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Collana
Di Viole e d’ombre e altri racconti
A cura di Fabio Fox Gariani
Editing e Redazione:
Fabio Fox Gariani e Angioletta Storaci
Progetto grafico e impaginazione: Roberta Toresani
Stampato da: Centro Stampa Moderna
In copertina: Foto del “Chiostro dei Glicini”, Società Umanitaria
bruxa
di Fabio Fox Gariani
“Si sa che la stregoneria basta che cominci e non c’è più mezzo per fermarla.”
Mikhail Bulgakov, da “Il Maestro e Margherita”
Milano, Istituto di Medicina Legale. Tempo presente…
Fissò il corpo senza vita della donna. Lasciò correre lo sguardo lungo le linee
mutilate di quello che rimaneva della povera vittima. L’ambiente, ampio, ed
arieggiato da un sistema di ricambio automatico dell’aria, puzzava di morte
e dolore misto ad un pungente odore di disinfettante ospedaliero, acre, che
rivaleggiava spavaldo con l’olezzo diffuso intorno a loro.
Indossò con un secco schiocco un paio di guanti verdi in gomma lattice. L’eco
si riverberò nella sala delle autopsie sprofondata nel ventre della terra, a più
di trenta metri sotto i piani superiori dell’Istituto di Medicina Legale e delle
assicurazioni di Milano.
Sorgeva in zona Città Studi, poco lontano dal Politecnico; vi si accedeva dal
numero civico di via Mangiagalli 37. L’edificio, alto tre piani, si estendeva con il
suo muro perimetrale giallo direttamente in piazzale Gorini. All’angolo, nascosta da un gruppo di alberi, infissa nel muro, una targa dorata segnava l’entrata
dell’annesso obitorio sbarrato da un pesante portone metallico.
La vita scorreva tranquilla intorno a quel perimetro, giorno e notte.
Dentro vi dimorava la morte.
La sala delle autopsie la chiamavano il “bunker”. Quello dei guanti, era un rito.
Indossarli con fare quasi teatrale, come un attore pronto ad entrare in scena su
un palcoscenico, atteso e reclamato dal suo pubblico, agiva come il segno di
una benedizione religiosa all’inizio di un rito. Era la comunione con la morte,
un’eucaristia che affondava nel mondo delle tenebre, alla ricerca di frammenti
di luce. Della verità. Bisognava tagliare, aprire, estrarre, eviscerare, analizzare,
amministrando un unico, imprescindibile codice: quello dell’autopsia su un
corpo morto. Seguì scrupolosamente le procedure standard che la professione le imponeva. Compilò un modulo d’esame autoptico, segnando data, ora
d’inizio e condizioni di rinvenimento del corpo della vittima. Su quest’ultimo
punto avrebbe dovuto lavorare parecchio viste in quali condizioni versava.
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Avvicinò con un gesto automatico consumato da anni d’esperienza, la lampada bianca e circolare sospesa sopra il freddo tavolo autoptico; il cadavere
smembrato giaceva, immobile, come una bambola rotta in attesa d’essere
rimessa in sesto, fiduciosa che colui o colei che si erano prodigati in quello
scempio fossero consegnati alla giustizia.
La luce bianca e lattiginosa del neon alogeno circolare, brillò come un’improbabile aureola angelica sospesa sopra la testa del medico legale; laggiù, nel
freddo “bunker” sotterraneo non c’era nulla d’angelico, nulla che esaltasse i
semplici dettami etici della bontà umana.
La sala d’autopsia era immersa in un uniforme colore verde-grigio, una tonalità asettica che teneva a distanza ogni possibile coinvolgimento emotivo.
Un muro di gomma contro quale lacrime e turbamenti rimbalzavano, rispediti
al mittente. Era il freddo colore al quale erano abituati gli anatomo patologi.
Asettico, lontano dal calore della vita, dal pulsare del sangue caldo che scorre
dentro ad un corpo vivo.
Qualcuno, distante dal mondo delle indagini forensi, delle scienze criminologiche, parlava di quel colore come di una specie di marchio, difficile da cancellare. Entrava sotto la pelle, sottile e strisciante, mutando l’albero della vita.
Ricopriva tutto quanto con una sottile patina di brina.
Quella sfumatura che danzava silenziosa sul filo dei bisturi, rendeva ogni autopsia una procedura di routine, che si fosse trattato di un’indagine forense su
una scena del crimine, un presunto suicidio o un incidente mortale.
Il colore era sempre lo stesso. Per un certo verso, assomigliava ad una sinfonia
classica, nella quale le note catturate dalle corde di un violino solitario erano
suonate dall’artista con maestosa perizia. La lama del medico legale danzava
sulle carni del cadavere in cerca della verità, cercando la giusta intonazione, il
ritmo, come la musica che sgorgava dal profondo del cuore del violinista, scalando le cime della passione, toccando vette di perfezione.
L’associazione del bisturi affilato e delle corde di violino le era sempre piaciuta.
L’aiutava ad erigere una solida barriera di distacco emotivo tra sé e l’oggetto della sua indagine: il cadavere disteso sul tavolo autoptico. Uomo, donna,
bambino, giovane o vecchio che fosse. Amava la musica classica e, per quanto
facesse inorridire qualcuno, trovava un fil rouge, un collegamento tra quell’arte
sublime e la sua professione di medico legale.
Per lei, ogni autopsia racchiudeva un brano classico che fungeva da colonna
sonora. In quel freddo lunedì mattina ai primi di dicembre, il turno assegnato
a Carmen Canesi dell’Istituto di Medicina Legale di Milano era iniziato presto
con l’esame esterno del cadavere di una suicida.
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“Un inizio di settimana promettente...” pensò, le mani protette dai sottili guanti
di gomma lattice verde appoggiate informali al bordo di metallo del tavolo
autoptico. Gli occhi color nocciola, vividi, attenti, il viso magro e le labbra ben
fatte prive di trucco, i capelli neri, sottili, raccolti in una crocchia sulla nuca le
infondevano un’aria severa ed algida al tempo stesso. Prima di procedere ai
rilievi autoptici, Carmen analizzò con un’occhiata professionale il cadavere
mutilato disteso davanti a sé.
Quando indossava il camice verde delle autopsie, la mascherina protettiva e
i guanti in lattice, intorno alla sua figura l’aria si cristallizzava, raccogliendosi
in spesse isole di particelle ghiacciate in sospensione. Qualcuno l’aveva soprannominata “Miss Sorbetto”. Non era facile starle vicino quando lavorava. Per
nessuno, colleghi e tirocinanti.
Trentadue anni compiuti, rigorosa e precisa al limite dell’ossessivo durante le
delicate procedure autoptiche, era una dei più brillanti e giovani medici legali
in forza all’Istituto; laureatasi a pieni voti, specializzata in Entomologia Forense51
era da qualche anno un membro attivo della prestigiosa AAFS, l’American Academy Forensic Science, l’Accademia Americana delle Scienze Forensi, autrice
di importanti articoli tecnici sullo studio degli insetti presenti sulla scena del
crimine, pubblicati in note riviste tecniche del settore, italiane e straniere. Tra
gli ultimi successi, poteva annoverare un libro sulle tecniche e le procedure
forensi, scritto a più mani insieme ad importanti Medical Examiners52 e criminologi americani, pubblicato negli Stati Uniti.
Forse per questo era detestata dai colleghi italiani, seppur non apertamente; se
a questo poi s’aggiungeva il fatto che era attraente, il corpo asciutto, ben fatto
dal quale si sprigionava una certa carica sensuale, il quadro era completo.
La sua carriera era in salita, la vita privata un po’ meno.
Carmen Canesi girò attorno al tavolo autoptico scrutando con rinnovata attenzione ogni particolare del corpo maciullato. Il camice verde, impiegato solitamente durante le autopsie e legato dietro la schiena, le ricopriva il corpo
scendendo fino al ginocchio, annullando ogni tratto di femminilità.
Sotto quella veste a dir poco monacale, diversamente dalle sue più competitive e giovani colleghe che non indugiavano a portare gonne corte e tacchi in
Entomologia Forense: una branca di studio della Medicina Legale destinata allo studio degli insetti di vario tipo eventualmente presenti su uno o più cadaveri in una scena del crimine.
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Medical Examiners: dall’inglese, il Medico Legale impegnato su una scena del crimine.
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più di una occasione, Carmen vestiva quasi sempre di scuro o di grigio.
Immersa in quel colore si trovava a suo agio, al sicuro da ogni sguardo maschile oltremodo invasivo e inopportuno, fosse stato quello di un collega, di un
tecnico di laboratorio o un PM53.
Pantaloni e giacca indossata sopra una sobria camicetta bianca chiudevano lo
scenario: ogni possibile tempesta testosteronica indotta da involontari richiami sessuali verso gli uomini era prontamente smorzata. Recisa di netto.
C’era però un prezzo da pagare per questa difesa ad oltranza: la sua vita privata, il suo matrimonio. Quell’alone ghiacciato se lo portava dietro, anche a casa,
dopo il lavoro.
Con un sospiro sofferto, Carmen osservò l’entità delle ferite e degli squarci
presenti sul corpo. Il sangue del cadavere della donna si raccoglieva come un
malsano fiume rosso lungo lo scolo del tavolo di metallo, fluendo con esasperante lentezza verso il tubo di raccolta dei liquidi reflui, come una specie
d’ultimo saluto al suo vecchio padrone.
L’odore della morte aleggiava nella sala d’autopsia dell’Istituto, simile ad
un’ombra inquietante, foriera d’oscuri messaggi. Quella fragranza di morte
che accarezzava il corpo della vittima, allungò le sue dita fredde, malsane, verso Carmen.
Guardò ancora una volta il cadavere. Avvicinò lentamente la mano destra, protetta dal sottile guanto di lattice verde: esaminò la testa della donna, pallida
e rigida per via del rigor mortis, troncata di netto da quello che rimaneva del
resto corpo.
Grumi di sangue simili a pustole rosse infette erano sparsi sulla pelle cadaverica del viso; tagli profondi di varia entità, slabbrati, erano distribuiti in modo
difforme sul volto come colpi inferti da una lama di coltello su una tela di un
quadro. Un vistoso ematoma violaceo, semicircolare, si era raccolto sotto lo zigomo sinistro come se un truccatore impazzito avesse imbrattato di blu scuro
il viso della povera donna.
Sul lato sinistro della mascella, una discreta porzione di pelle e cartilagini era
stata strappata via durante l’urto con qualcosa di tagliente, mettendo a nudo
l’osso bianco sottostante, che ora, sotto la luce della lampada alogena, riluceva di un sinistro candore. Il resto dello scempio perpetrato sulla vittima era
il risultato diretto dell’azione devastante delle ruote taglienti di una motrice
della metropolitana. I sei vagoni del convoglio avevano completato l’opera di
53
PM: il Pubblico Ministero titolare di un’indagine giudiziaria su un omicidio.
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maciullamento, trascinando con loro il resto del corpo.
Gli occhi della donna erano rimasti sbarrati nell’attimo della morte, congelati
in un muto atto di consapevolezza che tutto stava finendo, tranciata dalle fredde ruote delle carrozze, trasportata lungo i binari in un viaggio di sola andata
verso la morte. Carmen s’avvicinò alla testa, piantando i suoi occhi in quelli
della donna decapitata: le ricordavano due diaframmi scuri di una macchina
fotografica, inceppati sull’eternità e il dolore. I capelli scomposti erano tenacemente abbarbicati alla calotta cranica. Li esaminò con attenzione: erano impiastricciati di sangue e si confondevano con una chioma rossa scura intrigante,
fluente e riccioluta; l’acconciatura sembrava uscita da un film anni Sessanta.
Quel taglio di capelli le sembrò fuori posto. Infatti, se non fosse stato per la
scena macabra che aveva davanti a sé, Carmen Canesi avrebbe sorriso volentieri, stupita dall’originalità: la donna, ad un esame necrotico più dettagliato,
doveva avere avuto almeno un’ottantina d’anni.
“Eppure, c’è qualcosa che non va.” Pensò scostando delicatamente con un dito il
ricciolo rosso sporco di sangue che era scivolato sulla tempia destra.
Con entrambe le mani, passò ad esaminare la bocca della donna decapitata; le
aprì le labbra tumefatte e gonfie, spaccate irregolarmente in due punti. Ispezionando il cavo orale ancora umido, notò subito che aveva ancora alcuni denti sani. Quei pochi che erano rimasti stoicamente piantati ancora nelle gengive
delle arcate dentarie superiori e inferiori, nonostante il violento impatto di trascinamento, sembravano quelli di una ventenne. Nessuna otturazione. Molari
e premolari, seppur scheggiati, erano bianchi, forti senza nemmeno una carie.
Erano infilati nelle gengive pallide come dei soldati, allineati uno a fianco all’altro, pronti al loro dovere. Avevano resistito fino all’ultimo.
Esaminò perplessa ancora una volta i poveri resti della donna: se ad un’analisi
sommaria appariva come una vittima di circa ottanta anni, i denti raccontavano un’altra storia. In età così avanzata, per una persona anziana era abbastanza
frequente riscontrare in alcuni cadaveri la presenza d’interventi odontoiatrici
o più semplicemente l’esistenza di protesi e dentiere.
Al contrario, quel cadavere smembrato le appariva man mano che continuava
l’ispezione sempre più un paradosso biologico. La testa mozzata sembrò fissarla divertita, sfidandola a risolvere quel mistero.
- Che cosa scriverà nella sua relazione autoptica, dottoressa? La voce rauca dell’uomo alle sue spalle fece trasalire Carmen. Si voltò lentamente, con fare calcolato e professionale, cercando di mettere a fuoco la sagoma vestita di grigio poco lontano dal tavolo autoptico.
Sembrava che si dondolasse sui talloni, annoiato. Si era talmente immersa
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nell’esame ravvicinato sul cadavere che aveva dimenticato l’ispettore Angelo
Morelli, operativo presso la sezione Omicidi della Polizia alla Questura Centrale
di via Fatebenefratelli.
Era entrato nella sala delle autopsie da un po’ ma non se ne era accorta, al punto da non udire nemmeno l’aprirsi delle porte automatiche che immettevano
nell’ambiente. Doveva essere rimasto lì ad osservarla in silenzio, scrutandola
nel suo lavorare, metodica e precisa senza interromperla. Tenendosi fuori dal
cono di luce della lampada posta sopra il tavolo autoptico, l’ispettore Morelli
si portò alle sue spalle, un’ombra nell’ombra, più simile ad un fantasma che ad
un essere in carne ed ossa.
Carmen lo scrutò, dura in viso. Detestava quell’uomo: sulla tarda cinquantina,
basso, Morelli si trascinava dietro una scia odorosa, un misto di fritto di pesce
ed acqua di colonia d’infimo ordine, per non parlare poi dei suoi modi grezzi
nel trattare, indistintamente, e con poco tatto, i parenti delle vittime durante le
delicate fasi di riconoscimento dei cadaveri dei propri cari.
Lo detestava, sì, al punto che talvolta quel sentimento rasentava un freddo
odio. Quasi preferiva trascorrere più tempo, rintanata laggiù, in sala autoptica,
nel bel mezzo del palcoscenico della morte, che dividere un solo minuto con
l’ispettore Morelli. Aveva visto bene: l’uomo si dondolava sui talloni, le mani
sprofondate nel vecchio impermeabile grigio, largo e sdrucito.
- Che cosa scriverà? - Ripeté Morelli, continuando a dondolarsi.
- Scusi? - Rispose seccata per essere stata interrotta, schiarendosi la voce con
un secco colpo di tosse. Allontanò di poco la lampada alogena dal tavolo come
per illuminare lo spazio che la divedeva dall’ispettore.
- Le ho chiesto che cosa scriverà nella sua relazione? - Domandò Morelli con un
tono insofferente nella voce. Indicò perentorio con l’indice della mano destra i
resti del corpo straziato sparsi sul tavolo autoptico. La sua pelle, notò Carmen,
in quel luogo, forse per via della luce della lampada o per le tonalità verdi e
fredde delle pareti, sembrava pallida come quella di un morto. Rasentava quasi
l’identico grigiore dell’impermeabile che indossava.
Lo guardò trapassandolo con lo sguardo. Non erano amici.
Non si sopportavano, ma in un’indagine di Polizia erano indispensabili l’una all’altro, come lo squalo con il pesce pilota. Bisognava stabilire soltanto chi fosse
lo squalo e chi il pesce.
Per lei, medico legale, la morte si vestiva con maschere diverse di volta in volta.
Per l’ispettore Morelli, al contrario, era soltanto un altro caso da risolvere ed archiviare senza troppi sentimentalismi. Puntava, seppur ancora lontano, legato
ai suoi cinquantasette anni, al traguardo della pensione.
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Le indagini erano mosaici da chiudere, avvalendosi, o sarebbe stato più corretto dire usando i suoi collaboratori; ogni scena del crimine, ogni delitto era per
l’ispettore Morelli solo un fascicolo, un’anonima pila purulenta di carta, files
di computer e scartoffie varie che doveva, nel modo più efficiente possibile,
rifilare ai magistrati titolari delle indagini.
Lui lavorava così: nessuna lacrima sarebbe stata spremuta, nessun groppo in
gola avrebbe risvegliato l’anima dell’ispettore. I delitti da lui risolti ed i colpevoli assegnati alle maglie della giustizia superavano di molto il numero dei casi
rimasti irrisolti; i suoi superiori erano felici, non facevano troppe domande e lui,
soddisfatto, continuava a pensare alla pensione.
- Allora? - Morelli stava per perdere la pazienza.
Smise di dondolarsi sui talloni.
- Morte per suicidio... Non l’avete trovata lungo le rotaie della metropolitana
linea due, quella verde, in direzione di Cologno Monzese? - Carmen finì la frase
allargando le braccia come per sottolineare l’intera dinamica della morte.
- Si... Sparsa come budino rovesciato sulla moquette. - Morelli ridacchiò con la
voce roca, inspessita da vent’anni di sigarette Gauloise senza filtro. Si rimise le
mani nelle tasche del soprabito grigio, riprendendo a dondolarsi.
“Se lo apro e gli guardo i polmoni devono essere più neri della notte... che schifo!”
pensò disgustata Carmen, salutista convinta all’inverosimile, mentre lo fissava
gelida.
Detestava il fumo, i fumatori in genere e non ne sopportava l’odore. In realtà
erano molte le cose che non le andavano a genio nella vita: più gli anni passavano, più si era scoperta intollerante. L’elenco delle cose era lunghissimo. Il marito Vincenzo, architetto, stava al primo posto della lunga lista, i suoi colleghi
occupavano le posizioni di centro seguiti a ruota da coloro che la contraddicevano sul lavoro. Morelli chiudeva in grande stile la classifica, accompagnato
dalla scia di fritto di pesce, acqua di colonia e sigarette Gauloise.
L’ispettore rovistò soprapensiero con la mano destra nella tasca dell’impermeabile, traendone un pacchetto azzurro di sigarette francesi. Incurante, fece
il gesto d’accendersene una.
- Che diavolo sta facendo, ispettore? - Lo fulminò Carmen con uno sguardo
tagliente.
L’altro si bloccò, gli occhi prima sul pacchetto di sigarette in mano, poi su di
lei. Bofonchiò una mezza scusa a denti stretti, ricacciandosi il tutto di nuovo
in tasca, seccato. - Ha notato qualcos’altro? - Cercò di cambiare discorso stringendosi nelle spalle.
- Sì che è morta! - Gli fece eco lei, insolitamente sarcastica, riportando la sua
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attenzione professionale di nuovo sul corpo. Gli voltò le spalle, riavvicinando la
luce della lampada alogena sui resti della vittima.
- Grazie dottoressa, questo lo vedo anch’io.- Ribatté Morelli alle sue spalle Intendevo dire se ha notato qualche lesione associabile ad armi da taglio, da
fuoco, a qualcosa di lesivo insomma… - Intende dire se è stata uccisa prima e poi gettata sulle rotaie, simulando in
questo caso il suicidio? - Domandò Carmen, avvicinando una lente d’ingrandimento alla testa decapitata, esaminandola centimetro per centimetro.
- Sì esatto, proprio quello intendevo. - Rispose secco l’ispettore, mettendosi al
suo fianco, esaminando con un’occhiata indifferente i resti mutilati del corpo.
- Beh, vede ispettore, non ho notato nulla che possa indurci a pensare ad un
delitto maturato e consumatosi in qualche ambito, dentro o fuori casa della
vittima. - Spiegò Carmen, mentre, deposta la lente d’ingrandimento, procedeva con due dita ad ispezionare in profondità il cavo orale della testa della vittima in cerca, come da procedura, di qualche possibile indizio finito li dentro.
- Comunque sia - concluse terminando l’ispezione senza aver trovato nulla di
particolare - anche se fosse stata aggredita ed uccisa da un offender54, le gravi condizioni in cui versa il suo corpo possono aver cancellato ogni possibile
traccia lesiva. - Disse indicando i resti davanti a sè. Morelli annuì, silenzioso, le
mani sempre in tasca, la fronte corrugata come chi tenta di trovare una soluzione per chiudere subito il caso senza troppa fatica.
Il cadavere della donna era troncato a metà, poco sopra il femore, mentre le viscere sprizzate ovunque, erano state raccolte dagli obitoriali dell’Istituto lungo
i solitari binari della linea due esterna della metropolitana; con precisione certosina erano poi state chiuse in appositi contenitori dalle squadre di recupero,
sigillate ed inviate in sala autoptica con il resto del corpo. Ogni parte organica
mutilata della vittima era stata rinvenuta, fotografata, repertata e classificata
durante il sopralluogo sulla scena in appositi contenitori e buste da parte degli
agenti della Polizia Scientifica.
Le viscere attendevano ancora d’essere esaminate, chiuse ermeticamente nei
loro contenitori asettici appoggiati in ordine sul tavolo di fronte alla parete.
Carmen proseguì l’esame del corpo.
Il tronco era stato tranciato di netto con ogni probabilità durante il primo impatto dalle ruote della motrice di testa; entrambe le gambe erano state maciullate, troncate dal corpo. Durante il passaggio del convoglio, per via della
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Offender: termine usato in Criminologia per indicare l’omicida di una vittima.
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velocità, erano rimbalzate lungo i binari, travolte dalla velocità sostenuta.
Carmen s’allontanò dal tavolo autoptico, raggiungendo una scrivania addossata al muro piastrellato alla sua sinistra; afferrò una cartelletta a clip alla quale
era fissato un modulo con un paio di fogli.
Lesse con attenzione le pagine compilate quella mattina, all’alba, dagli agenti
della Scientifica impegnati nel sopralluogo; in fondo il modulo portava anche
la scheda anatomica di recupero dei resti riempita dal responsabile di turno
della squadra degli obitoriali chiamati sulla scena dopo i rilievi del caso.
Scoprì che entrambi gli arti inferiori della vittima erano stati rinvenuti circa
cento metri oltre il luogo della tragedia, trascinati con ogni probabilità dalla
velocità del metrò. Le note della Scientifica ricordavano che il conducente era
stato immediatamente ricoverato sotto shock in ospedale.
Morelli spiegò a Carmen che l’uomo, un giovane al suo primo impiego presso
l’ATM55, da lui interrogato quella mattina stessa, aveva frenato d’improvviso
ma non era riuscito ad evitare di travolgere la vecchia che, in piedi, le braccia
distese lungo i fianchi, era apparsa dal nulla davanti al convoglio lungo il tratto
che prosegue la sua corsa all’esterno della linea in direzione di Cologno Nord,
alla periferia di Milano.
Sembrava, aveva raccontato all’ispettore lo sconvolto manovratore, che attendesse la morte, rassegnata. Un suicidio, aveva pensato subito Morelli: puro e
semplice. Carmen tornò di nuovo al tavolo autoptico riprendendo l’esame del
cadavere.
“Cosa scrivo nella relazione autoptica per il magistrato? Suicidio… come ha detto Morelli?” pensò osservando le ferite vistose da mutilazione impresse nelle
cartilagini.
La vita era volata via dal corpo della donna, insieme alle sue gambe, alla testa
e al braccio destro ridotto a sua volta ad un ammasso di carne sanguinolenta
misto a schegge biancastre che una volta componevano l’osso.
Carmen controllò gli abiti: esaminando il tronco, notò che portava addosso
ciò che rimaneva di una sottoveste che un tempo doveva essere stata bianca,
elegante, con i bordi delle spalline finemente ricamate. Ora era poco più che
uno straccio lacerato come il suo corpo. Intrisa com’era di sangue raggrumato,
sembrava quasi fosse stata immersa in un catino ricolmo di vino rosso. Esaminò il resto del tronco senza trovare tracce di biancheria intima.
Provò ad immaginarsi con gli occhi della mente la scena: doveva essere usci-
55
ATM: Azienda Trasporti Milanesi
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bruxa
ta molto presto di mattina, sicuramente poco prima dell’alba, con le tenebre;
scalza, forse in preda ad uno stato di follia dovuto a qualche sindrome depressiva autodistruttiva; aveva vagato, sola, disperata in direzione della periferia,
trovandovi poi la morte. Spinta da qualche pulsione suicida aveva scavalcato
nonostante l’età avanzata, il piccolo cancelletto di cemento grigio operante
come barriera di sicurezza tra i binari della massicciata esterna della metrò e la
strada attigua in direzione di Cologno Nord.
“Possibile che nessuno l’abbia vista, notando una donna anziana scavalcare la
barriera di sicurezza?” pensò Carmen, perplessa, continuando ad esaminare i
resti della sottoveste insanguinata. Nessuno aveva tentato di dissuaderla dal
folle gesto. C’era un altro aspetto curioso: il corpo della donna parlava di qualcosa d’oscuro, una nota stonata che al momento le sfuggì.
La vittima, nonostante si fosse trovata all’alba in un evidente stato di coscienza
alterato, aveva indossato una giacca da uomo di lana marrone scuro, di buona
fattura, a righe verticali, strappata in più punti. Come la sottoveste era inzuppata di sangue. Con il kit di sottili tamponi organici prelevò e sigillò le tracce ematiche, repertandole e numerandone tre. Depose i campioni in una rastrelliera
apposita sulla scrivania. Li avrebbe inviati alla dottoressa Donatella Chierici, la
genetista forense dell’Istituto, chiedendole d’eseguire in laboratorio le analisi
del caso in cerca di qualche anomalia. Morelli, rimasto nel frattempo in silenzio,
la osservò lavorare intorno al cadavere. Erano avvolti dal pesante silenzio della sala autoptica, accompagnati dall’odore del sangue del corpo mutilato, dai
passi sicuri di Carmen sul pavimento piastrellato insieme al respiro costante
e meccanico del sistema di ricambio automatico dell’aria. Carmen controllò
infine il numero di taglia della giacca dietro al colletto impiastricciato di terra
e frammenti organici. Guardò bene il numero stampato sull’etichetta sporca di
sangue che stringeva tra le dita:
- Taglia 54. Modello inglese. Grandina per la vittima. - Commentò.
- Si, è la prima cosa che ho notato questa mattina durante il sopralluogo. Forse
è del marito... - O del figlio... - aggiunse Carmen, continuando l’ispezione del cadavere.
- O dell’amante! - Concluse Morelli, sarcastico. Girò intorno al tavolo autoptico, fronteggiando Carmen, entrando per la prima volta nel cono di luce della
lampada.
- Per favore Morelli la pianti! - Sbottò, serrando la mascella, disgustata.
- Stavo solo scherzando dottoressa. A proposito - aggiunse maliziosamente,
sfiorandosi la punta del naso adunco con l’indice destro - lo sa quante coppie
sposate in Italia oggi si separano entro i primi tre anni di matrimonio? - Ab-
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bozzò un sorriso agrodolce che mal s’incorniciava nel suo viso, dandogli l’aria
d’una maschera di cartapesta. Lei sollevò lo sguardo, congelata, incapace di
sostenere per la prima volta la schermaglia. Deglutì a fatica.
- No, e non m’interessa. - Replicò glaciale, stendendo sulla furia che provava per
Morelli uno strato di ghiaccio emotivo.
“Controllo, controllo... non devi permettere a questo stronzo di farti perdere le staffe. Non ora, non qui almeno.” si ripeté mentre spostava con attenzione la gamba
destra mozzata della donna su un altro tavolo autoptico libero dietro di lei.
Aveva bisogno di spazio per esaminare a fondo il busto troncato in cerca di
qualche nuovo indizio sull’identità della donna.
Morelli la fissò con uno sguardo innocente, finto; sotto la luce della lampada
alogena, Carmen notò che i suoi capelli neri e diradati sulla fronte, si estendevano a fatica crescendo fin sulle tempie, emergendo sparuti come due nidi
rinsecchiti ai lati della testa. L’ispettore era al corrente delle storie che si raccontavano, tra un’autopsia e l’altra, lungo i corridoi di medicina legale sulla
dottoressa Carmen Canesi. Sapeva che anche lei ne era al corrente, ma che non
faceva nulla per stroncare quei pettegolezzi.
Dal momento che non la sopportava, come Carmen del resto faceva con lui,
gli piaceva di tanto in tanto stuzzicarla, mettendo alla prova la scorza di quella donna fredda come i cadaveri che sezionava ed apriva, provocandola puntualmente sulla presunta relazione extraconiugale che si vociferava avesse
allacciato con un altro medico legale di Prato.“Un altro taglia morti! Siamo stati
invasi...” pensò Morelli grattandosi uno dei cespugli sulle tempie.
- Presumo che non abbiate trovato documenti d’identità addosso alla vittima.Chiese Carmen smuovendo a fatica il tronco per meglio esaminarlo.
Morelli annuì:
- Bingo... ha fatto centro dottoressa. Esatto - sospirò - E’ una perfetta sconosciuta. - Mentre spostava il corpo, dell’altro sangue rimasto fino a quel momento
imprigionato in qualche risacca del cadavere, defluì da sotto, imbrattandole
i guanti verdi di lattice. Imperterrita, proseguì i suoi rilievi; la testa oscillò sul
tavolo, sfiorata dal tronco al quale un tempo apparteneva, come se in una parodia macabra stesse facendo di no, disapprovando quell’azione invasiva di
Carmen. La testa si voltò. Gli occhi della morta, immobili e rigidi, per via del
movimento oscillatorio si puntarono sull’ispettore. Morelli fece un passo indietro, uscendo dal cono di luce del tavolo, distogliendo lo sguardo dalla testa
mozzata.
- Avete rilevato le impronte digitali della vittima? - Domandò Carmen.
- Certo che sì. I ragazzi della Scientifica sono in gamba - rispose Morelli, tenen-
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dosi lontano dal tavolo autoptico - In mattinata avremo i primi dati dall’AFIS.56
Hanno compiuto i rilievi sulla mano destra, o almeno per quello che ne rimane,
rimasta attaccata al braccio. Non è stato facile, ma ci sono riusciti. Carmen, nuovamente china sul tronco, annuì più per cortesia che altro. Morelli
gettò un’occhiata annoiata al suo orologio da polso: segnava le 9 e 12. Sbadigliò. La mattina era ancora lunga. Si domandò per l’ennesima volta da quando
l’aveva conosciuta quattro anni addietro, da quale dimensione la dottoressa
Canesi attingesse tutta quell’energia, quella voglia di lavorare sui cadaveri di
sconosciuti di primo mattino. Lui se non dormiva almeno otto ore si sentiva
uno zombie. Quel giorno dalla Centrale l’avevano tirato giù dal letto alle sei,
all’alba, costringendolo in pieno inverno, con il freddo, a guidare fino alla massicciata esterna della linea due della metrò per Cologno Monzese, coordinare
la squadra dei rilievi e prendere visione dei resti smembrati di quella donna
sparsi lungo i binari.
“Giornata di merda!” pensò di nuovo.
Nel frattempo Carmen aveva iniziato ad esaminare con attenzione le tasche
interne ed esterne della giacca del cadavere. Fu in quel momento che, dopo
aver infilato lentamente una mano nella tasca interna di sinistra, le sue dita si
strinsero su un oggetto duro e freddo, dalla forma rotonda. S’immobilizzò per
un secondo, basita.
La cosa non sfuggì a Morelli:
- Cosa c’è dottoressa? Trovato qualcosa? - La scrutò.
- No, niente. Perché? - Replicò nel tono più tranquillo possibile.
- E’ sobbalzata via… - Affatto, si sbaglia. Morelli corrugò la fronte, indeciso o meno se avvicinarsi di nuovo al tavolo
autoptico e alla testa che non aveva smesso di fissarlo. Rimase dov’era.
- Sicura che non ha trovato niente? - Mi sta dando forse della bugiarda? - Rispose piccata, timorosa però che l’ispettore indossando i guanti per ispezionare la tasca interna, l’avrebbe scoperta
- Controlli pure… prego. - Indicò con un secco gesto della testa il dispenser di
cartone dei guanti in lattice. Lo sfidò. Morelli si voltò, seguendo l’indicazione,
indugiando. Tornò a guardare la testa mozzata e il resto del tronco insanguinato. Per oggi era più che sufficiente: non avrebbe infilato le mani di prima
AFIS: Automatic Fingerprint Identification System, sistema di rilevamento automatico delle impronte dattiloscopiche contenute in un database di soggetti fotosegnalati
in precedenza alle forze di Polizia, italiane e straniere.
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mattina in una giacca inzuppata di sangue di una donna smembrata.
- No… d’accordo. Mi fido, faccia lei. - Disse alzando le mani davanti a sé in segno di resa.
Carmen annuì, più stupita del proprio comportamento che dal fatto che Morelli non avesse voluto eseguire un’ispezione sul cadavere.
“Principianti…” pensò fredda “hanno eseguito il sopralluogo, repertato ogni
cosa e si sono dimenticati di controllare le tasche della vittima. Andiamo bene!”
Corrucciò la fronte. Cos’era quell’oggetto nascosto nella tasca interna della
giacca? Perché a quel semplice tocco era sobbalzata? Sbatté per un attimo gli
occhi; la vista le si annebbiò, accompagnata da un giramento.
S’appoggiò al tavolo con entrambe le mani.
- Tutto bene dottoressa? - La voce di Morelli le giunse ovattata alle orecchie.
- Si, non è niente. Lasci perdere… - tagliò corto. Non vedeva l’ora che l’ispettore si togliesse di torno, insieme al suo cinismo e alla scia d’odore che si portava
dietro. Amava lavorare da sola. La sua presenza la deconcentrava.
Quasi per rassicurarlo, a fatica, gli sorrise.
- E’ tutto okay, tutto sotto controllo - aggiunse rivolta verso di lui, immobile vorrei continuare da sola l’esame del cadavere, se non le dispiace. Tanto ne ho
ancora per un po’. - Concluse con un lieve sospiro.
Di colpo fu travolta da una terribile sensazione, come se la lama di un coltello
affilato fosse penetrata nel ventre, partendo dall’inguine, risalendo come una
trebbiatrice fino alla gola, sventrandola, lacerandole le carni, cedendo il posto
ad una seconda sensazione ancor più sconvolgente: per un istante imponderabile, le sue orecchie percepirono uno stridio acuto, sinistro, simile a quello di
due file di denti che sfregano l’una contro l’altra, consumandosi.
Il rumore proveniva dalla sua testa, dentro di lei, conficcato nella mente. Sbiancò in volto. S’aggrappò di nuovo con forza al bordo metallico del tavolo autoptico.
La testa mozzata della morta oscillò nella sua posizione, indecisa da che parte
guardare se Carmen o l’ispettore.
- E’ sicura che è tutto okay? - Morelli le si avvicinò. Era evidente che non aveva
percepito alcun stridore di denti. Per la prima volta, osservandola in quello stato, aveva perso di colpo il suo cinismo, lavato via dal volto terreo di Carmen.
- Sì... sì ispettore, stia tranquillo, va tutto bene - mentì con uno sforzo sovraumano - è che forse sto lavorando troppo in questi giorni, sa, le perizie, le relazioni per i magistrati in tribunale, gli articoli da scrivere per la rivista nazionale
di medicina legale… sa com’è! - Si giustificò con un sorrisetto tirato, ricomponendosi.
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bruxa
Quel suono era entrato nella sua mente, violandola, stuprandone la sua intimità, come un intruso che l’avesse posseduta senza il suo consenso, gettandola
poi via, depredandola di ogni essenza vitale.
“Non fare la scema. Non è il primo cadavere che vedi fatto a pezzi.” Si scoprì a pensare avvicinandosi ai contenitori depositati sul tavolo opposto con all’interno
le viscere della vittima.
Controllò scrupolosamente i documenti allegati dagli obitoriali, cercando di
fare finta di niente. Dietro di lei percepì sulle spalle, netti e pungenti, gli occhi
di Morelli. Lo ignorò come sé nulla fosse accaduto, ma dentro di sé percepì
il cuore che pompava fuori controllo l’adrenalina. S’impose maggiore autocontrollo, mentre il sudore, lentamente, fece aderire come una seconda pelle
i guanti di lattice alle mani. La sottile polvere di talco che contenevano si mischiò ai palmi sudati, aderendovi, impedendo la giusta traspirazione.
- Allora se non ha nulla in contrario torno alla Centrale - disse infine Morelli, rompendo il silenzio – Mi raccomando dottoressa, aspetto la sua relazione
per oggi pomeriggio. Me la invii pure al mio indirizzo e-mail privato. Non c’è
problema…Lasciò in sospeso la frase come se si aspettasse che Carmen aggiungesse qualcosa d’importante.
- Certo, come sempre del resto - rispose, voltandosi verso di lui - anche se c’è
ben poco da dire. La risposta è sotto i nostri occhi - indicò i resti della vittima.
Il problema è identificarla, sapere come si chiamava, chi era, cosa faceva nella
vita, insomma ricostruire la sua identità. Prese tempo, leggendo le note scritte a mano su un foglio d’accompagnamento protocollare che la squadra recupero aveva attaccato con un nastro adesivo
nero sopra il coperchio di metallo di uno dei contenitori. Morelli annuì, di nuovo le mani sprofondate nelle tasche dell’impermeabile grigio.
- Come le ho già detto, i miei uomini stanno lavorando al problema in questo
momento. Tramite l’AFIS sapremo se era schedata. Comunque – concluse, rivolto più a se stesso che a Carmen, avviandosi verso le porte scorrevoli d’entrata
in sala autoptica - con ogni probabilità era una vecchia fuori di testa. - Forse, chi può dirlo?Senza salutarlo, Carmen rivolse le sue attenzioni ai contenitori; afferrò il coperchio del primo, preparandosi ad estrarne il contenuto per le analisi.
- Beh, allora arrivederci dottoressa. - Esclamò Morelli, imboccando rapido
l’uscita senza aspettare un cenno di saluto da parte di Carmen. In realtà, pensò
mentre risaliva a grandi passi le scale di marmo grigio verso i piani alti dell’Istituto, guadagnando l’uscita all’aria aperta, voleva risparmiarsi di nuovo lo
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spettacolo delle viscere insanguinate di quella poveretta, pesate, sezionate,
analizzate ed archiviate dalla dottoressa Canesi. Gli era bastato vederle sparse
lungo le rotaie della metropolitana.
Non era dell’umore giusto quella mattina. Sì, alzarsi troppo presto lo irritava,
predisponendolo all’incazzatura facile. E poi a lui i suicidi davano i nervi. Non
c’era un colpevole da braccare, arrestare e sbattere a marcire in carcere.
Insomma, non c’era divertimento.
C’era soltanto il fastidio di dover compilare moduli e documenti inutili.
Fu soltanto quando il soffio delle due porte automatiche della sala autoptica,
simile al flebile sospiro di un moribondo, segnalarono che l’ispettore Morelli se
ne era andato, che Carmen ritornò a concentrarsi sul tronco della vittima.
Alle viscere avrebbe pensato più tardi. Finalmente sola, si grattò nervosa il
dorso della mano destra protetta dal guanto. Una sottile ciocca di capelli neri
le scivolò sulla fronte spaziosa; indispettita, con un soffio delle labbra rivolte
verso l’altro, se la spostò.
Prima di riprendere gli esami si guardò intorno con aria sospetta, frugando
con gli occhi ogni angolo della spaziosa sala d’autopsie: i quattro tavoli autoptici di metallo segnavano come i punti di riferimento di una bussola i lati dell’ambiente, mentre il lucernaio superiore, un ottagono protetto da uno spesso
strato di vetro, permetteva alla luce del giorno di scendere attraverso quella
specie di pozzo interrato, depositandosi fin nel cuore segreto del “bunker” dell’Istituto. Quel flusso di chiarore, consentiva a coloro che lavoravano là sotto di
mantenersi in contatto con l’esterno, come la spessa catena di un’ancora impigliata sul fondo limaccioso di un mare, pronta per essere seguita, anello dopo
anello, risalendo di nuovo in superficie, ritornando sulla barca dei vivi.
Attrezzature tecniche, dai bisturi agli scalpelli, dal forcipe ai divaricatori insieme ai materiali generalmente usati per le autopsie, tutti, erano raccolti in ordinate file di contenitori sterilizzati, pronti all’uso. Utensili vari, una bilancia elettronica di precisione per pesare gli organi e i cadaveri, armadietti per camici,
un cestino di raccolta dei rifiuti destinati all’inceneritore, lavandini in acciaio e
disinfettanti chirurgici di un poco invitante color ambra, erano distribuiti uniformemente lungo le pareti piastrellate di verde.
La sala delle autopsie era arricchita da due scrivanie con relativi computer
d’ultima generazione collegati ad una stampante laser portatile; i pc erano a
disposizione dei medici legali di turno, giorno e notte, collegati on-line ad Internet e al database centrale dell’Istituto. Con un semplice “clic” del mouse si
poteva accedere a files, immagini e cartelle autoptiche relative a casi archiviati
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bruxa
o alle indagini ancora in corso per volere della magistratura milanese.
Per qualsiasi evenienza, un moderno telefono bianco a tastiera era collegato
alla linea esterna.
Sulla destra, poco lontano, racchiusa da un’antina a vetro, la centralina elettrica di controllo gestiva il cuore nevralgico della sala. Di fianco, incassato in un
angolo del muro era stato ottenuto l’alloggiamento del sistema di flusso e monitoraggio del ricambio dell’aria nella sala autoptica; l’ambiente, nel “bunker”,
era mantenuto sempre a dei livelli bassi di temperatura, necessari per il mantenimento dei cadaveri. Erano molti, infatti, tra i giovani laureandi in Medicina
Legale che durante il tirocinio estivo apprezzavano la particolare frescura del
posto, sfuggendo alla bolla di calore che imperversava fuori dall’Istituto, scivolando lungo le vie prospicienti Città Studi.
In un angolo, quasi in disparte, vicino all’entrata c’era l’attacco di una pompa
per l’acqua; uno spesso tubo di gomma nero, mantenuto in perfetto stato era
arrotolato sopra un manicotto di ferro lucido. A Carmen aveva sempre dato
l’idea d’un enorme boa constrictor addormentato, accoccolatosi in quel punto
della sala, pronto a risvegliarsi da un momento all’altro, stritolando il malcapitato di turno.
La pompa era usata di frequente durante la settimana dal personale tecnico
degli obitoriali, incaricato di mantenere pulita la sala delle autopsie; quest’intervento si rendeva particolarmente indispensabile soprattutto dopo i rilievi
autoptici su cadaveri in avanzato stato putrefattivo dai quali, quasi sempre,
colava a terra una certa quantità di vischioso liquido colliquativo, denso e maleodorante.
Vicino, appoggiati l’uno all’altro come a sostenersi, c’erano due paia di stivali
di gomma verde, alti fino alla coscia, simili a quelli usati dai pescatori.
Carmen tornò a concentrarsi sul cadavere della donna. Ne era sempre più convinta: c’era qualcosa di strano in quei poveri resti. La inquietarono i denti, così
troppo giovani e bianchi per una donna che all’apparenza dimostrava circa
ottanta anni.
Il pensiero tornò a tormentarla, ossessivo.
“I denti…” sussultò con un brivido, ripensando al suono stridente che aveva
percepito poco prima, alla sensazione fisica d’essere sventrata da una lama
che, partendo dall’inguine sinistro risaliva fino allo sterno, raggiungendo implacabile la gola, recidendole la giugulare. Barcollò nuovamente.
Strizzò gli occhi, respirando a fatica. Che cosa le stava capitando? In tutti quei
lunghi anni di servizio come medico legale aveva condotto sopralluoghi su
scene del crimine a dir poco terrificanti, eseguito ed assistito ad autopsie che
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avrebbero fatto vacillare anche l’uomo più duro ed insensibile.
Eppure quello stridore di denti associato alla sensazione di sventramento le
era penetrato dentro. Razionalizzò, ripetendosi i compiti che ancora doveva
svolgere per l’indagine. Aveva una relazione da scrivere per Morelli: quei pensieri, seppur lenti, allontanarono per un po’ lo sgomento. Il respiro le tornò
normale, la mente di nuovo lucida. Si cambiò i guanti sporchi di sangue, gettandoli nel contenitore dei rifiuti che gli inservienti, puntuali ogni pomeriggio,
avrebbero portato all’inceneritore. Dal dispenser prese un altro paio di guanti
di lattice puliti. Li indossò. Fece scivolare le dita fino in fondo, aiutata dalla fine
polvere di talco; rifletté sull’origine di quel suono mentre, assorta, sistemava
sulla scrivania i tamponi ematici prelevati poco prima: se non era il risultato
d’una allucinazione uditiva, che origine poteva avere? Da dove proveniva?
Perché l’aveva sentito solo lei e non l’ispettore Morelli?
Lo stridore perforava la mente, sciogliendola come fa la fiamma azzurra di un
cannello ossidrico con la plastica. Abituata a ragionare per associazioni mentali, mettendo insieme tessere di forme e colori diversi appartenenti ad un
mosaico sconosciuto, non tardò a collegare l’accaduto al rinvenimento dello
strano oggetto rimasto nel frattempo nascosto dentro alla tasca interna della
giacca della vittima.
Senza alcun indugio, risoluta, v’infilò la mano destra. .
Doveva sapere, doveva vedere. Tastò con cautela per una seconda volta lo strano oggetto circolare, seguendone i bordi rotondi, lievemente irregolari al tatto.
Sembrava una moneta o qualcosa di poco più grande. L’afferrò con decisione.
Stupita, socchiuse la bocca. Sotto la luce asettica della lampada alogena, apparve in tutto il suo splendido orrore: adagiata nel palmo della mano destra,
imbrattata del sangue della donna, brillava una specie di monile rotondo, consunto dal tempo, strettamente legato ad una cordicella di spesso cuoio nero,
fatta passare attraverso un buco circolare praticato in un’estremità.
Di primo acchito, le parve come una moneta di dimensioni superiori a un due
euro, più larga e spessa; osservandola più da vicino, Carmen notò che assomigliava vagamente ad una medaglia forgiata da quello che al tatto e alla vista
sembrava bronzo lucido.
Per quanto non fosse un’esperta d’antiquariato, l’oggetto le diede l’idea di un
reperto molto antico piuttosto che una banale riproduzione di qualche moneta storica appartenuta a chissà quale periodo. Avvicinò di più la lampada alogena alla moneta. Luccicava sinistra, riflettendo con uno strano gioco di colori
il candore della luce, persa tra le tracce ematiche rapprese che la imbrattavano.
La osservò socchiudendo di poco gli occhi alla luce della lampada, rigirandola
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tra le mani, cercando di captare ogni minimo particolare: sì, all’apparenza sembrava proprio un reperto antico.
Finemente cesellato con ogni probabilità a mano da un artista ignoto, dotato
di una squisita abilità incisoria, la moneta mostrava su di un lato la sagoma
perfetta in rilievo di due labbra femminili, piene e sensuali, scoperte in una
posa che ricordava un sorriso inscritto all’interno d’un cerchio di metallo lungo il quale si intravedevano a stento dei simboli appartenenti ad un alfabeto a
lei sconosciuto. Non riuscì a distinguerne bene i tratti.
Le labbra, ben visibili, si piegavano all’insù con un tocco maligno. Non era però
il sorriso che le fece correre nuovamente un brivido lungo la schiena: i denti,
incisi nella medaglia, erano acuminati, simili alle zanne affilate di un predatore, pronte a lacerare le carni della propria vittima. Bocca e denti sembravano
protesi verso Carmen.
Immobile, rimase a fissare quel sorriso, i denti, le labbra di donna, i simboli misteriosi. Sotto la luce della lampada, armata della lente d’ingrandimento cercò
di carpirne ogni aspetto segreto. Le incisioni simboliche erano state tracciate
intorno alla moneta: apparivano uniformi, rincorrendosi in una danza enigmatica. Alcune si ripetevano un paio di volte, altre sembravano più marcate,
come se il forgiatore avesse applicato maggior forza durante quel passaggio.
Soppesò il reperto con entrambe le mani: era leggero. Sul lato opposto della
medaglia non c’era nulla: la superficie era liscia, attraversata soltanto da sottilissime striature del bronzo. Qualche piccolissimo micrograffio dovuto al trascorrere del tempo ne intaccava la superficie. Perplessa, ritornò alla scrivania.
Appoggiò su di un panno sterile la moneta, afferrando un centimetro dal portapenne davanti a lei. La misurò con precisione: era larga cinque centimetri e
mezzo, spessa due millimetri circa.
In quell’oggetto sconosciuto, sentì che era racchiusa una forza strana. Impalpabile come l’aria, pronta però a trasformarsi in ben altra cosa. Non era la moneta
di per sé che la inquietava. Il suo sguardo era attratto magneticamente dai
denti affilati incisi nel metallo del monile. Tornò ad esaminare i simboli iscritti
intorno alla circonferenza; più li fissava, più si convinceva che componevano
con ogni probabilità delle parole, forse delle frasi, nascoste a tratti dalle tracce
ematiche che ne impiastricciavano la circonferenza. Di nuovo quella sensazione: le labbra e le zanne sembravano sorriderle, pronte a balzar fuori dalla
moneta.
Fissò a lungo l’oggetto, rapita dalla ricchezza di particolari. “Chissà a quando
risale…” si domandò. Riscuotendosi da quello strano torpore, decise che era
meglio repertare l’oggetto, passandolo all’analisi di qualche esperto storico
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che le avrebbe fornito elementi sostanziali in più. Sorrise pensando a che faccia avrebbe fatto Morelli alla vista dell’oggetto, lui che non credeva a niente.
Come si sarebbe giustificata? Ci avrebbe pensato in seguito: per ora era importante accertarsi sull’origine della moneta: la “donna con le zanne”, così battezzò
il reperto, nascondeva un segreto legato in qualche modo ai resti del cadavere
della donna rinvenuta sulle rotaie. Immaginò l’ispettore davanti a quelle due
labbra, alle zanne scoperte in un tenebroso sorriso; avrebbe scrollato le spalle,
ridendo, si sarebbe acceso una delle sue solite sigarette puzzolenti e avrebbe
iniziato a parlare di sesso, accennando al bel fondoschiena di una delle nuove
poliziotte in forza alla Omicidi. Con una smorfia di disapprovazione, Carmen
s’avvicinò ad un armadietto di metallo grigio attraversando per intero la sala.
Lo aprì, prendendo da una custodia un sacchetto di plastica a chiusura ermetica usato solitamente per repertare e preservare le evidenze su una scena del
crimine. Era uno dei preziosi alleati di cui disponeva il medico legale ovunque
si trovasse, sia che fosse stato in laboratorio o all’esterno.
Trattò con attenzione il reperto, facendo ben attenzione a non cancellare le
tracce ematiche; successivamente le avrebbe sottoposte in laboratorio ad
analisi biologiche e genetiche. Di certo, quel sangue, apparteneva alla vittima,
ma Carmen non voleva tralasciare nessuna strada. Come medico legale, aveva
imparato che anche il minimo errore, il più insignificante, può inficiare negativamente un’intera indagine, portando a risultati disastrosi. Infilò nella busta di
plastica la moneta. Ritornò alla scrivania e compilò l’etichetta segnandovi l’ora
del rinvenimento, l’oggetto, il giorno, il luogo e le condizioni di repertazione. In
fondo, nello spazio riservato all’inquirente, appose la propria firma.
Lo chiuse e lo depose sul tavolo a fianco dei tamponi ematici.
Sollevò lo sguardo in direzione del grande orologio rotondo con il quadrante
bianco che campeggiava sopra l’entrata della sala: le 9 e 32. C’erano ancora
due passaggi fondamentali da eseguire legati all’esame autoptico, il primo di
routine, il secondo, per i non addetti ai lavori, disgustoso.
Nel primo caso era necessario scattare alcune foto digitali dei resti della vittima, archiviandoli in seguito secondo procedura in un file apposito del database dell’Istituto; la seconda fase, la meno gradevole, prevedeva l’estrazione
delle viscere della vittima dai contenitori, esaminarle e pesarle, calcolando con
il resto del corpo la massa complessiva della vittima.
Da un cassetto della scrivania prelevò la fotocamera digitale Nikon, un ultimo
modello superaccessoriato, provvisto di teleobiettivo e flash incorporato; l’accese e controllò lo stato ottimale della memoria della slim card e delle batterie.
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Scattò d’angolazioni diverse una trentina di foto dei resti del corpo, senza tralasciare i primi piani delle lesioni al tronco, alle gambe e alle braccia.
Riservò un trattamento particolare alla testa mozzata. Era solo un’impressione,
ma a Carmen, nella luce lampeggiante del flash, gli occhi della morta sembravano brillare, animati da un rinnovato spirito vitale. Ricacciò indietro quell’immagine assurda, concentrandosi sugli aspetti medico legali più importanti ed
utili all’indagine; passò poi a scattare qualche immagine alla medaglia repertata nella busta, ottenendo dei primi piani d’entrambi i lati. Soddisfatta dei
rilievi, spense la Nikon appoggiandola sulla scrivania. Voltandosi, le mani sui
fianchi, scrutò i due contenitori sigillati quella mattina dagli obitoriali.
“Ora arriva il bello…” pensò con un sospiro rassegnato. Da sola non sarebbe
riuscita a svolgere tutto il lavoro: aveva bisogno di un assistente. Consultò una
tabella appesa al muro, leggendovi un nome stampato in grassetto in fondo
ad una lista. Era spuntato con un segno rosso e a fianco si leggeva:“disponibile
nel turno.”
Prese il ricevitore del telefono sulla scrivania e chiamò l’interno quarantasei.
La voce squillante di Giovanni Pandolfi, il giovane laureando di turno, inserito
nella lista dei tirocinanti di quella mattina, le perforò l’orecchio. Scostò di poco
il ricevitore. Parlava veloce, ogni volta che aveva a che fare con i medici legali
dell’Istituto, i senior come venivano chiamati, alzando il tono della voce, come
se pensasse che non lo sentissero o, peggio ancora, lo ignorassero.
Lo convocò subito in sala autoptica, spiegandogli cosa dovevano fare. Il giovane, rapido, raggiunse il “bunker”, ansioso di fare bella figura davanti a Carmen.
Giovanni, lievemente sovrappeso e con i capelli lunghi e scuri che si arricciavano ribelli sul collo, era entrato a far parte del recente gruppo di tirocinanti da
meno di sei mesi, ma già prometteva bene.
Vestiva come sempre sportivo: jeans scoloriti, un maglione largo di flanella
beige, camicia chiara e scarpe da tennis All-stars. Carmen lo squadrò, prendendogli le misure: da quando l’aveva conosciuto, sembrava vestito sempre nello
stesso modo, tranne per il colore diverso degli abiti di volta in volta.
“Manca di fantasia.” Pensò lanciandogli un ultima occhiata indifferente. Mentre il ragazzo si cambiava, indossando il camice verde, guanti di gomma e la
mascherina protettiva, ascoltò con attenzione le istruzioni di lei. Gli allungò
un paio di sovrascarpe di plastica isolante per evitare qualsiasi contatto con
sangue e liquidi organici: le precauzioni non erano mai abbastanza in una
sala autoptica. Accertatasi che avesse ben capito la procedura e dopo aver
indossato anche lei mascherina e sovrascarpe, afferrarono entrambi il primo
contenitore cilindrico depositandolo a terra, vicino alla bilancia elettronica di
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precisione impiegata per pesare gli organi estratti dai corpi sottoposti ad autopsia. Carmen si sarebbe occupata dell’estrazione delle viscere e della pesata
sulla bilancia, Giovanni, dietro di lei, avrebbe segnato la cifra su di un modulo
fermato alla clip di una cartelletta da lavoro. Il ragazzo, in religioso silenzio alle
sue spalle seguì tutti i movimenti di lei, senza perdersi un passaggio; Carmen
tolse con attenzione i sigilli apposti dagli obitoriali al primo contenitore e nonostante fosse protetta dal filtro della maschera, l’odore di sangue, organi e
tessuti molli la raggiunse sotto forma di un’onda soffocante.
Trattenne per un attimo il respiro, abituata da anni a quella procedura. Giovanni indietreggiò, sbuffando, strizzando gli occhi.
- Resisti, questo è niente… - commentò..
L’altro deglutì sforzandosi di rimanere impassibile a tutti i costi. Carmen affondò le mani protette dai guanti verso il fondo. Facendo bene attenzione tirò
fuori la massa viscida, bianca e gocciolante dell’intestino. Con cautela, afferrandolo con entrambe le mani, portandosi dietro una scia di sangue scolorito che
sporcò il pavimento, lo fece scivolare delicatamente sulla bilancia. Rimase per
un istante immobile, le mani sospese, scrutando il dispaly digitale. Visto così, la
massa sembrava un lungo tentacolo attorcigliato su se stesso simile a quello
di un calamaro gigante.
Giovanni, allungò il collo e lesse la cifra, spuntandola nell’apposito spazio sul
modulo.
- Fatto… - disse, scrutando di sottecchi l’intestino sulla bilancia.
Procedettero così per qualche minuto. Passarono al secondo contenitore: disposti in ordine sul fondo, Carmen pescò per primi i reni, il pancreas e parte
della milza, quest’ultima spappolata e irriconoscibile. Per ultima estrasse i resti
lacerati della vescica. Giovanni, vincendo a fatica la nausea, obbediente, annotò tutto quanto sul modulo.
“Speriamo che non mi svenga proprio adesso.” Pensò Carmen, osservando da
sopra la mascherina il viso pallido del ragazzo; sistemò con cura parte della
poltiglia che un tempo era stata la vescica sulla bilancia elettronica.
Con i guanti lordi di sangue e liquidi reflui, il camice macchiato, Carmen esaminò, uno ad uno tutti gli organi estratti dai due contenitori. Li aveva disposti in
ordine dentro ad alcune bacinelle rettangolari d’acciaio sistemate su un tavolo autoptico libero. Ordinò a Giovanni di scattare delle foto per ognuno degli
organi: le immagini si sarebbero aggiunte alla parte finale della relazione per
l’ispettore Morelli, finendo nel database dell’Istituto.
- Dobbiamo aprirlo. - Disse, indicando la massa inerte dell’intestino nella bacinella. Giovanni le allungò un bisturi, tenendo nell’altra mano la Nikon. Carmen
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afferrò lo strumento senza guardarlo, impugnandolo con fermezza nella mano
destra come la bacchetta di un direttore d’orchestra. Lenta e precisa, senza
fretta, diede il via alla nuova sinfonia: eseguì un profondo taglio laterale ad una
parte della massa intestinale, proseguendo per una decina di centimetri; aprì
i due lembi di tessuto bianco e molle, affondandovi le dita, scostando alcune
tracce fecali scure raccolte nel tratto che collegava un tempo parte dell’intestino crasso al retto. Proseguì attenta nell’operazione per qualche minuto, continuando la sua indagine invasiva in quello che un tempo, in vita, era stato il
ricettacolo delle tracce organiche della donna fatta a pezzi.
Cercò, esplorò, tagliò senza fretta. Passò con delicatezza al colon trasverso, entrando tra le pieghe di quello ascendente, risalendo lungo il discendente.
Fu la volta del tratto appartenente all’intestino cieco. Separò la sottile appendice cecale da questa parte, transitando nel suo viaggio esplorativo fino al sigma
del colon. Il suo bisturi terminò il lavoro arrestandosi ai tessuti molli dell’ileo,
parte dell’intestino tenue. L’intera operazione di dissezione ed analisi era stata seguita dai flash della fotocamera azionata da Giovanni che girava intorno
a Carmen come un ballerino, seguendo note invisibili su di un palcoscenico:
i lampi e il rumore dell’otturatore fungevano da sottofondo, riverberandosi
intorno a loro, freddi e impersonali. Entrambi, avvolti dagli effluvi pungenti di
quei resti organici, non ci badavano più.
- Ha cenato eccome… - esclamò Carmen, la voce smorzata dalla mascherina.
- Scusi dottoressa? - Giovanni smise di scattare foto, avvicinandosi incuriosito.
- Guarda. Qui… e qui. Sì, ha mangiato sicuramente molto tardi, prima di morire. Il processo digestivo non era ancora completo. Possiamo ascrivere il fattore postmortale57 intorno alle cinque, minuto più, minuto meno, alle prime
luci dell’alba. E’ un lasso di tempo apprezzabilmente significativo.- Rispose
Carmen, indicando con la punta del bisturi i resti di una pizza al formaggio e
quelli che, galleggiando come isole solitarie nel liquido organico dell’intestino,
sembravano peperoni verdi e gialli.
- Quindi può avere cenato intorno a mezzanotte? - Ipotizzò Giovanni.
- Sì, più o meno. Annotalo sui moduli per favore. Esaminando il resto dell’apparato non trovò altre tracce di cibo. Carmen passò
poi a controllare scrupolosamente gli altri organi depositati nelle bacinelle:
i reni, il pancreas e parte della poltiglia della milza, terminando con la sacca
Fattore postmortale: il tempo intercorso tra l’avvenuta morte e il rinvenimento di un
cadavere sulla scena del crimine.
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lacerata della vescica. Per ognuno si procurò dei campioni che sigillò dentro a
dei piccoli barattoli di plastica; Giovanni, sempre pronto alle sue spalle, segnò a
biro sull’etichetta di laboratorio l’entità del campione e l’ora del prelievo.
Con un sospiro di sollievo, Carmen si tolse alla fine delle dissezioni gli spessi
guanti di lattice sporchi di sangue. Li gettò nel solito contenitore destinato
all’inceneritore. Si massaggiò le mani e i polsi indolenziti, finalmente libere di
respirare. Rabbrividì di piacere quando, sotto il getto dell’acqua fredda di uno
dei lavelli in acciaio, le sciacquò. Le mani respiravano, e lei con loro.
Aiutata da Giovanni si liberò del camice verde, strappando via con un gesto
secco il velcro che lo fissava alla schiena, togliendosi infine le sovrascarpe.
Appallottolò il tutto, facendo seguir loro lo stesso destino dei guanti di gomma. Giovanni la imitò ben felice.
- Porta questi campioni e i tamponi ematici che ho prelevato dalla giacca della
vittima in laboratorio, alla dottoressa Chierici. Oltre ai test genetici sul DNA,
al gruppo sanguigno e l’eventuale presenza di fibre sospette, dille d’eseguire
anche delle analisi istologiche sui vari tessuti. Ah… aggiungi anche gli esami
tossicologici. Io intanto l’avverto che stai arrivando. - Ordinò Carmen, allungandogli i campioni repertati.
- Va bene, dottoressa. Serve dell’altro? –
- Uhmm, sì… - fece una pausa, indicando la fotocamera digitale - Quando hai
finito, per favore scarica le immagini in memoria, mettile su un cd e portamele
in ufficio, così le archivio nel database. - Altro? - Domandò, indicando gli organi rimasti nelle bacinelle.
- Direi di no. Grazie Giovanni, puoi andare. Avverto io gli inservienti di sala.
Ci penseranno loro a rimettere tutto a posto. Vai pure. Il tirocinante annuì, prendendo in consegna i campioni, il modulo allegato, la
Nikon ed uscì veloce dalla sala autoptica. Le porte automatiche si richiusero.
Guardò l’orologio sopra la porta: le 10 e 43. Il tempo era volato.
Si passò una mano sugli occhi, stanca. Pungevano come quando dormiva male
e poco, pressata da qualche indagine o dal turno di notte. Inspirò a fondo, guardandosi intorno, sospesa in mezzo ai due tavoli autoptici: da un lato giacevano
i resti mutilati della donna, sull’altro, vicino alla bilancia, le sue viscere.
Nell’aria galleggiava ancora l’odore degli organi della vittima.
Carmen all’improvviso si sentì stanca. La pervase uno stato di spossatezza
fisica che si irradiò partendo dalla testa, fino alle spalle, scendendo lungo le
braccia per avvolgere il resto del corpo.
Senza più il camice verde, si sentì nuda: quell’indumento era per lei come un
tratto distintivo. Con indosso un’elegante giacca di lana scura di Armani, sbot-
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bruxa
tonata, una sobria camicetta bianca ed un paio di eleganti pantaloni neri che
la fasciavano raggiunse la scrivania, riordinando le idee. Gli stivali neri di pelle
che portava sotto i pantaloni, erano morbidi e dal tacco comodo; d’inverno,
quando lavorava in Istituto, li preferiva alle normali scarpe da donna. Sentiva
meno il freddo dell’ambiente. Si appoggiò alla sedia della scrivania. La spossatezza, testarda, sembrava non volerla abbandonare; era come quando da
studentessa, uscendo in compagnia delle sue amiche universitarie di corso, alzando un po’ troppo il gomito, sentiva a fine serata le membra molli, fiaccate.
“Altri tempi quelli.” Pensò con un mezzo sorriso nostalgico. In piedi, con entrambe le mani si massaggiò il collo indolenzito, sospirando di piacere; poi,
afferrrò il ricevitore del telefono. Compose l’interno della dottoressa Donatella
Chierici, la responsabile del laboratorio di genetica forense.
Spiegò alla collega, asciutta e precisa, che Giovanni stava arrivando da lei per
consegnarle dei campioni da analizzare: meritavano una certa attenzione.
La informò del caso, omettendo però il rinvenimento della strana moneta addosso alla vittima.
Quando riappese il telefono, lo sguardo le cadde di nuovo sulla busta di plastica trasparente: la bocca con le zanne incise sulla moneta di bronzo continuava
a sorriderle, beffarda.
Il ricordo dello stridore di denti le ritornò in mente, potente quanto l’attrazione
perversa, irresistibile che provava per quell’oggetto. Era come la carezza della
mano di un uomo sconosciuto che nell’ombra, alle spalle, frugava senza permesso in mezzo alla sua intimità.
Ribellandosi a quella sensazione afferrò un asciugamano verde appeso alla
parete di fianco, coprendo con un gesto di rabbia la busta, come se che con
quell’atto impulsivo volesse spezzare la forza che defluiva dalla moneta.
Sempre più stanca afferrò di nuovo il ricevitore del telefono di sala; compose
il numero interno dell’ufficio degli assistenti di giornata che lavoravano con
gli obitoriali. Diede loro sbrigative e formali istruzioni su come ricomporre la
salma e gli organi rimasti in attesa nelle bacinelle. Avrebbero richiuso il tutto
in un loculo provvisorio della cella frigorifera dell’obitorio, sigillato e protetto
dentro in un sacco del body-bag, in attesa che la vittima fosse identificata dai
parenti una volta rintracciati dall’ispettore Morelli. Riagganciò il ricevitore, lentamente, diventato d’improvviso pesantissimo, come l’acciaio.
Si umettò le labbra secche, abbassando lo sguardo sul panno verde.
Chi era quella donna a pezzi sul tavolo autoptico? Come mai i suoi denti non
corrispondevano con l’avanzato stato di vecchiaia del resto del corpo?
Che cosa rappresentava quella moneta di bronzo? Erano note stonate nel
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concerto dei rilievi autoptici. Con lo sguardo fisso sul panno verde, seguendo
il corso dei nuovi pensieri, Carmen si convinse sempre di più che le risposte
dovevano risiedere proprio in quell’oggetto antico, racchiuse nel segreto dei
rilievi incisi dall’artista sconosciuto che li aveva tracciati. Scostò cautamente
l’asciugamano con la punta delle dita di una mano, quasi temendo che con
quel gesto avrebbe potuto risvegliare la bocca e le sue zanne. Afferrò la busta
di plastica, osservando ancora una volta la moneta: le labbra femminili sembravano irriderla maligne, sfidandola a cercare le risposte.
“E’ soltanto una banale moneta antica. Magari non vale nulla!” Pensò, rivestendosi di una corazza pragmatica che le ricordò il cinismo di Morelli. Negli ultimi
tempi le capitava spesso. Con un’alzata di spalle si disse che avrebbe avuto
tempo per indagare in quella direzione.
Con un gesto che volutamente rasentò l’indifferenza si fece scivolare la moneta nella tasca destra della giacca. Aveva in mente una persona a cui avrebbe
mostrato volentieri quel reperto. Forse, una volta in possesso di nuove informazioni, qualcosa di più sull’identità dell’anziana suicida sarebbe emerso.
A quel pensiero si voltò verso il tavolo autoptico alle sue spalle. Si avvicinò ai
resti sparsi del corpo sconosciuto. Diede un’ultima occhiata alla testa mozzata
della donna.
Il mondo le franò addosso, schiacciandola. Cacciò un urlo strozzato, balzando
indietro, terrorizzata. Violando ogni legge biologica conosciuta, le labbra della testa morta si mossero, piegandosi di scatto all’insù in un sorriso orrendo,
identico a quello inciso sulla moneta. La bocca tumefatta le sorrise, mostrando
al posto dei pochi denti originari che le erano rimasti due file compatte di
zanne acuminate bianche che ricordavano da vicino quelle di uno squalo; le
due lacerazioni sulle labbra si stesero come elastici, allargandosi in modo disgustoso, colando solitarie gocce di sangue.
Pietrificata dal terrore, Carmen si portò le mani alla bocca, tremando; sentì il
sangue defluirle dal viso, le gambe molli, un senso di vertigine attraversarla
dalla testa ai piedi. Paralizzata, lo sguardo inchiodato sul sorriso della testa
mozzata, trattenuta dalla ragnatela di paura che l’avvolgeva si sentì quasi venir meno: i denti affilati e minacciosi, luccicarono sotto la luce della lampada.
Il fiato spezzato in gola era stato reciso di netto come un’arteria da un bisturi
affilato.
Il cuore continuò a pompare adrenalina talmente forte che, da un momento
all’altro si aspettava che le sfondasse il petto. Un rivolo di sudore freddo partì
dal collo, strisciando lungo la spalla, perdendosi sotto la camicetta.
Immobile e congelata davanti al tavolo autoptico tenne le mani premute sulla
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bruxa
bocca con la testa mozzata che sorrideva. Non seppe mai quanto tempo trascorse prima di riprendersi, allontanando dal viso le mani.
Lentamente, come in un film al rallentatore, riprese il controllo della mente e
del proprio corpo. Deglutì la poca saliva che le rimaneva in gola. Si avvicinò di
nuovo al cadavere. Rimase a debita distanza, allungando il capo per osservare
meglio. Sgomenta, notò che tutto era tornato come prima: il sorriso affilato
che si era disegnato sulle labbra tumefatte della testa mozzata era sparito.
Il rigor mortis scolpiva di nuovo nel suo freddo abbraccio i tessuti morti, ristabilendo le leggi della natura.
Sospirò. Si stropicciò gli occhi, stravolta.
“Che cosa mi sta succedendo… cosa?“ Pensò ancora sconvolta, incapace di riordinare i pensieri.
Non poteva sopportare un minuto di più la visione di quei resti mutilati. Si
precipitò ad un armadietto, l’aprì e afferrò un telo verde. Facendosi forza, con
uno strattone lo dispiegò sul tavolo, coprendo il cadavere. Quel semplice gesto
ebbe su di lei un effetto calmante.
Improvvisamente le porte della sala frusciarono, aprendosi. Carmen sobbalzò
di nuovo. Con i nervi a fior di pelle, guardò nel vuoto della sala autoptica.
“Saranno i due inservienti che vengono a prendere il cadavere.” Pensò, fissando la
porta rimasta aperta in un perfetto rettangolo di luce illuminato dalle lampade del corridoio esterno. Nessuno entrò nella sala.
Nessuna presenza umana riscaldò l’ambiente. Fu allora che Carmen sé ne rese
conto, sentendolo incombere sopra di sé, penetrarle i vestiti, accarezzarle la
pelle. Il gelo, improvviso, dominò la scena come un primo attore. La temperatura era precipitata di colpo, talmente bassa che il fiato le si congelò in nuvolette
arricciate nell’aria. Iniziò a tremare e non soltanto per il freddo anormale.
Indietreggiò d’un passo, stringendosi le braccia al petto, per scaldarsi, per difendersi. Il respiro aumentò, ritmico, soffuso nei vapori del fiato. Il gelo aumentò, implacabile, volteggiando intorno a lei, maligno.
- Giovanni, sei tu? - Chiese ad alta voce, continuando a tenere lo sguardo puntato sulle porte sempre aperte. “Perché non si chiudono? Perché…” pensò con
una fitta di dolore nelle ossa. Era come se ci fosse qualcosa tra il corridoio e
l’entrata che impediva alle porte automatiche di richiudersi.
- Giovanni... - la sua voce tremò, riverberandosi con un eco supplichevole nella
sala delle autopsie.
Il freddo era diventato insopportabile. Continuò a tremare, le braccia strette al
corpo, quasi fuori controllo. Poi lo sentì. Un rumore chiaro e indicibile.
Più forte e penetrante si avvicinava. Acuto e sinistro, saliva d’intensità come un
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canto di morte, cullandola tra le sue braccia sepolcrali. Lo stridio dei denti divenne minaccioso, come di lame sfregate l’una contro l’altra. Ricordava quello
delle unghie strisciate sadicamente sulla superficie di una lavagna; si ripeteva
ritmico, come l’onda sinusoidale di un’oscilloscopio. Saliva e scendeva sulle
montagne russe del terrore.
Sbarrò gli occhi in direzione di quel rumore lacerante.
“Viene da fuori… è li fuori, nel corridoio.” Pensò con un singulto terrorizzato.
Il rumore scalò la curva di sopportazione.
Era come se qualcosa o qualcuno si stesse avvicinando all’entrata della sala
autoptica, strisciando nella sua direzione.
Si tappò le orecchie con le mani, premendole con forza, ma il suono continuò
ad entrare in lei, avanzando palmo a palmo. Era ovunque. Si guardò intorno,
disperata. Boccheggiò, in debito d’ossigeno. Il fiato le stava mancando.
Fissò l’unica via di fuga. La porta rimasta aperta era come uno squarcio nella
salvezza, ma oltre quel punto c’era il suono, lo stridore di denti.
“Devo uscire, devo scappare. Via… via di qui. “ Pensò con una morsa lancinante
di dolore allo sterno, piegata i due dal gelo che le mordeva le carni; scrutò oltre la porta, verso il corridoio illuminato. L’adrenalina esplose come dinamite,
dandole la forza necessaria.
Si lanciò di corsa, fuggendo oltre la porta, imboccando il corridoio, pronta a
fronteggiare qualsiasi cosa; mentre correva, a testa bassa sentì il gelo soffocarla, lo stridore di denti danzare, indeciso, intorno a lei. Si sentì sfiorare da qualcosa sulla schiena, qualcosa di duro ed acuminato. Il terrore esplose dentro di
lei come una bomba al napalm, divorandola. A quel contatto, la paura, pura e
selvaggia, le mise le ali ai piedi; resistendo con tutte le sue forze alla curiosità
bruciante di voltarsi e vedere che cosa l’avesse sfiorata, attraversò d’un fiato il
lungo corridoio bianco che portava in fondo al sotterraneo del “bunker” dell’Istituto. Un ascensore e una rampa di scale le diedero il benvenuto. Non aveva tempo per il primo: lo stridore di denti era sempre vicino, incombente alle
spalle, strappando l’aria intorno a sé.
Con un balzo disperato, ansimando, s’aggrappò al corrimano della scala, slanciandosi su per le scale, due gradini di marmo alla volta. Nella foga della corsa,
a metà del percorso perse l’equilibrio. Inciampò, annaspando nell’aria, rialzandosi con un gemito sofferente: qualsiasi cosa incedesse dietro di lei era ormai
vicinissima, doveva distanziarla, abbandonare quel luogo di terrore.
Lo stridore, animato da una forza estranea, la inseguì come un segugio. I suoi
passi affannosi echeggiarono lungo la tromba delle scale. Si sentì braccata dallo stridore dei denti e dal gelo che la lambì come un nero sudario. Con il cuore
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bruxa
in gola, sudata, il fiato corto, guadagnò infine l’uscita delle scale interne.
Spalancò violentemente la pesante porta blu dotata di un maniglione antipanico irrompendo al piano terra dell’Istituto.
Nella sua folle corsa, Carmen non si avvide del giovane inserviente, un obitoriale che stava entrando. Lo urtò con un impeto tale, che l’altro fu scaraventato
a terra, gambe all’aria. Carmen, sospinta in avanti, per non perdere l’equilibrio
s’aggrappò al maniglione della porta con tutto il suo peso; per lo sforzo sentì
i muscoli e i tendini del braccio sinistro stirarsi doloranti. Rimasero lì, per qualche secondo, entrambi sconcertati: Carmen appesa come un pesce all’amo,
l’inserviente seduto a terra, la bocca aperta per la sorpresa.
- Dottoressa Canesi... Si è fatta male? Sta bene? – Domandò l’obitoriale, rialzandosi in fretta per aiutarla.
- Sì io... sto bene, sto bene… - biascicò lei, divincolandosi dalle mani del giovane che tentavano di sorreggerla.
- Sto bene, grazie… ho solo un po’ di fretta. - Ripeté trafelata, giustificandosi
impacciata. Guardò dietro di sé le scale, terrorizzata da quello che poteva salire
da un momento all’altro, sorprendendoli. Il ragazzo, magro e con un mento
appuntito, aggrottò la fronte, squadrandola come se la vedesse per la prima
volta.
Imbarazzata, Carmen si mise a posto una ciocca di capelli neri, nel tentativo di
darsi un contegno. Salutò l’inserviente e, ancora ansimante per la corsa, senza
voltarsi indietro, a passi veloci mise più spazio possibile tra lei e le scale.
Alle sue spalle, l’obitoriale la seguì con uno sguardo più sconcertato di prima
fino a quando Carmen svoltò dietro l’angolo del corridoio. Non era certo un
comportamento degno di “Miss Sorbetto”, così l’avevano soprannominata i ragazzi dell’obitorio.
La giornata per Carmen Canesi non fu una delle migliori. Si chiuse nel suo ufficio al secondo piano dell’Istituto, rintanandosi nella calda bolla di tepore che il
piccolo termosifone incassato sotto la finestra diffondeva nella piccola stanza.
Fuori, la fredda giornata dicembrina rivaleggiava con un cielo semicoperto di
nubi in equilibrio tra la pioggia e il sereno. Milano, stretta tra i due fuochi, attendeva.
Il calore. Carmen aveva bisogno di quello, ma come la città, era indecisa se
credere o no all’esperienza terrorizzante di quella mattina. Dopo quanto era
accaduto giù in sala autoptica, il mondo aveva preso a ruotarle intorno, come
quando da bambina suo padre la portava sulle giostre ai Giardini Pubblici: la
sua preferita, al contrario delle altre femmine che sceglievano unicorni bianchi
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ed elefantini rosa, era l’auto della polizia. Girava, girava, senza fermarsi, suonando la sirena. Per un po’ resisteva, poi quel continuo vorticare le causava
puntualmente la nausea.
Sì, la nausea. Quella mattina aveva vomitato l’anima nel bagno delle donne,
la testa sopra la tazza del wc, cancellando poi ogni traccia compromettente.
Seduta alla sua scrivania, con un pessimo sapore in bocca, nel calore del suo
ufficio, lentamente ritornò alla vita.
Alle 12 e 30 ricevette la telefonata puntuale di suo marito Vincenzo.
Era un abitudinario: cascasse il mondo, il cellulare di Carmen squillava, insistente. E come di consuetudine il rito quotidiano del litigio fu celebrato con i
peggiori crismi.
Se ne guardò bene dal raccontargli quello che le era successo: come minimo
l’avrebbe presa per una pazza visionaria. Si tenne il segreto per sé.
Continuarono per un po’ la schermaglia. Frasi secche, taglienti quelle di Carmen, offensive e volgari quelle di Vincenzo.
Troncando brutalmente la telefonata cercò di concentrarsi sul lavoro. Faticò
parecchio: aveva ancora gli occhi pieni della visione terrificante della testa
mozzata che le sorrideva e nelle orecchie quell’eco, il raschiare di quei denti, il
corpo violato da un gelo inconcepibile.
Imprevisti burocratici con alcuni legali del Tribunale di Milano la costrinsero
a saltare il pranzo Poi, intorno alle 15 e 30 si recò alla consueta riunione del
lunedì pomeriggio con il direttore dell’Istituto, il professor Anselmo Pieri e gli
altri colleghi. A nessuno sfuggì il colorito pallido di Carmen, lo sguardo assente; fissando il muro della sala riunione davanti a sé, senza più ascoltare la voce
nasale e piena del direttore, Carmen scommise con se stessa che l’obitoriale,
quasi certamente, aveva già sparso la voce del suo strano comportamento.
Svogliata, seguì l’incontro che si trasformò subito in una lotta all’ultimo coltello per la decisione dei turni della settimana successiva in sala autoptica e delle
attività dell’Istituto. A Carmen toccarono quelli peggiori, ovviamente.
Alla nuova arrivata, la dottoressa Veronica Gandini, giovane e fresca di laurea in
medicina legale nonché amante ufficiosa del professor Pieri, i migliori.
A fine riunione, ognuno dei presenti, in silenzio, chi lieto, chi imbronciato ritornò ai propri uffici e nei laboratori.
Carmen si trascinò fino alla macchinetta del caffè, servendosene uno lungo
e amaro. Camminò apatica sorseggiando la bevanda nera e fumante senza
nemmeno sentirne l’aroma. Raggiunto l’ascensore salì al secondo piano, portandosi in direzione del suo ufficio, in fondo al corridoio, situato nell’ala meridionale dell’edificio. Durante il tragitto incrociò gli sguardi perplessi di alcuni
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bruxa
colleghi: si sentì come un’aliena, un’estranea in terra straniera. A capo chino,
senza salutare, si richiuse con un gesto secco la porta alle spalle. Sola. Doveva
rimanere sola per un po’, cercando di riprendersi dallo shock senza destare
troppa curiosità. Quella faccenda cominciava a sfuggirle di mano. Scivolò sulla
poltrona dietro la scrivania, il bicchiere del caffè stretto nella mano destra. Solo
allora se ne rese conto, fissando la superficie liquida del caffè nero: tremava
come una foglia.
Rinchiusa nel suo ufficio lavorò con accanimento: era come presidiare una specie di avamposto dal quale poteva difendersi dalle invidie degli altri colleghi.
Ma soprattutto l’aiutava a dimenticare, dimenticare l’orrore della mattina.
Si era sciolta i lunghi capelli neri, morbidi e lisci che ora le ricadevano sulle
spalle. Per aumentare il distacco dal mondo esterno aveva indossato il suo camice bianco, sbottonato sul davanti. Giovanni le portò di persona il cd sul quale aveva scaricato tutte le immagini presenti nella memoria nella fotocamera,
scattate quella mattina in sala autoptica. Inserì il cd nel lettore laterale del pc
portatile, copiando diligentemente le foto in alta risoluzione in formato Jpeg
dentro alle cartelle delle autopsie del mese corrente.
Creò poi una nuova cartella nominandola “Anziana Metropolitana-Smembramento”, aggiungendo la data d’avvio delle indagini, facendo riferimento al numero progressivo di serie segnato sulla copia del fascicolo che Morelli le aveva
fornito quel giorno, corredato di tutti i rilievi esperiti dalla Scientifca sulla scena del crimine. Passò ad una seconda fase del suo lavoro.
Seduta alla scrivania davanti al computer portatile, con un paio di occhiali dalla montatura elegante e dorata infilati sul naso, le lenti ovali, iniziò a scrivere il
rapporto autoptico per l’ispettore Morelli. Gli occhi color nocciola seguivano
rapidi il cursore di Word, da sinistra verso destra: materializzava, parola dopo
parola, i suoi pensieri, imprimendoli con lucidità sulla pagina bianca a video.
Le era sempre riuscito facile scrivere, tanto che la rivista italiana di Medicina
Legale l’annoverava tra i suoi collaboratori più prolifici; anche per questo forse,
i colleghi, uomini e donne indistintamente, la invidiavano.
Questi ultimi, incapaci di spingersi al di là del proprio lavoro, sembravano
non coltivare affatto il gusto della cultura a tutto tondo, delle arti, delle lettere,
rattrappiti su se stessi, gelosi di coloro che riuscivano anche in altre discipline. Carmen, al contrario, quando poteva, s’immergeva in quei bagni di conoscenza: alimentavano e pulivano l’anima. Fece una pausa. Premette il selettore
di stop del suo iPod, interrompendo le melanconiche note del pianoforte di
Wilhelm Kempff, impegnato nell’esecuzione struggente della sonata N°14,
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opera 27 di Beethoven, più familiarmente conosciuta come Sonata al chiaro
di luna. Era il suo rito privato. Dopo ogni autopsia ascoltava un brano di musica classica, seduta nel suo studio, intenta a scrivere il rapporto: Mozart, Bach,
Brahms, Beethoven, Maler, Abinoni, Vivaldi, Orff, Litz erano soltanto alcuni dei
suoi compositori preferiti. Altre volte passava alla lirica, perdendosi nelle immortali opere di Verdi, di Puccini. Questi autori e la loro musica immortale l’aiutavano a tener lontane le ombre della morte: ogni caso, ogni cadavere aveva
la sua esecuzione personale, una colonna sonora che accompagnava la vittima nel viaggio finale: dal tavolo autoptico al rapporto finale per il magistrato.
Per quella della donna mutilata, quel giorno, optò per Beethoven; in particolar
modo l’esecuzione al pianoforte di Kempff. Le note del piano l’avevano cullata. Suonata al chiaro di luna la commuoveva sempre, facendola sentire ancora
viva in tutto quel gelo. Con un gesto automatico si tolse le cuffiette bianche
dalle orecchie. Fissò con occhi vacui il video del portatile.
Si era gettata nel lavoro, rimuovendo inconsciamente il problema, nascondendolo tra le pieghe della mente, come un’anticaglia da celare allo sguardo curioso del mondo, dentro ad una scatola polverosa di ricordi indesiderati.
La razionalità pragmatica che da sempre la contraddistingueva le impose di
respingere ad ogni costo ciò che era accaduto giù in sala autoptica; il ricordo
violento, per quanto tentasse di ricacciarlo nel pozzo dell’indifferenza, risaliva
blasfemo le pareti, irrompendo di nuovo all’esterno.
“Le teste mozzate non sorridono!” Si ripeté ossessivamente, lasciandosi andare
contro lo schienale della poltrona.
Fissò la mela verde che si era portata da casa appoggiata sulla scrivania.
Nonostante non avesse ancora mangiato, lo stomaco era chiuso per la tensione. Spense il computer portatile con fare disgustato: la relazione per l’ispettore Morelli poteva aspettare. Si conosceva fin troppo bene. Una volta giunta a
quel punto non sarebbe riuscita a scrivere nulla di sensato. Tanto valeva fare
una pausa. Ruotò con un cigolio sulla poltrona, ammirando la piccola libreria
in metallo lievemente sbilenca agganciata al muro alle sue spalle: straripava
di libri e pubblicazioni forensi, italiane e straniere. Nel ripiano più basso, per
evitare un carico eccessivo sulle assi metalliche, Carmen aveva sistemato la
ponderosa raccolta rilegata della rivista nazionale di Medicina Legale.
In quello spazio compresso era riuscita a far entrare dieci anni di pubblicazioni;
per ogni periodo aveva scelto accuratamente un colore diverso delle copertine
che rilegavano le collezioni. Rosso, verde, blu, nero, ocra: le cromie risaltavano,
facendo bella mostra di sé. Si alzò, togliendosi il camice bianco, appendendolo
ad un pomo di legno dietro la porta; nonostante il freddo di dicembre che
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bruxa
imperversava all’esterno, Carmen aveva bisogno di schiarirsi le idee. Era dalla
mattina che non metteva il naso fuori dall’Istituto e un diversivo ci stava.
Un lungo giro dell’isolato l’avrebbe aiutata. Trasalì: soltanto allora si ricordò
della moneta misteriosa. Prese a respirare più veloce, la gola nuovamente secca. Con esitazione l’afferrò tra l’indice ed il medio, traendola lentamente dalla
tasca destra della giacca.
Deglutì, fissando di nuovo la moneta contenuta nella busta di plastica trasparente. Chiuse gli occhi per cancellare quell’incubo. Li riaprì: l’oggetto era
sempre lì, nel palmo della mano destra. Il sangue che lo impiastricciava si era
ormai coagulato, scuro, aderendo alla plastica della busta disegnando strane
forme. Sospirò, incredula per quella stupida dimenticanza: avrebbe dovuto
mandarlo in laboratorio, sottoporlo ad analisi approfondite e, una volta ripulito, mostrarlo a qualche esperto di storia o numismatica. A questo proposito
aveva in mente qualcuno che conosceva bene, anche se il rivederlo avrebbe
complicato non poco le cose tra loro.
Lo soppesò nel palmo della mano.
Serrando le labbra in una sottile fessura tornò alla scrivania ricoperta di cartelle investigative, foto di cadaveri sezionati impilate in ordine di tempo, libri vari
di criminologia e scienze forensi, riviste scientifiche: in quel caos apparente,
spuntavano a macchie distribuite ovunque, una selva multicolore di biglietti
colorati post-it adesivi, utili memo per il lavoro di Carmen. Si guardò intorno: il
suo ufficio, una stanza quadrata di sei metri per sei, le parve ad un certo punto
anonimo, un luogo strano. Tutta quella faccenda era assurda: la stava trascinando negli angoli oscuri di un labirinto. Chi c’era dentro? Cosa custodiva il
cuore nero che pulsava al centro di quella intricata rete?
Fissò con occhi appannati un poster plastificato a colori della Columbia University; era un gradito regalo di un gruppo di criminologi americani conosciuti
un anno addietro a Chicago, durante il convegno dell’American Academy Forensic Science. La stampa, un rettangolo coloratissimo, campeggiava sulla parete a sinistra della sua scrivania in tutto il suo macabro fascino: mostrava una
minuziosa ricostruzione in rilievo dell’apparato muscolare umano, disegnata
con perizia artistica, tanto che rasentava il realismo in modo impressionante.
Quando l’aveva ammirato per la prima volta, era stato come osservare una
perfetta opera d’arte anatomica, dettagliatissima, preziosa per il suo lavoro.
A fianco del poster, più in basso, sostenuto da quattro puntine colorate infisse
nel muro bianco, un pannello di sughero quadrato sorreggeva una selva di
fogli, moduli investigativi, l’elenco degli interni dell’Istituto, biglietti da visita,
appunti, un calendario con immagini di cani e gatti, foto di gruppo scattate
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ai convegni mondiali di Medicina Legale ai quali Carmen aveva partecipato.
In quello spazio così ridotto si concentrava la sua vita, appesa, giorno dopo
giorno, come un trofeo di caccia che si rinnovava man mano che il tempo passava.
La perfetta riproduzione in scala 1:1 in resina di un teschio umano, liscio e
bianco, troneggiava sulla scrivania a fianco del computer portatile usato da
Carmen come fermacarte; sembrava rivaleggiare con il suo colore cinereo con
quello verde e brillante della mela. La morte e la vita, insieme. Il ghigno perentorio del teschio ricordava a chiunque entrasse in quel quell’ufficio l’ineluttabilità della morte.
Il pensiero la portò di nuovo alla moneta misteriosa, alla testa mozzata della
donna anziana, allo stridore di denti, una triade che non smise di tormentarla.
Con un sospiro sofferente, consultò il sottile orologio di marca francese che
portava al polso, unico regalo degno di valore di suo marito Vincenzo: segnava
le 17 e 32. Fuori il sole di dicembre era scivolato silenzioso e triste sotto l’orizzonte, cedendo il passo alle prime ombre della sera. Lanciò una veloce occhiata fuori dalla finestra che si apriva nella parete di destra; affacciata dietro i vetri
che iniziavano ad essere un po’ troppo sporchi, notò che il vento della giornata
aveva lavorato duro: batuffoli spessi e grigi di nubi si erano raggrumati come
matasse di zucchero filato nel cielo di Milano. Alla fine, l’indecisione della città
parlava di pioggia.
Appoggiò lo sguardo in basso, in direzione del giardino interno dell’Istituto.
Le cime degli alberi si muovevano deboli, agitando le punte frondose ormai
prive di foglie come un mare ricoperto di alghe: quel ritmo oscillante, ipnotico,
le suggerì l’idea di una danza silenziosa al seguito di una musica invisibile.
“Chissà quanta gente hanno visto passare di qui in tutti questi decenni… loro sono
ancora vivi, le persone no.” Pensò, appoggiandosi con una spalla allo stipite della finestra. Alcuni rami secchi le ricordavano delle mani scheletriche protese
verso il cielo, imploranti un’assoluzione divina. Carmen rimase lì a fissarli per
un po’ dimenticandosi del suo giro all’esterno, della moneta, della relazione
per Morelli, di suo marito.
C’erano soltanto il vento e le cime degli alberi la fuori. Il suo cellulare squillò
acuto e sgradevole, riportandola alla cruda realtà. Doveva cambiare la suoneria: quella di serie non le era piaciuta mai un granché. Appoggiò la busta con la
medaglia vicino al teschio: facevano una bella coppia insieme.
Il cellulare continuò imperterrito a richiedere la sua attenzione. Guardò il display a colori che lampeggiava con un numero e il nome associato.
Lo conosceva fin troppo bene.
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bruxa
Sbuffando, prese il cellulare, indecisa se rispondere o no; l’apparecchio continuò a trillare petulante, solleticandole il palmo della mano destra con il suo
vibra call.
- Morelli... - pronunciò il cognome come se stesse andando al patibolo. Aveva
sperato che fosse suo marito che si scusava per l’ennesima lite telefonica.
Non l’aveva mai fatto e non avrebbe iniziato ora.
“Stronzo!” Pensò con rabbia, rivolgendo l’insulto al marito. Non era da lei, ma
d’un tratto ebbe voglia di bere qualcosa, qualcosa di forte, d’alcolico, che la
stordisse, che allontanasse da lei quella fottuta suoneria del cellulare. Con un
gesto secco del pollice destro, quasi stesse schiacciando uno scarafaggio, inserì il segnale di occupato nel cellulare. Lo spense definitivamente, troncando
i contatti con il mondo esterno.
- Vaffanculo anche tu! - Sibilò astiosa. Si sedette di nuovo alla scrivania, accavallando le gambe, fissando lo schermo nero del portatile, quasi in contemplazione di un oracolo divino.
Frugò nella sua borsa di pelle nera, trovando quello che cercava: una piccola
agendina rossa fermata da un elastico. L’aprì e cercò sotto la lettera D.
L’elenco era modesto, la ricerca brevissima.
Afferrò il ricevitore del telefono sulla scrivania. Compose il numero con relativo
interno del Dipartimento di Storia dell’Università Statale di Milano.
Una voce maschile annoiata rispose al terzo squillo.
- Dipartimento di Storia, buonasera. - Un tono neutro, distante, trapelò dalla
voce dell’uomo all’altro capo del telefono.
- Nicola, sono Carmen... ciao. Disturbo? - Domandò simulando entusiasmo.
L’altro, all’udire la sua voce si riprese, cambiando subito tono di voce
- Oh, ciao cara! A cosa debbo l’onore di questa chiamata? Hai forse deciso sulle
cose che ci siamo detti l’altro ieri sera? Sai, lo confesso, ti ho pensata molto in
queste due notti… - la voce era diventata d’improvviso melliflua, provocante.
Alludeva a molte cose.
Nicola Di Meo, storico e responsabile della biblioteca presso il Dipartimento di
Storia dell’Università Statale di Milano, cullava nella sua anima egocentrica di
maschio latino, la vanità suprema che Carmen fosse perdutamente innamorata di lui, che insoddisfatta del marito lo avrebbe scelto; la cosa era resa ancor
più stuzzicante per Nicola dal fatto che, secondo i normali canoni che regolavano il tipico gioco di rimpiattino femminile, lei gli sfuggisse.
Anche se erano finiti a letto soltanto una volta per Nicola bastava: ricordando
la passione che li aveva travolti quella notte, l’ansimare stravolto di Carmen,
nuda sotto di lui, secondo il suo personalissimo punto di vista confermava la
314
teoria.
Per Carmen le cose stavano diversamente: era stato un diversivo alla routine
matrimoniale o qualcosa, dentro di lei, si era spezzato? Prima di allora non aveva mai tradito suo marito Vincenzo. In colpa, confusa, si era tenuta a debita
distanza da Nicola, nonostante ne fosse attratta fisicamente, quasi in modo
selvatico. Il gioco sentimentale tra loro si era trasformato come in una caccia:
prima o poi, Nicola l’avrebbe avuta di nuovo.
Si scambiarono dei convenevoli, poi Nicola partì al contrattacco:
- Dobbiamo vederci al più presto…- fece una pausa calcolata all’altro capo
del telefono - Secondo me ti sei resa conto dello sbaglio che hai fatto con tuo
marito. - Carmen lo immaginò sorridere seduto alla sua scrivania, la camicia
bianca sbottonata in modo informale. Si irrigidì a quell’immagine. Non poteva
perdere il controllo proprio ora, cedere ai suoi istinti di donna. Deglutì.
- No, ti sbagli. Non è per questo. - Lo congelò con voce ferma, poi sospirò - Ho
bisogno della tua consulenza come storico. Ci possiamo vedere verso le 19 e
30 al solito posto? - Domandò Carmen, nervosa.
La mano che reggeva il ricevitore iniziò a sudare: quella richiesta implicava
molte altre cose. Fissò il teschio appoggiato sulla sua scrivania: immaginò la
testa che Nicola si teneva perennemente rasata tutto l’anno. In più di una occasione quando era andata a trovarlo in università, aveva notato le occhiate
d’apprezzamento che alcune studentesse gli lanciavano, complice la rasatura
all’ultima moda. Più che ad uno storico e bibliotecario, Nicola assomigliava ad
un giocatore di rugby.
- Allora? - Domandò Carmen non avendo ottenuto risposta.
Lo sentì sospirare sconsolato. Rispose con fare annoiato, deluso. Era ritornato al
tono con il quale aveva esordito rispondendo al telefono:
- Sì, va bene. Di che cosa si tratta? - Sbuffò - Fammi capire: cosa c’entra un
medico legale con la storia antica? - A dire il vero non lo so nemmeno io, ma è di estrema urgenza. Te lo ripeto, è
meglio che ci vediamo di persona. Sarà tutto più chiaro. Ho qualcosa da mostrarti... - lasciò volutamente in sospeso la frase cercando di stuzzicare l’interesse professionale di Nicola, ma le parole di Carmen, come sempre, furono
volutamente fraintese dall’altro:
- Che cosa in particolare? Licra, seta o pizzo? - Il tono era tornato di nuovo caldo, allusivo, carico di sottintesi sessuali.
- Nulla di ciò a cui stai pensando - mise in chiaro, gelidamente - Allora ti va alle
19 e 30 o preferisci più tardi? Come sei messo in università? - La voce di Carmen vibrò piena d’ansia. A Nicola non sfuggì.
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bruxa
- Okay, va bene. Se è così importante ci vediamo al solito posto. Alle 19 e 30 è
perfetto, tanto oggi non abbiamo granché lavoro. A dopo. Riagganciato il telefono, Carmen si lasciò cadere contro lo schienale della poltrona, allungando le gambe, le braccia abbandonate sui braccioli della sedia. Si
sentiva rattrappita per la tensione accumulata, al punto che il sangue sembrò
rallentare la sua corsa nelle arterie. Socchiuse gli occhi, respirando lenta, sforzandosi di non pensare a nulla. Fece qualche esercizio con il collo, ruotando
delicatamente la testa in senso orario: le prime vertebre scricchiolarono obbedienti. Accese di nuovo il computer portatile, riprendendo a scrivere la relazione per l’ispettore Morelli, concentrandosi sui dati autoptici del cadavere della
donna smembrata. Aggiunse al file le foto dei rilievi scattate quella mattina,
premurandosi d’allegare per ognuna le note tecniche medico legali.
Salvò il file di Word. Stava per procedere alla descrizione delle entità delle lesioni quando qualcuno bussò alla porta del suo ufficio, tre colpi secchi, impazienti.
- Avanti. Carmen sollevò la testa dalla tastiera del portatile, guardando in direzione della porta davanti a sé.
La dottoressa Donatella Chierici responsabile del laboratorio di genetica forense situato al piano sopra, entrò reggendo tre cartellette colorate porta documenti.
- Ciao Donatella. - La guardò da sopra la montatura dorata dei suoi occhiali.
- Ciao… - rispose asciutta l’altra, avvicinandosi alla scrivania.
La Chierici, più giovane di qualche anno di Carmen, alta, indossava anche lei
un camice bianco sotto al quale spuntava una gonna viola portata sopra il
ginocchio con dei sottili spacchi laterali. Le gambe magre erano avvolte in un
paio di calze nere, velate; una camicetta bianca sbottonata all’altezza dei seni,
mostrava di poco l’ombra ammiccante di un reggiseno di pizzo blu scuro.
Ai piedi calzava un paio di scarpe eleganti di vernice nera alla moda con il
tacco. I capelli biondi, tagliati a caschetto, incorniciavano il bel viso, risaltato da
un rossetto rosso fragola e da un make-up da manuale. Gli occhi scuri, attenti e
indagatori, mostravano una sottile linea nera che ne sottolineava il colore.
“Ma questa va così a fare i sopralluoghi su una scena del crimine?” Si domandò
Carmen, scrutandola mentre appoggiava i fascicoli sulla scrivania. Perplessa,
afferrò la prima cartelletta, la blu, leggendone il contenuto.
- Siediti pure… - la invitò, gli occhi fissi sul documento.
- No, grazie, ho poco tempo - rispose formale la Chierici, sprofondando le mani
nelle tasche del camice, i pollici all’esterno - Sono i risultati delle analisi di la-
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boratorio che hai richiesto questa mattina sui campioni organici prelevati alla
donna sconosciuta ritrovata sulle rotaie della linea due per Cologno Nord.
- fece una pausa, aspettando che Carmen intervenisse, poi vedendola presa
nella lettura del rapporto, proseguì asciutta:
- Nella cartelletta blu trovi tutti gli esami genetici che ho eseguito personalmente: quello relativo al gruppo sanguigno della vittima, un Rh A+ oltre al test
sulla presenza di eventuali fibre sospette sul cadavere. Non ho riscontrato nulla d’anomalo. - Si fermò notando lo sguardo attento di Carmen nuovamente
puntato su di lei. La scrutò oltre gli occhiali, sempre più convinta che con una
gonna viola di quel tipo fosse fuori luogo recarsi su un sopralluogo.
Non le fu difficile immaginare i volti allusivi dei giovani agenti di Polizia.
- Continua. - Disse Carmen, richiudendo la cartelletta.
La Chierici, per nulla scoraggiata dal tono freddo di Carmen, proseguì:
- Per quanto concerne gli esami tossicologici li trovi nella cartelletta verde.
Sono divisi per categorie e sostanze. Anche in questo caso nulla da segnalare:
non faceva uso di stupefacenti di qualche tipo. E’ pulita come un angioletto. - Ci credo, era una donna anziana. - Commentò Carmen, richiudendo di scatto
la cartelletta blu.
- Beh… ecco… - la genestita s’umettò le labbra, facendo luccicare ancor di più
il rossetto rosso. Indecisa, quasi imbarazzata, si tolse le mani dalle tasche, cercando le parole giuste. Si sistemò una ciocca di capelli biondi via dalla fronte.
- Cosa? - Domandò Carmen, all’improvviso sul chi va là. Si sporse in avanti.
- Non so come dirtelo Carmen - abbozzò un sorriso forzato - Tu hai scritto nei
moduli che il corpo della vittima, stando al primo sopralluogo esperito dalla
Scientifica, appartiene a quello di una donna anziana, di età stimata intorno
agli ottant’anni, giusto? - Sì, e con questo? - Se leggi attentamente il referto delle analisi del laboratorio d’istologia nella
cartelletta rossa, scoprirai che non è così. Abbiamo mandato loro le strisciate
dei campioni che hai prelevato dalle viscere del cadavere, beh… insomma, risulta che la vittima non era affatto una donna anziana di quell’età. - Fece una
pausa, inarcando le sopracciglia, come per scusarsi - Il tasso d’invecchiamento
cellulare dei tessuti prelevati parla chiaro: il tuo cadavere non ha ottant’anni.
Era molto più giovane quando era in vita. - Che cosa? Non è possibile… - esclamò Carmen, balzando in piedi.
- E’ così. Controlla tu stessa i dati nel rapporto. Parla con i tecnici del laboratorio
d’istologia. Anche loro sono rimasti sorpresi. Per scrupolo abbiamo ripetuto la
batteria di test delle analisi una seconda volta: stesso risultato. Dentro alla re-
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bruxa
lazione trovi anche le foto scattate alle strisciate dei tessuti in luce polarizzata
ottenute con il microscopio elettronico a scansione. - Spiegò laconica, sistemandosi distratta un bottone della camicetta.
- Sei sicura che non abbiano sbagliato? - Sono sicura, sì. - Annuì, con fare quasi offeso.
Era incredibile: il corpo della donna appariva come quello di una vecchia, ma i
suoi organi, quelli rimasti intatti, parlavano di un individuo più giovane.
- E’ stata stimata l’età? - domandò sconcertata.
- Naturalmente sì - annuì la Chierici con orgoglio - Abbiamo stimato che, visti
i risultati di laboratorio ottenuti e le condizioni in cui versavano gli organi, la
vittima potesse avere avuto al momento del decesso non più di venticinque,
forse trent’anni. - Venticinque… trent’anni… - ripeté Carmen, togliendosi gli occhiali, lentamente.
- E’ una stima, certo, ma entro le curve d’attendibilità biologica. Le genetista forense elencò una serie di dati tecnici a supporto di quella scoperta, senza avanzare però alcuna soluzione a quell’anomalia biologica.
Impersonale com’era entrata, la Chierici si congedò uscendo dall’ufficio.
Carmen, in piedi davanti alla scrivania, scrutò la cartelletta rossa del laboratorio d’istologia: dentro c’era il bandolo della matassa.
“Come è possibile? Come posso avere sbagliato… eppure anche la Scientifica è
giunta alla mia stessa deduzione. Incredibile!” Pensò, sedendosi.
Iniziò a leggere il rapporto istologico. Immersa tra freddi dati scientifici e correlazioni biologiche, in lei si fece spazio sempre di più la convinzione che la causa
di morte della donna fosse da correlare con quella dannata moneta. Certo, non
aveva alcun senso, ma alla luce degli ultimi eventi sembrava una strada percorribile. Omise d’inserire questa nota personale nella relazione per Morelli.
Scrutò la moneta davanti a sé, all’ombra del teschio.
Il sorriso ghignante e le zanne contraccambiarono il suo sguardo perforando
la sottile barriera protettiva della busta di plastica.
Carmen si avviò a passi rapidi verso l’insegna gialla e rossa del locale, stringendosi nel cappotto di lana nera che la proteggeva dal freddo della sera invernale. Migrò verso quella luce come una falena in cerca di speranza. Sul marciapiede, davanti all’entrata sfidando il gelo della sera, un gruppo di ragazzi e
ragazze del vicino Politecnico in Città Studi, reggendo bicchieri colmi di Coca
e Rum, fumavano spensierati, ridendo e parlando. Stringendo la borsa nera in
una mano, Carmen attraversò disgustata e a testa bassa la bolla irregolare di
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fumo che gravitava in sospensione sopra il gruppetto dei giovani. Era grata
alla legge contro il fumo nei locali, ma qualche recidivo, come sempre faceva
eccezione.
Una volta dentro al locale, si bloccò, avvolta da un delizioso tepore, scrutando
il mare di teste e corpi che formavano la fauna umana del Carlito’s Way, una
giungla di divertimenti poco lontano dall’Istituto di Medicina Legale, aggrappato all’angolo tra la zona di Città Studi e piazzale Gorini, terreno frequentato
per la maggior parte da studenti e giovani professori in cerca di distrazioni.
Lo conosceva bene il Carlito’s Way. Era stato il loro primo punto d’incontro,
l’anello della liaison che li legava, volenti o nolenti. L’aveva portata lì la prima
volta che erano usciti insieme e lì l’aveva baciata. Il resto della notte era proseguito tra le lenzuola, nel letto di lui. Abbassò lo sguardo, arrossendo.
Con le luci soffuse in stile festa messicana, il locale pulsava di un’atmosfera
spensierata, ravvivata dalle note di un brano rock, Before I’m Dead, melodico e
graffiante, suonato con grinta dal gruppo americano dei Kidneythieves.
La voce del solista, roca, martellante, sembrava ribalzare come un’entità astratta da un tavolo all’altro uscendo dalle piccole ma potenti casse dell’impianto
hi-fi, sferzando d’energia gli avventori. Alcuni ragazzi, in un angolo, parlando e
ridendo ad alta voce, seguivano il ritmo della canzone, dondolandosi, trangugiando la birra direttamente dalla bottiglia.
Con le mani ancora infreddolite e affondate nelle tasche del morbido cappotto di lana, Carmen lo cercò con occhi preoccupati: nonostante la gioia e la
spensieratezza del luogo, si sentì fuori posto, nuda davanti a degli estranei.
Quella massa multiforme ed eterogenea di studenti universitari, giovani docenti mischiati a scansafatiche figli di papà fuori corso che bazzicavano puntualmente la zona di Città Studi, l’aveva sempre intimidita ed infastidita al tempo stesso.
“Forse non è stata una buona idea trovarsi qui…” pensò scrutando tra folla, in
mezzo ai tavoli gremiti.
Avanzò, scansando le cameriere che, velocissime, sciamavano come api operose tra i tavoli e il bancone con le ordinazioni, trasportando sui vassoi rotondi
spuntini e bevande. Era l’ora canonica dell’happy hour. Cercò il viso di Nicola
Di Meo nella ragnatela dei corpi già su di giri per i cocktail alcolici ingurgitati.
Lo vide in fondo al locale, seminascosto da una pianta di ficus, poco lontano
dalla porta di un bagno, seduto ad un tavolo incuneato tra una compagnia di
ragazze e ragazzi e la parete alla sua sinistra. La testa rasata, riluceva sotto un
faretto arancione appeso sopra la pianta. Il suo corpo avvolto nella luce infondeva ad esso un aspetto vagamente diabolico. Carmen abbozzò un mezzo
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bruxa
sorriso, sollevata: almeno non avrebbe dovuto aspettarlo da sola a un tavolo
come l’ultima volta, respingendo i tentativi d’abbordaggio di una coppia di
studenti brufolitici.
Detestava i ritardatari. Nicola non faceva eccezione.
Attraversò lo spazio che la separava dal suo tavolo. Girò dietro la pianta di ficus,
piazzandosi all’improvviso davanti a Nicola come un’apparizione.
- Ciao, come stai? - Gli porse la mano destra, seria.
- Ciao… - rispose sorpreso, alzandosi, baciandola con fin troppo trasporto su
una guancia, stringendo la sua mano calda in quella fredda di Carmen.
Aggiunse:
- Sto bene, benissimo ora che ti vedo. Accomodati, prego. - Sorrise con fare
sornione, gli occhi azzurri piantati in quelli nocciola di lei.
L’aiutò a togliersi il pesante cappotto nero che Carmen ripiegò su una sedia
lì accanto. Si accomodò un po’ rigida, tenendo la borsa stretta sulle ginocchia
come se temesse un furto da parte di qualche ladro.
Il contenuto era troppo spaventoso per smarrirlo.
Nicola la scrutò continuando a sorriderle, esaminando ogni centimetro del suo
corpo: il viso, i capelli neri lunghi e sciolti sulle spalle, le labbra pulite senza un
filo di trucco, i suoi ansiosi occhi color nocciola; scese dalla giacca sbottonata
fino ai pantaloni, risalendo, soffermandosi infine sulla camicetta bianca all’altezza dei seni. Sotto quelle schegge azzurre che la spogliavano, Carmen si sentì
nuovamente nuda, priva d’ogni difesa. Arrossì in imbarazzo. Per tutta risposta
lo guardò, sorridendogli a sua volta, timida.
Perché faceva fatica a scrollarsi di dosso quello sguardo penetrante? L’osservò:
Nicola, vestito con un maglione nero a girocollo, stile lupo di mare, portava dei
pantaloni di lana blu e scarpe invernali nere, lucide. Il fisico era quello di sempre: tenuto in forma dalla palestra, le spalle larghe come un’atleta.
Il paragone con il rugby calzava alla perfezione. Quelle spalle alle quali si era
aggrappata per una sola notte l’attraevano, rendendola debole e indifesa: era
come se, fuori dalla palizzata protettiva dell’Istituto di Medicina Legale, il suo
autocontrollo si disintegrasse.
Il lavoro, solo il lavoro le dava una certa stabilità, puntellando la sua vita.
Si sistemò nervosa una ciocca di capelli dietro un’orecchio; parlarono un po’ di
lavoro, come due buoni amici.
“Ma tu non vuoi rimanere soltanto un mio amico…” pensò Carmen, seguendo
rapita il movimento delle labbra piene di lui, turbata al ricordo di come le aveva usate sul suo corpo quella notte, dolcemente adagiato sui seni, scivolando
in mezzo alle sue gambe schiuse come un bocciolo.
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Le sue fantasie furono interrotte dall’arrivo al loro tavolo di una cameriera
grassoccia e sudata, le gote arrossate per la fatica. Ordinarono qualcosa da
bere e da mettere sotto i denti: Nicola optò per un Manhattan, Carmen dirottò
le sue voglie verso un Margarita classico. La cameriera tornò poco dopo con le
ordinazioni sopra un vassoio, depositando in mezzo a loro due piatti ricolmi di
tartine e stuzzichini vari, aggiungendo poi una ciotola di chips e una coppetta
di salsa chili piccante come completamento. Due drink atterrarono davanti a
loro. Nicola pagò la ragazza che, risucchiata nella confusione, sparì nell’oceano
di corpi accaldati.
Carmen sorseggiò pensosa il suo Margarita, assaporando sulle labbra la secca
fragranza mischiarsi con i cristalli di sale depositati come una mezzaluna di
ghiaccio sul bordo della coppa. Mentre Nicola parlava a ruota libera del lavoro
in università, della responsabilità che si era accollato assumendo la direzione
della biblioteca universitaria del dipartimento di Storia Antica, Carmen, tra un
sorso e un altro, tra una tartina al prosciutto ed una ai gamberetti guarniti
da una pellicola di gelatina in salsa cocktail, lesse i messaggi incisi al centro
del tavolo di legno: c’erano nomi italiani e stranieri, frasi oscene, improbabili
dichiarazioni d’amore, cuori trafitti da frecce, richiami sessuali di varia natura
accompagnati da numeri di cellulari. Concludevano, immancabili, parolacce
ed insulti. Era un coacervo d’umanità sparsa sulla superficie di un tavolo, messaggi lanciati come bottiglie nel mare della vita, vita che entrava ed usciva
come onde di marea dal Carlito’s Way.
Si spegnevano sui frangiflutti dei tavoli, nella speranza di colpire l’attenzione
di qualcuno.
Lesse la scritta: “Bella, bionda, caldissima… ti aspetta a questo numero 333…” a
fianco, un’altra frase accompagnata da un cuore tremolante “Anny, sei la mia
luce. Ti amo per sempre!” D’istinto si portò l’indice e il pollice sulla fede nuziale
d’oro infilata all’anulare sinistro; ci giocò soprapensiero, seguendone la circonferenza liscia e lucida. Quel metallo così importante la imprigionava, legandola
ad un destino al quale non aveva la forza di ribellarsi. Con un’unica sorsata,
decisa, ingollò il resto del Margarita. L’alcol scese dentro di lei, scaldandola per
la prima volta, arrossandole il viso pallido.
- Ehi, ciccina… vacci piano con quello. - Le disse Nicola, interrompendo il noioso racconto. Carmen lo fissò cupa in viso, la mascella contratta.
A Nicola il sorriso gli si spense sulle labbra. Proseguì con il suo Manhattan, sorseggiandolo lento e calcolato. Le domandò:
- Allora, che cosa c’è di così importante per non dirmelo al telefono? Segreto di
stato? - Tagliò corto, squadrandola con i suoi occhi azzurri.
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bruxa
- Nessun segreto di stato - esordì Carmen, percorsa da un brivido - Si tratta di
questo… Gli raccontò per filo e per segno gli ultimi eventi, il caso sul quale stava indagando; si sporse in avanti verso di lui, facendo bene attenzione che nessuno
potesse sentirla: quello che era accaduto in sala autoptica rasentava la follia, lo
sapeva, era un buon salvacondotto per una casa di cura.
Si fermò nel suo macabro racconto soltanto quando la cameriera che li aveva
serviti, portò via la coppa vuota del suo Margarita. Poi gli raccontò del freddo,
dello stridore dei denti e del sorriso della testa mozzata, del rinvenimento della misteriosa moneta e dell’aiuto che, in quanto storico, poteva fornirle. Lo fece
tutto d’un fiato, senza pause, vomitando la sua ansia, risoluta come quando
aveva ingurgitato il suo cocktail.
Nicola la ascoltò silensioso, le mani intrecciate sul tavolo, senza interromperla, sorseggiando di tanto in tanto il Manhattan, sgranocchiando alcune chips
inzuppate di salsa chili. Sollevò gli occhi sulla pianta di ficus, distratto. La luce
arancione del faretto giocò ambigua nell’azzurro dei suoi occhi.
- Che ne pensi… - concluse Carmen, le mani avvinghiate sul manico della
borsa nera. Il timore di sentire ancora quel rumore nelle orecchie, nonostante l’alcol ingerito e l’ambiente festoso che li circondava, ritornò a farsi sentire
prepotente.
- Sei sicura di non aver visto male, insomma, sei sotto stress in questo periodo...
voglio dire, il tuo matrimonio, i doppi turni all’Istituto, la competizione con i
tuoi colleghi. Non sono uno psicologo ma... - iniziò lui, passando un dito sul
bordo freddo del bicchiere, facendo tintinnare i cubetti di ghiaccio nel drink.
- Cosa? Ma cosa dici… credi che io sia pazza? Che sia una stressata che ha
le visioni? - Esclamò a voce alta, sovrastando per un attimo il rumore diffuso in quell’angolo del locale. Una ragazza dall’aspetto anoressico e con un
vistoso piercing al naso, seduta ad un tavolo a fianco del loro immersa nella
compagnia di altri giovani, si voltò di colpo, osservandoli. Tornò a girarsi verso
altre due amiche sedute accanto, bisbigliando loro qualcosa. Tutte e tre risero
sguaiatamente. Carmen si maledì, ignorandole di proposito. Nicola sembrava
non averci nemmeno fatto caso, impegnato a far tintinnare i cubetti di ghiaccio nel suo Manhattan.
Rimasero in silenzio per un po’, scrutandosi. Forse aveva sbagliato a vedere
quella sera Nicola. Forse non era la persona giusta. Forse a lui non interessava
affatto aiutarla. Forse gli interessava soltanto andare a letto con lei, scoparla
e basta. Chinò il capo. Guardò nella direzione di uno dei cuori trafitti incisi sul
tavolo e pensò a Vincenzo, suo marito.
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- D’accordo, ti credo. C’è l’hai qui? - Domandò Nicola sbuffando, desideroso
di chiudere subito la faccenda della moneta misteriosa. Prima lo faceva, prima poteva tentare di nuovo con Carmen. Era la sera giusta e lui era su di giri.
Avrebbe dato il meglio di sé, lo sapeva. Si sentiva come una locomotiva caricata al massimo e lei non avrebbe opposto nessuna resistenza, come la prima
vota.
Carmen corrugò la fronte, come se gli avesse letto dritto nel pensiero.
Annuì, fissando il drink rosso di Nicola: per un attimo il liquido assunse un malsano colore simile a sangue diluito nell’acqua.
- Beh… allora? Che cosa aspetti: fammi vedere questa dannata moneta. - Sbottò Nicola, gli occhi azzurri che lanciarono lampi nervosi per la prima volta. Poi,
con più gentilezza allungò la mano destra verso quelle di lei, strette sul manico
della borsa. Con la punta delle dita le sfiorò. Erano fredde come il ghiaccio del
Manhattan.
A quel semplice tocco, Carmen si ritrasse, arretrando contro lo schienale della
sedia, mantenendo le distanze.
- Non qui. Non è il caso. C’è troppa gente. Andiamo alla tua macchina. L’hai
lasciata vicino al locale? - Sì, nel parcheggio a cento metri a destra. Solito posto. - Disse lui, spiazzato
dall’improvviso freddo sceso tra loro.
- D’accordo, allora andiamo. Muoviti. - Disse alzandosi di scatto, ansiosa di togliersi di lì. La ragazza con il piercing la guardò di nuovo, gli occhi liquidi che
galleggiavano in una birra di troppo, la risata trattenuta a stento sulla bocca;
Carmen, con un’occhiata gelida la trafisse, ammutolendola.
Nicola l’osservò, stupito. Il volto contratto, indossò con movimenti meccanici
il suo cappotto nero, avviandosi verso l’uscita senza aspettarlo. Lui, trafelato,
diede un’ultima sorsata al Manhattan masticando rumorosamente ciò che rimaneva di un solitario cubetto di ghiaccio; di malavoglia si alzò e indossato il
giubbotto di pelle marrone da motociclista, la seguì all’esterno del locale.
Fuori faceva ancor più freddo di prima. Come se non bastasse una nebbia leggera e filamentosa era calata sulla città; rendeva tutto più ovattato, silenzioso,
ammantando Milano d’una coltre sinistra.
- Fa freddo questa sera. - Esordì Nicola, tentando d’abbracciare Carmen a sé.
Lei si scostò di poco, seguendo a passi rapidi la direzione verso il parcheggio
dietro al locale. Camminarono separati ed in silenzio lungo il marciapiede già
umido per via della nebbia, senza incontrare anima viva. Lui, testardo, cercò di
prenderla per mano come un innamorato; a sua volta, Carmen ritrasse l’ogget-
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to del desiderio infilandolo nella tasca destra del cappotto.
Anche se il suo matrimonio con Vincenzo era ormai in avanzato stato di decomposizione, si impose di non cedere alle lusinghe sessuali di Nicola.
Lo sapeva, non bisogna essere un genio per questo: da molto tempo, a parte il
fugace e passionale incontro con Nicola, nessun uomo l’aveva più stretta tra le
sue braccia e le attenzioni di Vincenzo erano rivolte altrove.
Il loro talamo era diventato come l’altare di una chiesa vuota, spoglia ed abbandonata. L’unica vera compagnia quotidiana, sicura e puntuale, erano i cadaveri da sottoporre ad autopsie, le indagini criminologiche, sentenze legali di
morte, gli interventi come consulente di parte in processi presso il Tribunale di
Milano e qualche sporadica consulenza per alcune assicurazioni.
Non erano questi però i tormenti che in quel momento l’ossessionavano: era
ancora turbata per ciò che era accaduto quella mattina. Era più forte di lei, non
riusciva a toglierselo dalla mente. Le labbra della morta atteggiate a quel sorriso malvagio la tormentavano, l’immagine la seguiva ovunque: bastava chiudere gli occhi per rivedere la scena della sala autoptica. Persino ora, camminando
a fianco di Nicola, in mezzo ai banchi di nebbia la sentiva vicina a sé.
In tutta la sua carriera di medico legale non le era mai accaduto d’imbattersi in
un fenomeno del genere: che stesse perdendo definitivamente il controllo di
sé come Nicola, a suo modo, le aveva detto? Soffriva d’allucinazioni?
Camminarono per qualche minuto, ognuno immerso nei propri pensieri, fin
quando giunsero in vista del parcheggio, un’area scoperta e incustodita, scarsamente illuminata da un gruppo di lampioni che gettavano dall’alto una
luce giallastra e malata tra la nebbia. Quei deboli coni colorati, attraversando
il pulviscolo nebbioso rendevano più difficile la vista della strada e dei palazzi
circostanti il parcheggio. Non parlarono fino a quando Nicola non aprì la sua
auto, una Ford coupé blu. Una volta seduti all’interno, nel freddo dell’abitacolo rimasero immobili, ascoltando il silenzio che danzava intorno a loro oltre il
parabrezza, accompagnato dai vapori della nebbia che, morbida, si srotolava
intorno alla loro auto, accarezzandola come le dita lascive di un amante proibito.
- Accendo un po’ il riscaldamento, ti va? - Domandò Nicola seduto al posto di
guida, notando i brividi diffusi sul collo di Carmen. Lei annuì. Rimasero in attesa, aspettando un po’ di tepore: lo sbalzo termico dal caldo del Carlito’s Way
all’esterno li aveva intirizziti.
L’interno della Ford odorava di fumo di sigaretta. Con una smorfia Carmen abbassò di poco il finestrino. Un po’ d’aria le diede coraggio. Aprì la borsa che
teneva stretta al petto; rovistò nella penombra dell’abitacolo, trovando infine
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la busta di plastica con la moneta. Senza dire nient’altro gliela porse.
Per vedere meglio, Nicola accese la luce di cortesia incastonata nel tettuccio
beige sopra di loro. Sotto il piccolo faretto, con una smorfia di ribrezzo, accolse
il reperto nel palmo della mano destra, quasi stesse manipolando un materiale
radioattivo: il sangue della vittima era ormai rinsecchito formando una massa
escrescente nera che incrostava parte il reperto, parte le pareti interne della
busta. Le labbra piene, femminili e sensuali che scoprivano le zanne affilate
erano ancora ben visibili sulla superficie della moneta. Un po’ meno lo erano
gli strani simboli incisi lungo il bordo della circonferenza.
Vinta la prima repulsione, Nicola allungò una mano verso lo scomparto sotto
il cruscotto dalla parte di Carmen. Ne trasse una lente d’ingrandimento rettangolare. Esaminò la moneta per un lungo intervallo di tempo, immerso in
religioso silenzio. Fuori la nebbia si alzò più densa. Ogni tanto scuoteva la testa, la fronte corrugata, avvicinando meglio la lente al reperto. Alla fine di una
sommaria indagine esterna, scrutò dapprima oltre il parabrezza, perplesso, poi
Carmen. Lei sostenne il suo sguardo:
- Che ne pensi? - Domandò alla fine dell’esame. Strinse i pugni intorno all’impugnatura della borsa.
- Certo è molto strana. Te ne do pienamente atto: è un oggetto bizzarro - rispose lui con un tono di scusa nella voce - La fattura ricorda alcuni monili che
ho visto in Spagna, amuleti che venivano forgiati nel nord ovest, nella regione
della Galizia. E’ una terra feconda di leggende, storie, misteri. Non so, potrebbe
essere una specie di talismano. - Spiegò rigirando il reperto tra le mani.
- Leggende? Misteri? - Gli fece eco Carmen, sgranando gli occhi, colpita dall’idea del talismano.
- Sì, sono storie raccolte in molti testi storici spagnoli, talvolta semplici narrazioni popolari, tramandate di generazione in generazione, infarcite di superstizioni oscure legate per lo più a streghe e demoni che vagano nella notte,
racconti che potrebbero interessare soltanto qualche scrittore di horror soprannaturale. Se ti interessa, al riguardo esiste una copiosa letteratura antropologica, scientifica e ben documentata. Hanno scritto addirittura delle tesi di
laurea sull’argomento. Ti posso far avere domani via e-mail l’elenco dei libri
che abbiamo in biblioteca, da noi in Statale - fece una pausa, stringendosi nelle
spalle - Se però mi chiedi cosa significhi questa bocca di donna, le zanne e il
simbolo che incarna mah… Non saprei. Mia cara, mi devi dare tempo.
Dovrei lavorarci sopra. Un’analisi così superficiale porta a ben poco, puoi ben
immaginarlo. Le indagini storiche non sono come le autopsie. - Sì, certo. Grazie, l’idea dei libri è un’ottimo punto di partenza. - Convenne
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bruxa
Carmen più che interessata. Poi, indicando le forme incise sulla circonferenza
domandò:
- E quei simboli? Cosa possono significare? - Beh, per questo il lavoro è più difficile: di sicuro i simboli incisi sul bordo esterno non corrispondono ad un alfabeto preciso. Almeno, di primo acchito mi
sembrano delle rune celtiche - spiegò indicandone alcune - un gruppo delle
quali però deve essere stato modificato di proposito dall’incisore o su esplicita
richiesta di un possibile committente. Buffo davvero! Forse significano qualcosa, un alfabeto o un codice segreto costruiti sulla grammatica e l’ortografia
celtica. E’ come modificare la lingua italiana, inventando di proposito nuovi
lemmi e regole grammaticali. Un linguaggio dentro ad un altro, come in un
gioco di matrioske. Di sicuro, i simboli non appartengono a nessun antico
ceppo linguistico spagnolo e nemmeno ai dialetti galiziani più antichi. Lo so:
ho studiato a lungo quest’aspetto quando sono stato in Galizia per alcune ricerche su dei documenti custoditi in un vecchio monastero. Non so che dirti
a proposito... - scosse la testa, rassegnato. Riprese ad esaminare con la lente
d’ingrandimento la moneta misteriosa nella busta.
- Certo che fa un po’ effetto pensare che questo sangue è di una morta, terribile… - commentò Nicola con una rinnovata smorfia di disgusto, restituendole
il reperto.
- Prima hai detto che potrebbe essere un talismano. Per che cosa?- Chi lo sa! – si strinse nelle spalle, arricciando le labbra, pieno di dubbi - Quanto
tempo devi tenerlo per le tue indagini? - Non lo so ancora. Forse un paio di giorni. Probabilmente una settimana, più o
meno. Dipende dalle disposizioni che vorrà impartire il magistrato. Perché? - Perché una volta che avrete fatto tutte le vostre analisi potrei partire con le
mie, se vuoi. Magari riesco a scoprire qualche connessione con i simboli misteriosi, verificare se si tratta veramente di un talismano di protezione contro
qualcosa… boh, chi lo sa. - Disse Nicola.
- Uhmm… sì. Grazie, potrebbe essere veramente una strada da percorrere.
- Annuì Carmen rimettendo in borsa il reperto. Mordendosi soprapensiero il
labbro inferiore, aggiunse:
- Se è un talismano da che cosa proteggerebbe? Secondo te, perché mai la
donna anziana che hanno trovato quelli della Scientifica lo aveva con sé? - Domandò più a sé stessa che a Nicola.
- Tesoro mio, da che cosa protegge non lo so proprio, per il resto, siete voi gli
investigatori, spetta agli inquirenti, poliziotti e medici legali scoprirlo. O no?
Una cosa è certa… - si massaggiò la testa rasata, pensoso - Chi l’ha forgiato
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era indubbiamente molto abile, mano ferma ed occhio acuto. Sapeva bene
cosa faceva. Tieni a mente una cosa: in Spagna, durante il medioevo, esistevano
molti gruppi o logge esoteriche che praticavano la magia a vari livelli, bianca
e nera. Erano un po’ ovunque, tra il popolo e le classi ricche della borghesia.
La stregoneria e certi culti galiziani affondano la loro genesi proprio in quel
periodo, tra il mille e il millequattrocento dopo Cristo circa. - Guardò oltre il
finestrino la nebbia sempre più densa. Le poche auto parcheggiate intorno a
loro cominciavano a diventare sagome scure indistinte e perse nel bianco.
- Forse questo talismano, chiamiamolo così, potrebbe provenire proprio da
uno di questi gruppi. Chissà, magari è appartenuto a qualcuno di molto antico
e importante, un chierico, un inquisitore… Magari una strega! - Ridacchiò divertito della stravagante ipotesi.
Carmen per niente felice lo fulminò con un’occhiata.
- Scusa, non volevo… - Nicola alzò una mano, arrendevole.
- Parli di magia nera? Occultismo... roba del genere? - Sì, folclore galiziano. Come ti dicevo poco fa è ricchissimo in questa regione
della Spagna. Quando ero laggiù ho sentito tante storie su licantropi, vampiri,
brujas... - Nicola lasciò la frase in sospeso accompagnata da un secco colpo di
tosse.
- Brujas? - Gli fece eco lei aggrottando la fronte. Era la prima volta che sentiva
quel termine.
- Significa streghe in spagnolo. Si può pronunciare anche con la x… Bruxa.
In Internet trovi valanghe d’informazioni al riguardo, alcune francamente assurde, scritte sicuramente da qualche pazzo. - Sorrise, aggiungendo con fare
scettico:
- Non crederai mica in queste cazzate, vero? Ci manca anche questo... - Nicola
agitò la lente d’ingrandimento sotto il suo naso. Stava quasi per scoppiare a
riderle in faccia.
- No, certo che no… - si affrettò a rispondere Carmen mollando la presa sulla
borsa - Ma come spieghi allora quello che è accaduto questa mattina? Ti prego, non tirare di nuovo in ballo la storia dello stress e il mio matrimonio. - Gli
puntò un dito contro, ostile. Iniziò a sentirsi a disagio.
Chiusa lì dentro, avvolta dalla nebbia che silenziosa danzava intorno alla loro
auto, guardò il mare bianco simile ad un’ameba viva.
L’effetto euforico del Margarita era ormai svanito, lasciandole in bocca un
sapore impastato di alcol. Nicola non aggiunse altro, strofinando distratto il
pollice destro sulla superficie della lente, fingendo di lucidarla. Tornò a guardare come ipnotizzato la bianca barriera di nebbia in movimento oltre il para-
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bruxa
brezza: sembrava diventare più spessa di minuto in minuto. Nervoso, si grattò
la nuca rasata. Poi, raccogliendo il pensiero inespresso di Carmen sospeso tra
loro, disse:
- Che vuoi che ti dica… Non lo so. Non ho spiegazioni per quello che ti è successo. - Dalla sua voce, capì che era spaventato più di lei. Non l’avrebbe mai
ammesso, ma la storia che gli aveva raccontato lo aveva colpito. Parecchio. Per
quel poco che lo conosceva, Carmen l’aveva ben inquadrato: minimizzava, ridicolizzando tutto ciò che non riusciva a controllare. A parte l’eventuale ricerca storica, comprese che Nicola non le sarebbe stato un granché d’aiuto. Era
sola, come sempre. Sospirò. Si voltò a guardarlo sotto la luce del faretto acceso,
seguendo le linee marcate del volto, la mascella contratta: una vena, sottile,
pulsava come un fiume in piena sulla tempia destra, gonfiandosi sotto la pelle
tesa e rasata.
Rassegnata, lanciò un’occhiata al display digitale verde dell’orologio interno
dell’auto: erano già le 20 e 48. Sebbene i loro rapporti fossero ormai ridotti
al minimo, Vincenzo la stava già aspettando a casa per cena e, come al solito,
lei arrivava in ritardo. Poco importava se poi lui usciva tardi la sera, rientrando molto dopo mezzanotte, stanco e con addosso il vago sentore di profumo
femminile. Le regole erano regole e Vincenzo, abitudinario com’era, le rispettava: finché Carmen fosse rimasta sua moglie anche lei doveva seguirle. Quello
che succedeva in altri letti poco importava.
Carmen deglutì insieme alla rabbia, il groppo di saliva che le si era formato in
gola. Era così da circa un anno: viaggiavano su rotte parallele, indifferenti, sperando in una collisione finale. Non vedeva l’ora di separarsi da quel tormento,
ma non sarebbe stata lei a fare il primo passo. Doveva essere Vincenzo, carico
del suo ipocrita perbenismo a saltare il fosso, a lasciarla finalmente libera. Seduta in quell’auto, avvolta nella nebbia, aveva sperato in Nicola. In quel parcheggio, scossa da mille dubbi, esitò.
Un velo di tristezza si mischiò di nuovo alla spossatezza che le rese deboli le
membra. La vena sulla tempia di Nicola si riassorbì, smettendo di pulsare. Si
girò a guardarla, preoccupato:
- Ti farebbe bene riposarti, rilassarti. Sei pallida come un lenzuolo. Dammi retta,
prenditi qualche giorno di riposo. Chiudi il caso e poi lascia fuori i problemi
dalla porta. Conosco un posticino simpatico sul lago di Como. Potremmo...
- allungò la mano destra, appoggiandola sul suo ginocchio, accarezzandolo,
risalendo lento lungo la coscia scostandole di poco il cappotto.
- No, grazie Nicola. Te l’ho già detto l’ultima volta che ci siamo visti: anche se
con mio marito siamo ormai alla frutta questo non significa che io venga a
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letto con te ogni volta che ti vengono le smanie. Chiaro? - Gli bloccò la mano
a metà coscia, allontanandola da sé - Non dico che tu non mi piaci, che quella
notte non sia stata me stessa, anzi… È che adesso non ho la testa. Devo riflettere, ti prego… - Lo guardò con occhi supplichevoli. Nicola sembrava non
l’avesse nemmeno ascoltata, guardava oltre. Si avvicinò per baciarla, tirandola
verso di sé, preso solo dalla sua passione.
- Non voglio…Ti ho già detto che non voglio! - Pronunciò le ultime parole con
veemenza rabbiosa, spingendolo via con uno strattone contro il finestrino.
Nicola si ritrasse in un angolo, sconcertato, a bocca aperta. Carmen ansimò,
lottando per riportare sotto controllo le emozioni impazzite.
“Calma! Sto perdendo la mia lucidità.” Pensò stupita dalla sua reazione.
Dall’esterno del parcheggio l’odore umido della nebbia prese ad invadere
l’abitacolo della Ford, insinuandosi tra loro come una serpe. Il tepore del riscaldamento, a fatica, la tenne a distanza.
- Carmen, io non volevo... - balbettò confuso. Tentò un nuovo contatto, meno
diretto, sorridendole impacciato. Vide che tremava.
- Hai freddo? Vuoi che alzi il riscaldamento? - Lascia perdere - scosse la testa - E’ tardi, devo tornare a casa. Fa come se non
avessi detto nulla prima, ti chiedo scusa. Sono molto stanca. Grazie comunque delle informazioni. Scusami… - voltò gli occhi lontano da Nicola - Domani,
quando puoi, mandami quella e-mail con l’elenco dei libri di cui parlavi. Ci
conto. - tagliò corto Carmen. Aprì la portiera dell’auto e fece per uscire.
- Aspetta! Vuoi che ti accompagni a casa, con questa nebbia… - si offrì Nicola
nel tentativo di farsi perdonare.
- No, grazie. Ho la macchina nel cortile interno dell’Istituto. Ce la faccio da sola.
Buonanotte. Senza indugiare oltre richiuse con forza la portiera della Ford. I finestrini tremarono per l’impatto. Dallo specchietto retrovisore interno, Nicola, ammutolito, la
vide allontanarsi a passi rapidi, ingoiata dalla nebbia stretta nel suo cappotto
nero.
Carmen camminò, il bavero del cappotto rialzato per proteggersi meglio dal
freddo, senza voltarsi indietro in direzione dell’Istituto di Medicina Legale.
L’unico rumore che l’accompagnò nel breve tragitto furono i suoi passi lungo il selciato del marciapiede. L’asfalto sotto di lei era umido, una massa nera
che rivaleggiava con il bianco vaporoso della nebbia. Non incontrò nessuno,
tranne la propria solitudine. Transitò davanti al Carlito’s Way: l’insegna colorata
spandeva nell’aria nebbiosa, una corona bulbosa di luce gialla simile all’occhio
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bruxa
di una creatura mostruosa.
Fuori, davanti all’entrata, non c’era più nessuno a sfidare il freddo e la nebbia in
cambio di un po’ di fumo acre di sigaretta giù nei polmoni.
La musica ed il calore sembravano cresciuti rispetto a prima; le energie di quell’umanità felice si riversava in strada, balzando oltre la porta d’entrata.
Era tutto quello di cui aveva bisogno. Si fermò, incerta, ad ascoltare le note
ovattate della canzone Numb della rock band dei Linkin Park suonata in coppia con il rapper americano Jay Z. Le risate e le voci concitate dei clienti ebbero
un’esplosione gioiosa. Si dovevano divertire come dei matti la dentro.
Per un attimo fu tentata di rientrare nel locale, spinta da una voglia di libertà e
ribellione, di bersi un Margarita dietro l’altro, di richiamare Nicola per scusarsi.
Magari l’avrebbe invitato di nuovo a sedersi con lei a un tavolo, scivolando
per la seconda volta tra le sue braccia quella notte stessa a casa di lui, aggrappata alle spalle muscolose, deliziandosi del gioco proibito delle sue belle labbra, sentendolo penetrare in lei. Esitò, stringendo più forte la borsa nera nella
mano destra.
Immobile, in mezzo al marciapiede, guardò l’alone bulboso della luce dell’insegna che d’un tratto prese a sfrigolare a scatti come un uovo al burro disteso in
un tegame pieno d’olio. Il rumore scacciò ogni fantasia proibita, scorticandola
via da lei come quando si spella un coniglio. Scosse la testa. No, non era quella
la strada giusta.
Al momento era meglio tornare nella sua prigione, il suo appartamento.
Un buon bagno caldo con sali del Mar Morto, una cena gustosa accompagnata
da un bicchiere di vino rosso, musica classica, un documentario su Discovery
Channel e poi a nanna. Si, era quello che ci voleva quella sera per ristabilire l’ordine naturale delle cose. Domani sarebbe andata meglio. Si lasciò alle spalle
la luce gialla e la musica del Carlito’s Way; attraversò a passi veloci i giardini di
piazzale Gorini, deserti e spettrali a quell’ora, simili nelle tonalità cromatiche
ad uno dei cupi quadri di Munch. Qualche macchina solitaria passò veloce,
perdendosi nel vuoto nebbioso, lasciandosi dietro la scia rossa dei fanalini di
coda. Avvolta nel cappotto, tremando per il freddo che le attanagliava il corpo
entrò nel cortile del retro dell’Istituto di Medicina Legale.
Camminando a testa bassa, salutò alcuni inservienti che finivano il loro turno e
una delle guardie notturne intenta a controllare il ruolino della serata.
Alle sue spalle, buia, si ergeva la sagoma tozza e cubica dell’edificio dell’obitorio annessa all’Istituto. Là dentro, addormentati nel freddo glaciale dei loro
cubicoli d’acciaio, gruppi di cadaveri si facevano compagnia, immersi in sogni
vuoti, eterni, ognuno di loro con la propria storia, il proprio vissuto. In uno di
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questi giacevano i resti della donna mutilata. E la sua testa mozzata.
A quel pensiero accelerò il passo.
Girò dietro il muro esterno dell’obitorio, raggiungendo infine la sua auto, una
Toyota grigia metallizzata, parcheggiata nel posto a lei riservato. Rallentò il
passo: era un’illusione ottica o in quel punto, la nebbia, sembrava vorticare
intorno alla vettura?
Nicola si sentiva furioso. Con se stesso, ma soprattutto con Carmen. Che cosa
non andava in lui? Cosa turbava così tanto quella donna di cui si era infatuato?
Lo sapeva fin dal primo momento che si erano conosciuti: lei lo voleva, lo desiderava, ma il rigido atteggiamento di Carmen nei confronti della vita, quel rimanere perversamente legata ad un uomo, suo marito Vicenzo, così anonimo
e diverso da lei, lo rendeva furioso. Perché non lo lasciava? Perché non voleva
stare con lui, abbandonando quell’insipido architetto?
Prese una sigaretta e l’accese fumando avidamente, nervoso, soffiando nell’abitacolo dense nubi di fumo. A quel gesto, Carmen l’avrebbe severamente
redarguito. Carmen la salutista, Carmen che leggeva gli ingredienti su ogni busta di cibo, su ogni scatoletta, non avrebbe approvato, parlandogli degli effetti
letali del fumo, esaltandolo con macabre descrizioni anatomo patologiche sui
polmoni di gente morta per tumore che aveva sezionato in Istituto.
Piegò le labbra in un sorriso agrodolce aspirando soddisfatto una nuova boccata di fumo, creando con la bocca degli anelli simili ad aureole. I cerchi s’infransero, lenti, contro il vetro del parabrezza, disperdendosi in tanti riccioli.
No, non l’avrebbe mai capita neanche se avesse avuto a disposizione un intero
millennio. Rimase lì, da solo, seduto nella sua auto a ripensare alla storia che
gli aveva raccontato: una testa mozzata che sorride, un rumore di denti, il gelo,
una presenza inquietante. E poi quella specie di talismano, schifosamente imbrattato del sangue di una morta suicida fatta a pezzi sulle rotaie del metropolitana.
“Questa è pazza…” pensò spegnendo stizzito il resto della sigaretta nel posacenere. La nebbia, nel frattempo, era diventata un muro impenetrabile, latteo, ovattato. Gli impediva di vedere oltre i cinque metri. Sarebbe stata dura
tornare a casa, attraversando mezza città, raggiungendo via Buonarroti dove
abitava. Con uno sbuffo contrariato, infilò le chiavi nel blocchetto d’avviamento, indeciso se tornare al Carlitos’s Way o fiondarsi subito a casa, noleggiando
magari qualche DVD porno dalla videoteca sotto casa.
Stava per mettere in moto quando notò nello specchietto retrovisore un’ombra improvvisa stagliarsi in mezzo alla nebbia, una sagoma vaga e confusa ap-
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bruxa
pena dietro la sua auto. Carmen era tornata indietro? Ci aveva ripensato?
Si voltò senza notare nessuno: la barriera bianca, vaporosa, che lo separava dal
resto del mondo fluttuò silenziosa, indifferente. Quel fumo bianco per la prima
volta gli diede l’idea di qualcosa di vivo, che incedeva verso la sua auto.
Tornò a voltarsi, stringendosi nelle spalle, incurante della cosa. Accese il motore della Ford e i fari antinebbia che come due rasoi luminosi penetrarono nel
soffice velo nebbioso, tagliandolo. Ingranò la prima e sterzò a sinistra, prendendo lentamente l’uscita del parcheggio.
Fu allora che la vide di nuovo. La sagoma confusa, quella che a Nicola apparve
questa volta come quella di una donna, si parò di colpo davanti al muso della
Ford, emergendo dalla nebbia, correndogli veloce incontro. Non era sicuro ma
gli era sembrata una vecchia dai capelli neri, lunghi e scarmigliati. Non riuscì
a scorgere nient’altro: tutto si svolse alla velocità della luce. Veniva verso di lui.
Nicola pigiò con forza, istintivamente, il piede sul freno, inchiodando, ma non
fece in tempo ad evitare l’impatto. L’urto fu immediato, secco.
Il corpo rimbalzò via sul cofano come una bambola di pezza, finendo a tre
metri di distanza dietro alla Ford, riversa sul selciato umido.
- Porca puttana! - Gridò Nicola, precipitandosi di corsa fuori dall’auto. Lasciò la
portiera aperta e la vettura in moto. I fari gialli antinebbia illuminavano di luce
spettrale il nulla. Girò dietro l’auto, il cuore in tumulto. Non aveva mai travolto
nessuno e l’idea di aver inavvertitamente ucciso qualcuno lo spaventò.
Si guardò intorno, preoccupato, in cerca del corpo della donna che aveva colpito. Dietro di lui c’era soltanto l’auto immersa nella nebbia, il motore al minimo, i fari posteriori rossi simili a delle ferite. Il silenzio divenne oppressivo,
pesante. I rumori della strada lontana erano scomparsi, risucchiati nel bianco.
Girò intorno all’auto, senza trovare nulla. Si fermò davanti al muso della Ford,
sconcertato, illuminato dal cono di luce degli antinebbia: con la portiera a
lato del guidatore aperta l’auto sembrava una specie di drago meccanico con
un’ala protesa verso l’esterno, i fari gialli occhi rotondi maligni che lo fissavano.
Nicola girò su se stesso, scrutando in ogni direzione nella nebbia densa.
Mosse qualche passo nell’ignoto bianco, tenendosi nel cono dei fari antinebbia. L’odore di umido salì fino alle narici, penetrandovi.
- Ma dove cazzo è finita? - Mormorò sconcertato, raggiungendo di nuovo il
punto dove presumibilmente doveva essere atterrato il corpo dopo l’impatto.
Nulla. Niente sangue, nessun segno.
Si grattò la testa rasata, ritornando all’auto.
Ispezionò il cofano della Ford, tastandolo con entrambe le mani. Oltre alla leggera pellicola d’umidità che si era condensata sopra, trovò qualcosa che gli
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gelò il sangue nelle vene: nel bel mezzo del cofano c’era una vistosa ammaccatura, un incavo irregolare, segno evidente che aveva effettivamente travolto
qualche cosa. Ma cosa? Un corpo? Sibilò una bestemmia, ansioso, allargando
le braccia. Esplorò nei dintorni, invano, tenendo come punto di riferimento i
fari antinebbia.
Ritornò su i suoi passi, sempre più preoccupato. Da solo, al centro del parcheggio non sapeva che fare. Si passò una mano sul viso cercando di riflettere.
La donna o chiunque fosse stato, non poteva essersi rialzata e fuggita via così
in fretta; dopo un urto di quel tipo il meno che poteva accadere era qualche
frattura scomposta e dolorosa alle gambe, alle braccia. In ogni caso non poteva
essere andata troppo lontano. Tese l’orecchio: oltre al rumore a basso regime
del motore dell’auto, non udì nessun lamento. Vincendo un improvviso senso
di repulsione, si spinse qualche metro più in là. Intravide un’ombra.
Sembrava che ci fosse qualcosa, in piedi, davanti a lui. Il cuore gli tremò.
Si voltò indietro: l’auto era sempre lì, accesa, la portiera aperta. La figura era
scomparsa. Mosse qualche passo titubante nel muro bianco, reso uniforme
dalla luce dei fari. Si fermò di colpo, disgustato: nell’aria, oltre all’umidità, trasportato dai vapori nebbiosi c’era dell’altro, un odore raccapricciante, insolito,
che non riuscì subito ad identificare. Rimase ad annusare l’aria, vincendo la
nausea: sembrava carne rancida mista ad incenso speziato.
Si portò una mano alla bocca.
Poi sentì il rumore. Sobbalzò indietro, spaventato, gli occhi sbarrati.
Uno stridio simile a dei denti che sfregano gli uni contro gli altri, forte, scaturì
dalla nebbia, cavalcando malefico le volute vaporose. Era diffuso ovunque. Nicola girò su se stesso, in cerca di una via di fuga, una semplice breccia in quel
muro terrificante di suoni stridenti che gli avrebbe permesso di fuggir via di lì.
Il rumore avanzò, più forte.
Lo accerchiò come un nodo scorsoio. Si strinse.
Lo stridore sembrava palpitare di vita propria con la gialla fosforescenza rischiarata dai fari antinebbia dell’auto. Si passò nuovamente una mano in viso,
terrorizzato: voleva fuggire, ma il corpo non rispose ai suoi ordini, il cervello
era in cortocircuito. Emise un debole lamento simile ad un agnello condotto
all’altare sacrificale.
Lo stridore s’interrupe, veloce com’era apparso. Nel silenzio, in piedi e immobile, il corpo sudato per il terrore scrutò di nuovo nella nebbia. Uno scalpiccio
disgustoso lo raggiunse alle spalle, come di piedi umidi, accompagnati da un
respiro raschiante. Contro ogni regola di buonsenso, fece appena in tempo a
voltarsi per scoprire a chi appartenessero quei passi e il respiro.
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bruxa
Scorse soltanto un paio di bianche e affilate zanne a pochi di centimetri dal
suo viso insieme a delle labbra, femminili e sensuali che gli sorridevano maligne. I denti gli ricordarono quelli di uno squalo bianco, triangolari e seghettati.
Non vide nient’altro del corpo della creatura, solo le zanne che con un balzo
fulmineo gli strapparono via la faccia, la carne, gli occhi in un’orgia di sangue
e dolore. Cadde supino, offrendo una debole resistenza, dibattendosi come un
maiale al macello, prima che qualcosa di duro e appuntito entrando nel ventre,
gli strappasse via la vita e con essa tutto il sangue. L’esplosione di dolore fu
nulla in confronto all’odore insopportabile delle sue viscere sparse sul freddo
selciato del parcheggio.
Oltre al dolore, quell’olezzo, fu l’ultima cosa che percepì prima che il suo corpo
venisse con cura smembrato.
Alzò la testa di scatto. Vacillò appena udì di nuovo l’agghiacciante rumore di
denti sfregati gli uni sugli altri.
“No, di nuovo, non ancora…no!” Carmen sobbalzò, tremando. In piedi, davanti
alla sua Toyota, ficcò a casaccio una mano nella borsa, rovistando come una
disperata in cerca delle chiavi. Si voltò indietro, cercando la fonte del rumore.
Lo stridore aumentò, come se le avesse letto nella mente, più vicino, terribile.
In preda al panico, affondò la mano in fondo alla borsa. “Fa che le trovi, Dio,
fa che le trovi…” Il fiato le si spezzò in gola mentre il tremore, feroce, le fece
battere i denti. Il suono era ovunque. Intorno a lei, vicinissimo, a pochi metri,
appostato dietro l’angolo buio del muro dell’obitorio. La spiava, in attesa di
qualcosa.
Trovò le chiavi. Disinserì l’antifurto, lanciò dentro la borsa, gettandosi letteralmente al posto di guida. Richiuse dietro di se la portiera con uno scatto, abbassando le chiusure di sicurezza, barricandosi dentro.
Con gli occhi sbarrati penetrò il buio del cortile, reso ancor più spettrale dalla nebbia. Respirando a fatica, rimase in silenzio qualche minuto, cercando
di captare la presenza minacciosa all’esterno dell’auto. Lo stridore era sparito.
Con i muscoli tesi, si preparò a vedere che cosa si annidava nella nebbia.
Non accadde nulla. L’unico rumore era il suo respiro affannoso come un mantice, racchiuso nello spazio dell’abitacolo. Si aggrappò con entrambe le mani
al volante gelido, esausta.
Dentro alla Toyota il freddo rivaleggiò con il compagno che premeva sui finestrini, all’esterno. Per un attimo, le sembrò d’essere rinchiusa in uno dei loculi
dell’obitorio.
Cercò di rilassarsi, abbandonandosi contro lo schienale del sedile, staccando le
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mani dal volante. Per la prima volta nella sua vita avrebbe voluto fumare una
sigaretta, lei che detestava l’odore di fumo e i fumatori. Sorrise amara.
Impugnò di nuovo il volante, freddo come il ghiaccio. Il contatto reale con il
mondo che la circondava riportò un po’ di calma in lei. La sua auto era reale, il
mondo fisico. Non stava sognando, non vagava nei labirinti della follia.
Rimase immobile per qualche minuto, immersa nel silenzio, ferma in quella
posizione, i nervi a pezzi.
In lontananza, il rumore di una moto che transitava veloce per piazzale Gorini
si fece sentire, allontanandosi. Ripiombò nel silenzio.
Fu soltanto quando si sentì più tranquilla che inserì le chiavi nel blocchetto di
avviamento della macchina. La Toyota tossì, sofferente, cercando di mettersi
in moto senza successo; la luce dei fari anteriori che s’accendevano e spegnevano come le luci di un albero di Natale difettose lanciarono lampi bianchi,
intermittenti, nella nebbia.
Carmen riprovò, invano. Tentò altre due volte, peggiorando la situazione. Sembrava ingolfata. “Non dirmi che la batteria è scarica” imprecò con se stessa, battendo un pugno sul volante. Ritentò ostinata, senza successo.
Non era giusto, non poteva accadere proprio a lei, ora che doveva ritornare a
casa. Al buio, seduta al posto di guida, d’un tratto si senti come una bambina
sperduta in un bosco sconosciuto, braccata da qualcosa di famelico, d’innominabile, vomitato da chissà quale abisso.
“Basta, Carmen. Controllo” si ripeté aspra, provando a mettere di nuovo in
moto.
- Parti, maledetta, parti! - Digrignò i denti, girando la chiave.
Quasi ci riuscì. Con un breve contraccolpo la macchina fece un balzo in avanti,
esalando come un moribondo l’ultimo respiro. La Toyota giacque immobile,
morta e fredda nella nebbia.
- E’ andata... è semplicemente andata. - Si scoprì a dire a voce alta, esterrefatta,
la voce incrinata dalla tensione. Poi iniziò a ridere: non c’era alcuna traccia di
gioia in lei, soltanto disperazione. Si lasciò andare contro il sedile; la risata si trasformò, isterica, in singhiozzi di pianto, accompagnati da calde lacrime salate
che le scesero lungo il viso, bagnandole le labbra contratte.
Dopo un po’, riprese il controllo di sé; tirò su con il naso, asciugandosi con il
dorso di una mano il viso bagnato. Guardò l’orologio da polso: le 21 e 20.
Era tardissimo, il tempo era trascorso veloce, mentre la fitta nebbia non accennò ad alzarsi. Prese dalla borsa il cellulare, accendendolo. Compose il codice di
sicurezza Pin e, una volta agganciato al segnale della rete mobile più vicina,
attese. Stranamente suo marito non aveva lasciato nessun messaggio nella ca-
335
bruxa
sella vocale della sua segreteria, nessun segnale di chiamata o Sms.
“Tanto meglio, un problema in meno” pensò con una smorfia. Più tardi avrebbe
avuto tempo per i litigi serali, ammesso e non concesso di averne la forza. Si
sentiva uno schifo, nel corpo e nello spirito. Fissò il display a colori del cellulare
in attesa di qualche traccia di vita.
Nemmeno l’ispettore Morelli l’aveva cercata. Compose, nervosa, il numero fisso di casa, sperando che suo marito fosse già rientrato. Il segnale suonò libero.
Rimase in attesa, fissando oltre il parabrezza.
- Rispondi, brutto stronzo! Quando ho bisogno di te non ci sei mai. - Imprecò.
Lasciò squillare a lungo il telefono. Nessuna voce amichevole giunse in suo
aiuto. Sconsolata, chiuse la comunicazione. Lo chiamò allora sul cellulare; forse
era ancora fuori per lavoro nonostante l’ora. Al sesto squillò scattò la segreteria telefonica. Alzò gli occhi al cielo fissando il tettuccio grigio dell’auto, la
mascella contratta.
“Dove cazzo è finito? Cosa sta facendo a quest’ora?” Pensò avvampando per un
istante, consumata dal fuoco della gelosia. Perché non era in casa come al solito, lui che era la celebrazione dell’abitudine casalinga, lui che sosteneva la
teoria d’essere sempre reperibili? Questa regola valeva per Carmen, non certo
per Vincenzo.
Attese che la voce impersonale della segreteria telefonica finisse la lettura del
messaggio; lasciò poche parole secche, contrariate, spiegando cos’era successo alla sua auto, che era rimasta bloccata in Istituto e che con quella nebbia
non se la sentiva di tornare a casa con i mezzi pubblici. Lo pregò di venirla a
prendere. Lei lo avrebbe aspettato nella Toyota. Chiuse la chiamata, serrando
le labbra, preoccupata. Era stata la scelta giusta, si ripeté. Rimase con il telefono
tra le mani, in grembo, in attesa di una telefonata che non venne.
Carmen abitava in una lussuosa villetta a due piani che il marito architetto
aveva fatto costruire prima del loro matrimonio. Sorgeva elegante ad est di
Milano, nei dintorni di Cologno Monzese, un paese satellite della metropoli
lombarda. La loro abitazione era come un gioiello immerso nel verde e nella tranquillità a pochi chilometri dal lavoro. Un’alcova che ben presto si era
trasformata in un carcere senza sbarre. I mezzi pubblici di collegamento non
erano molti. Per i residenti, oltre all’auto privata, il servizio più utilizzato era la
linea due della metropolitana, la verde, che tagliava Cologno Monzese a metà
come una torta collegandosi alle principali arterie stradali di Milano.
- La linea due… - sussurrò con un brivido di terrore, stringendo nella mano destra il cellulare. Non ci aveva pensato per tutto il giorno, travolta com’era stata
dagli avvenimenti. Quella tratta che ad un certo punto dal ventre sotterraneo
336
delle gallerie emergeva proseguendo all’esterno, attraversava, suddividendosi
in due tronconi, le piccole stazioni di Cimiano, Crescenzago, Cascina Gobba,
Cologno Sud, Cologno Centro, arrestandosi al capolinea di Cologno Nord, la
destinazione finale di Carmen.
Il percorso affondava lungo un tragitto che si srotolava in mezzo a campi solitari ed abitazioni, sparsi in grappoli grigi ed anonimi. Proprio in quella tratta
esterna, poco dopo Cologno Sud, in un punto dei binari separati da una massicciata di pietre e da un muretto basso lontano dalla strada, erano stati rinvenuti all’alba i resti smembrati della donna che aveva sottoposto ad autopsia.
Impiegò qualche istante per digerire l’informazione, metabolizzarla, incasellarla in uno schema preciso e razionale. Fu presa da un panico improvviso, nuovo,
implacabile. Abbassò gli occhi sul display muto del cellulare: ora più che mai
tornare a casa da sola, su quella metropolitana, non la esaltò affatto.
“Che male ci sarà, non è la prima volta che torno a casa da sola…” si disse cercando d’infondersi un po’ di coraggio.
Immaginò i resti del corpo sparpagliati lungo le rotaie, gli obitoriali impegnati
nel delicato recupero e la squadra della Scientifica al lavoro sui rilievi guidate
dall’ispettore Morelli. Chiunque fosse quella donna era morta nella sua zona.
Ricostruì mentalmente il percorso che avrebbe dovuto fare, dall’Istituto fino
alla stazione più vicina della linea due, quella di piazza Piola, non molto lontano da Città Studi dove si trovava.
Quello che la preoccupava di più era il tratto solitario di strada che, una volta
uscita dalla stazione di Cologno Nord avrebbe dovuto fare per raggiungere la
sua villetta; era un tragitto lungo un buon quarto d’ora, camminando su una
strada scarsamente trafficata e con poche abitazioni, luogo ideale per un’aggressione. Ricordò che l’anno prima una ragazza poco più che diciottenne era
stata aggredita selvaggiamente da quattro delinquenti, poi identificati ed arrestati, stuprata ed uccisa proprio in quel tratto di strada. Il suo corpo era stato
ripescato un paio di giorni dopo in un canale poco lontano.
Carmen aveva eseguito personalmente l’autopsia sul cadavere della vittima,
tumefatto per le percosse e già gonfio per via dello stato putrefattivo sopraggiunto nell’acqua sporca del canale.
Preferì dimenticare i particolari, accantonandoli in un angolo della memoria.
La nebbia, all’esterno dei vetri della Toyota, continuò a danzarle intorno, in attesa.
Guardò l’orologio: le 21 e 45. Con un sospiro, riprovò a telefonare a casa nella
speranza che Vincenzo, nel frattenpo, fosse rientrato. Rimase delusa dal muro
di vuoto. Provò con il cellulare, senza successo.
337
bruxa
Con lo sguardo rassegnato, terrea in volto, osservò oltre il parabrezza frontale la nebbia: si sentì prigioniera, assediata nella sua stessa auto, impotente,
paralizzata da una paura che aveva assunto i colori e gli odori di qualcosa di
atavico, una presenza che parlava di morte e sangue, di un’antichità risorta
dalle tenebre, feroce e brutale. Cercò di scuotersi da quei pensieri che di certo
non l’aiutavano, infettati da una superstizione che la sconcertò. Decise allora
di chiamare un taxi.
Sì, quella era l’unica alternativa. Non se la sentiva proprio di ritornare a casa
con i mezzi pubblici e un taxi le sembrò il giusto salvagente al quale afferrarsi.
I primi tre numeri inseriti nell’agenda elettronica del cellulare risultarono occupati.
- Maledizione... - imprecò, tamburellando nervosa la mano sinistra sul volante,
l’altra impegnata a comporre il quarto ed ultimo numero del radiotaxi.
“Libero. Sia lodato il cielo!” Strinse con forza il volante dell’auto. Squillò un paio
di volte. Poi, puntuale, un messaggio preregistrato di avviso del centralino
automatico informò Carmen che tutti gli operatori erano momentaneamente impegnati con altre chiamate. Le suggerivano di rimanere in linea per non
perdere il diritto di chiamata nella lista d’attesa. Scrutò nervosa l’orologio da
polso: le 22 e 05. Era tutto così assurdo: bloccata, in mezzo alla nebbia, isolata
dal mondo a due passi dall’Istituto dove lavorava ogni giorno, con qualcosa
che si nascondeva nella nebbia. Eppure non aveva il coraggio di aprire la porta
ed uscire, correre via di li, precipitandosi verso la stazione della metropolitana.
Il solo ricordo di udire di nuovo quello stridore di denti la sconvolgeva, imprigionandola nell’auto.
Trasalì quando la voce scortese di un’operatrice dal vago accento marchigiano le rispose. Diede le sue generalità, il posto dove si trovava e il numero di
cellulare da cui chiamava. Il supplizio proseguì. Di nuovo venne messa in attesa. Una canzone, la più stupida e gettonata del momento nella hit-parade
nazionale, accompagnò l’estenuante attesa. La voce della cantante si ripeteva,
percorrendo un anello a feedback perverso: finiva e ricominciava da capo.
Era ormai al limite della sopportazione. Le 22 e 16. Dopo undici lunghissimi
minuti, la voce monocorde dell’operatrice al centralino del radiotaxi le comunicò indifferente che purtroppo nessuna vettura era disponibile in zona. Le
consigliò di riprovare più tardi.
- Stronza! - Gridò in direzione del cellulare dopo aver interrotto la comunicazione.
Si sentì avvampare di rabbia. Le pulsavano le tempie per la tensione accumulata. Poteva sentire il flusso del sangue che correva impazzito nel suo corpo,
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aggrovigliandosi in gorghi rossi lungo le arterie. Ostinata, riprovò di nuovo i
primi tre numeri. Erano ancora occupati. Imprecò in direzione del mondo intero. Sembrava che quella sera, l’intera Milano avesse deciso di farle dispetto:
tutti i taxi erano impegnati in corse diverse e non se ne sarebbe trovato uno
nemmeno a pagarlo a peso d’oro.
Le lancette, irriducibili, segnarono le 22 e 25.
Con un guizzo di ottimismo, Carmen riprovò a mettere in moto la sua Toyota
nella remota speranza che, forse, questa volta con un po’ di fortuna ci sarebbe
riuscita, ma la sua buona stella era già tramontata, svanita oltre l’orizzonte.
Rimase a pensare febbrilmente per un po’ a qualche soluzione. D’improvviso le
venne una nuova idea: se il primo salvagente, il radiotaxi, si era sgonfiato affondando miseramente, portandosi dietro brandelli di speranze, al largo rimaneva
ancora una scialuppa di salvataggio. Nuotò decisa nella sua direzione.
“Nicola... posso telefonare a Nicola. Mi riaccompagnerà lui a casa.”
L’idea la colpì come una scarica elettrica, allontanando l’angoscia di quell’assedio. Richiamò dalla rubrica il suo numero, chiamandolo. Non ci poteva credere:
anche il suo cellulare squillò a vuoto. Come per suo marito, scattò automaticamente la segreteria telefonica. Con voce tremante lasciò anche in questo caso
un messaggio, specificando dove si trovava e che cosa le era successo.
Era certa che lui avrebbe capito, che sarebbe corso da lei a trarla in salvo.
Fiduciosa, attese per un altro quarto d’ora. Nicola non si fece sentire.
Possibile che anche lui fosse sparito? Che si fosse risentito per come aveva
reagito con lui?
Il suo ultimo appiglio, la scialuppa, si capovolse, affondando. Gli ultimi frammenti di speranza colarono a picco con Carmen. Le 22 e 50. Il display esterno
del cellulare giacque, muto, tra le sue mani. Il filo che la collegava alla vita, al
mondo esterno sembrò assottigliarsi sempre di più. Era da più di un’ora che
era rimasta chiusa lì dentro e probabilmente la guardia all’interno dell’Istituto
non se ne era nemmeno accorta. L’idea di ritornare nell’edificio, salire nel suo
ufficio al secondo piano e passare la notte lì dentro non la entusiasmò: come
avrebbe potuto giustificare una cosa del genere al professor Pieri? Ai colleghi,
cosa avrebbe detto? Senza troppa fatica immaginò le loro facce.
Controvoglia, prese una decisione.
- Datti una mossa Carmen. - Borbottò sottovoce.
Rimise il cellulare e le chiavi dell’auto nella sua borsa. Indossò un paio di morbidi guanti eleganti di pelle nera rivestiti internamente da un soffice pelo grigio, caldo. Inspirò profondamente, sbirciando dapprima il viso pallido poi le
occhiaie estese che le incorniciavano gli cchi, riflesso nello specchietto retro-
339
bruxa
visore interno. Il volto le restituì lo sguardo: sembrava quello di un’altra donna catapultata in un incubo senza fine, cancellando in Carmen, l’irreprensibile
medico legale dallo sguardo freddo e distaccato di sempre. Prese una decisione finale: sarebbe tornata a casa in metropolitana.
Sbloccò le porte. Attese qualche secondo, poi, afferrando la borsa, spalancò la
portiera con decisione. Uno sbuffò di nebbia le si arrotolò intorno alle gambe,
penetrando da sotto il cappotto, accarezzandola.
Scese guardinga dall’auto, pronta a rientrare subito al minimo segnale di minaccia. Fuori il freddo non era poi così diverso da quello che si era impossessato dell’interno dell’auto; la nebbia era ormai diventata così spessa che le
particelle di umidità le si appiccicarono al viso sotto forma di una pellicola di
minutissimi cristalli.
Allungò il collo, annusando: c’era un odore strano nell’aria che non riuscì subito ad identificare. Sembrava incenso speziato misto a qualche cosa di rancido. I
due odori danzavano intorno a lei, come una coppia di pattinatori sul ghiaccio,
tenendosi per mano. Ci volle poco. Lo riconobbe subito: quell’odore rancido,
era il tipico tanfo di un cadavere in decomposizione. Deglutì.
Scrutando prima il muro ad angolo dell’obitorio, poi l’auto, lentamente, chiuse
la portiera inserendo di nuovo l’antifurto.
Si voltò, i sensi all’erta.
Un silenzio innaturale, violato soltanto dal furioso abbaiare in lontananza di un
cane, la circondò. I latrati si trasformarono in un lamento simile all’ululato di un
lupo, spegnendosi in lontananza accompagnato da una specie di risatina che
le ghiacciò il sangue nelle vene. Decisa ad andare fino in fondo, stringendosi
nel suo cappotto di lana nera, serrò la borsa sotto il braccio ed uscì dal retro
dell’Istituto. Superò di corsa l’angolo del muro esterno dell’obitorio, guadagnando l’uscita. Alle sue spalle, la luce della guardiola di sicurezza era accesa,
debole come un cero, unico squarcio di vita in quel mare di tenebre.
Una volta fuori, camminò a passo spedito, quasi correndo, imboccando il tratto
di strada che la separava dalla metropolitana. Attraversò la strada ad un semaforo solitario perso nella nebbia. Costeggiò il lungo tratto di marciapiede di via
Ponzio lungo il quale un alto muro di mattoni rossi separava il tratto di strada dall’Istituto d’Ingegneria Elettrotecnica e, poco oltre, quelli di Veterinaria.
A quell’ora gli edifici e i comprensori del Politecnico di Città Studi erano bui,
entità nere acquattate e minacciose nel muro di nebbia.
Carmen, la borsa stretta sotto il braccio destro, accelerò il passo, guardandosi
alle spalle: da sola, in quel lungo viale, era l’unico essere umano ad attraversare
il deserto bianco. Raggiunse l’incrocio con via Bonardi, svoltando a sinistra, in
340
direzione della stazione metropolitana ancora lontana. Davanti a lei, al centro
della strada, con un incedere sferragliante, la vecchia sagoma di un tram uscì
dalla nebbia, fendendola come un vecchio rachitico abbarbicato sulle stampelle, tagliando il banco nebbioso con il suo unico e debole faro anteriore.
Seguì il tram passare lento davanti a lei, i finestrini illuminati debolmente dall’interno; il manovratore, una sagoma nera, era ricurvo in avanti come un vampiro su una vittima inerme. Nella poca luce le sembrò che avesse la gobba,
un’escrescenza che cresceva informe sulla schiena. Veloce, riprese a camminare, lasciando il tram al suo destino, risucchiato dalla nebbia.
Era quasi giunta a destinazione quando, all’altezza della costruzione bassa e
lunga della facoltà di Architettura illuminata dalla luce gialla di grappoli sparsi
di lampioni, le sembrò che qualcosa la seguisse, strisciando accanto ai muri,
tenendosi volutamente lontana, nell’ombra. Accelerò il passo, costeggiando
un tratto alberato; lanciò occhiate furtive dietro di sé, il cuore in gola.
Completò l’ultimo tratto di strada scendendo lungo la stretta e corta via d’Ovidio, a pochi passi da piazza Piola. Sussultò di gioia quando l’insegna verde e luminosa della linea due della metropolitana fece capolino in fondo alla strada.
Attraversò gli ultimi cento metri di corsa. Scese trafelata le scale della stazione.
I suoi passi risuonarono lungo lo sporco e tetro corridoio che portava ai tornelli di passaggio, custoditi da un controllore annoiato intento a leggere poco
convinto un giornale dentro ad un gabbiotto.
Con il fiato corto per via della corsa, acquistò il biglietto magnetico dalla emettitrice automatica, passandolo poi nella guida di lettura del tornello.
La macchina, obbediente, lo aspirò sputandolo verso la linguetta d’uscita.
Carmen lo afferrò ed entrando, camminò oltre il controllore che non la degnò
nemmeno di uno sguardo. Scesa da una scala mobile, raggiunse la banchina
di attesa in direzione Cologno Nord. Sola, seduta su una panchina di marmo
imbrattata dalle scritte incomprensibili di un graffittaro, fissò la pubblicità
amena di una marca di carta igienica appesa al muro di fronte. In lontananza,
dalla galleria buia spalancata come una bocca famelica, giunse un rumore indistinto, metallico, accompagnato da una corrente acre che sapeva di gomma
e polvere.
Era il fiato della metropolitana, il gigantesco verme sotterraneo che si srotolava sotto Milano.
Si guardò la punta degli stivali, nervosa. Carmen alzò gli occhi stanchi sul cartello elettronico appeso sopra di lei, leggendo: Treno in direzione Cologno Nord
15’ . Si sentì quasi mancare.
“Tutto questo tempo?” Pensò, portandosi rassegnata una mano alla fronte, ap-
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bruxa
poggiando entrambi i gomiti sulle ginocchia. Il suo orologio segnò indifferente le 23 e 25. Tranne lei e l’annoiato controllore al mezzanino, non c’era anima
viva.
Provata, si appoggiò al muro dietro di lei, la borsa in grembo. Chiuse gli occhi,
nelle narici l’odore pungente di gomma della pensilina. Rimase così, per un
lungo tempo immobile, seduta in quella posizione. Ascoltò concentrata il battito del suo cuore nelle orecchie, la pulsazione vitale spingere lungo le arterie
il sangue, la vita. Quella calda marea rossa, culla d’ogni essere vivente, defluì
d’improvviso dal cervello, abbandonando il proprio lavoro. Carmen si sentì
mancare, debolissima.
La bocca si seccò, asciutta come un deserto. Durò poco: in gola, uno strano
sapore familiare, come di ferro, la riempì. Aprì di scatto gli occhi. La sensazione
divenne appiccicosa.
Era sapore di sangue. Spalancò di colpò gli occhi, sgranandoli.
Strappandosi via il guanto destro, si passò cautamente un dito sulle gengive.
Ritrasse la mano: sì, era proprio sangue. Non fece in tempo a realizzare che la
bocca le si riempì di un fiotto abbondante di liquido rosso, vischioso. Salì da
dentro, come una bolla incontrollata, un rigurgito di sangue che vomitò a terra
mentre le labbra s’imbrattavano. Era come se qualcosa fosse cresciuta dentro
di lei ed ora, ormai matura, volesse uscire, lanciando il suo vagito al mondo.
Annaspò sconvolta in cerca di un fazzoletto di carta nella borsa. Boccheggiò,
mentre un filo rosso le colò lungo il mento. Si tamponò la bocca, pulendosi
come meglio poté.
Sussultò: del sangue non c’era più traccia. Per terra, il pavimento gommato
della pensilina e il fazzoletto erano puliti.
“Un all’allucinazione… è stata solo un’allucinazione.” si ripetè con un mezzo
sorriso confuso, frastornato, passandosi una mano tra i capelli. Con gli ultimi
frammenti di volontà, ricacciò indietro il groppo di pianto che sentì salirle in
gola. Abbassò gli occhi vacui sopra la borsa: dentro, tra i suoi effetti personali,
trasportava l’orrore. Come un’ombra, la moneta era rimasta con lei, seguendola passo dopo passo. Avrebbe potuto disfarsene, distruggerla, ma quella era
una prova di un caso ancora aperto e, sebbene Morelli non ne fosse ancora al
corrente, il senso del dovere, l’abnegazione che aveva sempre messo al primo
posto nel suo lavoro, la costrinse a desistere. Sarebbe stato facile gettarla nel
primo cestino dell’immondizia, liberandosi per sempre di quella presenza.
Non si mosse. Non si alzò. Rimase seduta, rigida, abbandonata contro la parete
alle spalle, lo sguardo ancora inebetito; chi l’avesse vista avrebbe pensato quasi certamente ad una giovane donna impasticcata da qualche tranquillante di
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troppo, forse un po’ alticcia.
La pubblicità della carta igienica divenne uno schermo opaco sul quale, lenti
e precisi fotogrammi iniziarono a scorrere davanti ai suoi occhi: lei bambina, i
suoi genitori, la vita da studentessa universitaria, il suo tirocinio come medico legale, la prima storica autopsia, il matrimonio, la villetta fatta costruire da
Vincenzo, i suoi viaggi negli Stati Uniti, i convegni internazionali di medicina
legale, il lavoro in Istituto e l’ispettore Morelli, il corpo nudo di Nicola durante
la loro notte d’amore e poi il corpo mutilato della vecchia; questi particolari divennero ancor più luminosi sullo schermo principale della sua mente: il corpo
smembrato in sala autoptica, le viscere, la testa mozzata. La macabra visione
della testa mozzata fluttuò nella sua direzione, galleggiando.
Sobbalzò con un grido soffocato, risvegliandosi dall’incubo appena in tempo
per sentir arrivare il convoglio della metropolitana preceduto da una folata
d’aria gommosa che le scompigliò i capelli. Il treno rallentò, puntuale alle 23 e
40, arrestandosi in banchina: una creatura obbediente che aprì le porte automatiche con uno scatto meccanico.
Con un balzo, Carmen si precipitò nella carrozza di testa. Nessuno scese.
Nessun anima a parte lei, salì. Le porte si richiusero come il coperchio di una
bara, sigillandola all’interno. Con uno strattone sofferente, il convoglio riprese
la sua corsa, spingendosi nel ventre della galleria.
Aggrappata ad un reggimano, si lasciò scivolare priva di forze su uno dei sedili
di plastica blu, sporchi e scarabocchiati con frasi offensive contro il malgoverno. Guardò di nuovo il suo orologio. Se tutto andava bene, entro mezzanotte
e mezza sarebbe stata a casa rintanata sotto le coperte del letto caldo, sola,
lontana dal freddo e dalla presenza minacciosa nascosta nella nebbia.
Si guardò intorno, scrutando per la prima volta l’unico compagno di viaggio:
a gambe aperte, scomposto, seduto davanti a Carmen c’era un uomo grasso
addormentato, il ventre gonfio all’inverosimile, sulla cinquantina con indosso
soltanto un maglione azzurro costellato di macchie grigie, una camicia bianca
dai bordi logori, la barba incolta di parecchi giorni, vestito di un paio di pantaloni dal colore indefinito.
Ai piedi calzava delle scarpe nere un po’ troppo piccole per la sua mole, tanto
che davano l’idea che le estremità volessero esplodere all’esterno, liberandosi
da quella prigione. Ciondolava con la testa appoggiata sul petto; il triplo mento si riversava come lo strato di un cuscino di grasso sul maglione. Nella mano
destra stringeva una lattina di birra. I capelli lunghi, neri e ricci, mostravano un
principio di calvizie al centro della testa, allargandosi in un’oasi rosa.
Le guance pendenti le ricordarono la faccia di un cocker. Le vibrazioni della
343
bruxa
carrozza non lo disturbavano: sembrava incollato al sedile, stabile come una
roccia.
Lo fissò, preoccupata. Sembrava un orco assopito come quelli delle favole che
gli raccontava sua nonna. Pregò con tutte le forze che non si svegliasse.
Il convoglio rallentò, sostando per poco nella stazione successiva di Lambrate
FS. Nessuno salì. Le porte si richiusero. Ripresero la loro corsa, conficcandosi nella gola oscura della galleria. L’uomo con la birra sussultò, gorgogliando
qualche cosa, la testa che oscillava come un’appendice estranea al resto del
corpo.
Carmen rimase a fissarlo, ipnotizzata da quel movimento. Il rumore sferragliante delle carrozze sulle rotaie sembrava non intaccare il sonno dell’uomo con la
birra. Fu soltanto poco prima della stazione successiva, quella di piazza Udine,
che sollevò la testa, aprendo gli occhi piccoli e porcini. Il faccione era una massa flaccida, resa lucida dal troppo alcol ingurgitato quella sera. La prima cosa
che vide fu Carmen, seduta rigida davanti a se: le gambe unite, stretta nel suo
cappotto nero, il bavero rialzato, le mani protette dai morbidi guanti sopra la
borsa. Le labbra dell’uomo, troppo sottili per quel viso largo, le sorrisero ebeti,
scoprendo una dentatura malata: tre incisivi mancavano all’appello ed anche
un paio di molari, rassegnati, avevano abbandonato da tempo la loro dimora.
Si scrutarono: Carmen immobile, ostentando indifferenza ma preoccupata, l’altro divertito della bella sorpresa avuta al suo risveglio. Poi, con un movimento
lento, elefantiaco, l’uomo con la birra si alzò, issandosi in piedi. Si aggrappò ad
un reggimano che scricchiolò dolorosamente, le labbra sottili contratte per lo
sforzo.
Era davvero grosso ora che era in piedi. Istintivamente, Carmen si ritrasse, tutt’uno con il sedile, senza mai perderlo di vista. L’uomo sembrò intuire la sua
diffidenza. Il sorriso si spense, il volto grande e molle fu attraversato da un’ombra di risentimento, come quello di un bambino.
Il convoglio rallentò di nuovo nella stazione di piazza Udine. Si arrestò con
uno strattone che fece ballonzolare la ciccia del triplo mento dell’uomo con
la birra.
Le porte si aprirono e questo, con un passo che ricordò a Carmen la camminata di un ippopotamo, si avviò fuori, non prima d’averle ruttato in faccia un
saluto alcolico.
Con un sospiro di sollievo, lo vide allontanarsi a passo lento, la lattina stretta
sempre in una mano, lungo la banchina d’attesa.
Scomparve dietro un angolo.
Carmen si rilassò sul sedile. Rimase ferma, in attesa che le porte si richiudesse-
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ro. Nell’aria fluttuava il ronzio dei motori a basso regime che da sotto la carrozza si arrampicavano fino alla pensilina. Nella mente di Carmen si formò, nitida
come un miraggio lontano, la sagoma paradisiaca della porta di entrata della
sua villetta. Non vedeva l’ora di infilare la chiave di casa nella toppa, togliersi i
vestiti e farsi un buon bagno caldo, lavandosi via tutto quanto.
Le porte della carrozza la delusero. Rimasero ostinatamente spalancate. Passò
un lasso di tempo che le sembrò eterno.
“Perché non riparte… dai, forza, muoviti!” Pensò, scrutando ansiosa la banchina deserta della stazione. Poteva entrare chiunque a quell’ora, qualcuno ben
peggiore dell’uomo della birra. Sola, si sentì di nuovo persa. Dopotutto l’uomo
dalla camminata da ippopotamo era stata una figura più che tangibile, chiaro
segno che intorno a lei esistevano ancora esseri umani infilzati nel cuore solitario della notte.
Uno scatto meccanico accompagnato da un soffio pneumatico, avvicinò finalmente le porte della carrozza, lente come le tende di un sipario. Stavano per
chiudersi quando una donna anziana, lacera, i capelli sottili, lunghi, neri come
fili, scarmigliati e sporchi balzò a bordo con uno scatto felino.
Era apparsa dal nulla, sgusciando all’interno della carrozza. Vestiva con un impermeabile sdrucito che un tempo doveva essere stato di un verde scuro, ma
che il sudiciume rappreso sotto forma di croste rendeva ormai più simile al
colore della ruggine. Sotto si intravedeva un maglione largo, dal colore indefinibile.
Una sciarpa lurida era avvolta strettamente intorno al collo. Ai piedi calzava
scarpe da uomo, sfondate, senza stringhe ricoperte da uno strato di fango secco. Carmen guardò meglio, certa di aver visto bene: l’anziana, sebbene fosse
dicembre, non portava calze.
Tra le mani tagliate dal gelo, incrostate di sporcizia come l’impermeabile e con
le unghie lunghe, gialle, reggeva due sacchetti di plastica bianca di un supermercato. All’interno c’era tutta la sua vita, la casa privata in perenne trasloco
con la proprietaria. Scrutandola con più attenzione, notò che la testa era ricoperta da una strana lanugine nera, filamentosa, che aveva ben poco l’aspetto
dei capelli umani. Carmen socchiuse le labbra, ripugnata.
La vecchia voltò la testa nella sua direzione con un movimento, lento, inquietante, come un perno poco oliato su un asse, assumendo un’angolazione bizzarra.
Le carni del volto erano segnate da rughe sporche di qualcosa di nero e raggrumato.
Le cartilagini del naso in gran parte scomparse, apparivano divorate da qual-
345
bruxa
che forma degenerata di lupus eritematoso.58
I loro sguardi s’incrociarono in una specie di comunione blasfema.
Gli occhi della donna, liquidi e neri, erano pozze profonde come un abisso
oscuro, ricolmi di odio e rancore contro il genere umano. No, era qualcosa di
più: dallo sguardo scaturiva una forza antica e terrificante, come un albero secolare morto, le cui radici affondate nel terreno di un cimitero cercavano, a
contatto con le bare sepolte e il loro contenuto, altra vita, penetrandovi.
Spingeva e succhiava a caccia di nuova linfa vitale. Si nutriva di loro, assumendo il succo organico distillato dalle ombre della morte. Quelle pozze nere e
lucide, attraversarono Carmen come lame affilate nel burro.
Con un contraccolpo il convoglio riprese la sua corsa solitaria lungo le rotaie.
A fatica Carmen volse lo sguardo davanti a sé, nauseata, ignorando di proposito gli occhi della vecchia. Il finestrino impolverato davanti a lei, le restituì la
sua immagine; fuori, il buio della galleria, giocando con la luce interna riflessa,
catturò il suo viso. Smunta, irrigidita dalla paura, rabbrividì: l’ovale del volto
sembrava quello di una morta, rimandandole una fotografia già vista tante
volte durante le autopsie.
Con uno sforzo terribile, al limite della resistenza psicologica, tornò a guardare
la vecchia e i suoi sacchetti di plastica ricolmi di cianfrusaglie.
L’anziana sembrava aver perso ogni interesse per lei: in piedi, scrutava nel nero
della galleria la copia riflessa di se stessa, imitando Carmen con quel semplice
gesto. Sembrava attratta da qualche cosa, intenta ad ammirare un bel panorama.
Ci fu un fremito, impercettibile. Sotto i piedi Carmen percepì un attrito lieve
che si allungò come una specie di elastico, seguendo l’intera spina dorsale
d’acciaio del convoglio della metropolitana; poi la forza si concentrò nella motrice di testa, iniziando un breve percorso in salita: era come la mano di uno
scalatore che si afferrava all’asperità di una roccia, tirandosi dietro il resto del
corpo. La linea due in quel punto proseguiva all’esterno, in direzione di Cologno Nord, abbandonando la culla cavernosa della galleria. Una volta fuori
l’oscurità lasciò il posto ad un mare lattiginoso che sfrecciò oltre i finestrini.
Si muovevano nel nulla della nebbia, come in un limbo dantesco.
Ancor prima di rendersene conto, Carmen si ritrovò alla stazione successiva; i
cartelli verdi che intravide appesi lungo la pensilina indicavano la fermata di
Lupus eritematoso: termine medico che indica una malattia del tessuto connettivo
umano, la cui eziologia ignota e ad andamento cronico è fatale. Nel processo di distruzione dei tessuti colpiti, interessa oltre alla cute anche molti organi interni.
58
346
Cimiano, il primo avamposto esterno alla periferia est di Milano.
Appena le porte si aprirono la vecchia voltò di nuovo la testa nella sua direzione. Le labbra violacee si mossero, arricciandosi nella parodia di una bocca
umana, sorridente:
Parlò con voce raschiante, fredda come l’aria esterna che violò la carrozza:
- Buonanotte Carmen... - gracchiò.
Durò una frazione di secondo: con i due sacchetti stretti nelle mani rovinate,
balzò agile sulla pensilina con la velocità di un ragno, voltandole le spalle.
Sospinta da un’ondata di disperazione, Carmen la imitò, tentando con un balzo di raggiungerla, d’afferrarla, di gridarle sul volto orrendo come conosceva
il suo nome.
Fu maldestra e lenta: nella foga inciampò, cadendo riversa in avanti.
Atterrò davanti alle porte che nel frattempo si richiusero con un soffio meccanico.
Fece appena in tempo a scorgere i suoi piedi, le scarpe sudice che nascondevano a malapena la pelle grinzosa di un malsano color bile. Si rialzò, lanciandosi contro i vetri delle porte ormai chiuse; picchiò con entrambi i pugni, cercando invano d’attirare di nuovo l’attenzione dell’anziana. Il convoglio riprese
a muoversi.
Con gli occhi sbarrati e il viso incollato ai vetri, intravide la sagoma della vecchia che, dopo aver appoggiato i due sacchetti sulla banchina, si voltò.
La sagoma lacera appariva ora come una vecchia marionetta ripescata dal fondo di una scatola impolverata, le braccia appoggiate ai fianchi. Con sorpresa
di Carmen, la vecchia alzò il destro in segno di saluto. Le sorrise enigmatica.
Mentre il convoglio prendeva velocità le sembrò di scorgere nella nebbia la
sua mano: era diventata più lunga, deforme, con lunghi artigli ungulati o era
soltanto un’altra allucinazione? A quella distanza, sempre più lontana, le apparve come una madre impegnata in un saluto d’addio alla propria figlia.
La carrozza e Carmen furono di nuovo ingoiate dalla nebbia.
Seppur il convoglio viaggiasse ormai all’esterno, non riuscì a scorgere nulla
oltre i vetri dei finestrini. Nessun edificio, nessuna strada era visibile in quel
mare bianco di nebbia. Raccolse la borsa caduta a terra, crollando seduta su
un sedile. Nel vagone deserto ogni rumore le giunse amplificato come da una
grancassa.
Anche il suo respiro le diede l’idea dell’aria aspirata a fatica da un vecchio e
stanco condizionatore. Il panorama esterno, immutabile, si sovrappose ai
pensieri: chi era quella donna? Come poteva conoscere il suo nome? Stava
sognando in preda a qualche delirio psicotico o tutto accadeva realmente, tra-
347
bruxa
volgendola? Quel sorriso, l’ultimo, dipinto sulle labbra violacee della vecchia
ormai lontana, la precipitò in un fremito di puro terrore. Se la sentiva vicina,
una scia di odori disgustosi, a pochi passi con i suoi occhi neri e liquidi, fissi,
che non battevano ciglio. In tutta la sua vita non aveva mai incrociato un simile
sguardo.
Nulla di umano.
Congiunse le mani protette dai guanti quasi stesse pregando. Le strinse talmente forte che sentì male alle giunture. Quella scarica la risvegliò.
La vibrazione della motrice si diffuse più forte, uniforme, sotto i piedi: senza
punti di riferimento visibili all’esterno, la sensazione fu che tutto il convoglio
stesse accelerando sospinto in avanti. Come una freccia incendiaria lanciata
nella notte da un arciere invisibile, il metrò proseguì nella nebbia, correndo
veloce lungo il tratto esterno, avvinghiato alle rotaie. Il suo orologio segnò le
23 e 53.
Contò i sette minuti che mancavano alla mezzanotte, granelli di tempo pronti
per essere macinati dalla lancetta dei secondi che, costante, incedeva lungo il
quadrante.
“Cinque fermate, mancano solo cinque fermate…” pensò con un tuffò al cuore,
piena di speranza.
Non vedeva l’ora di leggere il cartello della stazione di Cologno Nord, il capolinea, la sua fermata. Prima di allora il metrò avrebbe attraversato i paesi satelliti
di Crescenzago, Cascina Gobba, Cologno Sud e Cologno Centro; dalla fermata
di Gobba, la tratta della linea due si apriva come le lame di una forbice, sviluppandosi in direzioni distinte. Una di queste terminava a Cologno Nord.
Le 23 e 54.
Carmen si mosse sul sedile, nervosa. Chiuse gli occhi, stanca. Si lasciò cullare dal
movimento oscillante della carrozza. Quella tregua momentanea durò poco.
Un’altra vibrazione, nuova e più intensa, scivolò lungo il convoglio. La velocità
aumentò. Le palpebre dei suoi occhi scattarono verso l’alto come due tendine.
Il cuore riprese a battere più forte di prima. C’era qualcosa di strano in quella
nuova ed improvvisa accelerazione. Uno strappo sinistro come l’amo infilzato
nelle carni di un pesce.
Aggrappandosi ad un reggimano si tirò su. Raggiunse il centro della carrozza,
guardandosi intorno, all’erta: sì, il treno accelerava, lento ma inesorabile.
Sempre più veloce.
Il convoglio continuò la sua corsa, potente, animato da una propria volontà,
quasi fosse stato guidato da un conducente impazzito. A quella velocità sostenuta dovevano aver raggiunto e superato già la stazioni di Crescenzago e
348
quella di Cascina Gobba: perché allora non le aveva viste passare oltre i finestrini? Indecisa su cosa fare, travolta dall’adrenalina che aveva ripreso a scorrerle dentro, Carmen prese a camminare su e giù lungo la carrozza. Febbrile,
iniziò a pensare.
Una sola cosa era certa: andavano dannatamente veloci.
Si ricordò che era salita sulla vettura di testa, la motrice, la madre che trascinava dietro di sé le sue figlie, le carrozze. Si precipitò alla piccola porta di metallo
dietro alla quale si apriva la cabina di guida. Un oblò quadrato di plastica blu,
spessa ed opaca, non offriva nessuna visione dell’interno, separando il cervello
del convoglio dal resto del mondo. Afferrò la maniglia, provando ad aprire. Tirò
e spinse con entrambe le mani più volte, imprecando. Era chiusa saldamente
dall’interno.
In risposta ai suoi tentativi vi fu un nuovo strappo. Accelerarono ancora.
Sotto la nuova spinta, il convoglio oscillò pericolosamente sulle rotaie quasi
volesse decollare, spiccando un balzo in cielo. Il rumore sferragliante salì d’intensità, assordandola. Disperata, Carmen bussò alla porta, richiamando a gran
voce l’attenzione del manovratore. Inveì un insulto contro di lui. Picchiò più
volte sulla porta, imprecando furibonda. Non paga, sferrò un calcio con rabbia.
Dalla cabina di guida non giunse nessun segno di vita. A quella velocità, prima
o poi, si sarebbero schiantati alla fine del capolinea.
Esistevano soltanto Carmen, il metrò impazzito, la nebbia esterna.
Ansante e sudata, si fermò. Le 23 e 57. Si guardò intorno, lo sguardo perso.
Un flebile lamento proruppe dalle sue labbra in cerca di un aiuto che non venne. Dovevano aver superato ormai la fermata di Cologno Sud da un pezzo,
lanciati lungo il troncone di rotaie che portava verso la fine della tratta.
Si lasciò cadere esausta e rassegnata su un sedile: dove la stava portando quel
treno fuori controllo? Si sarebbe mai fermato in quell’oceano di nebbia?
Si rannicchiò contro lo schienale, passiva, lo sguardo vacuo. Rimase immobile,
seduta in quella posizione per un tempo indefinito. Perse il senso dell’orientamento, la testa che le girava. Un nuovo scossone la fece trasalire. C’era però
qualcosa di nuovo nella forza sprigionata dalla motrice: un sussurro, una specie di fruscio simile al battito d’ali di una falena intrappolata sotto un bicchiere.
Poi lo percepi, con chiarezza. Il metrò iniziò a decelerare. Lentamente.
“Forse siamo arrivati alla mia fermata… “ pensò confusa, priva ormai d’ogni
punto di contatto esterno. Si riprese a fatica. Sotto il pesante cappotto di lana,
sentì la camicetta aderire come colla alla pelle sudata.
Stanco di quella corsa, come un dinosauro carnivoro senza più fiato, il convoglio rallentò, inerte, esaurendo la sua forza lungo i binari. Carmen inspirò,
349
bruxa
trattenendo per un attimo il fiato: si stavano fermando ma la sua stazione era
ancora lontana. Oltre la nebbia ricordava che la tratta correva in mezzo alla
campagna, seguendo la massicciata che si affiancava parallela ad una strada
solitaria. Con un groppo di nostalgia allo stomaco, da qualche parte, lontana,
sorgeva la sua villetta.
Dopo un lungo tratto, con uno stridio sofferente, le ruote del convoglio si fermarono sui binari. Il motore elettrico si spense con un ronzio metallico cessando ogni segnale di vita meccanica.
“Dove siamo?” Si domandò balzando in piedi. Il rumore sferragliante che l’aveva accompagnata in quella folle corsa era scomparso, sostituito da un silenzio
irreale, assordante. Si avvicinò incredula ad un finestrino: fuori non c’era nulla,
tranne la solita nebbia. Scrutò la porta chiusa della cabina di guida; con un tremito, da un momento all’altro, si aspettava di veder uscire qualcosa di orrendo
che, irrompendo nella carrozza, l’avrebbe aggredita. Arretrò di qualche passo,
portandosi istintivamente vicino alle porte d’uscita. D’un tratto, l’abitacolo interno le apparve come la tana di un gigantesco ragno, pronto a sbranare la sua
preda indifesa. Cercò invano tra la nebbia qualche punto di riferimento, il viso
incollato ai vetri delle porte.
Poteva essere da qualsiasi parte nei pressi di Cologno Nord, magari vicino a
qualche strada che l’avrebbe portata a casa. Bastava orientarsi.
- E adesso cosa faccio? - Sussurò in preda allo sconforto, incurvando le spalle.
Inspirò a fondo, raccogliendo le ultime briciole di coraggio che le rimanevano.
Tornò alla porta della cabina di guida. Bussò debolmente, tendendo l’orecchio.
A parte il suo respiro affannoso, non sentì nulla: il silenzio, ovattato dalla nebbia, era come una massa uniforme di cotone infilata nelle orecchie. Nemmeno
il rumore del motore di qualche auto che passava lontano, lungo la strada,
riuscì a rompere quella barriera irreale. Avvicinò cautamente l’orecchio alla
porta nella speranza di sentire qualche rumore: anche un bisbiglio l’avrebbe
rincuorata. Significava che non era sola, che qualcuno di vivo, oltre a lei esisteva ancora su quel convoglio.
Si ritrasse, delusa. Nella cabina di guida, per quanto le sembrasse inconcepibile, non c’era proprio nessuno. Chi aveva guidato allora il metrò? Una nuova paura, strisciante e sottile, le salì in corpo, aggrovigliandosi nello stomaco
come una massa di serpenti vivi. Si allontanò dalla porta, incredula.
“Devo andare a casa… devo andare…” pensò con un terrore isterico che rasentò uno stato infantile. Non poteva rimanere li, sarebbe stata la fine. C’era
una sola possibilità: raggiunse una delle tre porte automatiche di uscita della
350
carrozza. Fissò, indecisa, la manopola di lucido acciaio usata come apertura
manuale d’emergenza. L’afferrò e tirò verso il basso. Non si mosse.
Allora vi si aggrappò con entrambe le mani e, con tutto il peso, esercitò una
spinta maggiore. Per lo sforzo sentì le vene gonfiarsi nel collo, la testa comprimersi, il sangue concentrarsi in viso. La manopola di sicurezza lottò con Carmen, offrendo resistenza poi, rassegnata, si abbassò cedendo. Un sibilo pneumatico accompagnò l’apertura delle due porte che scivolarono di lato.
Una gelida folata di nebbia lambì i piedi di Carmen. A quella carezza, indietreggiò al centro della carrozza; rimase a guardare sospettosa i riccioli vaporosi
simili a tentacoli che volteggiarono all’esterno in cerca di qualche cosa.
Il suo l’orologio segnò la mezzanotte e un minuto. A quell’ora Carmen doveva
essere già sulla strada del ritorno, in vista di casa. Il pensiero la gettò in uno
sconforto ancor più cupo. Titubante, guardò fuori sporgendosi con cautela, tenendosi aggrappata al bordo delle porte. A stento, penetrando con lo sguardo
nella nebbia, stimò quanto distava il bordo della carrozza rispetto al livello del
suolo: era un breve salto di circa un metro e mezzo o poco più.
Non sarebbe stato difficile saltare giù. Si guardò intorno, spaesata. Si umettò le
labbra secche. Strinse la borsa a sé e trattenendo il fiato come un apneista, balzò oltre. Toccò terra senza problemi, reggendosi in piedi sopra i sassi irregolari
della massicciata delle rotaie. La nebbia, indifferente, rimase a guardare quella
piccola prodezza di Carmen: intorno, il bianco vaporoso scivolò odoroso, carico d’umidità misto a quello del ferro delle rotaie e al grasso dei meccanismi di
sospensione delle ruote della motrice.
A piccoli passi, attenta a dove metteva i piedi, Carmen avanzò sui sassi della
massicciata tenendo alla sua sinistra la carrozza di testa del metrò; ne sfiorò la
superficie con la punta delle dita, un contatto fisico, reale, che le diede un po’ di
coraggio. La motrice, immobile, incombeva sopra di lei. Camminò lenta.
Notò che la massicciata pendeva alla sua destra, ingoiata voracemente dalle
lingue bianche di nebbia. Raggiunse la parte anteriore della motrice: i fari rotondi del convoglio, bianchi e accesi illuminavano accecanti un buon tratto di
binari, squarciando parte di quel velo impenetrabile.
Calcolò che il cono di luce si faceva spazio per una ventina di metri, poi cedeva
il passo alla nebbia, arrendendosi.
Sotto i suoi stivali, grossi sassi grigi formavano il tappeto uniforme della massicciata. Ad ogni passo scricchiolavano in modo sinistro come un mantello
d’ossa spezzate. Fermandosi davanti alla motrice, si schermò gli occhi con le
mani proteggendoli dal bagliore accecante dei fari alogeni; sollevò la testa,
cercando invano di sbirciare oltre i vetri della cabina di guida, in cerca della
351
bruxa
sagoma del manovratore. La luce e la nebbia le impedirono di scorgere qualcuno: se era lì, seduto al suo posto, era impossibile che non si fosse accorto
che una porta del convoglio era stata aperta manualmente da qualche passeggero.
Più il tempo passava, più Carmen si convinse che era rimasta completamente
sola. “Forse non è stata una buona idea uscire qui fuori” pensò, incapace d’abbandonare il senso di paura che l’accompagnava.
Indietreggiò, tenendosi nella luce dei fari della motrice. Chi aveva guidato allora fino a quel momento? Chi aveva accelerato, frenato, aperto le porte?
Tremò, priva delle risposte; incespicò nel binario, scivolando sui sassi della
massicciata. Riversa, in mezzo ai binari, illuminata dai due fari della motrice le
sembrò di vivere in un incubo senza fine; si sentì come un animale di laboratorio imprigionato dentro ad un labirinto in cerca di una via di fuga, osservata
da occhi maligni.
“Adesso mi sveglio… mi sveglio e sono a casa, sotto le coperte…” pensò con una
risatina isterica. Una fitta di dolore al ginocchio destro spazzò via ogni labile
speranza. Con un grugnito sofferente si rialzò in piedi a fatica, spolverandosi
il cappotto. La fitta le attraversò di nuovo il ginocchio. Alla luce dei fari si esaminò: i pantaloni scuri erano strappati all’altezza della rotula. La pelle era stata
grattata via dal bordo tagliente di qualche pietra affilata. La ferita bruciava,
rossa; la pelle era stata sbucciata superficialmente e qualche goccia di sangue
si disegnò sopra l’abrasione. Tenendosi il ginocchio con una mano si tamponò
con un fazzoletto di carta. Guardò lungo la massicciata: non se la sentiva di
scendere laggiù in quelle condizioni. Preferì continuare lungo il bordo esterno
dei binari. Prima o poi, pensò mentre zoppicava nel cono di luce lungo il sentiero marcato dalle rotaie, sarebbe arrivata alla sua fermata, a Cologno Nord. Il
ginocchio, per tutta risposta, pulsò, dolorante.
Avanzò nella nebbia, stringendo spasmodica la borsa in una mano; si lasciò
alle spalle l’intero convoglio, facendo bene attenzione a camminare all’esterno dei binari, lo sguardo puntato su dove metteva i piedi malfermi. Camminò
zoppicando, sola, sprofondata nei pensieri, nei ricordi che l’avevano seguita fin
li; alle sue spalle la luce divenne sempre più fioca, l’odore d’umidità intenso. I
binari, unico punto di riferimento in mezzo alla nebbia segnavano la strada
ferrata da percorrere a passo malfermo.
Lontani, il cono di luce dei fari della motrice si erano trasformati in due minute
fiammelle simili a ceri, pallidi e sempre più deboli nella nebbia.
Quel baluginio biancastro e latteo, illuminò a fatica la strada di Carmen.
Ben presto, il conforto luminoso sarebbe scomparso e lei, isolata da tutto,
352
avrebbe camminato immersa nel pieno di quel muro bianco, con l’unico sostegno dei binari ad indicarle la via di casa. Per un attimo si sentì come Hansel
e Gretel della fiaba: loro avevano le piccole molliche di pane, lei le rotaie. I suoi
passi solitari strisciarono tra le pietre della massicciata. Arrancò, incurante del
dolore che pulsava nel ginocchio ferito; si spinse sempre più lontano, il corpo
ricurvo in avanti, la borsa trattenuta debolmente tra le dita di una mano e i
capelli spettinati, umidi e pesanti di nebbia. Avanzò come un automa.
“Dovrei esserci quasi…si, forse adesso vedrò la stazione. E’ qui, non posso sbagliarmi, deve esserci per forza” pensò con il cuore in gola.
Gli occhi scrutarono senza sosta davanti a lei, spalancati nella poca luce, a caccia della sagoma dell’edificio.
Sentì qualcosa. Un nuovo rumore, indistinto.
Si irrigidì, acuendo vista e udito. Ogni segnale esterno, giunta a quel punto, per
Carmen era un tuffo al cuore.
Il rumore ritornò a farsi sentire, più chiaro. Sembravano dei passi abilmente
sovrapposti ai suoi.
Si fermò, immobile nella nebbia, il sudore freddo impastato sulla fronte. I passi
cessarono con lei.
- C’è qualcuno? - Gridò, la gola secca per la tensione.
Con tutti i muscoli contratti si voltò a guardare indietro il lumicini dei due fari
della motrice. Nulla. Tornò a guardare avanti.
- Chi c’è? - Pronunciò la domanda con forza, cercando di non far trasparire il
terrore nella voce. Lo scalpiccio riprese con il ritmo di prima, incedendo nella
nebbia. Chiunque fosse, non aveva più interesse a mimetizzarsi con i passi di
Carmen.
Tese l’orecchio: il suono proveniva senz’ombra di dubbio davanti a lei.
Aspirò una boccata d’aria fredda. La nebbia scivolò dentro di lei, vorticando
come fumo. Mosse qualche passo sulle pietre: indietro non poteva tornare, davanti qualcosa la precedeva, camminando nella sua direzione.
Il rumore divenne distinto: sì, erano proprio dei passi, lenti e misurati.
Qualcuno stava procedendo come lei nella nebbia, lungo il tratto dei binari.
“Un altro passeggero?” Pensò poco convinta. La presenza non era molto lontana da lei, celata nel muro di nebbia. Si trascinò in avanti, affaticata nel camminare sui sassi acuminati della massicciata.
- Chi c’è laggiù? Risponda, la prego… - la voce le si spezzò in gola. Stanca,
infreddolita, affamata e terrorizzata, sapeva d’essere ormai prossima ad un
collasso fisico e nervoso. D’un tratto si guardò intorno, perplessa. Era strano:
nonostante la lontananza dei fari, la nebbia, aveva preso a diffondere intorno
353
bruxa
a Carmen una flebile luminescenza sepolcrale..
Il rumore di passi era sempre davanti a lei. Accelerò più che poté il passo malfermo, ignorando le fitte di dolore che il ginocchio le lanciò: doveva raggiungere quella persona, un’anima come lei persa nella notte.
Rabbrividì, ma non per il gelo.
Una sagoma sottile, poco più alta di Carmen le camminava davanti, dandole
le spalle. Nella nebbia notò pochi particolari. Con il fiato corto ed il ginocchio
che le doleva bruciando, arrancò nella sua direzione. I passi della sagoma, ora
distinti e chiari, erano strascicati sulle pietre, a fatica. Si muoveva lenta, senza
fretta. Sembrava non essersi accorta di Carmen.
- Ehi, si fermi! - gridò alla sagoma, incespicando tra i sassi delle rotaie.
Lo slancio e la curiosità si estinsero subito come fuochi fatui quando, a pochi
passi dalla figura, scoprì com’era vestita.
Indossava una sottile camicia da notte di pizzo bianco che la rendeva uniforme con il muro di nebbia. I capelli scendevano lunghi e neri a metà schiena,
scarmigliati, dalla consistenza stopposa. Sembravano voler cadere a ciocche,
marci. Le spalle erano nude, magre e scheletriche, come quelle di una persona
denutrita. La sagoma smise di camminare, il respiro di Carmen si fermò.
“E’ una donna” pensò pietrificata.
La sagoma aveva raggiunto quel punto della massicciata a piedi nudi, incurante del freddo e del manto di pietre taglienti. Rimase immobile, con il piede
sinistro in avanti, l’altro poco più indietro, come una ballerina di danza classica
in ascolto di note musicali invisibili. Carmen avanzò, cauta, attratta dalla figura
di quella donna.
Il cuore le batté nella cassa toracica, pronto a staccarsi dal petto. Contrasse i
pugni, nervosa, ormai prossima al punto di rottura. Le labbra, per via del freddo, iniziarono a dolerle, insieme alle estremità di mani e piedi. Il ginocchio, ormai anestetizzato dal gelo, smise di preoccuparla. Giunse ad un metro dalla
sagoma in camicia da notte. Balbettò, strappandosi dalla gola le parole:
- Signora, cosa sta facendo? Si volti... per favore. La donna non rispose, immobile nella posizione di prima.
A quella distanza Carmen poté osservarla meglio nella debole fosforescenza
emanata dalla nebbia: i capelli neri e scarmigliati erano sparsi come cespugli
filamentosi ed incolti sulla testa. La pelle delle braccia, del collo e delle spalle
era malata, gialla, screziata di macchie irregolari scure; quest’involucro di tessuti ricadeva molle sulle ossa che s’intravedevano sotto. La magrezza era resa
ancor più evidente dalla camicia da notte di pizzo che, grande, le ricopriva il
corpo lambendola fino ai polpacci. L’associazione colpì immediatamente Car-
354
men: sia la pelle che la camicia da notte, entrambe larghe, si appoggiavano su
quel corpo macilento, impegnate a nascondere ansiose un orrore fisico ben
peggiore, celandolo agli sguardi del mondo.
Più giù, c’era qualcosa di strano, di scuro, che cresceva sulle gambe, simile a
della peluria animalesca. I piedi scalzi, bluastri e contratti per il freddo, le rimandarono l’immagine degli artigli di un’arpia. Come poteva resistere un essere umano in quelle condizioni? L’immobilità della donna era inquietante:
sembrava scolpita in un blocco di ghiaccio.
Non respirava. Non si muoveva.
- Signora... - la voce di Carmen implorò, tremante. Lentamente, allungò la mano
destra protetta dal guanto di pelle. Le toccò delicatamente una spalla.
Era rigida come marmo.
A quel contatto, la testa ruotò di centottanta gradi, violando ogni legge anatomica conosciuta sul corpo umano: uno scricchiolio d’ossa e cartilagini avvitate
su se stesse, risuonò raccapricciante nell’aria. Priva d’ogni barriera d’autocontrollo, libera da costrizioni razionali, Carmen lanciò un urlo di puro terrore.
Balzò all’indietro. Incespicò su un asse di collegamento tra i due binari, lottando per rimanere in piedi, le mani protese alla ricerca di un impossibile appiglio.
Ondeggiò per un attimo, come una foglia battuta dal vento, riacquistando poi
il suo equilibrio originale.
La testa girata della donna seguì incuriosita quell’evoluzione da equilibrista. Il
volto della creatura era ricoperto da una fitta peluria simile a crini di cavallo,
lunghi, neri che fluttuavano nell’aria come tanti girini dotati di vita propria, figli
di una madre blasfema.
I capelli neri le ricadevano sulla fronte, incrostati di una strana sostanza gialla,
maleodorante che travolse con il suo fetore immondo le narici di Carmen. Boccheggiò stordita per la nausea. Sotto quella selva di peluria viva in continuo
movimento, la faccia della donna era emaciata, scarna, ricoperta di tumefazioni irregolari, bluastre e confuse. Carmen si ritrasse, disgustata, incapace di
distogliere lo sguardo da quell’apparizione infernale. La sanità mentale, vacillò,
pronta ad abbandonarla per sempre.
La creatura ruotò il resto del corpo con un molle rumore di carne strappata,
spostando prima il tronco con le braccia, poi le gambe, allineandosi di nuovo
nella forma originale con la testa: erano di fronte una all’altra. L’essere prese a
galleggiare ad una spanna dal terreno, tra la nebbia, i piedi orrendi e contratti.
La testa assunse un’inclinazione bizzarra, a sinistra: scrutò Carmen, malefica e
divertita al tempo stesso. La osservò come un cacciatore ammira la sua preda
a lungo inseguita, seguendone compiaciuta ogni linea del corpo. Si nutrì come
355
bruxa
un parassita del puro terrore che Carmen emanava, attratta come un’ape dal
pistillo di un fiore, succhiando lenta e perversa quel miele prelibato. Carmen,
priva ormai d’ogni volontà, alla sua mercé, non riuscì ad opporre alcuna resistenza. La creatura fluttuò più vicino, a meno di un metro, stabilendo un contatto più intimo, immondo.
- Tu… tu, cosa… cosa sei? - Riuscì a sussurrare Carmen, sempre più debole con
le lacrime agli occhi. Il naso scarnificato dal lupus eritematoso, gli zigomi ossuti
e sporgenti, la pelle gialla screziata di macchie scure, le lanciarono un déjà-vu.
Gli occhi, neri, profondi e lucidi che aveva già visto s’accompagnarono ad un
terrore senza nome.
La creatura sembrò capire la domanda. In risposta, frugò nella mente di Carmen come una mano affondata nel ventre aperto di una vittima sacrificale:
scoprì i denti affilati, triangolari e seghettati in un sorriso che non aveva nulla
di umano. Le labbra incrostate di sporco scricchiolarono piegandosi all’insù.
Fu rapidissima. Le orecchie di Carmen furono travolte da uno stridore di zanne
che sfregavano l’una contro le altre, vicinissime, dando vita ad una cacofonia
che la stordì, un gorgo che le strappò via, pezzo a pezzo l’anima, piegandola
ad un volere malefico. Il rumore salì oltre ogni umana soglia di sopportazione;
percepì qualcosa di caldo e denso che colò all’esterno di entrambi i canali uditivi, scivolandole appiccicoso dietro il collo.
Dentro di sé ci fu uno strano contraccolpo, improvviso, come di rametti secchi
spezzati. Lasciò andare la borsa, crollando in ginocchio su una traversina di
legno dei binari.
Con un disperato grido di dolore si portò entrambe le mani alle orecchie: era
diventata sorda. Vacillò, il volto esangue e stravolto, guardando in l’alto verso
l’entità a mezz’aria che ora incombeva soddisfatta su di lei.
In quel silenzio improvviso, violento, incapace di udire, il dolore scavò una galleria fino al centro del suo cervello come un bruco nella mela. Galleggiando
nell’aria, la creatura spalancò famelica le mascelle, allargando le lunghe braccia scheletriche in un movimento maestoso e terrificante, come un amante
caloroso pronto a congiungersi in un abbraccio appassionato con il proprio
partner.
“Vieni da me, Carmen…” la voce gracchiò nella sua testa, recidendo ogni flebile
cordone di sanità mentale. Carmen, in ginocchio, il sangue che le usciva copioso dalle orecchie, sollevò debolmente un braccio, il pugno stretto, in segno di
sfida verso la creatura, nel disperato tentativo d’opporsi al blasfemo invito. Fu
allora che dalle fauci spalancate della creatura, fuoriuscì saettando una specie
di lingua biforcuta lunga quanto un braccio umano, spessa come un tubo di
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qualche centimetro di diametro; assomigliava ad una protuberanza carnosa,
rosa e viscida dalla quale colò un umore biancastro, denso.
La lingua, venata e pulsante, era dotata di una mobilità sorprendente quasi si
fosse trattato di una seconda entità ospite nel corpo della donna con la camicia da notte.
La protuberanza si attorcigliò su se stessa, fendendo l’aria come una frusta,
attraversata da un fremito perverso.
Si allungò raggiungendo il volto di Carmen, leccando con piacere il sangue
che usciva dalle orecchie, ripulendole il collo; seguì le linee del viso, soffermandosi vischiosa sulle labbra serrate e tremanti di Carmen in una specie di bacio
demoniaco. Senza più difese, subì passiva quel contatto indicibile, soffocata
dall’odore di carne rancida che quell’appendice emanava.
Terminata l’opera di pulizia, nutrita e soddisfatta, la protuberanza a forma di
lingua biforcuta, veloce, rientrò con un risucchio liquido nella gola della creatura.
L’essere fluttuò, immobile, sopra Carmen, le braccia sempre spalancate.
Le mani, lunghe, ricoperte d’escrescenze bitorzolute gialle e suppuranti, terminavano in artigli lunghi ed affilati, incrostati da grumi scuri; balenarono nel latteo biancore della nebbia trasformatasi nel frattempo in un drappo luminoso,
pulsante come un enorme cuore di luce incassato nel petto di un gigante.
La camicia da notte di pizzo dell’essere svolazzò nell’aria con maligna sensualità, mentre la selva di peli vivi che crescevano sul volto della creatura, si protese
impegnata in un ultimo e lascivo abbraccio.
Con un balzo fu sopra Carmen.
Prima di subire il rito finale della macellazione, prossima alla morte, Carmen
spalancò la bocca in un muto ed estremo grido di dolore, un terrore che non
aveva uguali sulla Terra.
Privata ormai dell’udito, non sentì mai la sua voce lacerare la notte, quando
gli artigli e le zanne affilate iniziarono a smembrarla, svuotandola per sempre
della vita, avvolgendola in una fragranza di carne rancida ed incenso speziato.
Di una cosa sola fu felice nell’atto finale del trapasso: era finalmente libera dallo stridore ossessivo, lacerante, dei denti affilati che, precisi, si nutrirono di lei.
Non sentì nessun dolore quando il suo corpo fu tranciato in due di netto, maciullato dalle ruote del convoglio della metropolitana che correva in direzione
di Cologno Nord.
Vide solo la luce, una splendida luce angelica incarnata dai fari alogeni della
motrice di testa che la portarono via da questo mondo, insieme alle sue viscere, alle membra, alla sua testa, spargendole per un centinaio di metri lungo le
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bruxa
rotaie della massicciata, benedetta dal suo stesso sangue, precipitandola in un
abisso nero.
Quella mattina l’ispettore Angelo Morelli sospirò turbato. Non era da lui. Guardò, terreo in volto, i resti sparsi di Carmen Canesi su un tavolo della sala delle
autopsie dell’Istituto di Medicina Legale.
Sconvolto, non aveva ancora ben realizzato la dinamica della tragedia.
Di morti, nella sua lunga carriera alla Omicidi ne aveva visti parecchi, forse
troppi; di certo non si sarebbe mai aspettato di rivedere la dottoressa Canesi
in quelle condizioni, smembrata e con le viscere sparse sulla massicciata della
linea due per Cologno Nord. Il corpo era stato raccolto nella stessa zona del
primo incidente, quello della vecchia suicida.
“Due incidenti fotocopia nello stesso luogo, è un po’ troppo per i miei gusti…” pensò Morelli passandosi nervoso una mano tra i capelli. L’assonanza lo turbò ancor di più della povera testa di Carmen, tranciata dal resto del corpo, gli occhi
spalancati nel vuoto, il suo bel viso deturpato da gruppi disomogenei di ferite
profonde che scoprivano le ossa bianche del teschio. Il labbro inferiore era
stato strappato via di netto e molti dei denti erano frantumati, risultato diretto
dell’impatto violento con l’intero convoglio. Alcune parti dei suoi lunghi capelli neri mancavano all’appello: le ciocche erano state asportate con violenza
dal cuoio capelluto, esponendo le parti sottostanti a chiazze rosse irregolari,
incrostate di sangue. Viste così, sotto la lampada alogena del tavolo autoptico,
quelle zone gli suggerirono l’idea di microscalpi localizzati.
Preferì non soffermarsi sulle restanti condizioni in cui versava il cadavere di
Carmen. Al momento poteva bastare. Davanti a lui, il professor Pieri, in camice
verde, guanti e mascherina era impegnato ad esaminare ammutolito e sconcertato il cadavere.
Dopo la ferale notizia, si era precipitato immediatamente in Istituto alle sette
del mattino, assumendo personalmente la direzione delle analisi autoptiche
sul corpo. Come Morelli, era pallido in viso: mai nella storia passata dell’Istituto di Medicina Legale un simile caso si era verificato, che un medico legale si
suicidasse.
Per la seconda volta in due giorni, Morelli era stato avvertito telefonicamente
dalla Centrale alle cinque e trenta del mattino. Aveva subito fatto bloccare il
traffico della linea due nel tratto in direzione di Cologno Nord permettendo
l’avvio dei rilievi del caso agli agenti della Scientifica. Poi, una volta rimossi
i resti di Carmen dai binari, la circolazione dei treni aveva ripreso a scorrere
regolarmente come sempre.
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Tutti, dal personale della Scientifica, agli obitoriali intervenuti sulla scena, ai
medici legali dell’Istituto, erano rimasti sconvolti dal suicidio di Carmen Canesi.
“Sarà stato veramente un suicidio?” Pensò Morelli, allontanandosi dal tavolo autoptico, il volto cupo, lontano da quello scempio di carne e sangue.
Molte, troppo cose non gli quadravano. Prima di tutto c’era la questione della
vettura: perchè Carmen aveva lasciato la sua Toyota parcheggiata nel cortile
interno dell’Istituto, decidendo di ritornare a casa, da sola, a sera inoltrata con
i mezzi pubblici? Come aveva fatto a raggiungere la massicciata esterna della
metropolitana? Ma soprattutto che cosa era la strana moneta che aveva rinvenuto personalmente, esaminando la borsetta di Carmen, imbustata e con
la data del giorno prima, il cui numero di caso la legava alle indagini ancora in
corso sulla morte della vecchia suicida? Da quando, si domandò, un medico legale era autorizzato a portarsi a casa senza il consenso scritto di un magistrato
le prove repertate su una scena di un crimine o di un potenziale suicidio?
Troppi enigmi, tante le domande, poche le risposte. La testa gli girò ancor di
più pensando a come i poveri resti di Carmen erano stati rinvenuti: come la
donna anziana sconosciuta del giorno prima, indossava una sottoveste di pizzo bianca, lacerata e intrisa di sangue; addosso, sul tronco devastato, portava
ancora i resti della sua costosa giacca di Armani.
Se la ricordava bene: era un’immagine nitida, stampata nella mente.
Che Carmen fosse impazzita? No, non era per niente convinto di quest’ipotesi; anzi, la sottoveste e tutto quanto il resto, erano elementi che gridavano
all’enigma, un mistero indecifrabile per lui. Ci avrebbe pensato, avrebbe indagato, battendo ogni pista, seguendo il più piccolo ed infinitesimale indizio.
Avrebbe fatto luce sulla questione, assegnando il colpevole alla giustizia.
Sorrise senza gioia dentro di sé: già pensava ad un assassino, non ad un lucido
e tragico atto di follia.
Passeggiò nervoso su e giù per la sala autoptica, ignorato dal professor Pieri,
intento ad esaminare il braccio sinistro maciullato di Carmen. Si fermò a distanza come spesso faceva in quelle occasioni.
Sentì un brivido scorrergli lungo la schiena, improvviso.
Non aveva per niente voglia di dondolarsi sui tacchi e nemmeno di fumare.
Voleva bere qualcosa di forte. Sì, bere lo avrebbe aiutato ad incasellare le tessere di quegli elementi assurdi che componevano la forma di un puzzle sconosciuto. Era come avere tanti pezzi di un mosaico di cui però si ignora la forma
finale e che, una volta messi insieme, avrebbero disegnato l’entità principale.
Con la testa piena di dubbi, Morelli si domandò che cosa sarebbe emerso alla
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bruxa
fine di quel sentiero.
Scrutò di sottecchi il professor Pieri: anche lui, dopotutto, visto il pallore diffuso
del viso sotto la mascherina protettiva, aveva bisogno di una dose di alcol. Si
guardò intorno, in cerca d’ispirazione. Cosa avrebbe scritto nel suo rapporto
finale per il magistrato? La moneta ritrovata nella borsa di Carmen poteva essere un buon punto di partenza.
“Si, potrei partire da lì dopotutto” pensò.
Il brivido ritornò più forte di prima. Sentì freddo.
Come poteva legare tra loro, se un nesso c’era, la morte della vecchia sconosciuta del giorno prima, quella di Carmen e il cadavere mutilato ed eviscerato
di un giovane storico rispondente al nome di Nicola Di Meo, impiegato presso
la biblioteca dell’Università Statale, rinvenuto in un parcheggio non troppo
lontano da Città Studi insieme alla sua auto, una Ford coupé blu, con il motore accesso e la portiera a lato guidatore aperta? Tre casi che, secondo un suo
particolare “sesto senso” potevano essere collegati ad un disegno più vasto.
Erano nodi di una maglia che portava chissà dove, sviluppando una trama imprevedibile. Di più: perché Carmen, accettando per buona l’ipotesi del suicidio,
avrebbe dovuto scegliere l’identico luogo nel quale, soltanto quarantotto ore
prima, era deceduta nelle medesime e drammatiche condizioni, una donna
anziana sconosciuta?
Era stata forse sotto l’effetto di qualche droga psicotropa? Gli esami tossicologici sui resti del cadavere avrebbero fugato ogni dubbio al riguardo. E la sua
pelle: come mai, ad un’indagine necrotica superficiale da parte del professor
Pieri, risultava vecchia, prosciugata come quella di una vecchia di ottanta anni?
Tra tutti gli elementi raccolti, quest’ultimo lo metteva profondamente a disagio, al punto d’inquietarlo.
La sua borsa era stata recuperata sulla scena. Purtroppo il cellulare era andato
distrutto e, difficilmente, gli abili tecnici informatici della Polizia Postale avrebbero potuto ricostruire le ultime ore di vita di Carmen. Morelli si passò stancamente una mano sul viso pallido. Con tutti quegli elementi contraddittori
ed oscuri a sua disposizione, non riusciva ancora credere alla tesi che Carmen
avesse scelto la strada del suicidio. Ad un tratto si sentì in colpa per l’ironia
che aveva usato spesso nei suoi confronti, punzecchiandola riguardo al suo
matrimonio. Entro un’ora avrebbe incontrato il marito per il riconoscimento
ufficiale della salma della moglie.
C’era tempo a sufficienza per farsi un giro.
Si congedò dal professor Pieri ed uscì dall’Istituto. Fuori era una bella giornata,
fredda ma soleggiata. Le nuvole e la nebbia della sera prima erano state spaz-
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zate vie. Il cielo, di un blu elettrico, ricopriva come un vivido manto celestiale
l’intera Milano. Erano i primi di dicembre e Natale ancora lontano assieme allo
stucchevole rito dei regali e delle cene in famiglia. Sì, aveva proprio voglia di
bere quella mattina, al diavolo le regole. “Si fottano tutti quanti!” pensò con rabbia. Si sentì anche lui a pezzi, smembrato, per un attimo defraudato della sua
dignità, come Carmen, laggiù, nel “bunker” della sala delle autopsie, in quello
che un tempo era stato il suo regno. La sua fortezza.
La regina era morta. Viva la regina.
Ficcandosi le mani nelle tasche dell’impermeabile, attraversò a passi rapidi i
giardini di piazzale Gorini, affollati di studenti che migravano in direzione dei
vari istituti universitari sparsi per Città Studi. Sapeva dove andare: puntò dritto come un segugio all’angolo di un bar che si affacciava sul piazzale. Gettò
un’occhiata al suo orologio: le 8 e 30. Entrò e prese posto ad un tavolo, lontano dalla porta d’entrata e dagli impiegati degli uffici dei dintorni desiderosi a
quell’ora soltanto di un buon caffè.
Morelli la pensava diversamente. Ordinò un brandy. Poi un secondo ed infine
un caffè corretto con grappa. Rimase lì, lo sguardo perso nel vuoto, in bocca
il sapore di alcol mischiato alla fragranza del caffè appena tostato, lo stomaco
che ribolliva sotto gli effetti di quel carburante. Prese da una tasca interna del
soprabito grigio un taccuino e una biro. Lo aprì e iniziò a scrivere un elenco:
ordinò tutti gli elementi in suo possesso, sottolineando le contraddizioni.
Tracciò su carta una mappa dell’indagine, aggiungendo nell’albero delle ipotesi con un punto di domanda, le piste che avrebbe dovuto battere: da qualche parte sarebbe arrivato. Lo sentiva fin dentro alle ossa, come il brivido che,
da quella mattina, ad ondate lo attraversava.
Ordinò un ultimo brandy. Decise di rientrare in Istituto. Doveva preparare assieme al professor Pieri tutta la documentazione legale relativa al riconoscimento da parte del marito del cadavere ricomposto di Carmen.
Pagò ed uscì. Fu all’altezza del muro che costeggiava il tozzo edificio dell’obitorio annesso all’Istituto che la notò.
Una vecchia accovacciata vicino al muro chiedeva l’elemosina, sommessa e a
capo chino. Si dondolava su e giù, ritmica. Sporca e lacera, stretta in un impermeabile verde scuro terribilmente sudicio, teneva davanti a sé a mo’ di questua
un barattolo di conserva, vuoto e tagliato a metà.
“Povera vecchia” pensò Morelli, allungandole qualche spicciolo nel barattolo.
Smise di dondolarsi sentendo il tintinnio delle monete. Non alzò la testa. Intorno alla gola, teneva stretta una sciarpa di lana bisunta legata sotto il mento
con un nodo. Annuì sempre a capo chino, ringraziandolo con voce gracchian-
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bruxa
te. Morelli rimase per un istante a osservarla: doveva soffrire di una particolare
malattia perché i suoi capelli lanuginosi sembravano finti, come quelli delle
bambole, strani fili neri che penetravano nel cuoio capelluto bianco e sporco. La pelle del viso, notò, era gialla quasi fosse affetta da itterizia, screziata di
macchie scure.
- Grazie, signore... grazie, troppo buono. - Ripeté la vecchia.
Allungò furtiva una mano verso gli spiccioli raccogliendoli dal barattolo, ficcandoli con un gesto veloce dentro ad uno dei due sacchetti di plastica bianca
appoggiati di fianco. Riprese a dondolarsi, portandosi le mani in grembo. Erano
avvolte da un paio di guanti di pelle nera, strappati in più punti in mezzo alle
dita, rivestiti di pelo morbido grigio. Morelli li scrutò, interdetto: dove aveva già
visto quei guanti? Avevano un che di familiare.
- Il sole tramonta, la luna è nostra signora e maestra. - Disse all’improvviso la
vecchia con voce gracchiante, il capo chino, dondolandosi lenta.
L’ispettore la guardò, perplesso, certo di non avere afferrato il senso compiuto
di quella frase. Sentì di nuovo freddo nelle ossa. Si strinse nel soprabito, gettando un’ultima occhiata alla vecchia seduta sul marciapiede sporco, gli occhi
di lei puntati sul barattolo vuoto davanti a sé. “Di gente strana c’è ne è tanta a
Milano…” pensò Morelli camminando in direzione dell’Istituto.
Una volta che l’ispettore si fu allontanato, la vecchia si alzò a fatica, appoggiandosi al muro, sofferente. Raccolse con un grugnito i due sacchetti di plastica,
allontanandosi lungo piazzale Gorini.
Prima di attraversare lenta la strada, infilò una mano scheletrica protetta da un
guanto dentro al maglione sporco e sformato che portava addosso. Ne trasse
una piccola busta di plastica trasparente sigillata. Dentro c’era una moneta
incisa legata ad un cordino di cuoio, imbrattata di grumi scuri e secchi.
Le dita si strinsero con un sospiro d’infinito piacere sull’oggetto. Sorrise maligna, le labbra piegate all’insù, identiche a quelle incise sulla moneta.
La vecchia gettò un’occhiata fugace nella direzione che aveva preso Morelli.
Sogghignò, gracchiando.
Nascose la moneta. Una volta lontana, appartata su una panchina isolata del
piazzale, rovistò in una tasca interna dell’impermeabile lurido: un mazzo di
monete di bronzo legate a dei cordini di cuoio anneriti, tintinnò nel palmo
della mano destra. Guardò i suoi trofei, soddisfatta, gli occhi scuri avidi.
Anche questa volta l’esca aveva funzionato. Ovunque andava, le prede abboccavano sempre rendendo la caccia piacevole ed elettrizzante. Bastava lanciare
la rete ed aspettare: prima o poi, qualche anima ci sarebbe finita dentro.
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Bisognava soltanto saper aspettare.
E lei aveva la pazienza e tutto il tempo di questo mondo.
Per oltre quattro secoli, in ogni parte del mondo, l’esca era stata il suo sostegno,
la via per procacciarsi il cibo, per lei e per la figlia che, addormentata, attendeva
in fondo alla gola. Erano un tutt’uno, inscindibile. Scrutò nuovamente il mazzo
di monete: alcune erano rovinate, consumate dal tempo, altre lucide e più recenti, rivaleggiavano con le prime. Sfiorò lentamente con un dito i volti incisi
in rilievo sulle ultime due monete-trofeo: nella prima si notava un giovane con
la testa rasata, nella seconda una bella donna dai capelli lunghi.
- Eh, eh…Nicola e Carmen. - Sibilò. Continuò ad accarezzare con la punta del
dito il rilievo dei loro volti, percependo a quel contatto le loro anime dibattersi
spaventate come pesciolini presi all’amo, imprigionati per sempre dentro a
quella gabbia inviolabile di bronzo circolare.
Suoi per sempre, suoi per l’eternità. Continuò a sorridere rivolta ai due visi, poi
rimise le due nuove monete insieme alle altre del mazzo. Aprì uno dei due
sacchi di plastica, sciogliendo il nodo ad una coperta di panno. Gettò dentro,
compiaciuta, le monete che con un tintinnio si aggiunsero alle altre centinaia
sul fondo. Giacevano tutte in ordine sparso, come le anime rinchiuse in un girone infernale, trattenendo in ognuna di loro le anime delle prede cacciate.
Se qualcuno fosse passato di li, si sarebbe fermato, basito, nell’udire in lontananza dei deboli, sottili lamenti umani, provenire da quel sacco aperto. Richiuse la coperta, annodandola di nuovo. Ingobbita, la vecchia riprese il cammino,
portandosi dietro con passi strascicati il corpo macilento.
Nessuno vi badò. Nessuno si fermò impietosito. Tranne per le prede, nessun
essere umano poté scorgere la Bruxa passare per piazzale Gorini. Ridacchiò,
pensando al suo nuovo cibo, a quanto lei e la figlia si sarebbero divertite anche
questa volta.
Fù solo quando insieme al professor Pieri in Istituto, esaminando gli oggetti
repertati sul luogo della morte di Carmen che, sconcertato, se ne rese conto: la
strana moneta nella busta delle evidenze quale prova di un’indagine ancora
in corso e da lui rinvenuta, era svanita nel nulla. La cercarono ovunque, in ogni
angolo, invano. Mobilitarono anche gli obitoriali e alcuni tirocinanti. Nulla.
Da quel momento, Morelli fu accompagnato da una bizzarra e fastidiosa sensazione uditiva: ogni tanto, nelle orecchie era in grado di percepire uno strano
rumore ovattato, lontanissimo, simile allo stridore di denti sfregati gli uni sugli
altri.
Turbato, pensò che stava invecchiando e che la pensione era ancora lontana.
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autori
FABIO FOX GARIANI
(Bruxa)
Classe 1962, è scrittore, sceneggiatore, regista e giornalista pubblicista.
Dal 2003 è docente di Scrittura Creativa, Sceneggiatura e Regia Cinetelevisiva presso la Società Umanitaria di
Milano.
Collabora in qualità di sceneggiatore
e soggetista con la casa di produzione video cinetelevisiva 422 WEBCAST
di Milano. Tra le sue molteplici attività
editoriali è, tra le altre cose, responsabile dell’Ufficio Stampa della FSI
(Federazione Scacchistica Italiana),
disciplina sportiva associata al CONI.
Ha creato e curato nel 2003 la collana Scena Del Crimine, dedicata alla
Criminologia e alle Scienze Forensi,
edita da Ulysse Netwok, pubblicando
i seguenti quattro volumi: Il Caso Cogne, Erika e Omar, Il Mostro di Firenze, Il
delitto Gucci. Per la casa editrice Riza
di Milano pubblica nel 2002 il saggio
“L’Autoguarigione: viaggio nell’Italia
misteriosa” nella collana Riza Scienze.
Nel 2005, in collaborazione con l’editore Franco Maria Ricci cura il libro Re
di Scacchi in occasione delle Olimpiadi scacchistiche di Torino nel 2006.
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Dal 1988 al 1999 é stato collaboratore presso il quotidiano Il Giornale. Nel
periodo 1988-1990 ha creato e diretto la rivista di fantascienza, fantasy e
mistero S&f: Scienza e Fantasia edita
dalla Italy Press di Milano.
Nello stesso periodo inizia a collaborare con il settimanale Donna Moderna, scrivendo brevi pezzi per la pagina
della Scienza, quella del Cinema e dei
Libri. Dal 1995 al 1997 ha scritto per il
mensile X-Files dedicato all’omonima
serie televisiva di Chris Carter, edito
dalla Magic Press di Roma. Ha collaborato con la casa editrice di fumetti
Sergio Bonelli Editore alle collane ed
alle iniziative speciali degli Almanacchi del Mistero del personaggio ideato da Alfredo Castelli, Martin Mystére,
il detective dell’impossibile.
E’ stato autore e sceneggiatore del
format Insolito Magazine: Indagini nel-
l’italia misteriosa” (12 episodi) per la
prima Web tv italiana Netsystem durante la stagione del palinsesto 20002001. Dal 2001 al 2003 ha lavorato per
Disney Channel in qualità d’autore di
testi per il programma Live Zone, in
onda sull’omonimo canale satellitare.
In ambito giornalistico è stato corrispondente del mensile Stargate (Edizioni Futuro, Roma) dal 2000 al 2003
Ha collaborato con il mensile Best Movie nel 2005.
Ha scritto e diretto il mediometraggio Il cane di pietra (2005), Amore in
bilico (regia e sceneggiatura, 1997),
Mefisto (regia e sceneggiatura, 1996),
Viaggio Immaginario (regia, soggetto
e sceneggiatura, 2000), Luce (regia,
soggetto e sceneggiatura, 2001) Il
giocattolo del diavolo (regia, soggetto
e sceneggiatura, 1996), Chi ha paura
delle Streghe? (regia, soggetto e sceneggiatura, 2002), Siren Song (regia
videoclip musicale, 2006) I Gladiatori della Scacchiera (regia, soggetto e
sceneggiatura documentario sulla
37° Olimpiade degli Scacchi a Torino
2006 per la Federazione Scacchistica
Italiana), e i recenti cortometraggi
Lost Love, Mane Ki Neko e Yoru No (regia, soggetto e sceneggiatura, 2008).
Attualmente è prossima l’uscita nella
collana Horror della Arnoldo Mondadori il romanzo lungo Wendigo. In lavorazione c’è un nuovo romanzo horror ambientato in Giappone, dal titolo
provvisorio Sakuko, ed una successiva
antologia di racconti lunghi legata ai
fantasmi e alle creature fantastiche
dei miti giapponesi.
Da questi è in produzione la nuova
serie a fumetti Manga Giapponesi,
Sakuko, prevista in uscita per il prossimo futuro.
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