IL ProfetIsmo

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IL ProfetIsmo
Il profetismo
fenomeno religioso
e sociale
Possiamo iniziare nel modo più piano possibile,
vale a dire con la definizione che il vocabolario dà
del termine profeta. Avremo più avanti occasione di vedere che ciò che è piano non è necessariamente banale, se è vero che la lingua è memoria
del nostro passato e testimone del nostro presente, in quanto matrice, veicolo e voce della nostra
cultura.
Recita dunque un buon vocabolario della lingua italiana, assai diffuso nelle scuole superiori:
«Profeta-profetessa. Chi rivela il futuro per ispirazione divina; appellativo di Maometto; chi prevede il futuro, indovino». Questo mentre l’equivalente dizionario greco precisa: «Profétes: chi parla
per un dio, interprete del volere divino, indovino,
veggente». Naturalmente, in un caso e nell’altro,
seguono esemplificazioni e rimandi letterari.
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Due lingue e due accezioni importanti, diverse anche se non contrapposte, di una parola. Il vocabolario greco, fedele all’etimologia del termine
che in quella lingua è nato (il termine, non la realtà umana universale che esso vuole indicare) e a
noi si è tramesso per traslitterazione, ci dice che
il parlare del profeta non si caratterizza tanto per
la capacità di predire, quanto per quella di cogliere, in ascolto o visione, e di trasmettere una verità
nascosta all’occhio dell’uomo, ma evidente e nota
a chi sta sopra il comune sentire e intende comunicarla. Il profeta cioè parla al posto di Qualcuno
e non prima che qualcosa accada. La sua funzione essenziale non è quella di anticipare il futuro,
ma quella di mettere in contatto il cielo con la terra. Il profeta rivela, annuncia, «grida» (dall’ebraico nabi e accadico nabū, «colui che grida», «chiama», ma anche «è chiamato») in quanto ha accesso, per sue capacità specifiche o per ispirazione
dall’Alto, alle conoscenze e alle decisioni di Colui
o di Coloro, che «possono ciò che vogliono» e, in
ogni caso sanno quasi tutto del passato, del presente e del futuro e sono in grado dunque di guidare gli uomini a farsene corresponsabili e beneficiari o vittime inconsapevoli e, al tempo stesso,
ciecamente colpevoli.
Certo, tutto ciò comporta anche la possibilità per il profeta di aprire gli occhi degli uomi6
ni su ciò che sta per accadere, su quanto il loro
eventuale agire, in un modo o nell’altro, può favorire, o almeno predisporre a meglio comprendere e accettare un evento, già da sempre prescritto dal divino. Per quanto sostanzialmente rivolto
al presente, all’urgenza della decisione su ciò che
incombe, il dire profetico può aprire strade all’accoglienza di quanto nel presente matura per il futuro. In tal senso, la profezia serve anche ad anticipare, ma soprattutto a testimoniare la veridicità
di questa o di quella interpretazione degli eventi che stanno accadendo o si prevede che accadano. Ecco perché il vocabolario italiano, buon testimone di una lingua, che in campo religioso e
civile ha subìto l’influenza del Latino della Vulgata, della predicazione e della liturgia cristiana ad
essa legate, preferisce enfatizzare quest’ultimo significato del termine profeta.
I suggerimenti della Cappella Sistina
Tutti sappiamo che la cappella Sistina è stata costruita e affrescata in pieno Rinascimento per dare simbolica visibilità alla centralità religiosa e sociale del papato. Sappiamo anche che nella sua
volta campeggia la più famosa ed icastica rappresentazione del profetismo nella sua duplice matrice: ebraica e greco-latina, rifuse tra loro e amalga7
mate dalla tradizione patristica e medioevale. Una
nuova Gerusalemme e una nuova Atene, unite a
formare una nuova Roma imperiale: tale allora
intendeva essere la Chiesa pontificia, che si considerava unica e legittima erede della cultura classica e di quella biblica. E questo, proprio mentre la
possibilità di tale pacificata unità iniziava ad essere contestata dal rinnovato vigore del sapere profano e dalle sempre più pressanti richieste di riforma ecclesiale di ispirazione evangelica.
Non stiamo qui a discutere se la Roma dei papi avesse valide ragioni per ambire a questo ruolo e come ciò si accordasse o entrasse in profonda
dissonanza con la maturazione dei tempi. Ci basti tenere conto che per sostenerlo essa si valse del
rimando ai profeti e alle sibille, posti alternati, là
dove la volta della cappella si raccorda alle pareti. Questo per suggerirci che tutto quanto accade
nelle nove scene centrali della volta stessa: creazione, diluvio e avventura noaica, è anche simbolica
anticipazione del futuro e trova il suo compimento nell’elezione del popolo ebraico e nella venuta
del Cristo. Subito sotto profeti e sibille abbiamo
infatti quattro scene antico-testamentarie di salvezza (Serpente di bronzo, Davide e Golia, Giuditta e Oloferne, Ester e Aman) e la serie completa degli antenati di Gesù, secondo la genealogia
di Matteo.
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Profeti e sibille intesi, dunque, come interpreti della rivelazione naturale e storica di Dio, ma
soprattutto come annunciatori nel lontano futuro dell’avvento del Cristo e dell’evento cristiano,
visto che Michelangelo dipinge il suo magnifico
saggio artistico e teologico a completamento di un
saggio già iniziato da altri, cioè dell’illustrazione
dell’opera profetica e legislativa di Mosè e di Gesù. Illustrazione realizzata dai maestri della pittura umbra e toscana, che la coronano, nella parte
immediatamente sottostante il capolavoro michelangiolesco, con la serie dei Padri della Chiesa.
La lezione è chiara: nella tradizione teologica
cristiana, profeta è colui che predice la venuta del
Messia. Questa è la funzione dei profeti antico-testamentari e non solo. Anche le oscure predizioni
di veggenti appartenenti al mondo pagano possono essere annoverate tra le profezie, se interpretabili in chiave cristologica. Il che non può restare
senza conseguenze per l’uso del termine profezia
in tutte quelle lingue che nascono nel crogiolo del
medioevo cristiano.
L’uso di profeta per indicare chi predice il futuro non è dunque né esauriente né pienamente corretto, ma non è culturalmente immotivato
e credo vada tenuto presente quando si vuole approfondire la conoscenza del vero significato antropologico e teologico del termine.
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D’altra parte la Sistina non ci aiuta solo a capire perché nelle lingue europee profetismo e futuro si legano tanto strettamente. Essa ci fa cogliere come, anche in questa accezione, il profeta
giochi un importante ruolo sociale. In quanto rivelatore del passato e presente volere di Dio e annunciatore del futuro, che ne consegue, il profeta
diventa colui che può legittimare le istituzioni ordinate al buon governo del presente e del futuro.
Tali sono le figure profetiche di Mosè, l’istitutore della legge antica, che doveva unificare il popolo di Israele, e di Gesù, il promulgatore della legge nuova, destinata a costituire la Chiesa sotto il
potere del papa.
Ancora una volta un’interpretazione della figura profetica tendenziosa, perché ideologicamente orientata al sostegno di un determinato
potere storico-culturale, ma capace di richiamare la nostra attenzione sul ruolo sociale della profezia, sulla sua importanza nella nascita, nello sviluppo e nella legittimazione di una credenza religiosa e nell’edificazione della comunità che a tale
credenza si richiama.
La simbologia religiosa della Sistina usa ed
abusa della figura del profeta, ma anche ne mette
in luce alcune caratteristiche essenziali e soprattutto ci fa capire che qualunque discorso sul profetismo è influenzato dal contesto storico, socia10
le, culturale e religioso in cui si colloca. Il che vale
anche per noi che, per quanto criticamente avvertiti, non possiamo fare a meno di riconoscerci eredi di una tradizione dominata dal triangolo
culturale: Atene, Gerusalemme, Roma. Triangolo culturale che, come tutte le triangolazioni segna un punto preciso e, come tutte le triangolazioni storiche, non può definire tale punto come
«un punto fermo e definitivo», ma lo caratterizza come incrocio di vie diverse, che può diventare per molti un luogo ben noto d’incontro da
non trascurare in vista di eventuali appuntamenti, di ripresa di cammini comuni o di divergenti avventure.
Il profeta come mediatore
tra il divino e l’umano
«Con la parola profeta – scrive Max Weber – noi
intendiamo un semplice individuo portatore di un
carisma, che in virtù della sua missione proclama
una dottrina religiosa o un comandamento divino», capaci di fondare e alimentare con significativa continuità, di orientare nella storia l’affermazione e lo sviluppo di una società, o forse, ancor
meglio, di una civiltà (La sociologia della religione, Torino 1976). È chiaro che questa definizione
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ha a suo fondamento le immagini forti del profetismo offerte dalle religioni del Libro: Ebraismo,
Cristianesimo ed Islam. Ma è altrettanto chiaro
che qui non ci possiamo fermare. Accanto alla tipologia profetica, fatta propria da Weber, la storia
delle religioni medio-orientali, che qui privilegiamo, per specifica scelta, ce ne presenta altre, meno appariscenti e più modeste, ma anche socialmente più diffuse e comuni e soprattutto egualmente caratterizzate dal ruolo di mediazione tra il
divino e l’umano.
Sciamani, veggenti, indovini, interpreti di sogni e di segni pullulano nelle società primitive e
non solo in quelle. La loro funzione è sempre la
stessa: consentire all’interlocutore umano di conoscere il volere di Dio o del fato e all’interlocutore divino di trasmettere le sue volontà all’uomo. Tutto ciò grazie a processi estatici o di trance, ad arti divinatorie, lecite ed illecite, apprese
alla scuola dei sacerdoti, legate a doti personali,
ricevute in dono dall’alto, a specifiche rivelazioni infere o celesti.
Gli studi sulla storia del profetismo pre-biblico sono ricchissimi di esempi, che vanno dall’utilizzazione del sapere astronomico, per trarne pronostici sulla fortuna dei regnanti, al vero e proprio intervento divino per consigliare o vietare
un’impresa militare, edilizia o diplomatica. Ora
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un funzionario, incaricato dal re di Babilonia di
tenerlo informato sui presagi e sugli oracoli distillati dai sacerdoti e dagli indovini, segnala al suo
signore l’opportunità e i rischi legati a certe sue
decisioni. Ora uno scriba, trasformatosi in profeta, prepara per il fondatore di una nuova dinastia
faraonica una profezia, post-eventum, quindi fittizia, sulle sventure destinate a colpire il paese sotto il vecchio signore e sulla pace prospera che lo
risolleverà all’avvento della nuova casa regnante.
Ora una profetessa estatica o un veggente cieco,
come Cassandra e Tiresia, invasi dallo spirito di
Apollo, preannunciano a se stessi e agli interlocutori la prossimità di una sventura che precipiterà
tutti nel dolore, lasciandoli senza parola, evidenziando, se mai ce ne fosse bisogno, la capricciosità del destino, la conflittualità delle leggi divine
e umane, che regolano la convivenza degli esseri tutti, la fragilità dei fondamenti ultimi del vivere e dell’esistere (Eschilo, Agamennone; Sofocle, Edipo re).
L’orizzonte che sul profetismo ci aprono le raccolte di exempla, provenienti dal mondo antico, è
davvero amplissimo e per molti versi sconcertante. Ci obbliga a chiederci seriamente se sia opportuno collocare gran parte di tale materiale documentario sotto l’unica egida del profeta, o se non
sia meglio distinguere tra indovini, veggenti e
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profeti. È problema che la Bibbia, con nostra sorpresa, risolve a vantaggio della continuità e non
della discontinuità dei termini e dei fenomeni.
Quanto I Samuele scrive sul rapporto tra il
giudice-sacerdote-profeta Samuele e Saul nei capitoli 9-10 è, da questo di punto di vista, esemplare. Nel primo episodio Samuele ci è presentato
come un veggente, a cui ci si può addirittura rivolgere per avere, dietro modesto compenso, notizie su alcune asine smarrite. Ma, al tempo stesso, ci viene chiarito che egli è il destinatario di
una rivelazione divina. Ha cioè ricevuto l’ordine
di consacrare re e liberatore d’Israele l’uomo che
verrà a cercarlo per rintracciare le asine suddette.
La sproporzione tra queste due immagini e funzioni profetiche di Samuele deve aver colpito il redattore, che interrompe l’antico racconto per precisare: «In passato in Israele, quando uno andava
a consultare Dio, diceva: “Su andiamo dal veggente”, perché quello che oggi si dice profeta allora si diceva veggente» (9,9).
Ma la sovrapposizione, fatta dall’autore biblico, tra le diverse forme di profetismo, sopra ricordate, non si ferma qui. Nel capitolo 10, che si
chiude con l’incoronazione del re per volere divino, vediamo Samuele predire a Saul l’incontro
con un gruppo di estatici, «che scendono dall’altura preceduti da arpe, timpani, flauti e cetre, in
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atto di fare i profeti» (10,5). Ciò puntualmente
avviene e Saul stesso è investito «dallo spirito di
Dio e si mette a fare il profeta», cioè a danzare e
cantare (10,10).
Il profeta, il sapere, il potere e la storia
Il profeta è dunque il portavoce di Dio tra gli uomini, in quanto è colui che, in qualche modo, per
qualche tempo e su qualche argomento più o meno ampio e decisivo, ha accesso alla fonte primaria e misteriosa di ogni essere e di ogni volontà e
sapienza relativa alla natura e alla storia. Ora, siccome gli uomini storicamente e socialmente agiscono sotto la guida di élite politiche organizzate
in forme diverse: monarchia, oligarchia o democrazia, ed è per mezzo di tali forme istituzionalizzate che si esprimono e prendono decisioni, ecco che il profeta si presenta come interlocutore
privilegiato di tali istituti. Ma egli non sta a valle, non agisce come un loro rappresentante o una
loro espressione operativa, quale ministro, ambasciatore o sacerdote. Egli sta a monte ed è sempre e solo interpellato in qualità di ispiratore, o,
se si vuole, di ideologo, più o meno schierato,
più o meno super partes, in quanto sempre e solo mosso dall’alto. Il suo sapere non si appella, infatti, al comune sapere empirico, ma ad un sape15
re supremo, universalmente valido, trascendente,
in quanto espressione di un super-potere giusto e
provvidente, mai sospettabile di parzialità, anche
se spesso, anzi, sempre, ogni singolo profeta finisce poi con l’essere sospetto di partigianeria, di
corruzione o di patologiche manie.
Non ci stupiremo, dunque se nel mondo antico, dove la forma di governo monarchica è generalmente comune, sovente il profeta è interlocutore privilegiato dei re. Solo quando Dio stesso, in
conflitto insanabile col suo “consacrato”, rivendica a sé il ruolo di re, il profeta diventa direttamente interlocutore della “parte migliore” della società, se non di tutto il popolo e parla allora a tutti direttamente in nome di Dio. Il che è, come
vedremo, più che frequente nella storia del profetismo biblico, mentre è piuttosto raro negli altri contesti sociali antichi. Il che non evita che
nell’un caso e nell’altro il profeta abbia comunque
uno statuto sociale ed un ruolo politico: statuto e
ruolo che gli derivano dalla sua appartenenza alla
sfera pubblica dell’alterità religiosa.
«La religione – ci dice il sociologo – legittima
le istituzioni sociali conferendo loro uno stato ontologico definitivamente valido, cioè situandole in
uno schema di riferimento sacro e cosmico (che le
trascende e le contiene). Ogni legittimazione religiosa serve a stabilizzare e a conservare la realtà,
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come è stata storicamente definita da una particolare società umana, mettendola in relazione con
la realtà ultima, universale e sacra. Le costruzioni intrinsecamente precarie e transitorie dell’attività umana assumono così le sembianze della sicurezza e della stabilità divina. In altre parole, ai
nomos umanamente costruiti viene attribuito uno
status cosmico (tendenzialmente) eterno» (P. Berger, La sacra volta, Milano 1984, pp. 44-48).
Il profeta, in quanto espressione essenziale della dimensione religiosa della vita, dimensione che
ha a che fare col suo mistero di realtà eternamente
compiuta e incompiuta al tempo stesso e pertanto in continuo e problematico divenire «ciò che
è, deve e vuole essere», non può sottrarsi a questo
ruolo socializzante della religione. Non può sottrarsi alla doppia funzione di questo ruolo, che
per un verso è quello stabilizzatore della conservazione, dall’altra quello regolativo di una più o meno ordinata e continua innovazione, non esclusa
la rivoluzione totale e radicale, al fine di non consentire mai alla realtà presente di perdersi nel disordine, di riprecipitare nella rovina, irrimediabilmente distruttiva, del nulla o abisso informe originario, il tohû-bohû biblico (Gen 1,2).
Così è possibile vedere come più d’una delle
molte modalità profetiche, prima ricordate, lavora in un orizzonte di conservazione e di stabiliz17
zazione. Sciamani, estatici, indovini, interpreti di
sogni e di segni, veggenti, profeti: sono volentieri al servizio della corte e dell’ordine stabilito. La
loro funzione è quella di impedire che da questo
ordine si tenti di uscire, intenzionalmente o inavvertitamente. Essi ricevono dagli dei, che li ispirano, ammonimenti tesi ad avvertire del rischio
che in tale caso si corre, a indicare al re l’azione
che gli consente di rientrare nella norma. Anche
quando si esprimono contro le scelte del re lo fanno per evitare che la punizione divina lo travolga
e travolgendolo precipiti l’intera società nel caos.
E quando lo rimproverano lo fanno per ricondurlo sulla retta via, quella che gli procurerà un regno
felice e duraturo.
È il caso del dio Adad che rivolto al re di Mari
gli ricorda di averlo allevato e ristabilito sul trono
del padre, ma, deluso dallo scarso ascolto del sovrano, minaccia di detronizzarlo: «Io sono il padrone del trono, del territorio e della città e quel
che ho donato posso ritogliere. Se al contrario egli
compie il mio desiderio, gli darò troni su troni…»
(N. Lohfink, I profeti ieri e oggi, Brescia 1968, p.
27). Ed è il caso di Calcante, interprete del volo
degli uccelli e per Agamennone “profeta di sventura”, che riconosce nell’offesa recata da questi ad
Apollo la causa della pestilenza che decima i Greci. Egli parla così affinchè, riconciliato col dio, il
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re possa guidare l’esercito alla conquista di Troia
(Iliade, libro I).
Né il ruolo del profeta può di norma essere altro da questo all’interno di società e culture che
vivono nell’orizzonte di una visione cosmologica
stabile e di una concezione del tempo ciclica.
Qualcosa cambia quando «tale schema viene
intaccato dalla fede in un Dio della storia profondamente trascendente (Israele) o dall’enunciazione dell’anima umana come il terreno per l’ordinamento razionale del mondo (Grecia)» (P. Berger,
p. 47). Cambia, ma non nel senso che la profezia,
almeno nell’ambito biblico, perda funzione politica, bensì nel senso che essa sviluppa sempre più
quella funzione socialmente critica, anzi persino
religiosamente critica e rivoluzionaria, sopra indicata. Questo è tanto vero che il profeta, in nome
dell’alleanza, della giustizia e dell’amore, giunge
non solo a contestare il re, ma addirittura a mettere sotto processo Dio, fondamento eterno e trascendente della realtà cosmica e sociale (Ger 20,718; Ab 1,2-4).
È la funzione che noi oggi, come eredi del pensiero biblico, greco e illuministico riteniamo propria del profeta, al di là della previsione del futuro e dello stesso parlare in nome di Dio, ed è
la funzione che vediamo sviluppata e interpretata
soprattutto dal grande profetismo biblico.
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