riflessioni di un professore in vacanza

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riflessioni di un professore in vacanza
RIFLESSIONI DI UN PROFESSORE IN VACANZA
di Lia Ciciliot
Questa volta non sono presente nella Rivista “Nuova Didattica” con una relazione, o una
recensione “et similia”, ma con alcune mie personali riflessioni.
Estate: tempo di esami (di maturità e di riparazione, ahimé!) e di vacanze.
Dall’età di sei anni, luglio per me è sempre stato sinonimo di riposo e svago, più bello di
agosto, perché lo precede ed è l’inizio di quell’agognato periodo di ferie, visto che, appunto, sono
entrata nella scuola a sei anni per non uscirne più, restandovi, per alcuni anni, contemporaneamente
nel ruolo della studentessa e dell’insegnante.
Durante la calura estiva mi sono bagnata nelle acque limpide e mi sono distesa sulla sabbia
candida e fine della Sardegna. Ho contemplato la vastità di alcune vallate del Cuneese, nella
“Provincia granda”, sfiorato i petali – quasi stoffa – delle stelle alpine e parlato – sì, parlato, non ho
sbagliato verbo – con asinelli, mucche,camosci e frettolose marmotte che, in verità, non mi hanno
degnato di grande attenzione, limitandosi a lasciarsi fotografare.
Mi sono riparata dal sole, dal vento, dalla pioggia e dalla grandine e mi sono sentita
piccola, piccola e impotente.
Ho capito, a fior di pelle, come la Natura può tenermi in scacco, scottandomi, assetandomi,
fiaccandomi lungo impervie salite, bagnandomi con piovaschi violenti e improvvisi: mi ha
dimostrato – caso non lo avessi ancora capito – quanto è più forte di me ed imbattibile.
Ho “sentito” il sublime di Kant, contemplando la vastità del mare e del cielo stellato e
provando, appunto, la violenza della Natura.
Ho dedicato del tempo al lavoro manuale, proficuo e appagante, al teatro ed ai concerti
all’aperto (altra grande opportunità offerta dalla stagione estiva in Liguria) ed alla lettura di due
opere: “Il sentiero dei nidi di ragno” di I. Calvino e “Hamletica” di M. Cacciari.
Spesso mi capita di rileggere opere o romanzi, come in questo caso, a distanza di tempo: già nella
Scuola Media le mie insegnanti mi proponevano la lettura di Calvino e ricordo che la mia prof. di
Educazione artistica, sig.ra Lombezzi, ci leggeva dei passi di “Marcovaldo” e ci proponeva di
illustrarli.
Sotto l’ombrellone leggevo e pensavo: la prosa del grande scrittore italiano è sempre chiara,
efficace, avvincente e umana. Talvolta non vedo uno stacco tra prosa e poesia e certe riflessioni
sono di una profondità estremante dolorosa e struggente, come quando Pin, bambino ancora
bambino per l’anagrafe e non più bambino per la vita da partigiano che si ritrova in qualche modo a
vivere, è costretto a dare sepoltura ad un piccolo falchetto che un compagno di brigata ha dovuto
sopprimere, perché con i suoi schiamazzi non rivelasse l’imboscata che si stava preparando al
nemico (al nazi-fascista, ovviamente): “Il falchetto stecchito è ai suoi piedi. Nel cielo ventoso
volano le nuvole, grandissime sopra di lui. Pin scava una fossa per il volatile ucciso. Basta una
piccola fossa; un falchetto non è un uomo: Pin prende il falchetto in mano; ha gli occhi chiusi, dalle
palpebre bianche e nude, quasi umane. A cercare d’aprirle, si vede sotto l’occhio tondo e giallo.
Verrebbe voglia di buttare il falchetto nella grande aria della vallata e vederlo aprire le ali, e alzarsi
a volo, fare un giro sulla sua testa e poi partire per un punto lontano. E lui, come nei racconti delle
fate, andargli dietro, camminando per monti e per pianure, fino ad un paese incantato in cui tutti
siano buoni. Invece Pin depone il falchetto nella fossa e fa franare la terra sopra, con il calcio della
zappa”. Quanto dolore e desolazione traspaiono da queste parole! La terra che frana sulla fossa è la
fine del sogno, della voglia di vivere e della libertà nella pace che il piccolo Pin sta faticosamente
cercando. Quando la trova? Nel momento in cui , nell’ultima pagina del romanzo, ritrova un
personaggio forte, ma pacifico, il Cugino, e mette la sua piccola mano nella grande mano di lui,
“soffice e calma……in quella gran mano di pane”.
Il breve romanzo non si conclude, ma addita, in qualche modo, il cammino che l’uomo deve
intraprendere, il dovere che l’adulto ha nei riguardi del fanciullo: “E continuano a camminare,
l’omone e il bambino, nella notte, in mezzo alle lucciole, tenendosi per mano”, quasi una metafora
della vita, con tutte le sue asperità ed i brevi e rari momenti felici che aiutano a sopportare il male.
Altra cosa il saggio di Massimo Cacciari, docente di filosofia presso l’Università San
Raffaele di Milano e sindaco di Vanezia da alcuni anni: per poterlo comprendere e “gustare” è
indispensabile conoscere Amleto di Shakespeare, il Castello di Kafka e Aspettando Godot di
Beckett.
I personaggi sono analizzati nella loro drammaticità di uomini “gettati” in un mondo in cui
devono scegliere: Amleto, come l’Agrimensore, come Vladimiro e il ragazzo approdano al nulla, al
ni-ente.
“L’Ente sommo è gettato in esso: God-out, ‘fuori’ di sé, espulso irrevocabilmente dalla
propria absoluta potentia.[…] L’Invisibile, cui la speranza si indirizzava fermamente credendovi,
non è più nemmeno un oggetto perduto nella risacca, ma questo nome-suono. Così era fin
dall’inizio? Oppure così è accaduto per nostra negligenza, per astenia del cuore e della mente […]?
Impossibile saperlo. Il fatto è questo, ‘chiuso’ nella sua immanenza: Godot tornerà ogni giorno a
non venire. E se anche venisse sarebbe Godot, e nessun Godot potrà mai ‘salvare’. Ma non era
questa la ‘verità’ che nascondevano i suoi nomi sommi?” (“Hamletica”, Adelphi, p.97).
Non ho ritenuto possibile riassumere con parole mie quanto riportato, per la sua incisività
ed efficacia espressiva.
Palesi i rimandi a Kierkegaard, a Nietzsche, ad Heidegger, nonché – in quanto citato più
volte dall’autore stesso – a Joyce.
E’ un saggio interessante, ma difficile, a tratti “doloroso”: a differenza del romanzo di
Calvino dove il ‘male’ è manifesto, feroce, ma in qualche modo giustificato e ‘finalizzato’ (c’è una
guerra e si deve fare sempre il conto con la morte, costantemente), qui ciò che aspetta l’uomo è il
‘non- senso’, come oggetto e come soggetto. Non c’è una giustificazione, non c’è la salvezza
estrema, non c’è la fede che indirizzi la scelta.
Al di là della drammaticità dei personaggi sopra citati, ho trovato particolarmente
significativa l’analisi di Ofelia, la donna così profondamente amata da Amleto e lasciata andare alla
deriva: “Quanto incompiuto e incompibile è Amleto, tanto ‘sicura’ nel suo naufragio appare Ofelia.
[…] Stretti intorno alla sua tomba, ma infinitamente lontani dal poterne cogliere il significato, a tutti
gli altri non resta che la vergogna di dovere ancora to act, mentre lei, la fanciulla, ha mostrato la
forza di de-porre il proprio spirito” (op.cit., pp. 36-37, passim).
Mi ritornano in mente alcune splendide figure femminili del grande autore inglese, da
Giulietta, a Desdemona e tante altre ancora, magari di minor rilievo, ma comunque “fermate” nei
loro cararatteri esemplari e consegnate all’eterno, in tutta la loro efficacia, ma questa sarebbe
davvero una lunga conversazione, da rimandare, magari, ad altro momento.
Tra una lettura e l’altra, tra un’escursione ed una nuotata, si è concluso anche il mese di
agosto che saluto con un po’ di rimpianto per ciò che di bello e di buono potevo fare e non ho fatto
(perché, se no, il rimpianto?), augurandomi ed augurando a quanti, come me, sono impegnati
nell’attività scolastica, buon lavoro!