia che i persi hanno per i salvati. E così la confraternita degli straccioni stregoni finì e l’ultima impresa di
Maria Croce ad altro non servì che a lasciare una scritta su
un muro.
Questo il riassunto. Le scartoffie originali si perdevano e
si dipanavano riportando gli interrogatori integrali, completi di urla, gemiti e implorazioni. Isacco il Tondo un po’ aveva sfrondato, un po’ aveva inventato per sostituire i pezzi
marciti e quelli mangiati dai vermi e dai topi, e aveva ricostruito la storia. Ma l’aveva riportata con una scrittura orrenda e alternando alla vicenda i molteplici affari suoi, così
molte cose Francesco le aveva capite solo rintracciandole sui
carteggi originali, o sulle copie che i due tamarri ne avevano
fatto, per poterli maneggiare senza che si sciupassero, copiando lettera per lettera con le loro larghe scritture di contadini. Ma nell’ultima parte, quella che ricostruiva gli ultimi
giorni della vicenda, Isacco andava dritto, senza disperdersi
a ricordare i propri affari, e aveva scritto quasi chiaro. Francesco aveva cominciato al mattino di una domenica ed era
andato avanti dritto anche lui tutto di un fiato, dimentico di
tutto e di tutti, di mangiare, di bere, del coprifuoco, della sua
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
famiglia, che forse era in pena per lui. L’ultima frase si interrompeva a «e io ho scritto questo…» e poi il secolo dei Lumi
era crollato, era venuto giù insieme alla libertà, alla giustizia
e all’uguaglianza e a Napoli si era tornati ai Borbone.
Era quasi mezzanotte quando Francesco lasciò la soffitta
e se ne andò. Se ne andò piangendo. Piangendo di dolore e
di furore, disperato per l’ingiustizia del mondo e perché lei
era morta tre secoli prima. Piangeva per lei, per i suoi piccoli lupi, per tutti gli ebrei del mondo, per la caduta della Repubblica Partenopea.
C’era il coprifuoco.
Francesco strisciava nelle ombre perché non lo arretrassero e perché non lo vedessero piangere. Arrivò appena in
tempo per la sirena dell’allarme e la fuga nel rifugio. Se ne
stette lì immemore, nell’odore del sudore altrui, in un intreccio di voci sconosciute e di discorsi estranei. La voce di
un uomo giovane lo raggiunse, era alle sue spalle e lui non
ne vedeva il viso. Nella clausura imposta dalle bombe,
l’uomo ne ricordava un’altra: quando suo padre muratore
lo aveva portato con sé a finire l’intonacatura della Torre
delle Civette. Uno spreco, ché poi la torre era finita di nuovo abbandonata, con tutta la sua intonacatura nuova a spese del Comune e ora era in malora. Ricordò anche la scritta, nascosta in un punto buio: ragionevole compromesso
tra la sfida a tutte le autorità del mondo e la paura dei calci di suo padre. Francesco non si girò: la faccia del narratore non gli interessava. Se ne strette ancora un po’ tranquillo e trasognato e poi cominciò a ridere piano. Rideva della
vita, del mondo, del suo proprio essere tonto, ché bisognava davvero essere un pollo per non pensare che nell’ultima
intonacatura, non nei carteggi del Sant’Uffizio, stava la soluzione della scritta. Intonacatura inutile. La torre poi non
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era servita a niente. Era rimasta lì a rovinarsi e a far giocare i ragazzini.
Intonacatura inutile: lui si era cambiato la testa e la vita
per quella scritta sul muro. Si ricordò: ligio, disciplinato,
convinto; disperato perché gli eroi sono magri e lui era grasso. Troppo grasso per acchiappare le civette, troppo grasso
per le parate del federale. Grasso come Isacco il Tondo.
Non era più neanche grasso: un po’ era stata la guerra,
ché l’epoca dell’abbondanza era finita, un po’ madre natura
che lo aveva fatto allungare all’improvviso di un’intera
spanna in un inverno solo, un po’ che, da quando non gliene importava più niente del suo deretano e di che cosa il
mondo poteva pensarne, aveva perso la voglia di abboffarsi,
ingozzarsi, digiunare.
Non era più tondo. E non gliene importava più. Anzi di
quella magrezza si dispiacque un po’: non somigliava più al
giacobino e cominciava a somigliare al federale. Curiosamente ad avvicinarlo al mondo dei poveracci, dei perseguitati, dei malnati, di Maria Croce e dei suoi lupetti era stato
l’essere tondo, l’eterno simbolo della ricchezza e dello scialo.
Della plutocrazia borghese come diceva il Duce. Al diavolo
il Duce. Il Duce era spazzatura.
Si spaventò da solo per il proprio pensiero, ma poi lo ripeté. Il Duce era immondizia; anche lui dava addosso agli
ebrei, li cacciava dai negozi e dalle scuole, che se ne andasse
al diavolo, anzi, che andasse a farsi fottere come diceva zio
prete garibaldino. Viva gli ebrei, che tutti odiavano e avevano sempre odiato: gli inquisitori, i papi, il federale, Hitler e
Mussolini.
Se li immaginò gli ebrei: trascinati via dalle loro case con i
vecchi dietro e i bambini al collo, i bimbi piccoli, teneri, terrorizzati, come quelli di Maria Croce; trascinati da una parte al-
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
l’altra dell’Europa in fiamme. Se li immaginò, nelle viscere
della Germania, nei cunicoli delle miniere di carbone e di sale,
a fabbricare cannoni, scavare trincee, affamati, laceri, incatenati come i prigionieri del paese degli orchi, in una visione di
infantile apocalisse che in realtà peccava per difetto di orrore.
La notte passò. Alle prime luci dell’alba tornò alla soffitta. I due tamarri se ne erano andati a dormire in campagna e
si erano salvati: della casa non restava più niente, solo un buco. Era stata centrata in pieno da una delle bombe alleate,
sganciata per caso, forse per errore, in quel sito che dai tempi di Annibale non rivestiva più alcuna importanza militare.
Francesco era disperato. Aveva perduto Maria Croce. Di
lei non gli restava più nulla. Tutto distrutto, tutto bruciato: i
carteggi del Sant’Uffizio, i manoscritti dell’ebreo tondo.
Cercò di ricordare almeno la dichiarazione di Maria Croce,
quella che era stata scritta sul muro della cella minore, ma
l’aveva letta una volta sola e prima che la ricostruzione di
Isacco ne dipanasse il senso. Ricordava solo le prime parole
e le ultime.
Lo trovarono lì, a giorno fatto, affranto, annichilito, seduto in mezzo al buco che era stata la casa di don Emilio. Gli
vennero a dire che sua madre lo cercava disperata dalla sera
prima. Solo allora si ricordò di lei. L’amore degli adolescenti
abbraccia l’universo, ma esclude padre e madre. Il timore
della dipendenza avvelena l’affetto, diluisce la pietà.
Neanche un secondo in quella lunga notte era stato in pena per sua madre, aveva pensato alla sua pena per lui. Ci fu
un momento di grande tenerezza al rincontro, e poi lui di
nuovo se ne dimenticò.
E si arrivò all’estate, l’ultima estate.
Gli Alleati stavano arrivando. Mussolini e i suoi nessuno
li voleva più. Degli ebrei nessuno chiedeva molto: chissà che
SANTA MARIA CAPUA VETERE, PROVINCIA DI CASERTA, 1943
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fine avevano fatto. I tedeschi cominciarono a reclutare gli uomini: a portarli in Germania con loro per sostenere l’impero
che franava; forse a scavare miniere e trincee; forse gli ebrei
non gli potevano più bastare.
Si crearono rifugi e nascondigli. Una vera e propria catacomba fu scavata tra le vasche della canapa prosciugate. Ci
trovarono posto una ventina di giovani e due intere famiglie
di ebrei, complete di nonni, bisnonni e bambini, riemersi da
nascondigli misteriosi ormai non più sicuri.
Anche Francesco fu mandato a raggiungere il gruppo. Era
ancora distante dal rifugio quando i tedeschi lo avvistarono.
Non lo presero. Non subito. Non prima di una lunghissima corsa che li trascinò lontano, in mezzo agli acquitrini, tra
il tanfo della canapa macerata. Troppo lontano dal posto giusto per poterlo intuire, trovare, devastare. Come Maria Croce, Francesco corse trascinandosi dietro i nerovestiti. Corse
come sognava di correre nella sua infanzia di bimbo grasso,
come corre il vento, come corrono gli elfi, badando addirittura a non seminare gli inseguitori, per trascinarli sempre
più lontano.
In un campo di lino si trovò allo scoperto sotto il tiro dei
mitragliatori e si arrese. Stupidamente. Era meglio se si faceva ammazzare subito, ché i nerovestiti valevano gli inquisitori dell’epoca di Maria Croce: la morte gliela avrebbero data, ma dopo avergliela messa alla fine di un cammino aspro
e duro. Meglio morti subito che vivi in mano a loro.
Loro avevano fretta. Se lui non si spicciava a parlare, la
notizia del suo arresto si sarebbe saputa e quel maledetto rifugio che stavano cercando da giorni sarebbe stato abbandonato. Se si fosse trattato solo degli uomini lui avrebbe parlato. Ma c’erano i giudei; due famiglie intere: donne, vecchi e
bambini. Bambini piccoli, scuri e affamati come quelli di Ma-
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
ria Croce. Francesco non parlò. Per Isacco, per Maria Croce,
per tutti gli ebrei perseguitati di tutti i secoli, di tutte le nazioni. Decise di farsi ammazzare e non parlò.
Loro erano sempre gli stessi: barbari, goti, lanzichenecchi.
C’erano già stati nella storia stragi e saccheggi di altra gente
che portava i loro nomi.
Sempre gli stessi loro e sempre la stessa la loro lingua,
aspra e dura, fatta per ammazzare, malamente studiata a
scuola, peggio tradotta dall’incerta voce dell’interprete terrorizzato.
Francesco cedette. Innumerevoli volte decise di parlare.
Nessuno se ne accorse, perché nella furia di distruggerlo, di
fargli scontare la corsa e l’ostinazione, non interrompevano
mai per starlo a sentire.
La confessione, le innumerevoli confessioni, si persero
nelle urla per le unghie strappate e le ossa spezzate. Quando
finalmente gli dettero tregua, alla volontà di salvare i giudei
si aggiunse l’odio e di nuovo non parlò.
La sua testa all’ennesimo calcio urtò con una violenza tale che per qualche minuto la sua coscienza svanì. Al suo ritorno al mondo dei vivi la sua confusione era totale. Il traduttore e il capo degli unni capirono che era il momento
buono: le difese della coscienza svanite, la memoria restava
nuda, come il corpo degli indagati di Santa Madre Chiesa
prima e dell’impero nazista poi.
Anzi degli imperi: nazista, fascista, nipponico, sovietico.
Più altri regni e sottoregni vari.
Lasciamo perdere, torniamo alla storia. Ai lanzichenecchi
sfuggì che il ragazzo non si era venduto né convertito; solo
era rimasto stordito e confuso. Ci sarebbe voluto a interrogarlo una voce dolce e chiara, che ripetesse con pazienza
sempre le stesse cose. Le domande invece continuarono dif-
SANTA MARIA CAPUA VETERE, PROVINCIA DI CASERTA, 1943
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ficili e dure: la voce cattiva dell’unno, la voce tremante del
traduttore, che per rendersi più gradito agli irascibili padroni rese tutto inintelligibile parlando in una spagnolesca terza persona; moltiplicando gli insulti e le mortificazioni. Nelle ombre del cervello stordito i nerovestiti si confusero con
altri inquisitori. Sua eccellenza chiede… sua eminenza vuole sapere… tu, scellerato cane, brigante, infame, dimenticato
da Dio. Le parole furono le stesse…
Francesco parlò, con l’angoscia nel fondo del cuore, senza riuscire a fermare le parole. Farfugliò e nell’incalzare delle richieste ripeté. Si riuscirono a capire i nomi e la locazione. I soldati partirono verso il beneventano, al rifugio della
Rocca Spaccata, con in tasca l’elenco degli eretici bruciati tre
secoli prima.
Finalmente lo lasciarono dormire. Si risvegliò nella cella
minore: i tedeschi avevano rimesso in uso la vecchia torre.
Ogni briciola del suo corpo era dolore. La testa gli funzionava a tratti. Si riaddormentò e sognò di scappare nuotando a
rana verso il cielo, ma la fuga non riuscì: il dolore lo fermò e
lo svegliò. Si trascinò fino allo spioncino. Lo guardava un
povero cristo della riserva che gli fornì un po’ di grappa e gli
dette lumi, parlando un tedesco lento e scandito che anche
una conoscenza libresca potesse capire.
Aveva parlato, ma lo fucilavano lo stesso, subito, di lì a
poco, tanto per dare un po’ d’esempio a una popolazione
scarsa di spirito di collaborazione. Ci furono incomprensioni dovute all’assurdità della situazione e alle lacune linguistiche, poi qualche ricordo affiorò nella nebbia e il ragazzo
capì di aver inviato i germanici ad arrestare gli inquisiti del
sabba, la confraternita degli straccioni stregoni.
Si ritrascinò al suo mucchietto di paglia sporco di sangue
ed escrementi persi da uomini spezzati, da sfinteri straziati,
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
ché alla degradazione degli sconfitti si aggiunge anche il defecarsi addosso.
Non voleva morire, come nessuno vuole, neanche gli eroi.
Gli parve di sentire una voce che gli diceva di salvarsi. Per la
prima volta da un tempo lunghissimo pensò a sua madre e
la tenerezza per lei lo travolse, la pietà per l’infinito oceano
di silenzio in cui stava per abbandonarla. Ma lui non aveva
più strada per salvarsi. Il tradimento gli avrebbe solo prolungato l’agonia. Dio non volesse che campasse tanto a lungo da scontare la furia dei nerovestiti per la scampagnata alla Rocca Spaccata. La grappa del crucco smise di bruciargli
lo stomaco e arrivò alla testa. Si fuse con le ultime brume della capocciata e il dolore sparì. Il cervello gli esplose in una
sfrenata allegria. Li aveva fregati tutti. Ripensò ai nerovestiti sulle tracce degli inquisiti di tre secoli prima. Li rivide tornare furenti e trovarlo al sicuro nel mondo dei morti dove loro stessi lo avevano fatto mandare per eccesso di sicumera e
nei limiti delle sue ossa, che gli facevano male, si sbellicò dalle risate.
Non riusciva a smettere di ridere. Si rivide bambino, grasso e solo, a cacciare civette nella torre che ora gli faceva da
prigione. Un Padreterno con il senso dell’umorismo molto
accentuato gli aveva realizzato tutti i suoi sogni di allora: era
magro, aveva salvato tutti, era l’eroe. Quando i tedeschi se
ne fossero andati, gli avrebbero intitolato una strada o una
scuola.
Si ricordò di non aver mai fatto l’amore e il desiderio di
continuare a vivere ritornò feroce. Si ricordò di Maria Croce.
Con tre secoli di ritardo la sua vittoria era arrivata. Finalmente la sua corsa era servita a qualcosa. Il suo processo dava la vita a qualcuno. Grazie a lei, alla sua storia, ai mesi im-
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piegati a dipanarla e comprenderla il cervello di Francesco
lasciato indifeso e nudo da un colpo più duro del suo cranio
aveva rivelato il segreto sbagliato, quello che in qualche maniera gli era più vicino, la storia degli altri perseguitati, degli
inquisiti della Rocca Spaccata.
Francesco aveva sognato per un anno Maria Croce. Ora la
ritrovò. La sua testa lesionata e febbricitante fabbricò la sicurezza che in quella cella, che avevano in comune, lei fosse
tornata. Scambiò l’odore di estate e di terra che l’aria spingeva verso di lui per l’odore di lei e si inventò che lei era lì
ad aspettarlo. Sentì la sua presenza, la sua voce, il suo odore. Lei era lì in quel buco pieno di amore, dove invece non ci
stava nessuno, solo lui con la sua testa piena di allucinazioni e di nebbie e il crucco che piangeva. Era un ometto anziano, brav’uomo, della riserva. Piangeva disperato per quella
guerra idiota che ammazzava i ragazzini, che Dio salvasse i
suoi laggiù, a casa sua, se i russi arrivavano. Piangeva sulla
sua bellissima lingua che era stata di Mozart e Beethoven,
che non avrebbe mai più smesso di essere in tutti i secoli a
venire, per l’umanità intera, la lingua della distruzione. Non
poteva far niente per quel ragazzino che stavano per ammazzare se non quello che aveva già fatto: riempirlo di grappa e farlo morire contento.
O forse aveva ragione lui: lei era lì, da sempre erano stati
insieme, da quando lui era entrato per la prima volta nella
cella minore e aveva trovato la scritta; da quando lei lo aveva portato nella cella minore e gli aveva fatto trovare la scritta. Si erano amati da sempre, avevano combattuto insieme.
Da sempre lei aspettava qualcuno che venisse a completare
l’opera sua, la sua opera di salvazione. Da tre secoli erano
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
amanti. Avevano fottuto gli uomini vestiti di nero, gli inquisitori, i distruttori. Con le sole armi del loro coraggio. Morivano insieme.
Francesco non aveva mai fatto l’amore. Il dolore era sopito. La sua testa volava. Guardò la vecchia brocca sbrecciata
sul davanzale, forse dimenticata, forse lasciata lì apposta per
esasperare con la sua inutilità e la sua polvere la sete dei condannati. Lui la fissò: ultima visione della bellezza del mondo. Guardò le sue forme muliebri: l’ampliarsi, lo stringersi
l’ampliarsi di nuovo. La brocca divenne lei: il busto, la vita,
i fianchi di Maria Croce. Lì davanti a lui lei era giovane, forte, senza vestiti: il seno, le cosce, il triangolo dei peli scuri. Il
sogno lo riempì e lo trascinò. Un po’ di sperma si aggiunse
ai liquami del suo giaciglio di condannato.
Pensò alla sua stirpe di eroi involontari.
«Andate a farvi fottere voi, mio padre e il vescovo.»
Anche lui voleva lasciar detto qualcosa.
Si trascinò fino alla scritta. C’era ancora, sgrammaticata e
fiera, muta protesta a tutte le ingiustizie del mondo: le persecuzioni, le guerre e il doposcuola.
La firmò, con il sangue che gli colava dalle unghie strappate, ché altro per scrivere non aveva. Prima scrisse il nome
di lei. E così passò metà del tempo che gli restava. E poi scrisse anche il proprio, così che la firmassero tutti e due, come
era giusto.
Una storia come tante
Venerdì 7 aprile
Eserciti di formiche girano per la mia casa. Si intersecano
e si incrociano, formando geometrie di righe e puntini.
Quando manca la corrente, durante i temporali estivi, la
televisione non funziona, e allora guardo loro, con il loro
continuo movimento di puntini che si spostano e si intersecano. Portano via le briciole che mi cadono dal letto. Faccio
un’infinita attenzione a non schiacciarle quando mi alzo.
Senza di loro, la mia solitudine sarebbe veramente infinita,
come quella di un astronauta su un meteorite.
Mi alzo solo per andare in bagno e per prendermi le cose
da mangiare in cucina. Questa casa è un oceano e questo letto è una zattera che oso abbandonare, come tutti i naufraghi,
solo per lo stretto necessario. Cambiarmi la camicia da notte
e le lenzuola non fa più parte dei bisogni primari da quando
tre mesi fa la lavatrice ha smesso di funzionare.
Guardo il mondo attraverso la televisione. Le formiche e
i biscotti del droghiere riempiono la mia vita. Non ho bisogno di niente altro. Accreditano la mia pensione direttamente alla banca. La banca paga le bollette e gli addebiti del droghiere. La drogheria mi manda la roba a casa; fanno le con-
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
segne il giovedì. Il garzone consegna la roba lasciandola davanti alla porta, così non dobbiamo incontrarci e non mi
chiede perché compro roba per otto visto che qui ci vivo sola. Gli risponderei che vivo con le formiche. Siamo migliaia.
Da quando ho superato i centocinquanta chili non so più il
mio peso perché la bilancia non va oltre; allora ho fatto
rinforzare il fondo del mio letto. È stato tre anni fa. Da allora nessun altro oltre me e le formiche è entrato in questa
stanza.
Come i Simpson e l’Occidente postmoderno ho perso la
decenza, ma conservo la mia innocenza. Oggi ci sono due
episodi di «Dr. House». Prima della fine del mese ridaranno
Guerre stellari.
Sabato 8 aprile
Il televisore si è rotto. Guardo da due giorni linee grigiastre che tremolano come pozzanghere. Non avessi smesso di
piangere venticinque anni fa, credo che piangerei. Nemmeno
ai Simpson, che sono quattro, una tegola del genere gli era
mai arrivata. Io devo sommarmi alle formiche per dire noi.
Bisogna che cerchi di ricordarmi dov’è la guida del telefono, in quale angolo di questa stanza semibuia e sotto che
cosa.
Lunedì 10 aprile
Oggi ho telefonato dove avevo comprato il televisore.
Verrà un tecnico.
UNA STORIA COME TANTE
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Mercoledì 12 aprile
Il tecnico della televisione è arrivato. In realtà il tecnico
della televisione appartiene al sesso femminile, particolare
di cui all’inizio della nostra conoscenza non mi sono resa
conto, perché tiene tutti i capelli completamente nascosti sotto il berretto e il resto nascosto in un blusone di due taglie
superiore alla sua. Non mi era venuto in mente che anche le
donne riparassero i televisori. Il tecnico della televisione mi
dice che le donne fanno anche l’astronauta.
Ho avuto una bambina che voleva fare l’astronauta, così
poteva vedere le nuvole dal di sopra. È stato venticinque anni fa.
Il tecnico della televisione dice che le manca un pezzo e
che me lo porterà domani.
Il tecnico della televisione è una iena e mi dice che domani non mi monterà nessun pezzo se non mi faccio trovare con le lenzuola e una camicia da notte puliti. Dico al tecnico della televisione di farsi i cavoli suoi; faccio parte del
pezzo di umanità che l’età dell’oro ce l’ha già avuta e neanche si ricorda più quando è finita. Mi ripari il televisore e
levi il disturbo, ambedue le cose nel più breve tempo possibile. Il tecnico della televisione mi risponde che la sua assicurazione si limita alla tendinite da uso improprio del
cacciavite e alle scosse elettriche; l’antinfortunistica non copre la salmonella, il carbonchio e lei non è vaccinata contro
il colera.
Mi sono arrabbiata. L’ho cacciata.
Erano anni che non mi arrabbiavo.
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
Giovedì 13 aprile
Ho fatto una doccia. Mi ero dimenticata l’acqua tiepida
sulla pelle e l’odore buono dello shampoo. Ho cercato di
cambiarmi la camicia, ma nessuna delle altre mi va più. Ho
fatto una specie di tunica con il copriletto a righe.
Ho cambiato le lenzuola, ma non so che fare con quelle
sporche, essendo la lavatrice defunta da mesi. Ho trovato
del detersivo per piatti: ho riempito il lavandino di acqua e
schiuma e ci ho messo dentro le lenzuola. Anche se non sono tazzine, andrà bene lo stesso. Fra tre mesi, al prossimo
cambio di lenzuola, mi porrò il problema di dove stenderle. Non bisogna esagerare. Poi ti viene la sindrome della casalinga.
Venerdì 14 aprile
Il tecnico della televisione è tornato. Forse non è tanto una
iena. Mi ha aiutato a stendere le lenzuola e mi ha chiesto di
vedere la lavatrice. C’era solo il filtro intasato: l’ha fatta ripartire; invece il televisore è sempre fuori combattimento. Il
pezzo che ha portato non raccorda, dovrà portarne un altro.
Mentre la lavatrice faceva un giro per essere sicuri che andasse bene, il tecnico ha tirato fuori dalla sua valigetta una
bomboletta di insetticida e prima che riuscissi a fermarla mi
ha sterminato quasi tutte le formiche.
Le ho detto che le formiche erano mie, forse le avrei usate per farci una minestra o un quadro della Biennale. Le ho
detto che stavo scrivendo un trattato di entomologia e così
nessuno saprà mai come va a finire. Le ho detto che lei non
ha il diritto di farsi gli affari miei. Tutto quello che mi serve
UNA STORIA COME TANTE
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è qualcuno che conosca il mestiere e faccia ripartire il maledetto televisore.
L’ho cacciata di nuovo. Però forse non è una iena. Andando via mi ha urlato che mi porterà qualcosa per farmi compagnia, così le formiche non mi mancheranno troppo.
Domenica 16 aprile
Ho lavato i pavimenti con acqua calda e sapone, sempre
quello dei piatti, che è l’unico che è in casa, ma è troppo spumoso per qualsiasi utilizzo fuori di un lavandino. Navigavo
in una nuvola di bolle come la Cenerentola che canta dell’omonimo film. Prima avrei dovuto scoparli, i pavimenti, ma
non ho trovato la scopa. È stata un fatica immane. Ercole al
paragone era un novellino. Dovevo spostarmi a quattro
zampe con lo straccio e ogni due metri la saponata nel secchio era da cambiare perché era diventata fango.
Venticinque anni fa facevo la saponata per far giocare la
mia bambina alle bolle di sapone.
Quando ho finito di lavare ho buttato secchiate e secchiate di acqua per levare il sapone. Ero sudata marcia. Bisogna
che faccia un’altra tunica con un altro copriletto perché di
pulito c’è solo la camicia da notte e non ho più tanta voglia
di stare in camicia da notte.
Lunedì 17 aprile
Il tecnico della televisione è tornato e mi ha portato un
cucciolo di gatto femmina. Dico che avrebbe almeno potuto
chiedere. Non sono sicura che il pelo di gatto non mi dia al-
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
lergia. E poi i gatti femmina tendono a fotocopiarsi, si comincia con uno e dopo sei cucciolate ci si ritrova con sei diviso due elevato alla sesta potenza visto che la cucciolata
media è di sei e che la metà dei gatti sono maschi e non producono cuccioli in loco.
«Vale a dire?» ha chiesto il tecnico.
«Vale a dire settecentottantanove.»
Per una volta il tecnico è rimasto senza parole. Quando le
ha ritrovate, ha commentato che una come me probabilmente fa le equazioni di secondo grado al posto delle parole crociate.
Già, è vero, ero brava in matematica. In effetti per anni ho
fatto le equazioni di secondo grado al posto delle parole crociate.
I miei libri di matematica devono essere da qualche parte, forse in soffitta. Neanche questa volta il televisore funziona.
Martedì 18 aprile
Il pezzo del televisore questa volta raccorda, ma il televisore non funziona ancora perché c’era un’altra cosa rotta, da
cambiare, lei non se ne era accorta.
Dico al tecnico che mi sto perdendo tutti «I Simpson» e
anche Thelma & Louise. Dice che non sa di che cosa parlo. Lei
i televisori li ripara, ma non li guarda.
Deve essere un’extraterrestre. Probabilmente è arrivata
dal pianeta Vega come Goldrake. Uno di questi giorni la sua
testa si staccherà e se ne andrà per i fatti suoi dopo aver cacciato le zampe, come «la cosa» di Carpenter o la Mano della
famiglia Addams.
UNA STORIA COME TANTE
149
Lei ha circa trent’anni, è piccola, rotonda, ha una faccia
simpatica senza trucco. Anche la mia bambina adesso avrebbe quasi trent’anni, se quel camion fosse riuscito a frenare.
Mercoledì 19 aprile
Ho telefonato al droghiere di mandare più latte per via
del gatto. E di non mandare biscotti. La settimana scorsa mi
sono avanzati. Poi ho chiesto detersivo per la lavatrice, per
i pavimenti, per i piatti, per la roba che si lava fuori dalla
lavatrice, per i mobili, per le piastrelle, per la cucina, per i
vetri, per i lavandini e anche qualche barattolo di DDT o
come si chiama adesso, perché io e la gatta bastiamo, come
creature viventi, in questa casa. Ho ordinato anche una scopa, uno spazzolone, due spugne, tre strofinacci e un barattolo di roba per l’argento, così lucido la zuccheriera e i tre
cucchiaini sopravvissuti dei dodici originari: è tutto quello
che mi resta del naufragio del mio matrimonio; almeno che
brilli.
Mercoledì 26 aprile
Oggi ho pulito la cucina. Ho messo anche le tendine in lavatrice. La gatta mi miagola attorno e ogni tanto viene a farsi una strusciata contro le mie gambe. Mi chino a carezzarla
e sento il suo pelo morbido e le vertebre della sua schiena
che si allungano sotto la mia mano per il piacere della carezza. Le mie ossa scricchiolano in questa fatica del chinarsi, ma
poi la mano incontra il ronron della gatta e ne vale la pena.
Quando ho finito mi sono fatta la doccia e cambiata perché
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
adesso il camicione di ricambio ce l’ho. L’ho fatto usando gli
asciugamani di cotone a fiori e ora ho le frange in fondo e sul
collo.
Alla sera sono rimasta seduta nella cucina pulita, con il
camicione pulito addosso e la gatta sulle ginocchia che faceva ronron. In cucina c’è la radio e sono stata a leggere vecchie riviste che ho trovato dietro la ghiacciaia. È piacevole
leggere riviste. La prossima volta che viene il tecnico della
televisione si potrebbe fare una tazza di tè e poi stare un po’
in cucina con tutto pulito e le finestre con le tendine. Ho pure la zuccheriera scintillante con i cucchiaini.
Giovedì 27 aprile
Sono andata in soffitta a cercare i miei libri di matematica; quelli su cui ho studiato io e quelli che mi sono serviti per
insegnare agli altri. Ho un libro di equazioni della terza media e le faccio come un gioco di enigmistica, sentendo la radio, sul tavolo della cucina pulita.
Martedì 1º maggio
Il gatto è rimasto senza latte. Il droghiere fa le consegne
solo il giovedì e oggi è martedì. Potrei telefonargli e spiegare che sono nei guai. Oggi non ha il garzone, ma potrebbe
portarmi le cose quando chiude. Il gatto però resterebbe
senza niente fino a stasera. Forse potrei andare al supermercato.
UNA STORIA COME TANTE
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Mercoledì 2 maggio
Sono andata io a comprare il latte. Avevo la tunica copriletto a righe e le ciabatte. Qualcuno si è voltato e qualcuno
no. Al supermercato ho comprato delle ciabatte nuove, quelle con la suola ortopedica, che vanno bene anche per uscire.
Sono passata all’edicola e ho comprato qualche giornale e un
catalogo di roba per corrispondenza. Ho finito i soldi che
avevo in casa. Dovrei passare in banca.
Venerdì 11 maggio
Il televisore è sempre rotto. Forse il tecnico non riesce a
trovare i pezzi. Sono andata in banca, volevo ritirare un bel
po’ di soldi per non doverci tornare, ma in effetti l’impiegata ha ragione, è meglio non averne troppi addosso e poi la
banca è sulla strada del supermercato. In effetti al supermercato la roba costa meno che dal droghiere. È vero che poi le
cose me le devo portare a casa io, ma se la spesa la faccio
giorno per giorno ce la posso fare.
Ho finito il libro di equazioni. Ho ricominciato la geometria analitica.
Venerdì 17 maggio
Ho ricominciato a cucinare. Il droghiere non aveva né
carne né verdura fresche: al supermercato ci sono e sono
buone. Mi ero dimenticata di com’era cucinare e mangiare
roba cucinata.
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
Sabato 20 maggio
È arrivata la roba del catalogo per corrispondenza. Avevo
preso le cose più grandi che c’erano. Mi stanno. Un po’ al pelo, ma mi stanno.
Il tecnico non è ancora venuto a riparare il televisore.
Giovedì 1º giugno
Il tecnico della televisione è tornato e neanche questa volta il televisore è ripartito. Adesso la casa sembra la pubblicità
del Mastro Lindo, ma il tecnico della televisione spiega di
nuovo che è sempre colpa mia se non riesce a riparare il guasto, e mi avrebbe stupito il contrario. Il fatto è che l’edera che
ricopre la casa è cresciuta anche sulle finestre che non si possono più aprire. Mi piace la mia edera. Le sue foglie sembrano scaglie di un drago e la mia casa sembra una via di mezzo tra l’antro di una strega e la tana di uno gnomo. Il tecnico
dice che mica bisogna abbatterla. Basta salire su una scala e
tagliare quella che blocca le finestre, così usciamo da questa
penombra da miniera prebellica e lei riuscirà a riparare il televisore. Ho detto al tecnico di portarsi dietro una pila e
qualcuno che conosca il mestiere la prossima volta che torna,
così potremmo interrompere la frequentazione e io potrei
tornarmene a guardare «I Simpson» e le riedizioni di Thelma
& Louise.
Lei se n’è andata sbattendo la porta.
E poi io non sono in grado di salire su una scala. Avrei bisogno di una rampa per ippopotami, e le hanno solo negli
zoo.
UNA STORIA COME TANTE
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Venerdì 2 giugno
Ho chiesto al postino se conosceva qualcuno disposto a
tagliarmi l’edera. Dice che può farmelo lui. Verrà sabato pomeriggio. In cambio tutte le mattine si fermerà da me per
una tazza di caffè. Dice che è carina la mia cucina. È un posto dove ci si ferma volentieri a fare due chiacchiere e tirare
il fiato. Dice anche che è contento di conoscermi. Sono cinque anni che distribuisce la posta da questa parte del fiume
ed è la prima volta che mi incontra.
Giovedì 8 giugno
Il postino ha tagliato l’edera in eccesso. Gli ho anche chiesto di piantarmi una rosa. Il tecnico della televisione dice che
le piacciono. Io gli ho fatto trovare la torta con la crema. Non
mi ricordo quanto tempo è che non la cucinavo. Ero brava a
cucinare. Mi piaceva. Il postino mi ha detto che cercano qualcuno due ore la mattina alla biblioteca comunale. Non hanno trovato nessuno perché la paga è piuttosto simbolica, ma
tanto io non dovrei sbarcarci il lunario, forse potrebbe interessarmi.
Mercoledì 14 giugno
La paga in effetti è simbolica, ma posso leggere tutti i libri che voglio, sia lì che a casa mia. Poi la gente quando va
in biblioteca sorride, è simpatica; mi chiama signora bibliotecaria. Al mattino aspetto il postino, ci facciamo il caffè insieme, poi lui si finisce il suo giro e io vengo ad aprire la bi-
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
blioteca. È simpatico il postino. Vive solo: sua moglie è morta, molto tempo fa, e i suoi figli sono cresciuti e se ne sono
andati, poco tempo fa. Tra due anni andrà in pensione anche
lui. Fino ad allora possiamo dividerci il caffè al mattino. A
nessuno dei due piace prenderlo solo.
Venerdì 30 giugno
Ora che esco tutti i giorni è meglio che ordini qualche altra cosa al catalogo di roba per corrispondenza. Magari una
taglia di meno; ho dovuto stringerla tutta la roba dell’altra
volta.
Lunedì 10 luglio
Oggi c’è una pioggia torrenziale. Il tecnico della televisione è tornato. Mi ha detto che per il mio televisore non c’è
niente da fare, non lo può riparare. Le ho detto che non importava. Le ho chiesto se voleva sedersi, prendere un caffè,
una fetta di torta. Ha detto di no. Continuava a ripetere: «È
tardi, devo andare via, devo andare via».
È corsa via sotto la pioggia; non sono riuscita a fermarla.
Volevo almeno darle un ombrello. Mentre correva il berretto
le è volato via. Lei lo tiene calcato sugli occhi, così che non si
vedono i capelli. Oggi si sono visti, mentre il cappello le volava via. Sono rossi, rosso fiammante, come quelli della mia
bambina. Anche quel giorno c’era la pioggia, per questo il
camion non è riuscito a frenare.
Il rumore della pioggia e poi quello della frenata del camion. Mi metto a piangere. Erano venticinque anni che non
UNA STORIA COME TANTE
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piangevo. Mi metto a piangere e non smetto fino al mattino.
Mi addormento alle prime luci dell’alba con il gatto che mi
dorme contro e il profumo dell’erba bagnata che entra dalle
finestre aperte. Il temporale è finito.
Lunedì 17 luglio
Sono andata al negozio dove ho comprato il televisore. Mi
hanno detto che deve esserci stato un errore: loro hanno un
unico tecnico, inequivocabilmente di sesso maschile, e comunque non fanno riparazioni a domicilio.
Egregio Dottor Babbo Natale
Domenica 9 gennaio 2004, notte
anzi,
Lunedì 10 gennaio 2004, tre ore dopo mezzanotte, quattro ore prima dell’alba
Gentilissimo Dottor Babbo Natale,
mi auguro di non disturbarla indirizzandomi a lei il 9 di
gennaio (in realtà da tre ore è già il 10).
È senz’altro una data insolita ma, d’altra parte, probabilmente per lei questo è un momento di relativo riposo,
durante il quale il suo orecchio benevolo potrà disperdersi nell’ascolto di inutili e innocue fantasticherie, quali sono
le mie.
Chiarissimo Commendator Babbo Natale,
sono le tre e dieci del mattino e qui fa un freddo porco che
nemmeno sull’iceberg del Titanic.
Ci sono ghirigori in ghiaccio di imperiale bellezza sui vetri delle mie finestre, sono sicuro che nessuno dei miei compagni di classe ha mai potuto vedere una simile meraviglia.
Sono desolato di questa disuguaglianza. Non potrei avere
anch’io i vetri appannati dall’interno? Mi impegnerei a non
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
scriverci sopra: dato che i vetri come i pavimenti e i piatti li
lavo io, so che li sporca.
Si potrebbe avere un riscaldamento che funziona in questa casa? Magari per l’anno prossimo? Potrebbe farci un pensierino? Ci sono vari tipi di riscaldamento alternativo. Quello elettrico costa uno sterminio di elettricità ed è poco ecologico. Il mio preferito è quello a mais. Granoturco. Non le
sembra una cosa straordinaria, la geniale risoluzione del
problema energetico? Il granoturco cresce consumando acqua e anidride carbonica e poi brucia producendo acqua e
anidride carbonica: è il genio umano che ha quadrato il cerchio – come forse lei avrà capito il mio scopo è laurearmi sia
in chimica che in fisica per occuparmi dei due problemi cardini dell’umanità: inquinamento ed energia. Al momento il
mio sogno è una stufa a mais, ma le stufe a mais sono orrendamente care. Lei potrebbe fare qualche cosa?
Esimio Professor Babbo Natale,
sono le tre e un quarto del mattino. Qui fa un freddo porco e io sono disperato perché domani è lunedì e ricominciano le scuole. Parliamoci chiaro: del freddo porco in realtà
non mi importa un fico, lasci perdere il riscaldamento, non è
quello il problema. Torniamo alla disperazione.
Come avrà notato dal nostro epistolario precedente o,
per essere più corretti, dall’assoluta mancanza di un nostro
epistolario antecedente alla data odierna, io non credo in lei.
Non ci ho mai creduto neanche a quattro anni e nemmeno a
tre, guidato sulla via della ragione (forse il termine corretto
è inchiodato sulla via della ragione) sia dall’iperrazionalismo
della mia esimia madre, sia dalle sue invariabili vicende
economiche finanziarie («tanto sono tutte fesserie e poi non
c’è una lira». Dal 2001 siamo passati al «non c’è un euro»).
EGREGIO DOTTOR BABBO NATALE
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Essendo questa, in assoluto, la prima volta che oso rivolgermi a lei, potrebbe avere la cortesia di fare qualcosa per me,
l’unica cosa che mai mi interessi: trasformarmi in qualsiasi
altra cosa che non sia io? L’optimum sarebbe qualcuno con
i poteri di Spiderman e/o la muscolatura dell’incredibile
Hulk. In alternativa potrei essere trasformato in un ragazzino magro? Se magro non è possibile, almeno non proprio
grasso? Vorrei essere trasformato in uno non così grasso come sono io adesso, tanto per essere chiari, e con i denti davanti dritti. Vede, io sono uno che somiglia molto a qualcosa di appena scappato da uno zoo. Così almeno mi fanno
spiritosamente notare i miei compagni di classe, con le loro
gioiose voci cristalline, mentre mi inseguono fino a casa per
tirarmi addosso pezzi di merendine e gomme già masticate.
La cosa è enormemente peggiorata dopo che la prof di ginnastica mi ha invitato a mettermi a dieta davanti a tutta la
classe.
Eccellentissimo Dottor, Commendator, Professor Babbo
Natale, glielo potrebbe spiegare lei alla prof di ginnastica che
c’è un momento in cui la tristezza diventa mortale e che annegandola nel pane e margarina (il burro è troppo caro per
la mia mamma) migliora un po’?
Glielo potrebbe spiegare anche, visto che c’è, che dire a
uno davanti a tutta la classe che deve dimagrire equivale a
condannarlo a morte?
Io sarei disposto a vendere l’anima al diavolo per annullare questa somiglianza a un evaso da uno zoo, l’anima me
la potrei anche svendere per la precisione, ma il diavolo non
compare mai quando serve, forse è occupato altrove in affari di maggior spessore o, probabilmente, il rendermi una
persona meno ridicola è al di sopra anche delle sue notevo-
160
IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
li possibilità. Oppure il diavolo lo sa benissimo che l’anima
di noi ridicoli la possiede già, perché la disperazione distrugge qualsiasi slancio, qualsiasi barlume, immiserisce,
inacidisce, uccide: un’anima morta. Perché pagare una cosa
che già si ha?
Potrebbe fare qualche cosa lei?
Come avrà notato dalla mia sfolgorante prosa, su cui mi
permetto di attirare ulteriormente la sua attenzione, io sono
lo straprimo della classe, lo straprimo della scuola, ma nemmeno questo diminuisce, scalfisce il mio essere ridicolo. A
proposito di ridicolo, le sarebbe possibile ispirare al governo
l’idea di mettere una tassa invalicabile su gomitoli di lana,
ferri da calza e soprattutto uncinetti, così che la mia signora
madre e la mia signora nonna non possano più impiegare
tutto il loro tempo a fabbricarmi maglioni autenticamente
fatti a mano con le trecce e i buchetti e io possa andare a
scuola con una felpa?
Caro Babbo Natale,
sono le tre e mezzo del mattino. Fa un freddo porco e io
sono disperato; sono davanti al frigo a mangiare spaghetti
freddi avanzati (a cena li avevo lasciati nella speranza di dimagrire) perché il vuoto che ho dentro è intollerabile e mangiando qualcosa si attenua.
Tra quattro ore e mezza saranno le 8 di oggi, lunedì 10
gennaio, e io andrò a scuola inseguito da pezzi di merendine e spintoni, anche se non ho mai fatto male a nessuno in
vita mia, e il bidello (ooops, personale non docente) sorriderà benevolo e mi spiegherà, ovviamente senza congiuntivi né condizionali, che se dimagrissi non mi succederebbe,
mentre la bibliotecaria la stessa cosa me la spiegherà in maniera grammaticalmente corretta. E se non la pianto di
EGREGIO DOTTOR BABBO NATALE
161
strafogarmi di spaghetti domani peserò mezzo chilo di più e
i pantaloni che già mi vanno stretti saranno veramente stretti. Ti prego, Babbo Natale, se proprio non mi puoi trasformare in un altro, almeno fa’ che regga il bottone dei pantaloni. Puoi almeno fare il miserabile miracolo, se proprio i
pantaloni mi devono saltare, se proprio devono riempirmi di
sputi e ridere di me, di fare che succeda quando lei non c’è?
Lei sai chi è, vero? Ti prego. Non è una gran cosa, non dovrebbero servire eccezionali poteri. Fino qui almeno ci potresti arrivare?
Vedi, è difficile spiegare cosa vuol dire essere ridicolo.
Anche quando sarò riuscito a laurearmi in chimica e fisica,
anche se ci riuscissi a risolvere il problema dell’energia, anche se mi dessero un Nobel o anche due io non smetterei di
sentirmi ridicolo, anzi di esserlo.
Caro Babbo Natale,
sono le quattro del mattino. Fa un freddo porco e io sono
talmente disperato, che l’unica idea che mi è venuta è scrivere a te che non esisti: però se tu esistessi, saresti grasso.
Meravigliosamente e deliziosamente grasso.
Un uomo perbene e grasso, come il nonno che noi tutti sogniamo, che porta i regali ai bambini.
Caro Babbo Natale, ho notato con stupore e indignazione
che quest’anno la tua meravigliosa effigie è stata vergognosamente oltraggiata.
È comparso un nuovo tipo di decorazione natalizia, costituita da orrendi tizi magri e atletici con il tuo costume addosso, che se ne stanno appesi alle case, impiccati ai balconi, aggrappati ai fili dell’alta tensione, e non si sa che accidenti stiano facendo: forse stanno portando via l’argenteria o metten-
162
IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
do nelle case dell’esplosivo, perché un Babbo Natale magro
sembra una via di mezzo tra un rapinatore e un terrorista.
Caro Babbo Natale,
ho cambiato regalo: non voglio più essere qualcun altro.
Potresti portarmi la fierezza di essere me stesso? Voglio
essere fiero di essere una persona perbene, grasso come te.
Voglio essere contento di essere grasso, perché senza tutto
questo peso sarebbe stato difficile resistere alla tentazione
dei jeans bassi con la mutanda di fuori e della maglietta striminzita. Essere grassi è una forma di rivolta, il rifiuto dell’omologazione, l’unica rivolta autentica insieme a essere il primo della classe. Sono fiero dei miei atroci maglioni a trecce e
buchetti che mi fanno sembrare ancora più grasso e che in un
mondo paralizzato sull’omologazione sono autenticamente
fatti a mano da gente che mi vuole bene. Sono fiero di avere
un sogno, quello di quadrare il cerchio della produzione di
energia e della non produzione di inquinamento, e il solo
averlo sognato è un valore.
Voglio crescere e restare una persona perbene, qualcuno
che porti i regali ai bambini e non faccia male a nessuno mai.
Caro Babbo Natale,
devi essere uno che c’è, in tutti i sensi. Sta già funzionando.
Già che ci sono vorrei ringraziarti di essere io: sono uno
che non fa male a nessuno, ho una madre che mi vuole un
bene dell’anima, che è fiera di me e che anche se mi deve tirare su da sola mi considera una specie di dono. Forse non
sei tu l’utente di questo ringraziamento o forse lo sei.
In fondo Babbo Natale, nato per caso dalla pubblicità della Coca Cola, è il concetto di Dio spiegato ai bambini. Le ren-
EGREGIO DOTTOR BABBO NATALE
163
ne al posto degli angeli. Viene dal cielo. Porta conforto ai
giusti e punisce i reprobi solo con la mancanza di doni: niente fiamme eterne, niente olio bollente, forconi incandescenti,
venti infuocati.
Babbo Natale è un buon Dio raccontato ai bambini, per
questo ci piace tanto.
Adesso me ne vado a dormire.
Ti ringrazio dell’ascolto e dell’aiuto.
Con affetto
Stefano
Cronache di vascello del capitano Aquindici,
disperso sul pianeta dei barbari
Capitolo 1
Atterraggio
Erano le cinque del mattino di un 15 marzo insolitamente gelido per la stagione. La città era solo un susseguirsi di
sagome sfuocate e scure. Faceva un freddo porco e tutto era
ricoperto di brina.
Il tram era appena partito e fendeva la nebbia gelida, illuminandola con i suoi fari gialli. Lo guidava il signor Antonio
Cravella detto dagli amici Toni, che alle ore cinque di quel 15
marzo stava pensando agli affari suoi. Gli affari suoi erano
che da lì a due ore sarebbe smontato e andando a casa doveva ricordarsi di fare la spesa: pane, latte, trenette e pesto. Per
essere sicuro di non dimenticarsene, Antonio Cravella detto
Toni continuava a ripetersi quelle quattro cose come una filastrocca:
Pane, latte, trenette e pesto
e devo farmi dare il resto.
Pesto, trenette, latte e pane,
nello stagno van le rane.
166
IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
Ai bei tempi della sua infanzia Antonio Cravella detto Toni aveva una nonna che gli faceva le filastrocche e stava sul
mare, una casetta in alto che aveva il giardino pieno di basilico e stava sotto un pino, quindi il pesto se lo facevano da
soli con i pinoli del pino e il basilico del giardino, mentre ora
se lo dovevano comprare ed era meno buono, ma era pur
sempre qualcosa. Nei pochi momenti in cui ripensò al suo
orto sul mare pieno di basilico sotto il pino, Antonio Cravella detto Toni si distrasse e solo all’ultimo istante vide la Cinquecento che gli stava attraversando i binari. Frenò al pelo.
Antonio Cravella detto Toni ripartì imprecando, il mondo
era veramente pieno di malaccorti e sconsigliati, anche se
per la verità non furono queste le parole esattamente usate
(«a quest’ora di mattino / ho incontrato anche il cretino, /
per fortuna l’ho evitato / e cretino lui è restato»), poi di nuovo il pensiero gli si disperse nel ricordo tra l’ombra del pino
e il riflesso del mare.
E fu per questo che l’astronave aliena che gli era atterrata
davanti al tram Antonio Cravella detto Toni non la vide proprio. Si accorse però del crac che fecero le ruote del suo tram
schiacciandola contro le rotaie e sobbalzò.
L’unico passeggero di quell’ora era la signora Rosaria Rastri, detta Rastri Rosaria perché mai aveva avuto un amico in
vita sua, e la chiamavano solo quelli dell’anagrafe per dirle
che le era scaduta la carta d’identità. La signora Rastri Rosaria seduta nell’ultimo posto abbassò gli occhi oltre il finestrino e l’astronave la vide bene.
«Ecco lì un’altra porcheria» sibilò ad alta voce. «Si comprano ’sti giocattoli cari e poi li buttano in mezzo alla strada
di notte. E hanno anche tutti il cellulare, ché non ce ne è uno
che non ci ha il cellulare, ché mica devono telefonare a nessuno. E poi buttano il giocattolo in mezzo alla strada e per
CRONACHE DI VASCELLO DEL CAPITANO AQUINDICI
167
fortuna che non ci siamo fatti male. Sono contenta che glielo
ha rotto, così impara. Ci sono ancora le lucine che brillano,
anche ora che è a pezzi.»
Il signor Antonio Cravella detto Toni grugnì qualcosa, e
frenò.
«Mi scusi un attimo» disse alla signora. Scese dal tram seguito dalle proteste dell’altra, che stava giurando che lo
avrebbe denunciato, be’ sì, e che diamine, uno paga il biglietto e questo si ferma e scende dal tram, ma quando mai
si è visto…
Il signor Antonio Cravella detto Toni fece pochi metri e si
chinò sull’ammasso di piccole lamiere dove ancora miriadi
di lucine brillavano. Niente di grave. Aveva investito un giocattolo. Curioso funzionassero ancora le luci. Il signor Cravella detto Toni risalì sul tram, e mentre la signora Rastri Rosaria minacciava di denunciarlo ai carabinieri, all’ATM, all’Alta Corte di Giustizia di Bruxelles e al Consiglio Generale
dell’ONU, lui ripartì sferragliando.
Del mattino son le cinque,
questa è arcigna e poco pingue,
dura come un barracuda,
come l’oro di re Mida.
Toni sbadigliò mentre ripartiva con il suo tram sferragliante, verso l’alba che prima o poi sarebbe sorta a dare luce a quella nebbia gelata.
Aveva solo investito un giocattolo, e ancora una fermata
e sarebbe stato al capolinea. Turno finito.
168
IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
Capitolo 2
Riparazioni e partenza
«Gran bell’atterraggio» commentò gelido l’extraterrestre
capo, Gammaottododicidieci, Gammatrenta per gli amici se
mai ne avesse avuto uno e semplicemente Gamma per le sue
tre madri. «È stato astuto atterrare davanti a un mezzo meccanico in movimento e ficcarsi proprio sotto una ruota. Un
tempismo straordinario.»
Il capitano di vascello Aquindici, l’altro extraterrestre
dell’equipaggio, annuì imbarazzato e cercò di sorridere. Il
verde fluorescente dei polpastrelli gli era virato al giallastro
per lo sconforto. Gammatrenta lo notò con arcigna soddisfazione.
«Già» cercò di commentare Aquindici. «Per fortuna siamo
immortali.»
Gammatrenta capì che Aquindici stava cercando di dare
un’occhiata ai suoi di polpastrelli e non li nascose: lasciò che
l’altro vedesse quanto erano neri di irritazione.
Gammatrenta, comandante in capo, detestava il capitano
di vascello con tutte le sue astiose energie. Era già una iattura quell’interminabile viaggio, anche senza doverlo condividere con il pilota più incapace e ottusamente confusionario di tutte le ere galattiche. Era un viaggio insulso, faticoso e sgradevole: erano a millenni luce di distanza da casa,
in quella galassia a forma di spruzzo, dove l’unico pianeta
con una qualche vita più intelligente di un sasso era lo scacazzino chiamato Terra. Pianeta piccolo, scomodo e scomodamente acquoso: l’acqua esisteva sotto forma di mare, fiumi, laghi, torrenti, stagni, ruscelli, pozzanghere, pioggia,
pioggerella, acquazzoni, scrosci, rovesci, temporali, nebbia,
brume, neve, ghiaccio, brina, rugiada, galaverna, foschia,
CRONACHE DI VASCELLO DEL CAPITANO AQUINDICI
169
goccette sfuse e soprattutto nuvole di ogni tipo, forma e dimensione. Non solo l’acqua c’era, ma era sparpagliata dappertutto. Ne stava entrando anche dalle spaccature dell’astronave.
«Sta entrando acqua in sospensione» osservò acido.
«Già. La nebbia» riconobbe Aquindici. «Tanto in missione
abbiamo una corporeità virtuale. Non può danneggiarci» aggiunse nell’evidente tentativo di sdrammatizzare.
«Grazie, me lo ricordavo.» Gammatrenta riuscì a rendere
la sua voce ancora più gelida. «Tenuto presente che la tecnica della corporeità virtuale è mia, è difficile che me ne dimentichi. Il fatto che, grazie a me, l’acqua sia innocua non la
rende meno ripugnante.»
Il capitano di vascello Aquindici annuì di nuovo.
«Lo sa che gli amici mi chiamano Acqua? Per abbreviare
e prendermi un po’ in giro.» Sorrise di nuovo, conciliante, in
quello che doveva essere il milionesimo tentativo di sciorinare e imporre una caramellosa e appiccicaticcia cordialità di
cui Gammatrenta avrebbe fatto volentieri a meno.
«Molto azzeccato» commentò Gammatrenta glaciale.
Il capitano di vascello mise via il sorriso e si accinse finalmente a riparare la piccola astronave squarciata. Gammatrenta notò con soddisfazione che i polpastrelli gli stavano
virando al marrone. Il pilota fece le saldature, esaminò i puntatori di direzione e gli argonauti per il balzo nello spazio
ipertemporale e fu a quel punto che i polpastrelli gli virarono al grigio antracite. Gammatrenta si preoccupò.
«Guai» spiegò Aquindici, angosciato e tristissimo. «Dobbiamo prolungare la nostra presenza qui per finire le riparazioni.» I polpastrelli gli si scurirono ulteriormente.
«Non meno di venti minuti, credo.»
«Venti minuti?» sibilò Gammatrenta. «Qui?»
170
IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
Acqua cercò ancora di minimizzare. «Siamo immortali.
Venti minuti più, venti minuti meno…»
«Avere l’immortalità non è un buon motivo per sperperala su un pianeta sgradevolmente acquoso, in compagnia di
compagni non scelti…» cominciò a sottolineare Gammatrenta, ma non riuscì a finire.
«Non è il peggio» lo interruppe Acqua. I polpastrelli oramai erano di un grigiastro nauseante e indistinto.
«Credo che il Drondolo sia stato danneggiato.»
Gammatrenta sentì le rughe rosa crollargli in mezzo a
quelle color porpora. I polpastrelli cominciarono a bruciargli. Pensò che se non si calmava gli sarebbero di nuovo diventati rossi, ma in quel momento neanche quello gli importò.
«Cosa?» chiese con voce strozzata.
«Il Drondolo è stato danneggiato» confermò Aquindici,
forse sarebbe stato meglio da quel momento chiamarlo Acqua e basta, era un nome assolutamente azzeccato.
«Non è più in grado di virare all’incorporeità, e da corporeo pesa troppo. Non decolleremo mai con tutto questo peso. Dobbiamo abbandonarlo qui.»
«Cosa?» ripeté Gammatrenta con voce ancora più strozzata, guardando il delicato rosa del Drondolo. La grossa sfera era curiosamente allungata. «Abbiamo girato su e giù per
questo sciagurato pianeta per più di mezz’ora per radunarne tutte le conoscenze e i linguaggi nel Drondolo e ora dobbiamo abbandonarlo?»
Acqua allargò tutti i polpastrelli oramai nerastri di
sconforto:
Se il Drondolo non vira,
da corporeo gira e gira,
CRONACHE DI VASCELLO DEL CAPITANO AQUINDICI
171
pesa troppo per volare,
e proprio qui dovrà restare
rispose. «Ma come diamine sta parlando?» chiese Gammatrenta allibito e preoccupato. Sul manuale di volo intergalattico c’erano un paio di capitoli su come fronteggiare
eventuali crisi di follia, ma Gammatrenta non era certo di
averli memorizzati. Se la crisi di follia era di un indigeno bisognava sparargli, se di un membro dell’equipaggio minacciare una decurtazione della paga. Doveva senz’altro essere
così, il contrario sarebbe stato problematico: che cosa gliene
poteva importare a un indigeno di una decurtazione di una
paga che tanto nessuno gli aveva dato? In tutti i casi abbattere Acqua subito, magari a badilate, gli sembrava più costruttivo che non minacciare di tagliargli gli straordinari.
Certamente più divertente.
«”Il primate abbiam sfiorato, / quel che il tranvai ha poi
frenato…” eeehm, cioè, il veicolo che ha fracassato l’astronave era guidato da una scimmia antropomorfa, si chiamano
umani, che pensava in un sistema di sillabe ritmate, loro lo
chiamano parlare in rima. Il sistema si è contagiato al Drondolo che ora l’ha passato a me insieme a tutto il suo contenuto» spiegò Aquindici. «Comprendo tutte le lingue del pianeta Terra, ogni conoscenza dei terrestri mi è nota e so anche
parlare in rima. Bene, in fondo è carino. “Un umano abbiam
sfiorato, / che il tramvai ha poi frenato, / e il Drondolo se
parla, / la sua rima ormai sa farla.” Visto che ho toccato il
Drondolo a sufficienza da averne incamerato le conoscenze
completamente, possiamo farne a meno. “Lo possiamo qui
lasciare, / tutto io potrò sapere.”»
«Celestiale. Pensa di parlare così fino a casa? Diciotto miliardi di parsec in sillabe ritmate?» chiese Gammatrenta sem-
172
IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
pre più gelido. Finalmente ebbe l’idea, ancora più brillante
dell’abbattimento dell’altro, oltretutto non era certo ci fosse
un badile a bordo.
«È impensabile abbandonare il Drondolo e noi non abbiamo mezzi per distruggerlo. Gli umani potrebbero trovarlo,
chiedersi cosa accidenti è, potrebbero farsi venire una crisi di
paranoia, la guerra dei mondi, qualcosa del genere. Lo scambieranno per un’arma segreta, ognuno accuserà qualche altro governo umano di averlo fabbricato, e riprenderanno a
menarsi tra di loro. Non vorrà renderci responsabile di
un’altra guerra mondiale tra questi barbari? Ci è stato raccomandato di non interferire. Perché non resta qui anche lei a
controllare il Drondolo?» chiese, improvvisamente dolcissimo, amichevole, quasi fraterno. «Così il peso di carico sarebbe ulteriormente diminuito. Mancherebbe anche il suo. L’astronave, così leggera, volerà in maniera squisita, celestiale.
Non le pare?»
«Non sarebbe grave se qualcuno trovasse il Drondolo» insisté Aquindici. «Così allungato sembra una salsiccia. Lo
scambieranno per una salsiccia.»
«Una che?» si informò Gammatrenta sempre più ilare e
lieto.
«Una salsiccia: è un tritato di grasso, carne e sale infilato
in un pezzo di budello di una creatura chiamata maiale… Le
informazioni sono nel Drondolo, alla voce “Gastronomia,
enologia, confetture e gelati”» spiegò il capitano di vascello.
«Oooh, la prego, potrei vomitare!» cinguettò Gammatrenta. «Lasci perdere le sue descrizioni di grasso e budella e non
si preoccupi. Devo fare un paio di commissioni, a casa, riposarmi un po’ e poi tornerò a prenderla.»
Acqua era costernato. Terrorizzato anche. Gammatrenta
si godette i suoi polpastrelli viola scuro.
CRONACHE DI VASCELLO DEL CAPITANO AQUINDICI
173
«Ma ci vorranno mesi!» balbettò.
«In effetti!» sorrise amabilmente Gammatrenta. «Non
molti però. Una mezza dozzina, dieci al massimo. Tanto siamo immortali, ricorda? Mese più, mese meno. Non si preoccupi. Questo pianeta, così bello, pieno d’acqua, le somiglia.
Lei e gli abitanti avete già così tante cose in comune. Sapete
che cos’è una salsiccia, parlate a sillabe ritmate. Le piacerà
stare qui.»
Acqua cercò ancora qualcosa da dire. Annaspò inutilmente, non lo trovò.
Gammatrenta aprì il portellone centrale, con un gentile
colpo di coda fece rotolare fuori il Drondolo, poi con un secondo colpo, altrettanto gentile, ma decisamente più fermo,
spinse fuori Acqua.
«Tutti i miei auguri» pigolò giulivo. «Ma ora che ci penso,
lei ha bisogno di un appuntamento preciso. Ci vediamo in
questo posto preciso tra centottantasette giorni esatti e ventitré minuti. Aspetterò otto minuti, poi me ne andrò e non
tornerò mai più. Quindi cerchi di esserci.»
Chiuse il portellone.
Decollò in un tripudio di lucine.
L’astronave vibrò leggermente fino a che fu in contatto
con l’aria terrestre, per ritornare silenziosissima nella stratosfera.
Gammatrenta si distese sereno a guardare le stelle che scivolavano via veloci dall’altra parte dell’oblò.
I polpastrelli erano di un delizioso color rosa confetto. Le
informazioni su che cosa fosse un confetto e su quale sfumatura di rosa fosse la più idonea erano anche quelle nel Dondolo, alla voce «Enologia, gastronomia, gelati e bevande».
Gammatrenta se le era contagiate quando lo aveva spinto
con la coda.
174
IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
Sapeva tutto su quel pianeta emotivo e acquoso, barbarico, caotico e ridicolo.
Perfetto per Aquindici.
Gli avrebbe insegnato a stare al mondo.
Capitolo 3
Inizio della permanenza
Il capitano di vascello si ritrovò accovacciato in mezzo alle rotaie, immerso nella nebbia del mattino.
Faceva un freddo porco. Cominciò a tremare. «Quell’immondo assai dannato / sulla Terra mi ha mollato» gli risuonava inutilmente nel cranio incorporeo insieme all’altrettanto inutile «e adesso che ci faccio? / Questo è certo un bell’impiccio».
Su una cosa il capo spedizione non aveva avuto torto. Meglio che gli umani non trovassero il Drondolo. Sembrava indubbiamente una salsiccia, ma era opportuno non correre rischi: la segretezza era una necessità primaria. Le raccomandazioni sulla spedizione erano state categoriche.
Nonostante la virtualità del suo essere corporeo, Aquindici riuscì a far rotolare dolcemente il Drondolo lontano dalle rotaie verso il marciapiede. Non fu semplice: il suolo era
pieno di foglie morte e mezze marcite, che si appiccicavano
alla superficie esterna del Drondolo modificandone la vischiosità e deformando ulteriormente le già sbilenche circonferenze, che bisognava scollare controbilanciando l’adesività dovuta alle onnipresenti molecole di acqua.
La tragedia furono le pozzanghere, due, enormi, oscenamente sudice. Gelide. Non c’era solo orrida acqua gelida là
dentro, ma fango, nicotina e cellulosa, risalenti a un mozzi-
CRONACHE DI VASCELLO DEL CAPITANO AQUINDICI
175
cone di sigaretta, nichel e cadmio visto che qualcuno vi aveva buttato anche una batteria usata da un volt e mezzo e un
coleottero, più comunemente detto scarafaggio, in avanzato
stato di putrefazione nelle cui ali Aquindici inciampò ripetutamente.
Oh madri mie,
la Terra fa schifo assai,
grande schifo e molti guai
qui saranno il mio destino,
o me povero tapino.
Il sole era alto dietro le nuvole basse quando finalmente
Aquindici e il Drondolo raggiunsero il bordo del marciapiede. Fu a quel punto che comparve un canide di sesso femminile, tra i quattro e cinque mesi, piccolo, basso e lungo con
i colori mischiati, a macchie: c’erano bianco, nero e marrone.
Era una razza selezionata nel XV secolo per la caccia alla volpe a piedi, ma usata al momento soprattutto come cane da
compagnia. Acqua si chiese chi in quell’infinita città poteva
cacciare volpi a piedi, e dedusse che la compagnia del canide, per motivi clamorosamente incomprensibili, doveva essere considerata un pregio su quell’inondato pianeta di folli
e di barbari. Il canide scodinzolò, abbaiò e si fermò a emettere dalla vescica un getto di orina, soluzione calda di acqua,
composti azotati e ioni. Questo avrebbe aumentato nettamente il livello di ammoniaca delle pozzanghere il che, come
Aquindici si distrasse a pensare, avrebbe probabilmente rallentato il processo di putrefazione del coleottero.
La distrazione gli fu fatale. Quando finalmente si accorse
che il canide stava per inghiottire il Drondolo, era troppo tardi. Aquindici non ebbe tempo nemmeno di mollare la presa.
176
IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
Il Drondolo in effetti somigliava molto a una salsiccia. Su
qualcosa aveva avuto ragione anche lui.
Si ritrovò nella gola della bestiola: i denti erano pieni di
residui di roba da mangiare delle più improbabili composizioni e l’alito risultò mefitico, anche se deliziosamente tiepido. Aquindici e il Drondolo traversarono faringe, esofago,
giunzione esofago gastrica, finirono nello stomaco, furono
innaffiati dai succhi gastrici, un orrido mix di pepsina e acido cloridrico, che distrussero definitivamente le delicatissime impalcature del Drondolo.
Questo schifo di giornata
anche in acido è finita.
E mangiata
e digerita
la mia vita qui è stata.
Aquindici ne ebbe veramente abbastanza. Il Drondolo a
quel punto non poteva che essere ulteriormente digerito o
vomitato e lui preferiva non essere coinvolto in nessuna delle due eventualità.
Nel primo caso avrebbe traversato piloro, intestino tenue
e crasso, e incontrato bile, succo pancreatico e una serie inenarrabile di batteri colici, nel secondo avrebbe esplosivamente ripercorso il primo tratto del tubo digerente in mezzo
a spruzzi di acido.
Abbandonando quel che restava del Drondolo, sospese
completamente la sua corporalità da virtuale a irreale, e risalì al sistema nervoso centrale della bestiola, dentro il cranio, dietro gli occhi. Midollo allungato, mesencefalo, quarto
ventricolo, terzo ventricolo, ventricoli laterali, corteccia cerebrale, corpo calloso. Tutto in ordine. Nessun problema
CRONACHE DI VASCELLO DEL CAPITANO AQUINDICI
177
neurologico. La bestiola era intrinsecamente disgustosa, ma
per lo meno in buona salute e con una temperatura interna
deliziosa.
Il canide sentì la presenza di Aquindici nella testa e scodinzolò. Era una creatura amichevole e socievole, detestava
la solitudine. Aquindici era una creatura fondamentalmente
meno euforica e parecchio più selettiva nella scelta della
compagnia. Tutta quell’ondata di emotività lo nauseò. Era
come essere leccato: nel lobo limbico in effetti c’era, tenace, il
desiderio di conoscerlo e riempirlo di bava. Altra caratteristica desolante era l’entusiasmo del canide per l’ammoniaca
e i feromoni escreti dalla vescica di altri canidi, e in tutti i casi avrebbe inseguito la traccia di una volpe fino alla tana: era
il motivo per cui era stato selezionato quel tipo di razza.
Aquindici si mise in contatto con le sinapsi della corteccia
motoria e dette ordine al canide di sedersi. Sia pure lentamente e di malavoglia, il canide eseguì: lui era quindi in grado di controllarne i movimenti. Non del tutto, probabilmente: solo quando il canide non aveva di meglio da fare, orina
da annusare o spazzatura da divorare. Sarebbe comunque
stato accettabile. Visto che la sua permanenza sul pianeta
Terra avrebbe dovuto essere di qualche mese, tanto valeva
mettersi comodi. Il cervello del canide era un posto meno indegno dell’asfalto lurido e delle pozzanghere. Per lo meno lì
non c’erano foglie marce, coleotteri e ammoniaca.
Nel piccolo cervello, dentro il lobo frontale dell’emisfero
cerebrale sinistro, c’era il nome. Il canide si chiamava Giuggiola, nome del frutto dell’omonimo arbusto, di scarso contenuto glicemico, peraltro utile per la prevenzione dello
scorbuto invernale nelle zone più povere del XIX secolo,
spesso servito previa bollitura, da cui anche la dizione «brodo di giuggiole». Aquindici trovò piuttosto idiota che un
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
mammifero portasse il nome di un vegetale, ma la Terra in
effetti non era un pianeta famoso nell’universo per la razionalità. Alla voce «Addestramento» delle enciclopediche conoscenze che il Drondolo gli aveva passato, era specificato
quanto grazia e cordialità fossero raccomandabili con i canidi: si ottenevano risultati migliori. Con gli orsi invece sarebbe stato più indicato un bastone con la punta elettrificata e
con i delfini una cesta di aringhe. Era stato fortunato a imbattersi in un canide. Un orso o un delfino sarebbero stati indubbiamente più complessi da addestrare.
«Giuggiola!» sussurrò Aquindici. «Sei un canide domestico, vero? Hai il cinturino di cuoio al collo. Bene canide, si va
a casa. “Brava, brava, cagnolina, / torna alla sua casina, /
brava, brava piccoletta, / torna alla sua casetta.”» Il canide
scodinzolò di nuovo e si avviò. Il linguaggio in rima aumentava la serotonina della zona limbica e lo scodinzolamento.
Nell’ippocampo della creatura c’era l’indirizzo dell’abitazione. Aquindici riconvertì nel sistema metrico decimale il
numero di passi.
Dovevano traversare, poi si svoltava a sinistra e dopo
trentun metri e ottantotto centimetri si arrivava al negozio
dove vendevano pezzi di animali morti. Qui si traversava di
nuovo e si procedeva per trentun metri e nove centimetri fino al palo con sopra l’orina di tutti i cani maschi della strada, erano undici, e poi sempre dritto. Fortunatamente non
c’era traccia olfattiva di volpi.
Alla voce «Leggi e ordinamenti» del Drondolo c’erano le
regole del codice stradale. Aquindici cercò il semaforo e
aspettò il verde, si accertò non passasse nessuno e solo dopo
dette ordine al cervello del canide di traversare. Si era già preso un tram sull’astronave e per quel giorno era abbastanza.
CRONACHE DI VASCELLO DEL CAPITANO AQUINDICI
179
Inoltre Giuggiola non era immortale e, se un’auto l’avesse
spalmata in poltiglia sull’asfalto, lui avrebbe dovuto ritrovarsi un’altra sistemazione e questo sarebbe stato sgradevole.
«Ehi!» gridò ammirato un tizio su un motorino giallo, inchiodando. «Quel cane attraversa col verde, sulle strisce, dopo aver guardato a destra e a sinistra!»
«La prudenza ormai ho imparato, / l’incidente mi è bastato» cantilenò Aquindici, mentre faceva contatti sinaptici
diretti tra neuroni visivi e motori, così che il cane imparasse
definitivamente a traversare. Anzi, meglio. Al cane ormai
era impossibile traversare se non con il verde e dopo aver
guardato. Era il sistema dei riflessi condizionati, studiati da
tale dottor Pavlov in un qualche laboratorio in un posto
chiamato Russia. Anche se Aquindici si fosse distratto, il canide non si sarebbe fatto ammazzare e lui non avrebbe dovuto sloggiare, non prima di essersi trovato una sede migliore, almeno.
Aquindici pensò un attimo a Gammaottododicidieci, in
quel momento comodamente stravaccato nell’astronave
dall’altra parte della purezza dell’iperspazio, mentre lui era
disperso nel cranio di una creatura bavosa e scodinzolosa,
su un pianeta acquoso ed emotivo, pieno di pioggia e foglie
cadute.
Arrivarono al negozio dove vendevano pezzi di carne
morta, c’era una vetrina illuminata da una luce livida, sotto
la monumentale scritta «Macelleria, gastronomia e salumi».
Lì il canide si inchiodò. Aquindici non riuscì a contrastarne
la volontà, anzi a un certo punto Giuggiola si fiondò nella
bottega e addentò un pezzo di muscolo ileopsoas di bovino
giovane.
«Quel cane ha rubato il mio filetto di vitello!» urlò il primate di guardia alla bottega di carne morta.
180
IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
Il canide schizzò via inseguito dal primate e corse su e giù
sul marciapiede fino a quando ci fu il rosso. Traversò solo
quando scattò il verde, e solo dopo aver guardato da una
parte all’altra.
L’umano sul motorino giallo, lo stesso di prima, inchiodò
di nuovo.
«Ehi!» gridò. «Quel cane ha di nuovo guardato a destra e
sinistra prima di attraversare, e non ha traversato prima del
verde.»
Aquindici si sentì contento e la tenerezza per il dottor
Pavlov lo travolse per qualche istante.
Il primate della bottega riuscì a raggiungerli e riagguantò
il suo pezzo di muscolo ileopsoas. Il canide mollò la presa,
anche per interferenza di Aquindici, e scappò nella direzione registrata nella porzione dell’ippocampo della memoria
recente come verso casa. Verso la casa attuale. La casa del canide non era sempre stata quella. Era solo da una rotazione
della Terra sull’asse, con relativa alternanza di luce e notte,
che era venuta ad abitare lì.
Alla casa non ci arrivarono. Il canide si inchiodò al palo,
quello sontuosamente ricco di orina di canidi maschi. Erano
tredici. Se ne erano aggiunti due. In più c’erano tracce nerastre incrostate sul fondo delle crepe dell’asfalto, sangue, vecchio di qualche mese, probabilmente sangue di mammifero,
per quel po’ di analisi che Aquindici riuscì a fare basandosi
sul sistema olfattivo del canide.
Di lì il canide non si spostò. Non ci fu niente da fare. Restarono attaccati al palo ad annusare orina fresca e vecchia
emoglobina.
Quello, almeno, Gammaottododicidieci non lo avrebbe
saputo mai.
CRONACHE DI VASCELLO DEL CAPITANO AQUINDICI
181
Capitolo 4
Indaco Caterina detta mamma
La professoressa Indaco si sarebbe messa a piangere. Come se ancora tutto il resto non fosse bastato, si era anche persa il cane. Giuggiola si era volatilizzata.
La professoressa Indaco Caterina era detta Cati dal suo
coniuge, Catina dalla propria madre, Caterpillar da qualcuno dei suoi studenti, Catina la Iena da qualcun altro dei suoi
studenti, quelli che non riuscivano ad arrivare al 6-, che,
però, anche loro le volevano bene.
Poi c’era la sua bambina che la chiamava mamma.
La sua bambina aveva pronunciato la parola «mamma»
l’ultima volta a dicembre dell’anno prima, il 23 dicembre, la
vigilia della vigilia di Natale, scuola finita, ultimi regali da
fare. Ilaria aveva detto «vado a fare un giro in centro, mi
mancano tre regali, mamma». Dopo di che aveva preso il
motorino e lo aveva usato seguendo rigidamente le istruzioni: era stata sulla destra e si era fermata ai semafori rossi. Era
stato l’altro, quello del camioncino, che non era stato sulla
destra e non si era fermato ai semafori rossi. Il poveruomo si
era fatto uno spinello e mezza birra, che mica sono niente
mezzo spinello e mezza birra. Ha un nome così carino lo spinello, prima c’è lo spi che ricorda lo spirito, la spuma, uno
spumeggiante spirito, una spirituale spuma, poi il diminutivo, che alleggerisce ulteriormente. Spinello sa di spiritello,
un qualcosa che rende lo spirito lieve. E così, lieto e giulivo
e con lo spirito lieve, l’autista non si era fermato ai semafori
rossi, non aveva tenuto la destra, e aveva preso in pieno la
sua ragazzina che, da allora, non aveva più pronunciato la
parola mamma.
182
IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
Il tizio del pulmino si era scusato. Certo che si era scusato. Gli era dispiaciuto tanto. Ma veramente tanto.
D’altra parte, mica si può crocefiggere un poveraccio solo
perché si è fatto uno spinello.
No, certo.
Solo seppellire i morti e contare i feriti che non spumeggiano così tanto. Ilaria faceva parte dei feriti, visto che non
era morta, non troppo almeno, comunque non del tutto. Da
allora dormiva, un sonno profondo e assoluto, come la Bella
Addormentata, in uno dei letti della terapia intensiva, poi
della neurologia e alla fine dei lungodegenti.
Lo spirito della professoressa Indaco non aveva più spumeggiato.
«Per fortuna aveva il casco» aveva detto un neurologo
lungo e tristissimo, che sembrava un fenicottero a lutto. «Altrimenti sarebbe morta.»
«Invece è viva?» avevano chiesto insieme la professoressa Indaco e il di lei coniuge, Rossi Domenico, detto Mimmo,
nella speranza evidente di essere rassicurati. Morta, Ilaria
non era morta, ma non è che fosse neanche viva, non nel senso tradizionale di uno che apre gli occhi, mangia, beve e dice mamma. Era la Bella Addormentata. Per sempre? L’ossuto fenicottero aveva scosso la testa in un gesto vago.
Lei e Mimmo erano rimasti a fissarsi.
La colpa li schiacciava come un sudario.
Avevano ceduto.
Avevano comprato il maledetto motorino.
Dopo due anni di resistenza.
Ilaria era stata l’unica di tutta la classe a non possedere il
maledetto motorino. Poi, uno dopo l’altro, avevano cominciato ad avere i dubbi.
Era uno sbaglio.
CRONACHE DI VASCELLO DEL CAPITANO AQUINDICI
183
Ilaria non poteva mai seguire gli altri. Ne stavano facendo un’isolata. Anche al conservatorio, dove Mimmo insegnava chitarra classica, non c’era un solo ragazzino/a senza
motorino. Non dovevano essere iperprotettivi. Ilaria era una
ragazzina saggia. Sarebbe stata attenta. Sarebbe andato tutto
bene.
Da quel maledetto 23 dicembre vivevano come due folli.
Da quel maledetto 23 dicembre non vivevano.
Sopravvivevano.
Il tempo sembrava insieme immobile e in una corsa folle.
I giorni passavano follemente lenti, follemente veloci, follemente uguali.
Era colpa loro. Non avrebbero dovuto mollare, non avrebbero dovuto cedere al ricatto indegno: rendere il proprio figlio un isolato o rischiare di rendersi corresponsabili della
sua morte.
Dispersa nel suo nulla, scandito solo dal ticchettio dell’elettrocardiografo e dal soffio lieve del respiratore artificiale,
la Bella Addormentata si limitava a non morire.
Dopo il maledetto 23 dicembre, c’era stato il 24, una vigilia triste e irraccontabile, e poi il 25, un Natale disperato e irraccontabile, poi un capodanno accasciato e irraccontabile e
con carnevale la prima buona notizia. Ilaria era stata tolta
dalla rianimazione del pronto soccorso e spostata alla rianimazione in neurologia.
«Vuol dire che non è più in pericolo di vita, no?» aveva
chiesto la professoressa Indaco. «È una buona notizia, vero?»
«Vuol dire che non necessita più di terapia intensiva per
acuti» aveva risposto il fenicottero inespressivo.
Il 15 febbraio il fenicottero aveva comunicato il trasferimento di Ilaria alla rianimazione per lungodegenti.
«È perché sta meglio?» avevano chiesto insieme.
184
IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
«Stazionaria» aveva concluso l’altro. «Però ai lungodegenti sta più comoda.»
«Più comoda?»
«La fisioterapia è sullo stesso piano.»
«Ha bisogno della fisioterapia per riprendersi?»
«Ha bisogno della fisioterapia per evitare le piaghe da decubito da immobilità.»
«Non dovremmo leggerle qualcosa? Quello che le piace
di più. Parlarle. Farle sentire musica? Così si riprende» avevano chiesto in due. Il fenicottero aveva fatto un gesto vago:
l’inconfondibile espressione di quello che pensa che le delusioni siano peggio di una costante disperazione e quindi preferisce troncare le illusioni sul nascere, a picconate.
La professoressa Indaco per un istante aveva odiato il fenicottero con tutta la sua forza, poi si era ringoiata l’odio. Lei
era in quell’inferno solo da Natale, il pover’uomo ci stava da
anni. Erano anni che il fenicottero portava il suo naso adunco e la sua faccia allungata in quel limbo limaccioso e livido,
sospeso tra la morte e la non vita, dove si faceva la fisioterapia alla gente perché non gli venissero le ulcere da decubito.
Si doveva essere corazzato, imbozzolato, rinchiuso in quel
sarcofago di indifferenza per non morire di tristezza anche
lui. Era per quello che riusciva a non cambiare mai espressione. Però mandava avanti la baracca, evitava le piaghe da
decubito, controllava i respiratori, chissà, prima o poi, a volte, dimetteva qualcuno.
«Vuol dire che vivrà» aveva detto quella sera Mimmo.
«Non è morta. È sullo stesso piano della fisioterapia. Vivrà.
Guarirà, sarà di nuovo lei. Adesso le compriamo il cane. Certo, le compriamo un cane. Lei lo ha sempre voluto un cane.
Era sul cane che dovevamo mollare, non sul motorino. Ma
CRONACHE DI VASCELLO DEL CAPITANO AQUINDICI
185
adesso si va avanti. Non indietro. Niente recriminazioni.
Adesso si va avanti. Le compriamo il cane. E glielo portiamo
in ospedale. Ora è ai lungodegenti. Non più con gli acuti.
Portare un cane in un reparto per acuti è un crimine. Lì deve
essere tutto sterile, pulito, e un cane è sporco. Ma ai lungodegenti i batteri del cane non sono così pericolosi. Compriamo un cane e glielo portiamo.»
«Certo» aveva risposto la professoressa Indaco. «Bella
idea» aveva approvato. «Noi le compriamo il cane, lo portiamo in ospedale, posiamo la mano di Ilaria sul muso del
cane, Ilaria esce dal coma, noi scriviamo la storia, vendiamo
il soggetto alla Walt Disney, così ci facciamo anche un po’ di
soldi e il prossimo Natale andiamo tutti e tre a Los Angeles.
Li accettano i cani sugli aerei, vero?»
La faccia di Mimmo era crollata. Era riuscita a crollare
perché prima si era illuminata, e quella era stata la prima
volta dopo una serie di giorni folli, follemente lunghi, follemente corti e follemente uguali che si era un po’ illuminata.
La professoressa Indaco si era rimangiata il sarcasmo. Se lo
era rimangiato di volata.
Si era scusata anche. Era aggressiva e acida perché era
stanca. Certo. Era stanca, aggressiva e acida. L’idea del cane
era… ecco, come dire? Era buona. Certo. Le emozioni per
uscire dal coma. Ilaria aveva sempre voluto un cane. Le
avrebbero portato il cane.
Erano partiti il giorno successivo, dopo aver localizzato il
cucciolo via Internet, un basset hound, a Ilaria piacevano i
basset hound, aveva l’immagine dei loro occhi tristi e delle
loro orecchie smisurate su una maglietta, un calendario, un
astuccio e la pezzuola per pulirsi gli occhiali. Se fosse stata
ancora in grado di volere qualcosa avrebbe voluto un basset
hound, razza selezionata secoli prima per la caccia alla vol-
186
IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
pe a piedi, bassi, lunghi, lenti, forti, ostinati, grandi orecchie,
zampone corte e forti, occhi enormi. Forse a Ilaria piacevano
perché non somigliavano per nulla alle filiformi modelle cui
neanche lei somigliava per nulla. Era la prima volta in quella infinita serie di giorni folli in cui facevano qualcosa. Erano passati dal «non c’è niente da fare» o perlomeno «non c’è
niente che noi possiamo fare» allo «stiamo facendo qualcosa». La campagna scivolava via dall’altra parte del finestrino. Aironi si alzarono in volo sul grigio delle risaie. Mimmo
si era anche permesso un sorriso all’autogrill mentre guardava i pompon colorati da appendere al cellulare. Gli scappò
di dire che Ilaria lo avrebbe voluto verde smeraldo, e visto
che c’era lo comprò. Per un istante furono di nuovo genitori
veri di una ragazzina vera, qualcuno che usava il cellulare.
Per un istante.
Alla professoressa Indaco l’idea del cane continuava a
sembrare idiota, ma si tenne l’informazione per sé, perché
quel giorno almeno avrebbe fatto da parziale vacanza alla
follia dei loro giorni tutti uguali. L’allevamento era una casa
piccola circondata da grandi gabbie. Il cane aveva un prezzo
da capogiro, lo stipendio di un mese, in compenso disponeva di un pedigree di tre pagine, che includeva altisonanti nomi come Pignacolada ed Eufonia dei Grandi del Caprifoglio.
«Una principessa!» aveva commentato Mimmo. «Se avesse la parola, non ce la rivolgerebbe.»
Aveva sulla faccia con un sorriso stinto, l’inconfondibile
sorriso del «ti prego, non dirlo» e, quindi, la professoressa
Indaco non lo disse che era un’idiozia. Si limitò a guardare
suo marito mentre, senza battere ciglio e senza neanche provare a contrattare, pagava uno scodinzoloso botolo con uno
dei loro stipendi, così che potesse illudersi di star facendo
qualcosa. Quando presero lo scodinzoloso botolo e se lo ca-
CRONACHE DI VASCELLO DEL CAPITANO AQUINDICI
187
ricarono in macchina Mimmo sorrise di nuovo, e con questo
faceva tre sorrisi in due giorni.
«È simpatica, vero?» chiese ancora Mimmo. «Simpatica e
affettuosa.» La professoressa Indaco aveva annuito. Ne
avrebbero trovati di altrettanto simpatici e affettuosi gratis al
canile municipale, ma Mimmo aveva l’assoluta necessità di
staccare quell’assegno, così da avere l’illusione di star facendo qualcosa, perciò annuì. Forse la Walt Disney avrebbe pagato bene e loro avrebbero ricuperato i quattrini. Quelli del
cane e quelli del pompon verde smeraldo che aveva nella
borsa.
Simpatica e affettuosa.
Anche per Ilaria le sarebbero venuti in mente quei due aggettivi. Simpatica e affettuosa. Simpatica, affettuosa, intelligentissima, solitaria, la straprima della classe. Una ragazzina che impazziva per Shakespeare, per Dante, che passava il
suo tempo a guardare e riguardare il Cirano. Sua figlia ascoltava Mozart, un altro baratro che la separava dagli altri.
Ilaria era bella. Bellissima. Sua figlia era bellissima. Era
nata bella e poi era diventata splendida. La professoressa Indaco sapeva che sua figlia era bella. Lo sapeva. Lo aveva
sempre saputo. La bellezza di Ilaria però era un’informazione riservata, praticamente segreta. Ilaria la ignorava. Tutta la
generazione di Ilaria la ignorava. Ilaria era bella come una
dea mediterranea, una giovanissima Giunone. Era piccola,
tonda, bruna con i capelli a riccioli, gli occhi scuri. Apparteneva a una generazione dove l’unica bellezza per una ragazza era una pericolosa somiglianza con uno scheletro molto
allungato addizionato a due improbabili quanto enormi protesi al silicone nella parte anteriore del torace.
Simpatica, affettuosa, intelligentissima, solitaria. Bella.
Bellissima. Un po’ timida. Convinta di essere brutta.
188
IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
Ora l’unico aggettivo con cui era descritta Ilaria era «stazionaria», orrenda parola che il fenicottero ripeteva.
Era stata simpatica, affettuosa, intelligentissima, solitaria,
bella, bellissima, un po’ timida, convinta di essere brutta.
Ora era stazionaria.
Tutte le volte che il fenicottero pronunciava quella parola,
la professoressa Indaco sentiva un’oscura fitta al fondo dell’addome, come una specie di doglia. Quella folle sequela di
giorni folli le ricordava un parto infinito, una serie di contrazioni eterne e inutili, un dolore che non portava da nessuna parte: Ilaria e l’eternità restavano stazionarie.
Mentre tornavano a casa, la cagnolina si era messa a ronfare sul sedile posteriore. Per tutta la loro vita era stata Ilaria
a vegliare o dormire sul sedile posteriore. Ora avevano di
nuovo qualcuno sul sedile posteriore.
La professoressa Indaco si era chiesta con orrore se per caso non stessero già organizzando il «dopo Ilaria». Avrebbero
sostituito una ragazzina dolce e affettuosa con una cagnolina dolce e affettuosa.
Di nuovo non disse nulla, ma detestò il cucciolo con tutta
l’anima.
Avevano deciso di aspettare qualche giorno prima di fare
l’esperimento di portare la bestiola nella stanza di Ilaria. Un
mese era passato. Mimmo continuava a rimandare perché fino a che rimandavano c’era l’illusione che forse avrebbe funzionato.
Quella mattina la professoressa Indaco si era persa il cane. Era la sua mattinata libera. Aveva un mucchio di ore, una
dopo l’altra. Dopo aver messo il guinzaglio al cane e aver
fatto le solite strade, la professoressa Indaco si era trovata
davanti al Duomo, pregevole edificio del XIII secolo, dove
non entrava da anni, in effetti da decenni, e dove quella mat-
CRONACHE DI VASCELLO DEL CAPITANO AQUINDICI
189
tina entrò, seguita dal cane, chiedendosi se era permesso ai
cani entrare in chiesa. Entrò tanto per fare qualcosa. Entrò
perché faceva un freddo porco, anche se erano già al 15 di
marzo, e per sedersi. Solo per quello. Entrò e si sedette in
fondo, nella chiesa deserta, sperando che nessuno si irritasse per la presenza del cane. Restò lì solo per scaldarsi e, mentre era seduta, si chiese se era il caso di pregare, tanto per fare qualcosa, come erano andati a prendere il cane: era altrettanto inutile, ma per lo meno più economico.
Non riuscì a emettere nessun pensiero.
Nemmeno il più semplice, «aiutatela», cinque sillabe.
Non poteva chiedere di salvare Ilaria se altri non erano
stati salvati. Se il dolore esisteva, a che titolo chiedere che la
sua famiglia ne fosse esente?
Restò lì con il cervello paralizzato, il cane insolitamente
tranquillo, sotto lo sguardo degli affreschi e delle sculture.
Sopra di lei una Madonna teneva tra le braccia il Figlio martoriato. La professoressa Indaco sentì lo strazio per il figlio
dell’altra oltre che per la sua bambina. Non ne poté più. Uscì.
Fu all’uscita che si perse il cane.
Doveva aver agganciato male il guinzaglio. Appena fuori del portone Giuggiola aveva dato uno strattone ed era
corsa via.
Anche se credeva di non aver mai nutrito la benché minima speranza sulla capacità del cane di ispirare alcuna emozione al cervello della sua bambina in coma, la professoressa Indaco aveva sentito la disperazione invaderla come non
mai da quel maledetto 23 dicembre. Si era messa a cercare,
chiedendo in giro, urlando il nome del cane come una pazza, come se veramente avesse creduto che Giuggiola avrebbe potuto salvare Ilaria.
Finalmente l’aveva trovata.
190
IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
Giuggiola era inchiodata ad annusare pipì di altri cani sopra un palo. Sopra «il palo», quello all’angolo, quello dove
era stata sbattuta Ilaria. Doveva esserci ancora in fondo alle
crepe dell’asfalto qualche minuscola traccia del sangue di
sua figlia.
Era lì da quando il furgoncino aveva sbattuto Ilaria contro il palo e i tre pacchetti appena comprati si erano sparpagliati per terra. Uno per Mimmo, uno per la nonna, uno per
lei. Il casco aveva protetto il cranio dalle lesioni dirette, non
da quelle da contraccolpo, e da allora Ilaria stazionava.
Prima o poi, anche lei e Mimmo sarebbero venuti a mettere i fiori su quel palo, come facevano un mucchio di genitori sui pali, gli angoli, le recinzioni dove si erano ammazzati i loro ragazzini.
La professoressa Indaco rimise il guinzaglio al cane, poi
crollò. Si mise a piangere. Le lacrime caddero sul pelo lucido
del cucciolo, che uggiolò piano.
Lei restò lì, disperata. Mentre era china sulla bestiola a rimetterle il guinzaglio, Giuggiola le leccò la faccia. La professoressa Indaco cercò di liberarsene infastidita, l’allontanò con
la mano, poi cedette e se ne restò lì a sentire il tepore della bestiola contro di sé. I suoi singhiozzi si fermarono. Tornò la calma, ed era una bella calma, qualcosa di tiepido e fiducioso.
Di nuovo la professoressa Indaco pensò, con orrore, che
forse stavano preparando il dopo Ilaria, ma questa volta
scacciò il pensiero, anzi, si chinò di nuovo sul cane e di nuovo si fece leccare mentre la accarezzava. Se il cane riusciva a
darle una bollicina di consolazione nella sua disperazione,
qualcosa forse avrebbe potuto fare per Ilaria.
Si alzò lentamente e si avviò, seguita dal cane.
«Vieni piccola, andiamo» le disse dolcemente. Certo. Era
decisa: l’avrebbe messa in macchina e sarebbe andata da Ila-
CRONACHE DI VASCELLO DEL CAPITANO AQUINDICI
191
ria. Subito, lei e il cane. Non avrebbe neanche aspettato
Mimmo. Carezzare Giuggiola dava un miscuglio di tenerezza e amore per la vita, una botta di emozione, come avrebbero detto i suoi studenti nel loro intristito italiano rinsecchito e plastificato. Una botta di emozione e la Bella Addormentata si sarebbe svegliata.
Avrebbe portato dentro il cane subito, in pieno giorno.
Ce l’avrebbe fatta.
Il miracolo sarebbe successo.
Qualcuno l’avrebbe di nuovo chiamata mamma.
Capitolo 5
L’incontro
Fortunatamente Aquindici era immateriale: non poteva
vomitare. Era anche immortale, questa fu una seconda fortuna perché tutto quello schifo avrebbe potuto ucciderlo. Il primate femmina che aveva ritrovato il canide si era messo a
scolargli addosso liquido dai dotti lacrimali. Altra acqua che
si aggiungeva. E poi c’era tutto quel sentimento. Un’ondata
di sentimento. Quella gente non poteva limitarsi a un cambio
di colore dei polpastrelli, come ogni creatura perbene? Il primate singhiozzava. Il dolore si contagiò al sistema limbico del
canide, che guaì sconvolto. Il primate continuava a singhiozzare scolando acqua, sale e proteine sul canide e toccandolo.
Lo scolo di acqua, sale e proteine era ancora il meno. Aquindici non riusciva più neanche a pensare per lo schifo. Il contatto aveva fatto da contagio. Tutti i pensieri del primate gli
erano piombati addosso. Niente di bello come la capacità di
parlare a sillabe ritmate, solo disperazione. Quando il primate femmina adulto toccò il cane, Aquindici vide la ragazzina
192
IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
che non dormiva, ma era in coma, seppe che si chiamava Ilaria. Il primate amava Ilaria e Ilaria stava morendo.
Erano un popolo di barbari. Erano un popolo di idioti. Un
non immortale doveva essere idiota parecchio per mettere il
sedere su un macchinario a motore a scoppio per farlo andare in fretta. Gli idioti erano mortali, usavano pericolosissimi
macchinari a motore a scoppio per andare veloci, si amavano oscenamente gli uni con gli altri, si regalavano a vicenda
i macchinari a motore a scoppio e poi quando le cose andavano male ci stavano da schifo e inondavano il cagnetto di
casa di cloruro di sodio, proteine e acqua.
Disgustoso.
Ridicolo.
Stupido.
Per fortuna anche quello Gammaottododicidieci non lo
avrebbe saputo mai.
Il primate fece salire il cane nel macchinario a motore a
scoppio. Era un’automobile di colore azzurro cielo. Aquindici si trovò sul sedile posteriore dove il cane si addormentò,
così lui perse i contatti visivi con la situazione, ma conservò
quelli uditivi: il primate un po’ piagnucolava, un po’ mormorava che sarebbe andato tutto bene. Ci fu una frenata brusca che svegliò il cane, un parcheggio orrendo dove il primate imprecò parecchio prima di riuscire a realizzare il risultato di mettere il macchinario a motore a scoppio vagamente parallelo al marciapiede e finalmente scesero.
L’ospedale era enorme. All’ingresso c’era un tizio che
guardò perplesso il canide ma l’ominide femmina, l’ascendente materno dell’umanide cerebroleso chiamato Ilaria,
spiegò che aveva il permesso del neurologo.
«È per farle provare un’emozione, così esce dal coma»
spiegò.
CRONACHE DI VASCELLO DEL CAPITANO AQUINDICI
193
«Va bene, ma prenda il cane in braccio» si raccomandò
l’altro e persino Aquindici dentro il canide capì che era poco
convinto.
Passarono.
Aquindici era scandalizzato. Fece un rapido conto del numero di batteri per centimetro quadrato di pelo di cane, li
addizionò a quelli presenti nella saliva e ottenne un numero
di poco inferiore a quello delle galassie. Era un pianeta emotivo, acquoso e barbarico. Irrazionale. Insensato.
Questi scemi son da sempre,
in eterno saran tonti,
tonti e pieni di batteri,
tonti umani poco seri.
Ci furono corridoi e corridoi.
Il posto era splendido. Attraverso una porta semiaperta
Aquindici riconobbe un’apparecchiatura per ecografia. Si
chiese dove tenevano le macchine per la tomografia assiale
computerizzata e per quelle a emissione di positroni. Gli sarebbe piaciuto così tanto vederne una. Loro, immortali e
inattaccabili da qualsiasi tipo di accidenti e malattia, non ne
abbisognavano e quindi non le avevano mai pensate, però
erano carucce: gli sarebbe piaciuto tornare a casa raccontando di averle viste. Forse, forse, anche Gammaottododicidieci avrebbe avuto un sussulto di invidia. Aquindici si gongolò
un attimo al pensiero.
Salirono con un ascensore: Aquindici si godé il congegno
di salita coordinato alle lucine azzurre che illuminavano il
numero dei piani. Congegno primitivo, certo, ma non privo
di una notevole grazia.
194
IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
Sale sale l’ascensore,
sale forte col motore,
brilla brilla la lucina,
un’azzurra lampadina.
Finalmente arrivarono. L’umanide chiamato Ilaria era
sdraiato su un letto tutto bianco con la testata di plastica e
metallo, collegato a una straordinaria apparecchiatura di respiratore artificiale, una delle cose più belle che Aquindici
avesse visto sul pianeta.
I motori a scoppio del pianeta Terra erano rozzi, molto
più rozzi di qualsiasi astronave, ma le apparecchiature medicali erano aggraziate e divertenti.
Aquindici analizzò la situazione. Il canide non era l’ideale come albergo. C’era quel suo insulso entusiasmo per i felini, le botteghe di carne cruda, la spazzatura e soprattutto
l’orina.
Ilaria aveva un encefalo non funzionante, che quindi non
avrebbe opposto la minima resistenza. Era l’alloggio ideale,
disabitato, caldo, comodo e, in più, stando lì, prima o poi
avrebbe potuto dare un’occhiata all’apparecchiature per la
TAC o la risonanza magnetica. Probabilmente prima o poi
l’avrebbero portata a fare una tomografia, un’ecografia almeno. Avrebbe potuto passare qualche mese di pura vacanza in quell’ambiente ovattato e ragionevolmente asciutto, in
mezzo ad apparecchi di semplice ma commovente funzionalità, e poi calcolati centottantasette giorni esatti e ventitré minuti si sarebbe spostato di nuovo verso la pozzanghera ad
aspettare Gammaottododicidieci. A piedi, da solo, non ci
avrebbe impiegato più di un paio di giorni.
L’unico inconveniente era la perdita del contatto visivo.
L’umanide Ilaria aveva gli occhi chiusi.
CRONACHE DI VASCELLO DEL CAPITANO AQUINDICI
195
«Ecco, Ilaria!» disse l’umanide madre. «Guarda! Il cane.
La cagnolina. Guarda, quella che piace a te.»
Ilaria restò immobile, nel rumore ritmico dell’elettrocardiografo e quello soffice del respiratore. Il cane le posò il muso sulla mano. Quello era il momento. Aquindici scattò, passò da una creatura all’altra e si arrampicò su per il braccio
per raggiungere il sistema nervoso centrale. Mentre passava
nella vena succlavia l’agocannula dell’infusione endovenosa
gli fece il solletico, il soffio del respiratore artificiale lo arruffò: da fuori gli era piaciuto, ma dall’interno era fastidioso.
Il rumore del cuore era piacevole, molto più forte e lento di
quello del cane. Tuum tap, tuum tap, tuum tap, primo tono
secondo tono, chiusura dei ventricoli, chiusura degli atri.
Bello. Proprio come sui testi di fisiologia. Era un bel cuore
forte quello di Ilaria. Avrebbe senz’altro retto ancora i mesi
necessari al ritorno di Gammaottododicidieci. Non ci sarebbe stato bisogno di traslocare in un’altra struttura cerebrale.
Aquindici arrivò nel cervello. Per prima cosa avrebbe preso possesso dei neuroni motori che azionavano le palpebre:
avrebbe dato l’impulso così da causare l’apertura. Preferiva
avere sempre il controllo visivo della situazione.
Anzi.
Ora che ci pensava.
Perché no?
Avrebbe potuto ripararla, la cerebrolesa. Sarebbe stato
una specie di ringraziamento per l’ospitalità. Così la madre
sarebbe stata contenta e avrebbe smesso di scolare liquidi
dagli occhi e dal naso.
Aquidici diede contento un’occhiata in giro. La contentezza gli passò. Il colpo doveva essere stato devastante. Circonvoluzioni cerebrali, sistema limbico: tutto distrutto.
Non c’era più niente da fare. Solo dopo una ricerca siste-
196
IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
matica si accorse che qualcosa che forse era ancora Ilaria restava nel fondo dell’ippocampo, un barlume, più di memoria che di coscienza.
Dopo questa capocciata,
la coscienza se n’è andata.
Aquindici poteva autonomizzare il respiro, quello certo, e
poteva farle aprire gli occhi. Si sarebbe liberato del soffio del
respiratore, dopo un po’ era irritante, e avrebbe ripristinato
il contatto visivo con l’esterno.
Era bassa manutenzione ed era il massimo che si potesse
fare.
Ilaria era persa per sempre.
Non si sarebbe svegliata mai più.
Capitolo 6
Registrazioni
A un certo punto, nella stanza dell’ospedale arrivò Mimmo. La professoressa Indaco Caterina, detta Cati, Catina, Caterpillar e Catina, e non più detta mamma da nessuno, lo
guardò imbarazzata.
Mimmo era arrabbiato, il sinonimo giusto era stizzito.
Lei non avrebbe dovuto portare la cagnolina da sola.
Avrebbero dovuto farlo insieme. Dopo aver aspettato ancora
un po’, probabilmente, per avere qualche giorno in più di vaga speranza, qualche raggino di sole sulla nebbia indistinta
della loro non esistenza, mentre Ilaria stazionava.
«Comunque non ha funzionato» bofonchiò la professoressa Indaco
CRONACHE DI VASCELLO DEL CAPITANO AQUINDICI
197
Mimmo la guardò e annuì. Evidentemente, alla fine, non
doveva averci creduto troppo neanche lui.
La porta si spalancò e il fenicottero piombò come un fulmine. La rapidità del movimento fu però l’unica variazione.
«Signora, non si può, è un ospedale» disse sempre calmo
e sempre inespressivo.
«Volevo… Ecco, speravo che forse, l’emozione della presenza del cane, forse avrebbe…» farfugliò la professoressa
Indaco. Il fenicottero annuì. Restarono in silenzio per qualche istante, poi ancora qualche istante e alla fine per qualche
istante ancora, un silenzio disperato rotto solo dal soffio del
respiratore.
Fu a quel punto che Ilaria tossì.
Il fenicottero sobbalzò.
«Ha tossito» commentò allibito. «Ha tossito» ripeté estatico. «Sta respirando da sola. Il respiratore le dà fastidio. Respira da sola. Non lo avrei mai pensato» gridò quasi.
La professoressa Indaco e Mimmo ritornarono bruscamente vivi. Fu come nascere di nuovo.
Si abbracciarono.
Il cane, felice in mezzo a quell’improvvisa euforia, abbaiò
festoso.
«Signora, fuori di qui, voi e il cane. Avete fatto bene a portarlo. Ha funzionato. Siete stati bravi. Portatelo sempre. Ora,
scusate, dobbiamo stubarla, chiudere la tracheotomia e fare
una TAC. Fuori di qui. O mio Dio! Signora, guardi! Ha aperto gli occhi!»
Il fenicottero saltellava quanto il cane. La professoressa
Indaco lo amò; lo avrebbe abbracciato. Lo abbracciò. Si abbracciarono tutti. Abbracciarono Ilaria che non li guardò,
non fissò lo sguardo, si limitò a respirare da sola e a tenere le
palpebre sollevate, ma già questi erano due miracoli.
198
IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
Uscirono, portandosi la cagnolina, felici, piangenti di
gioia.
«Preparate qualcosa, registrazioni da ascoltare, con le cose che le piacciono, ventiquattr’ore su ventiquattro. Ce la farete… Ce la faremo… Questa si sveglia… Questa la dimettiamo…» pigolò felice la voce del fenicottero dietro di loro.
Non riuscivano neanche a parlare per la gioia.
La professoressa Indaco e relativo consorte tornarono a casa loro raggianti come pasque, giulivi come fringuelli. Travolsero con la loro allegria tutti quelli che incontrarono sulla strada. Per dare la felice novella, fecero telefonate fino alle due di
notte a tutti quelli di cui avevano il numero di telefono, incluso qualche cugino di terzo grado che non sentivano da anni e
che non avevano neanche informato dell’incidente di Ilaria.
L’ultimo, quello contattato alle due e trentacinque, fu un cugino di quarto grado che ignorava anche l’esistenza di Ilaria e
che comunque non ricordava chi accidenti fossero loro due.
Già quella notte cominciarono il lavoro di preparare le registrazioni che Ilaria avrebbe ascoltato, ventiquattr’ore su
ventiquattro.
Ce l’avrebbero fatta. Sarebbe stata viva. Avrebbe detto
mamma. Messo il pompon sul cellulare. Avrebbe giocato col
cane. Avrebbe detto mamma e papà.
La professoressa Indaco registrò tutto quello che Ilaria
amava, lesse i romanzi più amati, e poi le poesie, il canto di
Ulisse, quello di Paolo e Francesca, Shakespeare, il Macbeth,
i sonetti, il settantunesimo soprattutto, quello che a Ilaria
piaceva tanto, «Non piangere più a lungo per me di quando
non udrai il suono dell’arcigna campana dare l’annuncio al
mondo della mia morte».
Mimmo registrò il Canone in re maggiore di Pachelbel,
gospel, la colonna sonora dell’Ultimo dei Mohicani, e soprattutto Mozart.
CRONACHE DI VASCELLO DEL CAPITANO AQUINDICI
199
Comprarono un lettore portatile di DVD perché gli occhi
oramai aperti di Ilaria potessero guardare e riguardare il Cirano, che lei amava ferocemente, insieme a Dumbo, la cassetta preferita di quando era stata bambina. Andarono in ospedale giorno dopo giorno, da soli, insieme, con e senza cane.
Mettevano le cuffie a Ilaria e aspettavano. Quando usavano
i film le tenevano lo schermo del lettore DVD davanti agli
occhi spalancati. Tutte le volte che poteva Mimmo andava a
trovarla portando la sua chitarra. Tutte le volte che poteva la
professoressa Indaco era lì con la sua voce. Improvvisavano
dei duetti, la voce di lei che leggeva Shakespeare e lui che accompagnava mischiando chitarra classica e jazz. Nella piccola stanza si formavano drappelli di persone appoggiate alla porta o ai muri.
Una sfolgorante primavera riempì gli alberi e i prati di
minuscoli fiori. Il sole forte di maggio sostituì quello più dolce di aprile e lasciò il posto a quello veramente infuocato di
giugno, che verso la fine di agosto si stemperò in una serie
di acquazzoni che rasentarono il nubifragio.
Fu a quel punto che la fede della professoressa Indaco ricominciò a sfioccarsi. Gli occhi spalancati di Ilaria e il suo respiro regolare erano le uniche stigmate della sua esistenza in
vita, in uno spazio che era sempre più simile a un limbo, eterno e limaccioso, che a un luogo da cui i viventi ritornano.
«Ho preparato la registrazione della Messa da Requiem»
disse Mimmo il primo di settembre. Era da sempre il pezzo
preferito di Ilaria, soprattutto i movimenti tre, cinque, sette e
otto, ma faceva paura. Era la musica più possente e atroce
mai scritta. Messa da Requiem. La messa dei morti di Mozart, la musica che Ilaria ascoltava in continuazione nella sua
stanza quando la sua tristezza diventava insopportabile,
quando era stata ancora una volta isolata, ancora una volta
rifiutata.
200
IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
«Non lo avevi ancora fatto?» chiese la professoressa Indaco.
«No» rispose Mimmo in un soffio. «Non lo avevo ancora
fatto.»
Una volta la professoressa Indaco aveva letto un articolo
di musicoterapia. La musica che dà consolazione deve essere dello stesso colore dell’emozione cui dà sollievo. Gli ansiosi devono ascoltare musica frastornante, dato che le note
tenui vanno bene solo per quelli già sereni.
La sua bambina aveva passato pomeriggi interi a sentire
e risentire la Messa da Requiem: il «Rex tremendae» e il
«Confutatis maledictis».
Non erano riusciti a proteggere Ilaria dalla solitudine,
non l’avevano protetta dall’infelicità, non l’avevano protetta
neanche dalla morte.
«Va bene» rispose a Mimmo.
Tanto valeva far risuonare la Messa da Requiem.
Capitolo 7
Confutatis maledictis
Era il più bel periodo della vita di Aquindici. Straordinario. Le TAC erano splendide, facevano il solletico, e quello
era ancora il meno. Lo straordinario era la musica, lo straordinario erano le parole che uscivano dall’apparecchio auricolare costantemente sulle orecchie di Ilaria.
Era tutto in sillabe ritmate, ma bello da levare il fiato.
Era quello che mancava al Drondolo. Aquindici conosceva Dante, Shakespeare, conosceva anche i loro versi, ma non
li aveva mai sentiti, non li aveva ascoltati pronunciati. Co-
CRONACHE DI VASCELLO DEL CAPITANO AQUINDICI
201
nosceva anche la musica, il pentagramma, il valore delle note e delle pause, ma non aveva mai ascoltato nulla di suonato o cantato.
Era un nuovo universo.
All’inizio era stato quasi infastidito da tutto quel sentimento, con i polpastrelli che gli cambiavano continuamente di colore. Non ci fosse stato l’allenamento dato dall’abitudine delle sillabe ritmate, «sul pianeta son caduto, / fermo sto come un ferito», forse non lo avrebbe neanche sopportato.
Ora amava tutto questo, lo amava ogni istante di più.
Amava le domeniche dove la voce dell’umanide madre e
la musica dell’umanide padre si mischiavano.
Amava il Cirano, la storia dell’uomo con il nasone che non
osava dichiararsi, nel timore di essere rifiutato per la sua
bruttezza. Sul piccolo schermo si illuminava quella storia
straordinaria, panorami straordinari, musica, costumi
straordinari, una battaglia, un convento, lui che muore non
domato da nulla e da nessuno.
Il Drondolo aveva posseduto la definizione della parola
«film» esattamente come aveva contenuto lo spartito del
Flauto magico. Ora Aquindici sapeva che cos’era un film e che
cos’era Il flauto magico.
A Ilaria Cirano doveva essere piaciuto molto perché lo facevano passare in continuazione. Aquindici avrebbe voluto
piombare nella storia, sottoporre Cirano a un intervanto di
chirurgia plastica. Anche l’elefantino, quello che inciampava
nelle sue orecchie, avrebbe potuto beneficiarne. Loro sarebbero stati contenti e Aquindici sarebbe stato l’eroe.
Alla fine Cirano moriva, ma il suo onore restava magnifico, come il suo pennacchio bianco.
202
IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
Che dite? È inutile? Lo so.
Ma non ci si batte nella speranza della vittoria.
So bene che alla fine voi mi sconfiggerete.
Non importa. Mi batto. Mi batto. Mi batto.
Aquindici era impazzito. Tutte le volte che sentiva quel
pezzo saltellava quasi, dentro il cervello di Ilaria, tra i nuclei
della base e l’amigdala.
Era bello, era bello, era bello.
Voleva una cosa uguale detta anche per lui. Voleva che
qualcuno commentasse le sue imprese con quei versi. O con
quegli altri, quelli che facevano: «Fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza». Immaginò i
suoi viaggi raccontati. Lui, il capitano Aquindici, era andato
oltre le Colonne d’Ercole: aveva visitato per sei mesi il pianeta Terra, ne aveva riportato il linguaggio a sillabe scandite
e aveva sfidato l’irritazione di Gammaottododicidieci.
Aquindici se lo ripeté due o tre volte, poi si acquattò.
Non funzionava.
Non era abbastanza, cioè, no, era troppo… il fatto era
che… il nocciolo del problema era…
Suonava idiota.
Non era colpa sua se suonava idiota. Era che lui non aveva
la morte. Anche il viaggio oltre le Colonne d’Ercole sarebbe
stata una buffonata se tutto quello che Ulisse ci avesse rimediato fosse stato un raffreddore e un bel po’ di mal di mare.
Mi batto, mi batto, mi batto e sfido impavidamente il rischio di una decurtazione di paga per un decennio o due.
Che dite? È inutile? Lo so.
Ma non ci si batte nella speranza di una promozione.
Senza la morte non era possibile la poesia, nessun tipo di
poesia.
CRONACHE DI VASCELLO DEL CAPITANO AQUINDICI
203
Ogni istante dei barbari doveva la sua luce al fatto di essere contato, il frammento di una vita finita.
Senza la morte l’unico ritmo possibile era quello insulso
delle filastrocche, perché senza la morte ogni istante aveva
un che di qualsiasi, di ripetibile.
Aquindici voleva la poesia.
«Per poetare con vantaggio, / morte e vita stan nel raggio» cominciò, ma poi si interruppe nauseato. Ne aveva abbastanza di filastrocche.
Voleva le poesia.
Nessun immortale, solo un agonizzante avrebbe potuto
dire «io mi batto, mi batto, mi batto».
Non piangere più a lungo per me dopo che avrai udito l’arcigna
campana.
Se fosse amico il re de l’universo,
noi pregheremmo lui de la tua pace,
poi c’hai pietà del nostro mal perverso.
Neanche la dannazione eterna fermava l’amore, quello di
una donna per un uomo, quello di un uomo per la conoscenza.
La poesia non aveva senso senza la morte. Anche la poesia terribile, quella cattiva, quella senza speranza.
Domani, domani e domani
si insinua con il suo piccolo passo
giorno dopo giorno
fino all’ultimo passo dei giorni segnati,
e tutti i nostri ieri non saranno serviti ad altro
che a rischiarare agli idioti la via verso la polvere della morte.
204
IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
Aquindici voleva la poesia.
«Chi sei?» sussurrò la voce. «Sei qualcuno, vero? Qualcosa?»
Aquindici restò interdetto.
«Sei Ilaria?» chiese di rimando.
«Sono Ilaria?» chiese la voce sempre più incerta.
«Non ti ricordi?»
«No, ma mi ricordo lui. Cirano.»
«Sei nell’ippocampo, vero?» insisté Aquindici.
«Non so cosa sia l’ippocampo» rispose la voce diventando più piccola.
«È l’organo della memoria. Sei memoria, non coscienza»
concluse Aquindici, trionfante per le sue capacità diagnostiche.
La voce disparve.
Aquindici si sarebbe maledetto. Era stato avventato, peggio, era stato aggressivo e l’aveva spaventata. Non doveva
dirle che non esisteva più. Tra i mortali doveva essere il massimo della scortesia.
Nei giorni seguenti Ilaria non si fece più sentire.
Aquindici si dette da fare per farla tornare. Si massacrò di
lavoro per ripulire i ventricoli laterali dai postumi dell’emorragia che li aveva inondati durante il trauma. Levò fibrina, globuli bianchi, tutto quello che intasava l’acquedotto e,
a costo di uno sforzo immane che lo stroncò lasciandolo boccheggiante e dolente, rimielinizzò tutti i fasci inter-commessurali che avevano perso la mielina, il lucente strato cellulare che garantiva all’impulso nervoso di viaggiare.
Aquindici impiegò settimane a riprendersi, ma la fatica
alla fine fu ricompensata. Mentre riguardava Dumbo Ilaria ritornò. Era sempre solo una voce, ma più forte e chiara.
CRONACHE DI VASCELLO DEL CAPITANO AQUINDICI
205
«Sarebbe sbagliato sottoporlo a un intervento di chirurgia
plastica» disse decisa. «Gli amputeresti le sue ali.»
Aquindici ci pensò
«Sarebbe sbagliato anche con Cirano.»
«Sarebbe sbagliato anche con Cirano» approvò Ilaria. «Il
suo coraggio e la sua poesia nascono dalla tristezza e dalla
solitudine. Senza il suo naso sarebbe bello come Cristiano e
stupido come una gallina.»
All’idea della gallina Aquindici sentì uno strano sussulto
squassarlo e si spaventò.
«Cosa mi è successo?» domandò terrorizzato.
«Sei scoppiato a ridere» gli spiegò Ilaria. «Io sono Ilaria»
aggiunse pensosa.
«Io sono Ilaria» ripeté la voce. Non era più solo memoria.
C’era un barlume di coscienza.
«Sono viva?» chiese.
«Tecnicamente» svincolò Aquindici.
«Tecnicamente?»
«Il cuore batte e l’attività elettroencefalografica non è
completamente scomparsa» spiegò Aquindici.
«Voglio abbracciare mia madre e giocare con il cane» disse Ilaria.
«Non è tecnicamente possibile» concluse Aquindici.
Ilaria sparì di nuovo. Aquindici doveva imparare a essere
meno brusco.
Ci fu qualche giorno di solitudine, poi attraverso gli auricolari arrivò una musica travolgente, cantata in una lingua
che in principio fu indecifrabile. Con infinita fatica Aquindici riuscì a capire che qualcuno cantava le imprese di un tale
Giosuè contro la città di Gerico, in un inglese barbarico.
«Che cos’è?»
206
IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
«Un gospel. La lingua degli schiavi» rispose Ilaria. «Io volevo cantarlo. Sono un mezzo soprano. Ho una voce forte.
Posso cantare questo e la Messa da Requiem di Mozart. È il
mio sogno salire su un palco. Io canto e gli altri sentono il
mio canto. Capisci?»
Aquindici annuì. Capiva. Sentire quel canto. Era come
guardare Cirano che pronunciava il suo monologo. La gente
avrebbe ascoltato quel canto e avrebbe ritrovato il coraggio
se lo aveva perso.
«Ho cominciato a studiare canto. Sono brava. Ma non salirei mai su un palco. Avrei troppa paura.»
«Paura di che?»
«Penseranno che sono grassa. Che sono brutta. Io lo saprò
e la mia voce si fermerà.»
Aquindici rimase interdetto. Si chiese come era possibile
che una persona così intelligente fosse anche così stupida.
Poi si ricordò: «Terrestri!» bofonchiò esasperato.
Stavano insieme, cercando di parlare il meno possibile
delle condizioni di Ilaria. Non c’era molto da dire.
«Puoi riparare ancora qualche cosa?» aveva chiesto lei
un’unica volta. «Puoi farmi muovere?»
Aquindici aveva scosso la testa.
Per distrarla le raccontò delle galassie, del movimento dei
soli, degli abissi di nulla dove la temperatura era tanto bassa che gli atomi implodevano, la materia si accartocciava, la
luce era impossibile.
«Ho tre madri» spiegò Aquindici. «Sul mio pianeta devono mettersi insieme tre fattrici per avere un nuovo individuo.»
«Tre madri? Sono in tre a inseguirti per farti mettere la
maglia di lana?» chiese Ilaria. Aquindici intuì confusamente
che voleva essere una battuta, ma non rise. Nessuna delle
CRONACHE DI VASCELLO DEL CAPITANO AQUINDICI
207
sue tre madri gli aveva mai chiesto di mettere la maglia di lana o sarebbe rimasta lì giorno dopo giorno ad aspettare un
sussulto, a sperarlo.
Aquindici aveva gusti precisi. Se Cirano gli piaceva, lo
stesso non era per Dumbo. La scena in cui la mamma dell’elefantino, incatenata per aver cercato di proteggerlo, lo cullava con la proboscide lo infastidiva. Era un contatto eccessivo, insopportabile. Nessuna delle sue tre madri lo avrebbe
toccato così tanto e per così tanto tempo. Era imbarazzante.
Ilaria cominciò a raccontare cose buffe. Sapeva Aquindici
perché gli elefanti non erano rosa? Per non confondersi con
le fragole. E sapeva Aquindici perché gli elefanti non vanno
in bicicletta? Perché non hanno il pollice per suonare il campanello.
Aquindici si scompisciava. La sensazione del ridere che all’inizio lo aveva quasi spaventato gli piaceva sempre di più.
Studiò quel tipo di narrazione. Quello che faceva scoppiare l’ilarità era la comparsa improvvisa di un elemento talmente alieno alla narrazione da essere assurdo. Ci si mise
anche lui.
«Sai cosa fa un fotone dentro un buco nero? Cerca l’interruttore!» spiegò trionfante dopo averci pensato un mese per
metterla insieme. Ilaria rise educatamente.
«Mi sarebbe piaciuto studiare astrofisica» gli disse un
giorno. «Astrofisica o neurologia. Sono gli unici campi dove
esiste l’ignoto.» Poi tacque imbarazzata. Tra di loro qualsiasi
discorso sul «futuro» di Ilaria, che in passato era esistito, ma
ora non esisteva più, era tabù.
Il primo settembre l’uomo, il primate padre di Ilaria, venne con una registrazione nuova.
208
IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
Ilaria la riconobbe.
«È la Messa da Requiem» spiegò. Parlava a stento. Aquindici capì che stava boccheggiando per l’emozione.
Quella musica era sconvolgente, atroce anche, spaventosa. Aquindici, come il Drondolo, conosceva il latino e capì le
parole: facevano paura. Minacciavano cose tremende, fuoco
e fiamme a chi non avesse ottenuto una specie di sufficienza
all’esame finale, un tipo di brevetto di volo probabilmente, il
Giudizio Universale.
«No, non è vero, servono proprio per non avere più paura di nulla» cercò di spiegargli Ilaria. In quel momento ricordò. Aquindici vide quei ricordi come fossero stati un film
sul lettore DVD.
Ilaria ricordò tutto. Ricordò la scuola, il liceo, lo stupido,
miserabile, piccolo cialtrone che l’aveva fatta aspettare alla
pioggia e non era andato all’appuntamento. Lo stupido moccioso era d’accordo con gli altri, era stato una specie di scherzo. Tutti avevano riso di lei. Da allora non era mai più uscita con nessuno. Da allora aveva lasciato qualsiasi sogno di
salire su un palco.
Aquindici si chiese come avrebbe potuto trovare il piccolo
immondo miserabile. Lo avrebbe trovato, sbeffeggiato, sfidato. Avrebbero duellato parlando in rima, e alla fine Aquindici
lo avrebbe travolto mentre lo informava che le uniche lettere
che lo descrivevano erano quelle necessarie a comporre la parola scarafaggio. Sognò il duello a lungo, sentendo quasi la
spada tra le mani, poi abbandonò anche quella fantasticheria.
Lui era alto in termini umani un centimetro e mezzo. Anche
ammesso che fosse riuscito a trovare il cialtrone, il massimo
che avrebbe potuto fare era conficcargli una puntina da disegno in un alluce, sempre che l’altro si facesse beccare a piedi
nudi e che lui fosse stato in grado di trovare la puntina.
CRONACHE DI VASCELLO DEL CAPITANO AQUINDICI
209
«Non sono abbastanza bella, credo» spiegò Ilaria richiamandolo dalle sue fantasticherie.
«Tu sei bellissima. Lo dice anche tua madre.»
«Le madri dicono sempre che i figli sono bellissimi» minimizzò Ilaria. Aquindici scosse la testa: le sue non lo avevano detto mai.
«Quando ami qualcuno, lo trovi bello. Anche se è verde e
ha i tentacoli.»
«Tu sei verde e hai i tentatoli?» chiese Ilaria.
«No» rispose onestamente Aquindici. «Semitrasparente.»
Glissò a ogni buon conto sulla statura e sulla coda.
Ilaria e Cirano non erano alti un centimetro e mezzo come
lui. Quello che li aveva distrutti, che li ingabbiava, li imprigionava, inviolato e inviolabile come le mura di Gerico, era
la mancanza di fede nella loro capacità di far esplodere l’amore. A Rossana non gliene sarebbe importato un fico del
naso di Cirano, se solo lui se ne fosse infischiato. Il mondo
doveva essere pieno di uomini con una voglia feroce di perdersi nell’amore per Ilaria se solo lei glielo avesse permesso,
uscendo dalle mura grigie della sua timidezza, ma le mura
erano inviolate e inviolabili, come quelle di Gerico.
Alla fine, ultimi, arrivarono i ricordi più recenti: la vigilia
della vigilia di Natale. I tre pacchetti per terra.
Ilaria ricordò l’incidente.
Aquindici lo vide con lei. Lo vide chiaro e perfetto. C’era
anche la colonna sonora. Il «Confutatis maledictis» che risuonava in tutta la sua potenza.
Aquindici vide il furgoncino bianco senza controllo che
invadeva la corsia contromano. Ilaria non era nella traiettoria. Lei era indietro e completamente a destra. Lei ce l’avrebbe fatta a levarsi dalla strada in tempo, a sterzare. Lei sareb-
210
IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
be stata fuori pericolo. C’era un secondo motorino, davanti a
Ilaria e più al centro della strada, con due mocciosi a bordo,
il più piccolo senza casco. Era l’altro motorino quello che sarebbe stato preso.
Invece di voltare e andarsene, mettere in salvo la sua vita
mortale, tornare dalla sua mamma disperata e lacrimosa, Ilaria si era buttata sul motorino, lo aveva superato e poi scalzato via verso destra, fuori dalla strada, dove i due se l’erano cavata con una caduta. La madre di Ilaria non ne sapeva
nulla, quindi Aquindici dedusse che nessuno ne sapeva nulla. I due dovevano essersi rialzati e dovevano essere filati via
con il loro veicolo ammaccato.
Ilaria aveva salvato loro, ma non aveva più avuto il tempo di salvare se stessa.
Era rimasta sola, tra il furgoncino e il palo.
«Lo hai fatto apposta. Tu eri fuori pericolo. Bastava che ti
facessi gli affari tuoi!» esplose. «Perché?»
Ilaria alzò le spalle. «Uno per due. Come al supermercato. In genere si suppone sia un buon affare.»
«Ma tu sei tu. Gli altri non li conoscevi nemmeno.»
Ilaria non ebbe esitazioni.
«È quello che dicono le parole della musica» spiegò.
«Adesso lo capisco bene.»
«Credete davvero che se non siete buoni ci saranno cose
tremende e abissi di fuoco?»
«No, qualcosa di molto più tranquillo e banale. Noi prima
o poi noi dovremo guardare in faccia l’Angelo della Morte e
se abbiamo fatto vigliaccate non ne reggeremo lo sguardo. È
semplicemente quel non reggerne lo sguardo la cosa tremenda.»
Davanti alla morte, come Cirano, Ilaria avrebbe tenuto alto il suo pennacchio bianco.
CRONACHE DI VASCELLO DEL CAPITANO AQUINDICI
211
Ora la coscienza di Ilaria era di nuovo intera, con i ricordi interi ricostruiti. Anche la tristezza di essere rinchiusa in
un corpo quasi morto, la sindrome Locked-in, del rinchiuso
dentro, si chiamava nei libri di patologia chirurgica, ora sarebbe arrivata in tutta la sua interezza.
La madre e il padre di Ilaria avevano avuto ragione.
Tutto quel raccontare, tutto quel recitare, la musica erano
serviti.
Erano loro ad avere ragione.
Nel fondo del cervello, nel fondo dell’ippocampo, il barlume di memoria di Ilaria era diventato coscienza piena e
ora Ilaria c’era di nuovo.
Molto era stato distrutto dall’edema, l’intero sistema di
trasporto dell’impulso nervoso era deconnesso, ma c’era di
nuovo un punto in quello sfascio che sapeva di essere Ilaria,
che ricordava, che voleva tornare a vivere, voleva tornare a
casa con i regali, i tre pacchetti della vigilia di Natale.
Era stato Mozart a far scoppiare l’esplosione finale, «Confutatis maledictis», «Rex tremendae», quella musica che conteneva gli abissi che separavano le galassie e l’infinito che le
attorniava.
Era bella Ilaria. Ad Aquindici piaceva moltissimo. Non
era in grado di giudicare la sua statura, il suo viso, il colore
degli occhi. Gli piaceva il sussulto che animava quello che
restava di lei quando guardavano Cirano, quando la madre
leggeva di Ulisse. Gli piaceva lo scintillio che brillava quando suonava il «Confutatis maledicitis».
Come Cirano di Bergerac, Ilaria non sapeva di essere
bella.
Come Cirano di Bergerac era coraggiosa e timida.
Aquindici prese la decisione.
212
IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
Non voleva essere immortale. Si sarebbe battuto per il
candore del suo pennacchio o piuttosto avrebbe illuminato
agli idioti la via verso la polvere della morte.
Per amore di Ilaria.
Come Paolo per Francesca.
Avrebbe riparato le cellule nervose, ricostruito le sinapsi,
rimielinizzato i fasci di connessione. L’energia necessaria era
spaventosa. Gli sarebbe costata l’immortalità. Lo avrebbe pagato con l’eternità.
Poi, anche lui, avrebbe potuto piangere e le lacrime sarebbero cadute come l’acqua sulla terra deserta.
Poi anche per lui ci sarebbe stato un giorno in cui non
avrebbe più avuto senso dire domani, e neanche allora
avrebbe avuto paura.
«Posso aggiustare tutto» balbettò. «Posso aggiustare il tuo
cervello. Lo posso fare. Poi il mio tempo sarà scaduto. Appena finito andrò via. Ripasserò nel cane e lo farò scappare
di nuovo. L’appuntamento è tra un giorno. Io me ne andrò e
tu sarai di nuovo sana.»
«Puoi farlo?»
«Posso farlo» rispose Aquindici e con un gesto deciso tolse con uno spasmo arteriolare glucosio e ossigeno all’ippocampo e al lobo limbico. Ilaria scomparve, temporaneamente deconnessa.
«Scusa, ho bisogno di tutta l’energia per i fasci spino-talamico e cortico-spinali. È temporaneo. Tra un giorno ti sveglierai» borbottò Aquindici.
Quella carenza di ossigeno e zucchero avrebbe annullato
la memorizzazione di tutti i ricordi recenti. Ilaria non si sarebbe ricordata del trauma. Non si sarebbe ricordata dei due
ragazzini cui aveva salvato la vita.
«Non importa. Lo saprà l’Angelo della Morte quando lo
incontrerai» aggiunse Aquindici.»
CRONACHE DI VASCELLO DEL CAPITANO AQUINDICI
213
Ilaria non avrebbe ricordato lui.
Anche questo non era importante. Lui si sarebbe ricordato di lei. Per sempre o, meglio, fino a che la sua vita oramai
mortale sarebbe durata, fino a che sarebbe durato il suo respiro, anche dall’altra parte dalla galassia, anche dall’altra
parte del Tempo, ovunque la parola essere avesse avuto un
significato, lui avrebbe saputo di Ilaria.
Erano le sei di sera quando Aquindici finì il lavoro. Lo
sforzo era stato talmente ciclopico che non aveva neanche
male, non tremava nemmeno. Semplicemente non era più
immortale.
Continuò a bloccare il cervello di Ilaria fino alla fine. Ora
lei era completamente cosciente, se si fosse svegliata con
qualcun altro nella testa sarebbe stato folle, insopportabile.
Avrebbe pensato di essere impazzita.
Aquindici lasciò anche solide nozioni di neurologia e
astrofisica. Le lasciò all’interno della memoria profonda, discretamente camuffate: sarebbero saltate fuori solo se e
quando Ilaria si sarebbe messa a studiarle.
Un pizzico di facilitazione in più.
Così lei avrebbe avuto il tempo di cantare.
Alle sei arrivò la professoressa Indaco con il cane. Giuggiola, come faceva sempre, andò a posare il muso sulla mano di Ilaria. Aquindici scivolò dentro la cagnolina. Restò ancora un ultimo istante nelle punta delle dita di Ilaria mentre
lei cominciava a svegliarsi, poi scivolò via per sempre.
Dietro di lui scoppiò il finimondo. Sentì la voce di Ilaria
farfugliare. Dopo mesi di mancata utilizzazione non funzionava bene, ma fu sufficiente perché tutti gridassero, pazzi di
gioia, si chiamassero a vicenda.
Aquindici dette ordine al cane di filare via. Qualcuno
cercò di fermarli, ma Giuggiola oramai era un cane adulto,
con una notevole velocità.
214
IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
Uscirono dall’ospedale, corsero per le strade, traversarono fermandosi ai semafori rossi e guardando da tutte le parti, e si fermarono davanti al negozio di pezzi di carne morta
per rubare un altro pezzo di muscolo ileopsoas di bovino.
«Il mio filetto!» urlò l’uomo del banco.
Questa volta Aquindici aiutò il cane a scappare. Era un
bravo cagnetto. Se l’era meritato il suo pezzo di carne morta.
Capitolo 8
Ritorno
Gammaottododicidieci fu puntuale. Aquindici lo aspettava accovacciato sul marciapiede.
Era solo. Aveva liberato Giuggiola e l’aveva mandata via,
verso l’ospedale, dove nella stanza di Ilaria in tripudio ci sarebbe stata anche la cagnolina. Oramai sapeva traversare:
non ci sarebbero stati incidenti. A Ilaria la cagnolina piaceva
da impazzire. L’aveva sempre voluta. Ora poteva godersela.
Il portellone si aprì. Aquindici entrò, richiuse il portellone con la coda, salutò Gammaottododicidieci con un cenno
del capo.
«Le dispiace occuparsi lei del decollo?» chiese. «Sa, sono
un po’ stanco.»
Gammaottododicidieci assentì. Al centro dell’astronave
stava un secondo Drondolo, un nuovo tipo, che Aquindici
non aveva ancora visto. Più grande, e con un’intersecatura
di fili azzurri luminescenti che formavano una specie di rete. Aquindici guardò interrogativo Gammaottododicidieci.
«Perfezionato. Registra anche immagini e suoni in movimento, tutto quello che loro chiamano film e musica, per
quello che può valere.»
CRONACHE DI VASCELLO DEL CAPITANO AQUINDICI
215
Aquindici fece uno sforzo per non esultare. Sfiorò i filamenti luminescenti con la punta della coda. C’era tutto, tutto quello che lui conosceva e un mucchio d’altro ancora. Gli
vennero i brividi lungo la schiena.
Erano già quasi fuori dell’atmosfera quando Gammaottododicidieci fece di nuovo sentire la sua voce.
«Com’è andata?» chiese.
«Bene» rispose Aquindici sereno.
«Imparato qualcosa?» chiese ancora Gammaottododicidieci. C’era un sottofondo maligno. Aquindici ne fu infastidito.
«Qualcosa non contenuto nel Drondolo? Sì. Ho imparato
a piangere» rispose deciso.
«Cosa?»
«Acqua dagli occhi. Acqua e cloruro di sodio per la precisione. C’è anche qualche traccia di proteine.»
«Il significato lo sapevo. Era sbalordimento il mio, non la
richiesta di ulteriori informazioni.»
«Ho imparato a piangere. Mi è costato l’immortalità. Ora
posso morire. Anche invecchiare.»
Gammaottododicidieci restò senza parole. Ci furono diversi secondi di incantevole silenzio, che poi però, come tutte le cose belle, finirono.
«Io l’ho sempre considerata un idiota» boccheggiò
Gammatrenta. «Ora mi accorgo di averla sempre sopravvalutata.»
«Già» approvò Aquindici.
«Come le è venuto in mente? Cosa accidenti ha guadagnato perdendo l’immortalità?»
Acqua non dovette pensarci su prima di rispondere.
«La morte, appunto. Ora ogni istante ha un senso. Ha
valore. Dove non c’è perdita non può esserci letizia»
216
IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
spiegò, più che altro per passare il tempo. Sapeva che l’altro non avrebbe capito. «Vede, quando paghiamo carissimo
qualcosa che non ha prezzo, abbiamo comunque fatto un
affare.»
Stavano già uscendo dal sistema solare quando Aquindici si accucciò tranquillo vicino al Drondolo. Se ne restò lì,
mentre la piccola astronave sfrecciava in mezzo a galassie e
buchi neri, dove i fotoni non potevano accendere la luce perché non c’era l’interruttore.
Gli vennero in mente gli elefanti che non sono rosa.
Aquindici scoppiò a ridere, una risata lieve, fatta di piccoli
sussulti. Non riusciva a fermarsi.
«Ma che diavolo sta facendo?» chiese Gammatrenta sempre più acido.
«Niente. Mi gratto la schiena» mentì Aquindici sbrigativo.
Aquindici si addormentò.
Sognò Ilaria, che non avrebbe saputo di lui come Rossana
non aveva saputo di Cirano.
O forse lo avrebbe saputo.
Non nella memoria episodica, ma da qualche parte, in
fondo, nei sistemi inconsci sarebbe rimasta l’ombra di
Aquindici, la sua voce che le diceva quanto era bella, che si
sarebbe sovrapposta a quelle di tutti gli idioti che l’avevano
convinta che non lo era.
La voce di Aquindici avrebbe fatto crollare le mura di Gerico come le trombe di Giosuè.
Ilaria non avrebbe avuto più paura di nulla. Aquindici le
aveva lasciato in dono la fierezza. Una pennellata di arroganza anche, appena appena, una spruzzata, come il pepe
sugli spaghetti.
CRONACHE DI VASCELLO DEL CAPITANO AQUINDICI
217
Ilaria sarebbe salita su un palco e la sua voce magnifica
sarebbe risuonata. Tutti gli smarriti, ascoltandola, avrebbero
ritrovato il coraggio.
Aquindici sognò di avere un cappello. Anche sul suo ci
sarebbe stato, magnifico e immacolato, il suo pennacchio.
***
Che dite? È inutile? Lo so.
Ma non ci si batte nella speranza della vittoria.
È molto più bello quando è inutile.
Quale fosco drappello è là? Sono mille.
Vi riconosco vecchi nemici.
La Menzogna, la Viltà, i Compromessi, i Pregiudizi.
So che alla fine voi mi batterete.
Non importa
Io mi batto.
Io mi batto.
Io mi batto.
Mi leverete tutto,
la rosa, il lauro.
Strappate pure,
c’è qualcosa che io porto con me, a Dio, vostro malgrado,
senza piega e immacolato.
Il mio pennacchio.
Edmond Rostand, Cirano di Bergerac, atto V, scena V.
L’ultimo esame
Il liceo è ancora chiuso.
Non sono il primo. Ci sono ragazzi e ragazze seduti davanti che aspettano l’apertura. Sono giovani uomini e giovani donne che aspettano di sapere con che voto andranno ad
affrontare la vita e l’esame di ammissione alla facoltà. Mi siedo nascosto tra le colonne del porticato. Non voglio incontrarli. Non voglio le loro condoglianze. Non tollero il mi dispiace tanto di chi ha la vita davanti.
Il liceo si apre. Loro entrano, leggono, ridono, non ridono,
escono di nuovo nel sole: la luce proietta le loro ombre sul
selciato. Si risiedono sulle scale. Uno è incazzato come una
iena, ma domani sarà vivo e dopodomani pure, la luce continuerà a proiettare la sua ombra sul selciato, come osa essere furioso, miserabile cretino.
Arriva anche lei. Lei piange. Gli altri si alzano. Gli altri le
stanno attorno, le dicono che gli dispiace tanto, che non è mica detto che non sia vero, è senz’altro vero, mica sono mostri,
ma smetterà di essere vero tra otto minuti; tra otto minuti
torneranno a ridere, a scambiarsi sigarette, a incazzarsi, lei
smetterà tra più tempo, forse tra otto mesi, forse tra otto anni, forse mai, forse lo ricorderà sempre, forse chiamerà Stefano il primo figlio o il secondo o il quinto, ma lei avrà un
220
IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
primo figlio, un secondo, un quinto, il sole proietterà anche
la loro ombra. Non sopporto neanche lei a dirmi che le dispiace tanto.
Loro vanno via, ne arrivano altri. Ci sono altre risa, altre
incazzature, altre sigarette scambiate. Ogni tanto il tono si
abbassa, le risa si interrompono, qualcuno dice che gli dispiace tanto, che è senz’altro vero, mica sono mostri, ma c’è
anche il compiacimento di essere, loro, la quinta B, quelli
sfiorati dalle ali della morte, interessati dall’ombra della tragedia, sui quadri, in mezzo ai loro nomi c’è anche lui, Stefano Indaco, nato il 18.11.1975, maturo con 60/60 e morto ieri,
andato a scuola giorno dopo giorno, terapia dopo terapia,
operazione dopo operazione, anno dopo anno: loro gli hanno tenuto la testa al gabinetto quando vomitava, hanno picchiato quelli che lo sfottevano perché era calvo, sono venuti
a casa la domenica pomeriggio invece di andare a giocare a
pallone a fargli fare i compiti che non aveva fatto perché invece di stare a scuola era stato in ospedale a farsi operare. O
a fare maledette flebo che gli facevano vomitare l’anima, ma
lui diceva che non era vero. O a farsi irradiare. O a fare esami che dicevano che, be’, guarito, no, migliorato nemmeno,
ma stazionario, ecco stazionario, stazionario è la parola giusta, corretta, c’è un equilibrio tra lui e la malattia, tra lui e il
mostro, tra lui e il drago.
Il drago è arrivato quando non c’ero. Ero nell’oceano Indiano. Ero andato a prendere un cargo a Sydney: era stata la
prima nave di un mafioso pieno di quattrini come la Bundesbank, la rivoleva per motivi affettivi o forse ci aveva stivato
mezzo quintale di cocaina da qualche parte e io manco lo sapevo. Boh. Era una bagnarola del cavolo, si trascinava lungo
le coste dell’India: le barche a remi dei pescatori ci doppia-
L’ULTIMO ESAME
221
vano. Il mare era blu e verde chiaro. Gli orizzonti erano pieni di gabbiani. Io avevo ventiquattro anni, la testa pieni di
sogni, gli occhi pieni di orizzonti. Mi avevano appiccicato
una moglie e un ragazzino, lei era stata troppo scema per
non restarci e io mi ero sposato più che altro perché altrimenti mio padre mi avrebbe ammazzato di botte. L’unica cosa che volevo era il mare. Aspettavo l’occasione per andarmene, in un mondo pieno di porti e pieno di gabbiani. Non
me ne ero ancora andato solo perché l’occasione non era ancora arrivata.
Mi arrivò invece un cablo dalla scema, pardon la mia signora, diceva che il bambino era malato. Del bambino non
me ne era mai strafottuto un fico, tutto quello che facevo nei
pochi giorni in cui ci convivevo era stare il meno vicino possibile alle sue manine bavose e ai suoi pannolini caccolosi,
ma ora c’era il cablo, quella parola sinistra: linfoma, scritta
con due m, la mia signora non è mai andata oltre la terza elementare, d’altra parte non avevo trovato nessun’altra disposta a darmela, quando si hanno venti anni e si vive nel fondo di un paesino sulle coste calabre bisogna accontentarsi.
Non c’era altro da fare se non portare avanti la bagnarola, porto dopo porto, gabbiano dopo gabbiano. Dei gabbiani
non me ne importava più un fico, dei porti neanche. C’era il
cablo, l’ammasso di pannolini sporchi e bavaglini sbavati era
diventato un bambino con il linfoma, il mio bambino con il
linfoma, affidato a una minorata mentale semianalfabeta,
che aveva l’unico merito di avermela data quando nessun’altra voleva sentirne parlare.
Sono arrivato dopo ventisei interminabili giorni. Tutto
quello che mi interessava era arrivare. Lui era alla clinica
pediatrica. Mi sono messo a cercarlo per le corsie. Finalmente ho trovato quella dell’oncologia. C’era un ragazzino
222
IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
con la testa fasciata, una bambina con le mani fasciate, e uno
scacazzino che sembrava vomitato da un campo di sterminio, che se ne stava attaccato alle sbarre del lettino e urlava:
«Papà!», un urlo acuto, che mi perforava i timpani, fin dentro il cranio. Ero arrivato fino alla fine del corridoio prima
di riconoscere la voce. Mi ero girato. Avevo guardato lo scacazzino: avevo riconosciuto il pigiamino con le papere, glielo aveva regalato mia madre. Avevo riconosciuto gli occhi,
quel colore grigio-azzurro del mare in inverno. Il nome sul
grafico della febbre era il suo. Non riuscivo a riconoscere
lui. Lo guardavo e non lo riconoscevo. Lo avevo preso in
braccio e mi ero messo a cercare i medici. Lui mi abbracciava e mi chiamava papà. Papà bello. Voleva che lo portassi
via. Della scema aveva già imparato a non fidarsi, ma di me
si fidava ancora. Cercai i medici, gli chiesi urlando come
avevano osato ridurlo così. I medici mi chiesero urlando come osavo pensare che ridurlo così fosse stata una scelta. Mi
ero messo a piangere. Stefano diceva: «Papà bello… casa»,
sempre più piano. Anche di me imparava a non fidarsi. Come la scema, non lo avrei portato via di lì. Sarebbe rimasto
a pigolare «casa…» come un piccolo ET dimenticato dall’astronave su un pianeta alieno, pieno di fleboclisi che fanno
vomitare.
Almeno non lo avrei più lasciato solo.
Mi sono trasferito a terra. Un posto nel porto. Sto a undici minuti netti dalla clinica pediatrica. Otto di notte. Tredici
con i semafori rossi. Cinque alle quattro del mattino, quando
non c’è proprio nessuno.
Otto ore di scartoffie e polvere, ma poi alla sera ritornavo
da lui, dai suoi occhi grigio-azzurro colore del mare d’inverno, dove volavano i gabbiani. Il drago stazionava. Prima o
poi qualcuno avrebbe inventato l’Anticancrin Forte, il Linfo-
L’ULTIMO ESAME
223
mit Deposito e Stefano sarebbe guarito, sarebbe diventato un
bambino normale, di quelli che giocano a calcio e vanno allo
stadio. Nel frattempo era un bambino speciale. Gli dèi visitano nella malattia. Lui aveva lo sguardo fermo e la saggezza profonda di coloro che sono già stati nel Mondo dei Morti e non ne hanno avuto paura. Passavo le mie otto ore di
scartoffie a contare i minuti. Poi alla sera tornavo da lui, dai
suoi occhi grigio-azzurro come il mare d’inverno. Gli piaceva sentire storie. Io non avevo mai letto un fico in vita mia,
solo il minimo indispensabile del Passero solitario e dei Promessi sposi per il sei di italiano. Perché lui avesse qualcosa da
ascoltare la sera mi sono fatto, sera dopo sera, Pinocchio, Robin Hood, I tre moschettieri e Il Signore degli Anelli. Peter Pan,
che è l’Angelo della Morte. C’è su di lui, nel primo capitolo
del libro, un passaggio terribile.
«Si raccontavano di lui molte strane storie, si diceva che,
quando i bimbi morivano, lui li accompagnava nel primo
tratto di strada, perché non avessero paura.»
Poi Stefano è diventato abbastanza grande da leggerseli
da sé, abbiamo continuato a leggere vicini, in silenzio, ognuno per conto suo. Quando era a letto perché stava troppo
male guardava fuori dalla finestra. Ho imparato a conoscere
le nuvole, perché gli piaceva saperne il nome, prevederne i
movimenti. Ho studiato le costellazioni. Ho passato notti a
fare calcoli perché lui potesse costruirsi una meridiana. Ho
accolto in casa mia un immondo botolo che lo aveva seguito
per strada e che era più pulci che cane; ora è qui, vicino a me,
non so se riuscirei a sopravvivere senza la sua lingua tiepida
sul freddo delle mie mani.
La scema era sempre scema, passava le giornate a fare
novene e dire rosari, io dicevo che se il Padreterno si interessasse agli umani destini, avrebbe fermato i treni che an-
224
IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
davano ad Auschwitz, caricato a salve le mitragliatrici della prima guerra mondiale. Lei si disperava, chiamava i suoi
santi a raccolta, gridava al sacrilegio. Poi ho smesso di dirglielo. Ognuno deve avere i suoi. Lei sognava santa Rosalia
che fa il miracolo, io sognavo la medicina che fabbrica l’Anticancrin Forte: qualcuno che arrivasse a fottere il drago,
che nel frattempo stazionava. Santa Rosalia deve essere un
santo di scarto, buona al massimo per guarire i geloni. La
scienza ufficiale ha perso la strada tra l’immunologia e l’antiangiogenesi: non si è capito bene chi ha trovato il bandolo giusto, nessuno lo ha ancora srotolato. Forse il bandolo
si è un po’ sfioccato in giro. Se avessero pregato di più santa Rosalia mentre guardavano dentro i loro fottuti microscopi, magari ce la facevano. Ormai è tardi. Il drago ha improvvisamente smesso di stazionare e un’emorragia se lo è
portato via.
All’improvviso.
In quattro minuti netti. Sei di meno di quelli che ci volevano per la clinica universitaria.
È finita in quattro minuti.
Se esiste un dio spero che si strafotta.
Spero che schiatti. Spero che si anneghi nella sua acqua
santa. Spero che si impicchi con uno dei suoi rosari.
Spero per lui che non esista.
Se c’è, preferisco bruciare all’inferno per l’eternità che stare con chi ha torturato il mio bambino per anni e poi lo ha
fatto morire. Non ci credo, non ci voglio credere.
Preferisco schiattare all’inferno.
Starò fino alla fine dei miei giorni con la scema che dice il
rosario.
E non dirò niente.
L’ULTIMO ESAME
225
Non si lascia la madre di uno che è morto il giorno dopo
la maturità.
E non glielo dirò che sono tutte stronzate.
Forse ha ragione lei. Averlo avuto è pur sempre meglio
che non averlo avuto. Anche malato. Anche condannato.
Anche malato, anche condannato è stato felice. Rideva.
Era felice che lei gli voleva bene, anche se era calvo e doveva
fare le flebo. Era contento che la maturità era andata.
Bisogna che torni dalla scema.
È stata la sua mamma. Non è che sia poi così scema. È solo che ha la terza elementare, e poi c’è questa faccenda di
santa Rosalia, ma non è vero che è poi così scema. E poi me
l’ha data. Se lei non me la dava Stefano non ci sarebbe stato.
Devo tornare dalla scema.
Devo scrivere a loro.
Devo scrivergli a tutti, uno per uno, devo ringraziarli di
avergli tenuto la testa al gabinetto quando vomitava, di aver
picchiato quelli che lo sfottevano perché era calvo, di essere
venuti a casa la domenica pomeriggio invece di andare a
giocare a pallone.
E poi devo scrivere a lei.
Per augurarle tutto il bene possibile. Di sposarsi, laurearsi, di avere dei figli, tutto il bene possibile.
Forse ha ragione la scema. Averlo avuto, sia pure condannato, è pur sempre stata una benedizione.
Prima o poi guarderò le nuvole o le stelle e ringrazierò il
Padreterno di avermi dato Stefano.
Ma questo domani.
226
IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
Oggi sto qui.
Me ne resto qui a passare la mia mano sulla sua riga, a
cercare di sentire con la pelle dei polpastrelli il suo nome,
quella scritta 60 su 60, che lo avrebbe fatto incazzare, perché
lui non voleva regali e quel 60/60 non ce l’aveva. È stato
scritto quando già si era sicuri che lui non c’era più a incazzarsi. Passo le dita sulla scritta: «Stefano Indaco, nato il
18.11.1975, maturo con 60/60» e non riesco a smettere, perché è tutto quello che mi resta di lui. Tra qualche giorno leveranno questo foglio e non resterà più niente.
Il muro di vetro:
conversazione sulla morte
Come poter affrontare la morte era uno dei discorsi che
non si facevano mai nelle aule dove la mia generazione ha
imparato la medicina.
Noi apparteniamo a un’epoca che, per la prima volta nella storia dell’umanità, ha combattuto battaglie vittoriose
contro la sofferenza e tutte le situazioni dove i cadaveri si
contano a cataste invece che a unità: abbiamo estinto il vaiolo, abbattuto la mortalità infantile e posto condizioni per eliminare le guerre mondiali.
Noi apparteniamo a un’epoca che, per la prima volta nella storia dell’umanità, avendo combattuto battaglie vittoriose contro la sofferenza e la morte, ha creato la pericolosa illusione che vivere senza dolore sia augurabile e, anzi, possibile.
Impediamo ai nostri figli di andare a visitare i nonni malati perché non si impressionino; impediamo loro di assistere ai loro funerali ritenendo, come il padre di Buddha, che il
compito del buon genitore sia preservare i propri figli dal
dolore, non fargli mai sapere che la sofferenza esiste.
La sofferenza e la morte diventano tabù, vengono negati,
come se ci fosse un muro di vetro che le isola e le separa. In
questa maniera si sottrae l’unica strada che ha l’essere uma-
228
IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
no per risolvere la sofferenza: affrontarla, capirla, darle un
senso e condividerla.
Ed è uno sbaglio, perché poi scopriamo da soli che il dolore, la paura, la disperazione e la rabbia fanno parte del destino umano come la forza, l’amore, la speranza, la tenerezza e la comprensione.
E, quando lo scopriamo, siamo soli.
È compito di una generazione lasciare in eredità alla successiva le istruzioni per non lasciarsi travolgere dal dolore.
Noi non lo stiamo facendo.
Perché scriverlo io?
Perché avrei voluto che qualcuno mi avesse detto,
trent’anni fa, quando mio padre è morto, quello che sto per
scrivere.
Perché tutti i pazienti a cui sono stata vicina mi hanno
aiutata a pensarlo.
Perché è la mia maniera di salutarli ancora.
Mio padre è morto solo.
Mia sorella e io eravamo fisicamente nella stanza dove lui
ha smesso di vivere, mia madre in quella stanza era trincerata da sempre, ma ugualmente lui è morto solo.
In sua presenza non è mai stata nominata né la parola
morte, né la parola cancro.
Noi sapevamo, a lui, «per il suo bene», non era stato detto niente.
Gli avevamo sistematicamente mentito. Avevamo contraffatto i suoi esami, falsificato le sue cartelle, perché lui non
sapesse.
Lo avevamo così rinchiuso in una trappola di silenzio.
IL MURO DI VETRO: CONVERSAZIONE SULLA MORTE
229
Tutti i dubbi che aveva avuto, li aveva rimuginati da solo;
quando si era reso conto dell’inarrestabilità del suo «stare
peggio», non aveva avuto nessuno con cui piangere insieme.
L’ottusa congiura del silenzio in cui tutti siamo rimasti intrappolati non ci ha permesso di salutarlo, non gli ha permesso di salutarci.
Ci sentivamo in colpa.
In primo luogo c’è la colpa del sopravvissuto: se qualcuno a cui siamo legati è morto, in qualche maniera abbiamo
fallito il compito di tenerlo in vita.
A questa si è aggiunto il senso di colpa del mentitore rispetto all’ingannato.
E poi c’era il senso di colpa per il non detto: per l’affetto
non manifestato. Lo avevamo lasciato morire senza dirgli
quanto gli abbiamo voluto bene e quanto eravamo fiere di lui;
lo avevamo lasciato morire senza permettergli di dirci quanto
ci aveva voluto bene, che cosa voleva che ricordassimo di lui.
Abbiamo sfogato il nostro sentirci in colpa con un faraonico funerale e profusioni di fiori che, devo dire, per mezza
giornata hanno sortito l’effetto di farci stare un po’ meno male. Poi la mezza giornata è passata e noi abbiamo ricominciato a stare malissimo.
Io avevo ventidue anni: ero ancora all’università. Poi sono diventata medico.
Ho visto innumerevoli altre persone morire, in pronto
soccorso o nei reparti di chirurgia, rinchiusi nello stesso destino di inutile solitudine.
Non c’era, allora, nessun esame, nessuna competenza alla facoltà di medicina che preparasse a parlare della morte a
coloro che vi erano condannati, a chi stava loro vicino, a chi
era loro sopravvissuto.
230
IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
In moltissimi medici c’era, e c’è ancora, un imbarazzo totale davanti alla persona condannata, quella per cui «non c’è
più niente da fare». Non siamo più abituati alla sconfitta.
Molti di noi evitano con fastidio le loro stanze e i loro parenti: la frustrazione di non poterli guarire è insopportabile e,
per evitarla, si evita il malato, che così resta sempre più solo.
Mi era sembrata una buona idea fare chirurgia. È la parte
più epica della medicina. La battaglia era stata persa per mio
padre, ma avrebbe potuto essere vinta per qualcun altro:
estirpare il male, strapparlo così che poi resti solo una ferita
decente e pulita da ricucire. Un duello con la morte, come
Brancaleone o il crociato di Il settimo sigillo, ma questa volta
ad armi pari.
Non avevo calcolato lo scarso entusiasmo che, all’inizio
degli anni ’70, accoglieva le femmine nei reparti di chirurgia.
Visto che in sala operatoria mi facevano entrare il meno possibile, ho cominciato a passare il tempo parlando con i malati e con i loro familiari, tutti i malati, anche quelli delle stanze dove nessuno voleva entrare.
Ho scoperto che ognuno è una persona, ognuno ha la sua
storia.
Ho imparato che le sofferenze della nostra anima possono essere infinitamente più devastanti di quelle dei nostri
corpi.
Mi sono ricordata che il compito del medico non è guarire tutti, ma dare consolazione a tutti e non nuocere a nessuno in nessuna maniera, meno che mai con l’abbandono.
I miei pazienti mi hanno insegnato che uscire dalla stanza di una paziente lasciandosi alle spalle una scintilla di consolazione è una meravigliosa vittoria.
Ho scritto è riscritto questo articolo innumerevoli volte,
senza mai riuscire a trovare il tono giusto: qualcosa che non
IL MURO DI VETRO: CONVERSAZIONE SULLA MORTE
231
fosse né ampolloso né didattico ed evitasse l’insopportabile
spocchia di colui che pretende di sapere e insegnare anche
agli altri come si affronta l’inaffrontabile.
Avrei voluto trovare un tono che riuscisse a esprimere un
po’ dell’infinita tenerezza che si può formare attorno a una
persona che muore e a coloro che la circondano.
Quando siamo di fronte alla morte e la accettiamo, allora
succede il miracolo. Tutto acquista una profondità sconosciuta e irripetibile, acquisisce una forza che non ha mai avuto prima. Si crea la possibilità di annullare anni di rancore,
riparare ferite, restaurare la fiducia, cancellare gli errori, lasciare un ricordo che darà la forza a coloro che restano di
combattere le loro battaglie con orgoglio e con onore.
Qui sotto, in maniera molto schematica, c’è il riassunto di
quello che ci siamo detti, io e i miei pazienti, di quello che
abbiamo pensato.
Il tono a volte è lo stesso delle nostre conversazioni: non
troppo serio.
Non poche delle idee riportate sono loro.
1. Il significato biologico della morte
Dal punto di vista biochimico si parla di morte quando il
nostro organismo non riesce più a mantenere la propria auto-organizzazione e il livello di entropia raggiunge livelli irreversibili.
La vecchiaia e la morte sono obbligatori solo tra gli organismi costituiti da più cellule. Tra quelli costituiti da una cellula sola, non lo sono.
Se nessuno aggiunge penicillina al brodo di cultura e c’è
cibo a sufficienza, amebe e batteri, organismi monocellulari,
sono immortali.
232
IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
Un batterio si riproduce scindendosi in due batteri, che si
riproducono scindendosi in quattro batteri che si riproducono scindendosi in otto, e si arriva così a miliardi di batteri
senza che ci sia un solo cadavere e senza che nessuno abbia
le rughe, o gli necessitino gli occhiali.
Tutti gli organismi sono geneticamente identici, allegramente coetanei e indistinguibili l’uno dall’altro.
Quando abbiamo smesso di essere amebe abbiamo guadagnato la pluricellularità, abbiamo guadagnato anche la
vecchiaia e la morte.
Abbiamo guadagnato la coscienza, il pensiero, la sessualità, l’amore, il dolore, la gioia, la paura, la speranza, la disperazione e la possibilità di avere figli, che sono delle curiose creature che prima o poi ti fanno un sorriso sdentato,
dopo di che mettono i denti e alla fine e ti chiamano papà o
mamma.
La morte è stato il prezzo che abbiamo pagato per dire «io
sono».
E la paura della morte è il prezzo che abbiamo pagato per
dire «io sono perché penso».
Come diceva il signore del letto 22 dell’Istituto di Patologia Chirurgica delle Molinette: «Quando paghiamo caro
qualcosa che non ha prezzo, abbiamo in ogni caso fatto un
affare».
2. Significato evoluzionistico della paura della morte
Il piccolo scalatore sta facendo una solitaria. Improvvisamente una delle sue corde si rompe e lui scivola malamente
su una parete verticale. Riesce all’ultimo momento ad aggrapparsi a uno spuntone di roccia e resta lì a penzolare su
IL MURO DI VETRO: CONVERSAZIONE SULLA MORTE
233
un baratro di centinaia di metri, senza poter fare nessun movimento se non continuare a restare appeso. Gli viene in
mente che forse c’è qualcun altro che sta facendo una scalata. Comincia regolarmente, ogni cinque minuti, a chiedere:
«C’è qualcuno?».
La sua voce si perde tra le cime innevate. Il piccolo scalatore continua ostinatamente, sempre più roco per la fatica e
la disperazione. Finalmente una voce riempie le montagne.
«Sì, ci sono io che sono Dio. Lasciati andare. Questa sera
sarai con me in Paradiso.»
Cala la sera. Le prime stelle cominciano a brillare. A questo punto si sente la vocina dello scalatore che domanda:
«Per favore, c’è qualcun altro?» 1.
La paura della morte è sempre molto forte, anche nelle
persone che non nutrono nessun dubbio sul «dopo».
La paura della morte ci è stata messa dentro da Madre
Natura e dalle regole dell’evoluzione, per salvarci la vita.
È una paura congenita, che abbiamo stampata nel patrimonio genetico.
Senza questa paura, la stragrande maggioranza di noi
non arriverebbe all’età adulta e ci saremmo estinti. Alcuni ne
sono meno dotati di altri e sono quelli che guidano di notte
a fari spenti per vedere che cosa si prova.
Analogamente i bambini hanno paura dell’estraneo, del
buio e del mare. Se così non fosse i bambini si avventurerebbero in braccio a sconosciuti, nel buio della notte e tra le onde, e molti di loro perirebbero.
1
Da Daniel Pennac, La fata carabina (modificato).
234
IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
Il fatto che i bambini ne abbiano una terribile e fisiologica
paura non vuol dire che gli sconosciuti siano tutti aggressivi, che il buio nasconda sempre mostri e che sbattere i piedini nelle onde non sia piacevole.
Il fatto che noi ne abbiamo paura, cioè che abbiamo l’istinto a evitarla, non vuol dire che una cosa sia cattiva.
In alcune persone la paura della morte è una tortura talmente prolungata e feroce, che vi pongono fine con il suicidio.
La paura della morte è una conseguenza della nostra capacità di pensiero astratto.
È il prezzo pagato per poter dire «io sono perché penso».
Possiamo riprendere l’affermazione del già nominato signore del letto 22 dell’Istituto di Patologia Chirurgica dell’ospedale Molinette: «Quando paghiamo caro qualcosa che
non ha prezzo, abbiamo in ogni caso fatto un affare».
Qualcuno affronta la morte senza paura: molti scienziati,
la totalità dei santi, il Dalai Lama, sicuramente il signore del
letto numero 14 della sezione 6B dell’ospedale San Luigi
Gonzaga, per lo meno la seconda volta che è morto.
Aveva una cirrosi epatica da alcolismo, e una tubercolosi
gravissima. Era ricoverato in ospedale da circa tre anni: con
la tubercolosi poteva succedere. I suoi polmoni erano distrutti, e questo creava una condizione terribile e non risolvibile, che risponde al termine tecnico di dispnea a riposo, e
che in parole più povere può essere spiegato come un lentissimo annegamento che si prolunga per settimane. Il suo
cuore si fermò una notte in cui io ero di guardia. Nella mia
foga di giovane medico, cui il concetto di accanimento terapeutico non era molto chiaro, sono riuscita a fare un’intracardiaca di adrenalina e ho sentito sotto le mie dita il polso
ripartire.
IL MURO DI VETRO: CONVERSAZIONE SULLA MORTE
235
Tra me e la Signora con la falce, una volta tanto, era uno a
zero per me.
Il signore del letto numero 14 della sezione 6B dell’ospedale San Luigi Gonzaga riaprì gli occhi, mi fece un meraviglioso sorriso con quello che restava, non molto, della sua
dentatura, mi disse di non preoccuparmi, perché dall’altra
parte era bellissimo.
Dopo di che, visto che dall’altra parte era bellissimo, ci
tornò.
La mia vittoria con la Signora con la falce alla fine si era
limitata a un time out tecnico.
Quello che era strano era il sorriso: dove li aveva presi un
cervello reduce da un’ipossia (rimasto senza ossigeno) tutta
l’energia, la forza, i neurotrasmettitori necessari per quel
sorriso?
3. La colpa
Una delle componenti del dolore che accompagna una
perdita è il senso di colpa. Il senso di colpa del sopravvissuto è stato messo a fuoco ascoltando la disperazione dei reduci dei campi di concentramento. È presente e costante in
tutti i sopravvissuti di tutte le catastrofi, e spesso è il principale ostacolo alla ripresa di una vita normale.
Se amo una persona, se semplicemente appartengo alla sua
cerchia, sento come un dovere impedire che muoia. Dal punto
di vista della biologia, cioè dell’evoluzione, è una protezione.
Colpa e senso di colpa non sono sinonimi. Posso provare
un atroce senso di colpa anche se non sono colpevole, se non
è stata colpa mia, se non potevo farci niente.
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
Tanto più è forte il mio senso di responsabilità, tanto più
forte sarà l’impulso di combattere per salvare quelli che mi
sono vicini, tanto sentirò la colpa della mia sconfitta.
Il senso di colpa, come tutte le emozioni negative – la
paura, la rabbia, il rancore, il dolore per la morte di coloro
che amiamo –, ha il compito di preservare la vita: ci spinge a
batterci perché nessuno muoia, ci spinge a buttarci in acqua
per salvare il bimbo trascinato dalle onde, a rischiare di essere falciati da un’auto in corsa per dare soccorso in un incidente stradale.
Un gruppo, una famiglia, una società dove tutti hanno
l’impulso di battersi per la salvezza degli altri ha un basso
tasso di mortalità, vive meglio e più a lungo, ma è gravata da
un alto livello di senso di colpa quando non siamo riusciti a
evitare la morte altrui.
Quando proviamo un’emozione tendiamo a selezionare
tutti i pensieri che hanno lo stesso colore di quell’emozione
e a cancellare gli altri.
In una vita ci sono milioni di cose. Non possono essere ricordate tutte contemporaneamente. A seconda di quali selezioniamo nel racconto che ce ne facciamo, diamo un senso
piuttosto che un altro a tutto quello che è successo.
Quando ci sentiamo in colpa verso qualcuno, tendiamo a
ricordare tutti gli episodi in cui lo abbiamo in qualche maniera maltrattato, non ricordando tutti gli altri.
Ricordiamo tutte le volte che ci abbiamo litigato: non è
possibile convivere con una persona senza saltuariamente litigarci a sangue.
Ricordiamo. In questa maniera il senso di colpa aumenta
in maniera esponenziale. L’unica maniera per uscirne è fare
qualcosa subito: un funerale faraonico, per il quale si spendono metà dei propri risparmi o ci si indebita.
IL MURO DI VETRO: CONVERSAZIONE SULLA MORTE
237
Se ci sentiamo molto in colpa quando qualcuno muore è
perché lo abbiamo amato molto e perché abbiamo un alto
senso di responsabilità.
Quindi ripetiamo, perché è un concetto importante e deve essere chiaro. Tanto più è forte il mio senso di responsabilità, tanto più tenterò di combattere per salvare quelli che
mi sono vicini, tanto più sentirò la colpa della mia sconfitta, e per non sentirlo sputerò l’anima per preservare la vita
di tutti i componenti del mio gruppo, aumentando quindi
la sopravvivenza del gruppo. Il senso di colpa è un meccanismo evolutivo. Il senso di colpa è proporzionale al senso
di responsabilità. Gli irresponsabili se ne infischiano allegramente.
Il senso di colpa, come tutte le emozioni negative – la
paura, la rabbia, il rancore, il dolore per la morte di coloro
che amiamo –, ha il compito di preservare la vita.
Il senso di colpa, come tutte le emozioni negative, una
volta che impariamo a gestirlo, a disinserirlo anche, quando
ricostruiamo che in quel preciso contesto non è razionale, ha
il compito di migliorare la vita.
Noi cresciamo solo sulle crisi.
Questo non vuol dire che tutte le crisi, le sofferenze, si risolvano in una crescita. Molte si incancreniscono. Molte distruggono e basta.
Ma è solo con il dolore, per sfuggire al dolore, che noi
possiamo trovare la forza di cambiare.
Un lutto è la peggiore delle crisi che una famiglia, una
persona, può affrontare.
Non possiamo scegliere di evitarla. Possiamo scegliere di
usarla per crescere, per diventare migliori.
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
4. Il dolore
Il dolore per la perdita nasce con il riconoscimento.
Mamma tartaruga non riconosce la sua prole. Depone le
uova su una spiaggia e se ne va per i fatti suoi. Quando le
tartarughine nascono, in un numero sterminato, si avviano
verso il mare come i soldati di Napoleone nella ritirata dalla
Russia. Tra quelle mangiate dagli uccelli, quelle mangiate
dalle lucertole e quelle che si perdono tra le dune solo il
quindici per cento arriva al mare. Qui le tartarughine residue
diventano cibo per i pesci: se tutto va bene una o due si salvano e così la specie continua.
Le tartarughine non si distinguono l’una dall’altra, non
c’è nessun riconoscimento individuale. Nessuno soffre
quando la tartarughina muore, né la sua mamma né qualcuna delle sue decine di sorelle.
Il dolore compare con l’alligatore. Mamma alligatore riconosce la sua prole e la difende. Quando separati, mamma alligatore e l’alligatore bimbo esprimono sofferenza ed è la prima emozione che compare nella scala evoluzionistica. Quando uno dei due muore l’altro soffre.
Non è possibile sofferenza senza amore.
Non è possibile amore senza sofferenza: se amiamo qualcuno la sua assenza è una mancanza, la sua morte una lacerazione.
Se soffriamo quando qualcuno muore, è perché lo abbiamo amato, e l’amore è un miracolo. Se stiamo soffrendo per
la morte di qualcuno è perché sappiamo che il miracolo dell’amore esiste, e che lo abbiamo avuto. Possiamo scegliere
una sofferenza pulita.
L’altro, quello che se ne è andato, ci ha lasciato in eredità
l’amore per la vita.
IL MURO DI VETRO: CONVERSAZIONE SULLA MORTE
239
5. Extropia
Ritorniamo alla definizione di morte.
Dal punto di vista biochimico si parla di morte quando il
nostro organismo non riesce più a mantenere la propria auto-organizzazione e il livello di entropia raggiunge livelli irreversibili.
Questa è la definizione ufficiale della morte.
È falsa. È sbagliata.
La morte, come le rughe non sono una forma di entropia,
cioè di perdita di ordine, ma al contrario, una prova che il sistema sta aumentando la propria complessità. Le rughe che
sono? Come la morte sono la prova certa dell’esistenza di
Dio o, perlomeno, la prova certa dell’esistenza di un’intelligenza che regola e ha regolato la presenza della vita. Le rughe dimostrano, al di là di ogni ragionevole dubbio, che l’evoluzione non è stata regolata solo dal caso e dalla necessità.
Il cuoio vecchio ha delle rughe. Quelle rughe sono un segno
di entropia, termine ampolloso che dovrebbe misurare la
tendenza al disordine dell’universo; in realtà indica semplicemente che «tutto scorre» e nulla è mai come prima. Il termine disordine è errato, perché il suffisso dis implica un giudizio di valore, è un peggiorativo. Che la carne marcia sia
peggiore e più disordinata della carne fresca, è opinione non
condivisa dai batteri della putrefazione che se la stanno sbafando. Vero è che è impossibile tornare allo stato originario,
tutto scorre, ma il suffisso dis indica che lo stato attuale è
peggiore di quello passato, comunque migliore di quello futuro; non è un caso che l’autore del concetto di entropia sia
morto suicida. Il concetto di entropia, spostato arbitrariamente dalle macchine termiche a spiegazione dell’universo,
conclude con la teoria indimostrata e indimostrabile della
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
morte termica, è una delle numerose scienze atee, prive di
qualsiasi logica e fatte da gente che non conosce la biochimica, diventate dogmi del nichilismo del nostro tempo. Anche
le molecole di cibo che smettono di essere cibo e diventano
parte del nostro corpo sono un esempio di entropia, visto
che non possono essere mai più riportate allo stato originale. Anche le molecole di cibo che smettono di essere cibo e diventano il figlio unico e irripetibile che portiamo in grembo,
sono un esempio di entropia, secondo questi poveri scienziati tristi. In realtà le rughe e la morte aumentano la complessità del sistema e quindi sono un esempio di extropia. Le
rughe e la morte sono extropia, aumentano la complessità
del sistema oltre a fornire pietanze e allegria ai batteri saprofagi. La vecchia borsa di cuoio piena di rughe ha venti
anni. La mia pelle ne ha sempre solo tre. La borsa di cuoio è
costituita da venti anni sempre dalle stesse molecole. A ogni
urto qualche molecola salta, non c’è più, qualche altra si irrigidisce, perde di elasticità e si spacca, si forma la ruga. La
mia pelle è giovanissima, ha solo tre anni. Ogni tre anni tutte le molecole della mia pelle, come quelle del mio cuore,
delle ossa, del cervello, sono sostituite. Il mio corpo è un continuo fare e disfare e rifare. Le rughe sulla pelle, la colonna
vertebrale che perde di elasticità non sono un segno di vecchiaia, cioè di molecole che si sono usurate, ma che è arrivato un ordine dal cuore del sistema, i cromosomi. Fino a una
certa età l’ordine è: costruite in maniera corretta. Da una certa età in poi l’ordine è: costruite in maniera sbagliata, non
fabbricate più elastina, deve avere le rughe, deve morire. Per
dare ordini diversi, il sistema deve aumentare di complessità. Pensate a due neonati, uno di razza umana e l’altro è un
cagnolino. Ambedue hanno muscoli e ossa sane, ma dopo
quattordici anni il neonato umano è un adolescente nel pie-
IL MURO DI VETRO: CONVERSAZIONE SULLA MORTE
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no della sua forza, il cane sta agonizzando. Non è che in origine i muscoli, le ossa, il cuore del cane fossero di qualità scadente e si sono usurate prima. Il cuore del sistema, i cromosomi, contenevano l’ordine di morte mediante invecchiamento in un tempo massimo di quindici anni. La morte non
è il fallimento della vita, è un suo ordine. È più facile mettere nei cromosomi l’ordine «costruisci sempre uguale» che
l’ordine «costruisci fino a un certo punto bene e poi sbaglia
il montaggio». È più facile, ci vogliono meno cromosomi a
fare un cuore che batta sempre, che non un cuore che dopo i
primi decenni comincia a sbagliare i colpi e poi si ferma. Un
essere immortale è biologicamente più facile da costruire di
un essere mortale. E ha anche più figli. Eppure, durante l’evoluzione, non si sono mai formati degli immortali. Ringraziamo la pecora Dolly, visto che, senza la sua clonazione, tutto questo non l’avremmo capito. Quando noi cloniamo un
individuo otteniamo un neonato, che però, adulto, ha la stessa età del soggetto clonato. Immaginiamo di clonare un uomo di trent’anni, Piero. Intanto che il bambino, Piero 1, cresce e arriva a vent’anni, Piero ne ha cinquanta. Piero e Piero
1 hanno entrambi, biologicamente, cinquant’anni, e moriranno di vecchiaia insieme, con le stesse rughe. Le rughe mi
servono per guardarmi allo specchio e sapere che il meraviglioso tempo della mia vita è in parte passato. Mi ricorda di
godere ogni istante. Mi ricorda che il tempo della mia morte
si sta avvicinando. Il momento della gioia è ogni istante. È
molto più facile essere felici da vecchi che non da giovani. La
vecchiaia è il penultimo dono, quello che ci costringe a trovare la felicità dov’è. Fino a quando siamo giovani, pieni di
energia, sprechiamo il tempo a cercare la felicità dove noi
vorremmo che fosse, dove pensiamo che possa stare, nel successo, nella bellezza, magrezza, strafigaggine, nei viaggi in
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IL CAVALIERE, LA STREGA, LA MORTE E IL DIAVOLO
capo al mondo, invece è nel giardinetto sotto casa. Invece è
dentro di noi. Nella capacità di essere grati di quello che abbiamo. Del fatto di essere vivi. Del fatto di morire.
La vecchiaia ci prepara all’ultimo grandissimo dono. La
morte. Quello che dà senso a tutto. Quello che dimostra che
l’evoluzione e la vita non possono essere ammassi casuali di
atomi.
Come è già stato detto: quando si paga caro qualcosa che
non ha prezzo, abbiamo comunque fatto un affare.
Indice
9
Il cavaliere, la strega, la Morte e il diavolo
47
Seravezza, Alpi Apuane, Toscana, 1526
67
Roma 1692
73
Capua 1860
105
Santa Maria Capua Vetere, provincia di Caserta, 1943
143
Una storia come tante
157
Egregio Dottor Babbo Natale
165
Cronache di vascello del capitano Aquindici,
219
L’ultimo esame
227
Il muro di vetro: conversazione sulla morte
disperso sul pianeta dei barbari
Le Storie
O. Camerana, Vite a riscatto
B. Debernardi, Matolda. Una storia longobarda
D. H. Lawrence, L’uomo che amava le isole. L’uomo che era morto
D. H. Lawrence, Mattinate in Messico
H. James, A Londra
G. Marx, Letti
M. Machado de Assis J., Memoriale di Aires
I. Moscati, I piccoli Mozart. Wolfi e Nannerl, storia di due bambini prodigio
R. Paradiso, Paradiso Boulevard
F. Pouillon, Il canto delle pietre. Diario di un monaco costruttore
V. Rossella, Vita di Chopin attraverso le lettere
Finito di stampare
nel mese di ottobre 2009
presso Grafiche del Liri - Isola del Liri
per conto di Lindau - Torino