resistenza - CONTROcanto pisano

Transcript

resistenza - CONTROcanto pisano
Lo avrai
camerata Kesselring
il monumento che pretendi da noi italiani
ma con che pietra si costruirà
a deciderlo tocca a noi.
Non coi sassi affumicati
dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio
non colla terra dei cimiteri
dove i nostri compagni giovinetti
riposano in serenità
non colla neve inviolata delle montagne
che per due inverni ti sfidarono
non colla primavera di queste valli
che ti videro fuggire.
Ma soltanto col silenzio del torturati
più duro d'ogni macigno
soltanto con la roccia di questo patto
giurato fra uomini liberi
che volontari si adunarono
per dignità e non per odio
decisi a riscattare
la vergogna e il terrore del mondo.
Su queste strade se vorrai tornare
ai nostri posti ci ritroverai
morti e vivi collo stesso impegno
popolo serrato intorno al monumento
che si chiama
ora e sempre
RESISTENZA
I canti della Resistenza
A cura di CONTROcanto Pisano
www.controcantopisano.it
PIERO CALAMANDREI - "Lo avrai, Camerata Kesselring..."
Processato nel 1947 per crimini di Guerra (Fosse Ardeatine, Marzabotto e altre
orrende stragi di innocenti), Albert Kesselring, comandante in capo delle forze
armate di occupazione tedesche in Italia, fu condannato a morte. La condanna
fu commutata nel carcere a vita. Ma già nel 1952, in considerazione delle sue
"gravissime" condizioni di salute, egli fu messo in libertà. Tornato in patria fu
accolto come un eroe e un trionfatore dai circoli neonazisti bavaresi, di cui per
altri 8 anni fu attivo sostenitore. Pochi giorni dopo il suo rientro a casa,
Kesselring dichiarò pubblicamente che non aveva proprio nulla da
rimproverarsi, ma che - anzi - gli italiani dovevano essergli grati per il suo
comportamento durante i 18 mesi di occupazione, tanto che avrebbero fatto
bene a erigergli... un monumento.
A tale affermazione rispose Piero Calamandrei, con l’epigrafe (recante la data
del 4.12.1952, ottavo anniversario del sacrificio di Duccio Galimberti1) con cui
vogliamo aprire il nostro seminario-laboratorio. Fu incisa su di una lapide "ad
ignominia" e collocata nell'atrio del Palazzo Comunale di Cuneo in segno di
imperitura protesta per l'avvenuta scarcerazione del criminale nazista.
La proposta di CONTROcanto Pisano
Ripercorrere insieme tutta la produzione di canti Resistenti, sia contemporanea
agli eventi storici che quella rievocativa successiva, è un’impresa di notevoli
dimensioni!
Per quest’appuntamento proponiamo di lavorare a partire dai brani scelti per
uno spettacolo che abbiamo presentato in occasione della festa del 25 Aprile
2012 organizzata dall’ANPI di Pisa a Putignano.
Analizzeremo, anche con documentazioni foniche, tutte le canzoni e, in fase di
laboratorio, ne elaboreremo insieme alcune per proporle con voi all’interno
dello spettacolo di questa sera.
1
Duccio Galimberti. Comandante di Giustizia e Libertà, Medaglia d’oro della Resistenza, proclamato Eroe nazionale dal
CLN piemontese.Localizzato e bloccato dai repubblichini venne trasportato nella caserma delle brigate nere di Cuneo,
interrogato e ridotto in fin di vita dalle sevizie. Il mattino del 4 dicembre del ’44, trasportato nei pressi di Centallo fu
abbattuto dai suoi aguzzini con una raffica alla schiena. Il suo nome è ricordato nella canzone “Per i morti di Reggio
Emilia”
1
I Canti della Resistenza.
I canti della Resistenza antifascista fanno parte integrante del nostro repertorio
popolare nazionale. I loro testi, i loro suoni si riallacciano a quelli del
Risorgimento e della Grande Guerra.
Ed esiste anche una creatività specifica, di gruppo, di zona, di formazione, che
ricostruisce per immagini genuine, a volte ingenue, il clima popolare di quella
lotta partigiana cui si deve la salvezza dell'onore del nostro Paese.
Come già detto c'erano due grandi modelli a cui si riferivano le canzoni
partigiane: le canzoni del Risorgimento, già filtrate e rinnovate nell'altra
guerra, e le canzoni della classe operaia. Modelli divergenti nella tematica e
negli accenti, “militari” o combattentistici nel primo, “sociali” nel secondo. La
poesia popolare della Resistenza ricompose in un unico indirizzo ciò che nella
tradizione nazionale aveva avuto origini o fonti diverse, rivelando i suoi
collegamenti profondi con la tradizione nazionale.
Gli studi sul canto partigiano
A proposito del canto partigiano c'è un primo mito da sfatare: che sia stato
sufficientemente studiato. Su di esso, infatti, si è fatta poca ricerca sul campo,
e i numerosi canzonieri della Resistenza prodotti dalle associazioni partigiane o
dai gruppi politici, soprattutto della sinistra, ci dicono poco su quanto
effettivamente si cantasse in montagna.
Quando, nel 1962, il "Nuovo Canzoniere Italiano" iniziò massicce ricerche sul
canto sociale italiano, esso sperò di riuscire a moltiplicare con il proprio
esempio il lavoro di ricerca. Tuttavia, al di fuori di questa vicenda, s'è mosso
ben poco. Infatti le ricerche sul canto sociale si sono scontrate con una cultura
accademica poco recettiva verso le innovazioni metodologiche e prevenuta in
particolare nei confronti delle fonti orali. Inoltre le ricerche sul canto della
Resistenza promosse dal "Nuovo Canzoniere Italiano" non divennero
un'esperienza moltiplicante, perché si scontrarono con dinamiche politiche che
andavano in direzione diametralmente opposta all'allargamento conoscitivo
della nostra Resistenza.
I "Dischi del Sole" uscirono nel ventennale della Resistenza. Allora le
associazioni partigiane trovarono il proprio inno in Bella ciao, una canzone poco
cantata durante la Resistenza e prevalentemente nel Centro Italia, ma che da
allora si sarebbe sostituita sempre più a Fischia il vento, la canzone della
Resistenza al Nord e quella maggiormente diffusa.
Il lavoro di ricerca degli anni sessanta non è però riuscito a sensibilizzare gli
storici e a fare sì che considerassero i canti sociali come una delle possibili fonti
della storia. Eppure, già a metà degli anni cinquanta, Roberto Battaglia,
sostenne per primo, e lucidamente, l'assoluta necessità dell'uso della
memorialistica e delle fonti orali per lo sviluppo del lavoro storico sulla
Resistenza.
Negli anni settanta gli istituti storici della Resistenza furono teatro di uno
scontro senza mezzi termini che aveva per oggetto del contendente proprio
l'uso delle testimonianze orali fra cui i canti partigiani: fonti orali di base furono
così considerate pericolose dai partiti moderati, in quanto spesso riaffermavano
2
dei valori classisti e delle "verità" che si volevano esorcizzare. La saggistica sui
canti della Resistenza, dagli anni ottanta in poi, assomma soltanto a una
dozzina di titoli: si tratta in quasi tutti i casi di articoli basati su ricerche degli
anni sessanta, legati a persone che hanno preso parte al "Nuovo Canzoniere
Italiano".
Ricordare oggi quei canti significa non dimenticare che le radici della
Repubblica, della Costituzione, della democrazia italiana sono nella lotta di
liberazione antifascista e antinazista, nella Resistenza, nella scelta di una
generazione di prendere in mano le armi per rispettare la dignità dell’Italia e
restituirla alla libertà.
Non è davvero inutile ricordarlo oggi, in tempi di revisionismo storico a cui in
modo sbrigativo troppi accedono, quasi che l’antifascismo sia non già la
matrice che ha dato impronta alla nostra Repubblica, bensì un marchio
imbarazzante di cui finalmente liberarsi.
Eppure se guardiamo ai quasi settanta anni che abbiamo alle spalle, non
possiamo non vedere quanto i valori dell’antifascismo - la libertà, la
democrazia, l’uguaglianza, la dignità della persona - siano tuttora necessari al
mondo e all’Italia.
Chi nell’autunno del ’43 salì in montagna lo fece per mettere fine ad una
guerra terribile e con la speranza che il mondo non conoscesse più guerre:
sappiamo che non è avvenuto e aver derubricato i molti conflitti armati di
questo mezzo secolo in «guerre locali» - forse per rassicurare noi stessi che
una guerra mondiale non ci sarebbe stata più - non ha reso quelle guerre né
meno tragiche, né meno devastanti.
Chi settant’anni fa si levò in armi lo fece perché l’umanità non conoscesse più
le aberrazioni delle razze pure e delle leggi razziali, dei lager e dell’olocausto.
Ma abbiamo visto come l’odio etnico, l’annientamento delle identità,
l’umiliazione fisica e psichica del diverso, sono malepiante mai estirpate una
volta per tutte.
Né è inutile dimenticare che quell’idea di unire l’Europa - che oggi vive un
passaggio difficile e critico a cui non vogliamo rassegnarci - nacque proprio
all’indomani della seconda guerra mondiale con l’obiettivo di impedire che gli
egoismi delle nazioni continuassero ad insanguinare il continente intero.
E chi oltre mezzo secolo fa scelse di mettere a repentaglio la propria vita per
riscattare l’onore del paese lo fece perché voleva un’Italia libera e democratica,
capace di dare certezze e speranze di vita e di futuro ai suoi cittadini. Ed è
bene ricordarlo oggi in tempi nei quali molti - e soprattutto i giovani guardano al proprio futuro con minori certezze e la vita di tanti è insidiata da
vecchie e nuove precarietà.
Non c’è in tutto ciò nessuna visione celebrativa della Resistenza. Anzi, non
dimenticare significa anche fare i conti con le pagine tragiche dell’immediato
dopoguerra. Quando la vittoria agognata acceca la ragione dei vincitori. Non
abbiamo chiuso gli occhi - e dobbiamo continuare a non chiuderli - per
restituire giustizia a quanti furono vittime di episodi di vendetta e di esecuzioni
sommarie che solo la tremenda asprezza di quella stagione può spiegare, ma
non giustificare. Così come non chiudiamo gli occhi di fronte alle foibe e
all’esodo degli italiani dell’Istria e della Dalmazia.
3
Dalle belle città [Siamo i ribelli della montagna]
Parole di Emilio Casalini "Cini".
Musica di Angelo Rossi "Lanfranco"
Dalle belle città date al nemico
fuggimmo un dì su per l'aride montagne,
cercando libertà tra rupe e rupe,
contro la schiavitù del suol tradito.
Lasciammo case, scuole ed officine,
mutammo in caserme le vecchie cascine,
armammo le mani di bombe e mitraglia,
temprammo i muscoli ed i cuori in battaglia.
Siamo i ribelli della montagna,
viviam di stenti e di patimenti,
ma quella fede che ci accompagna
sarà la legge dell'avvenir.
Ma quella fede che ci accompagna
sarà la legge dell'avvenir.
Di giustizia è la nostra disciplina,
libertà è l'idea che ci avvicina,
rosso sangue è il color della bandiera,
partigian della folta e ardente schiera.
Sulle strade dal nemico assediate
lasciammo talvolta le carni straziate.
sentimmo l'ardor per la grande riscossa,
sentimmo l'amor per la patria nostra.
Siamo i ribelli della montagna,
viviam di stenti e di patimenti,
ma quella fede che ci accompagna
sarà la legge dell'avvenir.
Ma quella fede che ci accompagna
sarà la legge dell'avvenir.
Il canzoniere partigiano, come abbiamo detto, si compone essenzialmente di
rielaborazioni, adattamenti, parodie di motivi precedenti, appartenenti alla
tradizione militare o popolare, a inni del movimento operaio nazionale o
internazionale, a canzonette di consumo. Pochi i canti originali, nel testo e
nella melodia. Uno di questi, uno dei più intensi e significativi inni partigiani,
Dalle belle città (Siamo i ribelli della montagna), venne creato nel marzo del
1944 sull'Appennino ligure-piemontese dai partigiani del 5° distaccamento
della III Brigata Garibaldi "Liguria" dislocati alla cascina Grilla con il
comandante Emilio Casalini "Cini".
Sulle circostanze e modalità reali della nascita di questo originale canto della
Resistenza, disponiamo della testimonianza diretta di Carlo De Menech, allora
diciottenne commissario politico del distaccamento:
“Ad un certo punto avvertiamo la necessità di creare qualcosa che riguardi noi
e tutti i giovani della nostra generazione, in aderenza alla realtà della lotta che
conduciamo. Sarà la nostra storia e traccerà le dure vicende della vita
4
partigiana e gli ideali che la sostengono. Su questi presupposti Cini prende
l'iniziativa e un bel giorno comincia a scrivere delle parole su un foglio di carta
biancastra da impaccare; in mancanza di tavolo, utilizza una grossa pietra
posta all'ingresso della "caserma", che serviva ai contadini per battervi le
castagne, e noi facciamo circolo attorno a lui proponendo e suggerendo
vocaboli e argomenti. Dopo alcuni giorni la bozza è stesa. In distaccamento c'è
uno studente di musica, ventenne, Lanfranco, al quale viene consegnato il
testo delle parole che si porta appresso durante il servizio di sentinella sul
monte Pracaban; al ritorno, le note sono vergate su un pezzo di carta da
pacchi.
Siamo i ribelli della montagna, con la sua originalità del testo e della musica,
diventa così la nostra canzone, la canzone del 5° distaccamento, in cui si potrà
riconoscere la storia di tanti altri giovani che, come noi, hanno scelto la
montagna e la libertà.”
È un testo che per molti aspetti rivela un certo grado di cultura. Sin dall'incipit
denuncia la sua origine urbano-metropolitana (genovese, per la precisione)
indicando quella simbolica opposizione "belle città/aride montagne" che appare
come esemplare di una rivolta politico-morale partita dalla città ma vissuta
nella campagna, nel paesaggio aspro e selvaggio dei monti. I principi ideali che
animano la lotta partigiana (giustizia, libertà) si conquistano a duro prezzo
("viviam di stenti e di patimenti") alla dura scuola della montagna, in cui si
dissolvono differenze sociali, privilegi, egoismi.
Nel tono generale del canto, nella sua stessa melodia baldanzosa, in certe
formule testuali, appaiono influenze, moduli e caratteristiche risorgimentali,
alla Mameli (vedi "la schiavitù del suol tradito" o "l'ardor per la patria nostra").
Dalle belle città è una canzone fresca, giovane, piena di speranza, in cui si
sente l’eccitazione utopica e la grande carica di idealità civile e politica che
animò la stagione partigiana. E' commovente pensare che appena qualche
settimana dopo la composizione di questo inno, molti di quei coraggiosi "ribelli
della montagna" finirono fucilati alla Benedicta o al passo del Turchino, braccati
sui monti come belve, uccisi in battaglia o deportati nei campi di sterminio.
Con i sopravvissuti, sopravvisse anche il canto, che divenne il simbolo della
rivincita morale contro la ferocia del nemico, il segnale della riscossa
partigiana, e come inno della rinata Divisione "Mingo" accompagnò il
movimento di liberazione ligure-piemontese sino alla vittoria finale.
5
ll bersagliere ha cento penne
anonimo
Questa invece è la trasformazione partigiana di un canto della tradizione
militare
Il bersagliere ha cento penne
e l'alpino ne ha una sola,
il partigiano ne ha nessuna
e sta sui monti a guerreggiar.
Bersagliere ha cento penne
ma l'Alpino ne ha una sola;
un po' più lunga,
un po' più mora,
sol l'Alpin la può portar.
Là sui monti vien giù la neve,
la bufera dell'inverno,
ma se venisse anche l'inferno
il partigian riman lassù.
Quando scende la notte nera
tutti dormon giù alla Pieve;
ma con la faccia
giù nella neve
solo l'Alpin là può dormir.
Quando viene la notte scura
tutti dormono alla pieve,
ma camminando sopra la neve
il partigian scende in azion.
Su pei monti vien giù la neve,
la tormenta dell'inverno,
ma se venisse
anche l'inferno
sol l'Alpin può star lassù.
Quando poi ferito cade
non piangetelo dentro al cuore,
perché se libero un uomo muore
che cosa importa di morir.
Se dall'alto dirupo cade
confortate i vostri cuori,
perchè se cade
cade tra i fiori
non gli importa di morir.
Dai monti di Sarzana
Anonimo
Inno del battaglione partigiano anarchico "Lucetti"
Momenti di dolore,
giornate di passione
ti scrivo, cara mamma,
domani c'è l'azione
e la Brigata Nera
noi la farem morire.
Dai Monti di Sarzana
un dì discenderemo,
all'erta, Partigiani
del battaglion "Lucetti"
il battaglion "Lucetti"
son libertari e nulla più,
coraggio e sempre avanti!
la morte e nulla più.
Bombardano i cannoni
e fischia la mitraglia,
6
sventola anarchica bandiera
al grido di battaglia
più forte sarà il grido
che salirà lassù,
fedeli a Pietro Gori
noi scenderemo giù.
Il Battaglione Lucetti è stata una formazione partigiana anarchica operante nei
dintorni di Massa.
I precedenti storici del tessuto sociale di Carrara portano alla conseguenza che
la presenza in zona di formazioni anarchiche partigiane autonome fosse la più
alta di tutta Italia.
Il nome della formazione è stato dedicato a Gino Lucetti, ex Ardito assaltatore,
nativo di Carrara, decorato della prima guerra mondiale che mise in atto uno
dei soli due attentati (con quello di Violet Gibson) a Benito Mussolini che
ebbero la possibilità di concludersi con successo. Fin dall'inizio del secolo con lo
svilupparsi del movimento operaio, nel settore dell'estrazione e della
lavorazione del marmo, Carrara si puo' considerare la patria del socialcomunismo di matrice libertaria e l'antifascismo locale è strettamente legato a
questa matrice.
La provincia di Carrara con le vicine di La Spezia, Pisa e Livorno, fu uno dei
principali obiettivi degli attacchi squadristici degli anni '20 con relative difese
da parte delle formazioni di difesa proletaria e degli Arditi del Popolo. Anche
sotto il regime l'antifascismo di Carrara non si spense nonostante, per
converso, la presenza di fascismo affermato, di quelli che durante il ventennio
furono i tristemente chiamati carrarini, ovvero gli squadristi di Carrara, al
servizio dei grossi industriali del marmo che con il fascismo videro
incrementare la estrazione e la lavorazione del materiale a causa delle mire
imitatrici degli splendori imperiali romani da parte del regime fascista. I
'carrarini' durante gli anni '20 erano fra le milizie più mobili dello squadrismo
fascista: ad esempio parteciparono sia all'attacco della camera del Lavoro di
Genova che di Parma: dopo l'8 settembre del 1943 le truppe tedesche erano in
procinto di disarmare i soldati Italiani della caserma Dogali di Carrara per cui
diversi anarchici di Carrara, guidati da Romualdo Del Papa, intervenirono
impossessandosi di armi, in modo da strutturare le prime brigate partigiane.
Pietà l'è morta
Nuto Revelli
La canzone riprende chiaramente, nella sua struttura, "Sul ponte di Perati
bandiera nera", un dolentissimo canto degli Alpini della divisione "Julia",
mandati al macello nei Balcani ("Perati" è il villaggio di Perat, in Albania) che fu
ben presto severamente censurato e infine del tutto proibito dal regime
fascista come "disfattista" e "sovversivo". In una versione anteriore, risalente
alla prima guerra mondiale invece del "ponte di Perati" c'è il "ponte di
Bassano".
7
Sul ponte di Perati, bandiera nera:
L'è il lutto degli alpini che va a la guera.
L'è il lutto degli alpini che va a la guera,
La meglio zoventù va soto tera
Sull'ultimo vagone c'è l'amor mio
Col fazzoletto in mano mi dà l'addio.
Col fazzoletto in mano mi salutava
E con la bocca i baci lui mi mandava.
Con la bocca i baci lui mi mandava
E il treno pian pianino s'allontanava.
Quelli che son partiti, non son tornati:
Sui monti della Grecia sono restati.
Sui monti della Grecia c'è la Vojussa
Col sangue degli alpini s'è fatta rossa.
Un coro di fantasmi vien giù dai monti
È il coro degli alpini che sono morti.
Alpini della Julia in alto il cuore
Sui monti della Grecia c'è il tricolore.
Gli alpini fan la storia, ma quella vera
Scritta col sangue lor, e la penna nera.
Lassù sulle montagne bandiera nera:
è morto un partigiano nel far la guerra.
È morto un partigiano nel far la guerra,
un altro italiano va sotto terra.
Laggiù sotto terra trova un alpino,
caduto nella Russia con il Cervino.
Ma prima di morire ha ancor pregato:
che Dio maledica quell'alleato!
Che Dio maledica chi ci ha tradito
lasciandoci sul Don e poi è fuggito.
Tedeschi traditori, l'alpino è morto
ma un altro combattente oggi è risorto.
Combatte il partigiano la sua battaglia:
Tedeschi e fascisti, fuori d'Italia!
Tedeschi e fascisti, fuori d'Italia!
Gridiamo a tutta forza: Pietà l'è morta!
8
Fra le canzoni di guerra e di Resistenza, questa che è tra le più famose
testimonianze di brutalità, di spietatezza, di lotta e di morte persino della
pietà.
Benvenuto ("Nuto") Revelli la compose nella primavera del 1944; Revelli è
stato uno scrittore, ufficiale e partigiano italiano. Ufficiale effettivo degli Alpini,
durante la seconda guerra mondiale, partecipò alla disastrosa campagna di
Russia. Dopo l'8 settembre prese parte alla Resistenza italiana, guidando le
formazioni Giustizia e Libertà nel Cuneese. Dopo la guerra si dedicò alla
scrittura narrando le sue esperienze durante il conflitto mondiale. I suoi due
più importanti lavori, Il mondo dei vinti e L'anello forte, sono basati su lunghe
interviste biografiche (oltre 270, stenografate e successivamente ribattute a
macchina)
con uomini e donne delle vallate cuneesi, rappresentano un
importanti e pionieristico contributo all'affermazione e allo sviluppo della storia
orale italiana.
Eurialo e Niso
Massimo Bubola
La vicenda dei due valorosi guerrieri è nota a molti: dopo la caduta di Troia,
Niso, figlio di Irtaco e della ninfa Ida, ed Eurialo, giovanissimo figlio di Ofelte,
fuggirono con Enea. I due combattevano sempre uno vicino all'altro, fieri di
farlo. Quando i Rutuli assalirono il campo troiano, i due amici si offrirono per
superare le linee nemiche ed avvertire Enea, che si trovava in una zona
lontana. Essi vennero scoperti a causa del riflesso dell’elmo di Eurialo,
illuminato dalla luna. I due si ritrovarono accerchiati in un agguato, soli contro
un esercito. Niso riuscì a scappare, mentre Eurialo fu ucciso dai nemici. Il
profondo affetto per l’amico spinse Niso a tornare sui suoi passi per cercarlo,
ma potè soltanto vendicarlo, e morire a sua volta, soggiogato dai nemici.
Questa storia meravigliosa è stata ripresa da Massimo Bubola e adattata alla
dura realtà partigiana. Ha trasformato questa storia in una canzone contro la
guerra, per esaltare il vero orgoglio italiano, la Resistenza. Bubola ha attribuito
ad Eurialo e Niso lo stesso coraggio, la stessa forza, la stessa passione, ma
anche lo stesso amore e la stessa sorte. Il testo descrive perfettamente la
realtà di quel periodo.
Racconta Massimo Bubola:
“Il testo di questa ballata l’ho scritto per una promessa fatta a mio padre,
comandante a soli 22 anni della Brigata partigiana “Adige” di Giustizia e
Libertà. Visto il suo amore per la cultura classica e per Virgilio in particolare, ho
cercato così di collegare idealmente questa storia di amore e di guerra,
ambientata nel 1943, con l’episodio dell’Eneide in cui i due soldati troiani
Eurialo e Niso vanno a compiere l’azione notturna nel campo dei latini”.
La notte era chiara, la Luna un grande lume
Eurialo e Niso uscirono dal campo verso il fiume.
E scesero dal monte lo zaino sulle spalle,
dovevano far saltare il ponte a Serravalle.
9
Eurialo era un fornaio e Niso uno studente,
scapparono in montagna all'otto di Settembre
i boschi già dormivano, ma un gufo li avvisava
c'era un posto di blocco in fondo a quella strada.
Eurialo fece a Niso asciugandosi la fronte
"Ci sono due tedeschi di guardia sopra al ponte."
la neve era caduta e il freddo la induriva
ma avevan scarpe di feltro, e nessuno li sentiva.
Le sentinelle erano incantate dalla Luna,
fu facile sorprenderle tagliandogli la fortuna,
una di loro aveva una spilla sul mantello,
Eurialo la raccolse e se la mise sul cappello.
La spilla era d'argento, un'aquila imperiale
splendeva nella notte più di un aurora boreale.
Fu così che li videro i cani e gli aguzzini
che volevan vendicare i camerati uccisi.
Eurialo fu sorpreso in mezzo a una radura,
Niso stava nascosto spiando di paura
Eurialo lo circondarono coprendolo di sputo,
a lungo ci giocarono come fa il gatto col topo.
Ma quando vide l'amico legato intorno a un ramo,
trafitto dai coltelli come un San Sebastiano
Niso dovette uscire, che troppo era il furore
quattro ne fece fuori prima di cadere.
E cadde sulla neve ai piedi dell'amico,
e cadde anche la Luna nel bosco insanguinato,
due alberi fiorirono vicino al cimitero,
i fiori erano rossi, sbocciavrono d'inverno.
La notte era chiara, la Luna un grande lume
Eurialo e Niso uscirono dal campo verso il fiume.
Se non ci ammazza i crucchi
I partigiani Italiani si dirigono in montagna per organizzare la resistenza e la
guerriglia.
La vita è dura, c’è il problema quotidiano della sopravvivenza, si campa alla
giornata in un ambiente povero di risorse, nutrendosi di castagne e di quanto
viene offerto dai contadini della zona. Il testo di questo brano è semplice,
scherzoso come a voler dimenticare il pericolo e le difficoltà che i “ribelli”
stavano sostenendo.
La canzone affronta il tema drammatico della guerra con la spensieratezza che
solo i giovani animati da forti ideali sanno e riescono a trovare anche negli
10
episodi più drammatici della vita. Questo testo è stato raccolto da Dario Fo
dalla viva voce di un amico partigiano nell'autunno del '43, in un'osteria di
Porto Val Travaglia, presso Varese. L'informatore faceva parte della banda del
colonnello Carlo Croce, operante appunto nella zona di Varese, che fu decimata
durante la battaglia di San Martino del 12/15 novembre 1943 (Taluni dicono
che sia invece una leggenda, e che Fo abbia composto personalmente questo
canto). È bene ricordare che per "crucchi" si intendono i tedeschi, i "bricchi"
sono le rocce, infine il "vento di marenca" è il maestrale.
La mia mamma la mi diceva
non andare sulle montagne
mangerai sol polenta e castagne
ti verrà l'acidità
mangerai sol polenta e castagne
ti verrà l'acidità
se non ci ammazza i crucchi,
se non ci ammazza i bricchi,
i bricchi ed i crepacci
e il vento di Marenca
se non ci ammazza i crucchi,
se non ci ammazza i bricchi,
quando saremo vecchi
ne avrem da raccontar
quando saremo vecchi
ne avrem da raccontar
La mia morosa la mi diceva
non andare con i ribelli
non avrai più i miei lunghi capelli
sul cuscino a riposar
non avrai più i miei lunghi capelli
sul cuscino a riposar
se non ci ammazza i crucchi,
se non ci ammazza i bricchi…
Questa notte mi sono sognato
ch'ero sceso giù in città,
c'era la mamma vestita di rosso
che ballava col mio papà
c'era i tedeschi gettati in ginocchio
che chiedevano pietà
c'era i fascisti vestiti da prete
che scappavan di qua e di là
se non ci ammazza i crucchi,
se non ci ammazza i bricchi..
11
Sette fratelli
Mercanti di Liquore e Marco Paolini
Era una livida e fredda mattina del 28 dicembre del ’43, quando al poligono di
tiro di Reggio Emilia un plotone di esecuzione della Repubblica di Salò
assassinò i sette fratelli Cervi e il soldato Quarto Camurri arrestato con loro
qualche settimana prima.
I sette fratelli Cervi: Gelindo (classe 1901), Antenore (1906), Aldo (1909),
Ferdinando (1911), Agostino (1916), Ovidio (1918), Ettore (1921).Tutti nati a
Campegine (Reggio Emilia), tutti fucilati.
Sono passati quasi settanta anni, ben più di mezzo secolo, un tempo nel quale
si sono succedute nuove generazioni e su cui incombe il rischio dell’oblio, come
accade a ciò che si allontana nel tempo, divenendo via via rarefatto nella
memoria.
Proprio per questo sentiamo, invece, la responsabilità -meglio il dovere civicodi non dimenticare.
Sì, perché non dimenticare significa battersi, sempre e ovunque, perché gli
ideali per cui i Cervi morirono vivano e siano riconosciuti a ogni uomo e a ogni
donna. Con la consapevolezza che quei valori non muoiono, ma sono motore
della storia. Perché come ci ha insegnato papà Cervi: «Dopo un raccolto ne
viene un altro».
C'erano sette fratelli
che andavano per il mondo:
sei erano sempre allegri,
il settimo sempre giocondo.
Sei andavano a piedi
perché non avevano fretta,
il settimo invece perché
non aveva la bicicletta.
La leggenda dirà
dell'ultima battaglia:
dove cantò la cicala
ora abbaia la mitraglia.
Una muta di cani
la notte ha circondata,
il fumo lecca i muri
della casa incendiata.
Ma quando li portarono
alla crudele morte,
non eri tu, fucile,
il più fermo, il più forte.
C'erano sette fratelli
che andavano per il mondo:
sei erano sempre allegri,
il settimo sempre giocondo.
Sei andavano a piedi
perché non avevano fretta,
12
il settimo invece perché
non aveva la bicicletta .
Nella nebbia dell'alba
si nascosero i cani,
e chiusero gli occhi
per non vedersi le mani.
Negli occhi dei sette Cervi
l'aurora si specchiò,
dagli occhi fucilati
il sole si levò.
Vecchio, tenero padre,
olmo dai sette rami,
nella vuota prigione
per nome ancora li chiami,
C'erano sette fratelli
che andavano per il mondo:
sei erano sempre allegri,
il settimo sempre giocondo.
Sei andavano a piedi
perché non avevano fretta,
il settimo invece perché
non aveva la bicicletta .
E a notte fra le sbarre
fin dove soffia il vento
intatte vedi splendere
sette stelle d'argento.
Sette stelle dell'Orsa
come sette sorelle.
I cani non potranno
fucilare le stelle.
Sette stelle dell'Orsa
come sette sorelle.
I cani non potranno
fucilare le stelle.
La canzone è tratta da un poema di Gianni Rodari scritto nel 1955.
13
COMPAGNI FRATELLI CERVI
Dedicato a papà Cervi
nel suo ottantesimo
compleanno
e alle giovanissime generazioni
d'Italia
A papà Cervi
con ammirazione
con affetto
I
Bella Emilia, splendeva
la polvere delle tue strade
che si aprono il passo fino al cuore
verde della pianura Ora immobili al sole, ora smarrite
nel labirinto delle vigne, dove
il campanello di una bicicletta
sembra squillare in cielo con le allodole
o sugli olmi affollati di cicale come splendeva, Emilia, la tua pace
il giorno che Aldo Cervi
guidò il trattore nuovo verso casa
e bastava la mano sul volante
a domare il puledro di ferro
dal muso fiammante
e il cuore prestava le sue parole
alla cieca canzone del motore:
Trattore, passa e va!
Le case si affacciavano
in cima alle cavedagne,
mandavano filari,
mandavano cani festosi e bambini
dalle voci più acute delle frecce
incontro al suo ruggito,
e un ragazzo che a scuola
le vecchie favole aveva sentito
rise : Guardate Atlante,
il gigante che regge il mondo in collo!
Perché sulla macchina alto in trono
viaggiava un mappamondo,
solenne goffo re da biblioteca
esiliato fra i campi,
e ad ogni scossa la sua rotazione
attorno ai poli mostrava
i continenti di sette colori
e gli oceani celesti, navigati
14
da flotte di arcipelaghi,
l'Asia, l'Europa, l'Africa,
l'America?
alla spinta d'un dito
giravano in un vortice di trottola,
e il cane impazzito
abbaiava alla giostra,
e i bimbi gli volevano mostrare
l'Italia che bagna il piede del mare
e lì è casa nostra, noi siamo lì sotto l'unghia.
Balenò sulla sfera
il riflesso di fiamma del trattore,
si bagnarono acque e terre
in un bagliore d'incendio e di sangue.
II
Sette fratelli come sette olmi,
alti robusti come una piantata.
I poeti non sanno i loro nomi,
si sono chiusi a doppia mandata:
sul loro cuore si ammucchia la polvere
e ci vanno i pulcini a razzolare.
I libri di scuola si tappano le orecchie.
Quei sette nomi scritti con il fuoco
brucerebbero le paginette
dove dormono imbalsamate
le vecchie favolette
approvate dal ministero.
Ma tu mio popolo, tu che la polvere
ti scuoti di dosso
per camminare leggero,
tu che nel cuore lasci entrare il vento
e non temi che sbattano le imposte,
piantali nel tuo cuore
i loro nomi come sette olmi:
Gelindo,
Antenore,
Aldo,
Ovidio,
Ferdinando,
Agostino,
Ettore?
Nessuno avrà un più bel libro di storia,
il tuo sangue sarà il loro poeta
dalle vive parole,
con te crescerà
la loro leggenda
come cresce una vigna d'Emilia
15
aggrappata ai suoi olmi
con i grappoli colmi
di sole.
III
La leggenda dirà della mano,
grossa mano contadina,
che ogni sera in cucina a un lume di lucerna
fece sul mappamondo il suo viaggio
cercando fraterna
altre mani, altre genti;
dirà degli occhi fermi
che videro città gonfie di vita
e giardini e feste
dove toccavano caute le dita
sabbie di deserti,
mistero di foreste;
dirà di sette fratelli,
fratelli a tutta la terra,
che sognarono un mondo senza fame,
senza guerra, senza paura.
Ai quattro venti, fuori, la pianura
spalancava le braccia nel buio,
su tutta Italia era notte e paura,
ma, nella stanza, intrepida una voce
parlava col domani:
Un giorno sarà
tutta la terra di un solo colore,
il colore della libertà.
D'un ceppo la vampa
nel vasto focolare
ancora un lampo di sangue strappò
sulla piccola terra,
ed un'ombra più lunga l'ingoiò.
IV
La leggenda dirà che lunga notte,
Italia, fu la tua,
rotta dal canto ubriaco del fascista?
Cara patria, terra avara,
non era la tua voce che cantava
la sconcia canzone:
essa tremava nelle nostre gole,
pianto e maledizione,
quanto tu ci mandavi per il mondo
a seminare paesi e città
perché di terra nostra
non avevamo da riempire il pugno;
16
e quando morivamo abbandonati
sull'orlo delle trincee
tu non eri la bandiera usurpata
di tante stolte guerre,
ma il pianto oscuro della madre ignara,
non eri il proclama del generale
ma la nenia, il lutto degli alpini
che vanno alla guerra,
la meglio gioventù che va sotto terra.
Tu non hai mai parlato dai balconi
dei palazzi pieni di boria,
tu disertavi le adunate imperiali,
battevi con le nocche insanguinate
i muri delle prigioni,
sibillavi in segreto la tua storia,
eri la penna che graffiò paziente
i quaderni di Antonio Gramsci,
il giornale proibito, il volantino
di cui ogni parola era pagata
con un anno di galera;
sei cresciuta nelle officine,
nelle grige periferie,
nella stalla del contadino.
Italia, tu vivevi
nella casa di Fraticello,
seduta al focolare dei Cervi,
non padrona né schiava
ma sorella e compagna
di fatica e d'amore.
E quando lo stivale straniero
calcò il tuo cuore
e infangò le tue strade,
la tua bandiera sventolò sui monti,
vegliò ai fuochi fumosi delle baite,
viaggiò segreta nella bicicletta
del gappista, brillò nei suoi occhi d'acciaio,
e i tuoi sette fratelli,
i tuoi sette Cervi dal limpido cuore
furono i tuoi sette fucili,
per colpire ti diedero gli artigli:
"I cani ci chiamano banditi,
ma il popolo conosce i suoi figli"
V
La leggenda dirà
di una casa emiliana
che materna abbracciò coi suoi muri
il fuggitivo braccato dai cani,
17
e per l'inglese, il russo prigioniero
impastò il pane con tenere mani,
e vegliò il lor sonno.
Il cuore non conosce frontiere,
per donarsi non chiede passaporti.
A te, a te aviatore americano
delle tue bombe non ti chiese conto,
gettate sulle nostre città sui nostri morti,
ma fasciò la tua ferita.
La tua vita, nel Texas, nel Nevada,
fu comprata con la vita
di sette comunisti,
e la loro casa fu bruciata,
la loro madre uccisa dal dolore
perché tua madre non dovesse piangere.
VI
La leggenda dirà
dell'ultima battaglia:
dove cantò la cicala
abbaia la mitraglia.
Una muta di cani
la notte ha circondata,
il fumo lecca i muri
della casa incendiata.
Ma quando li portarono
alla crudele morte,
non eri tu, fucile,
il più fermo, il più forte.
Nella nebbia dell'alba
si nascosero i cani,
e chiusero gli occhi
per non vedersi le mani.
Negli occhi dei sette Cervi
l'aurora si specchiò,
dagli occhi fucilati
il sole si levò.
Vecchio, tenero padre,
olmo dai sette rami,
nella vuota prigione
per nome ancora li chiami,
e a notte fra le sbarre
fin dove soffia il vento
intatte vedi splendere
sette stelle d'argento.
Sette stelle dell'Orsa
18
come sette sorelle.
I cani non potranno
fucilare le stelle.
VII
Vecchio nodoso come un olmo antico,
pianta potata dai miei sette rami,
che dura scorza gli anni e il nemico
hanno fatto al mio volto, alle mie mani.
I Cervi, è buona terra: ara, nemico,
affonda il vomero nelle mie carni,
coi pugnali dell'erpice colpisci:
morte puoi darmi, male non puoi farmi.
E' buona terra questa carne antica.
mieti, nemico, le mie sette spighe :
il grano non muore nel pane,
non sono morti i miei sette figli
che hanno dato la vita alla vita.
In tutto ciò che vive sono vivi,
in tutto ciò che spera sono vivi,
in tutto ciò che soffre e lotta vive
i miei figli per sempre sono vivi.
VIII
Li hanno veduti su tutti i fronti?
E quando irresistibile, fiorita
di rossi fazzoletti partigiani
la primavera dirupò dai monti
a rendere la patria agli italiani
Erano il canto più ardito, la lagrima
più stellante di gioia,
i colori più belli dell'aprile
i compagni fratelli Cervi?
Li hanno visti nel Sud
vestito di nero e di sole
quando uscì dalle grotte di Matera
una valanga umana a conquistare
la patria e la terra; uomini, donne,
bimbi arruffati e puri negli stracci,
e gli animali dall'occhio fraterno,
cavalli, asini, muli,
e le bandiere e i santi paesani
sui ricamati stendardi,
tutti quel giorno, Italia, ti baciarono,
ti tolsero gli spini con mano amorosa.
C'erano, c'erano i Cervi a Melissa,
anche di loro la terra fu rossa,
19
e sul primo trattore
che la vittoria si scavò tra i cardi.
alto su tutti gli sguardi
c'era il mio Aldo, e fu il suo canto un tuono:
Bandiera di libertà,
trattore passa e va!
E li hanno visti a Modena, un mattino
d'inverno che ai cancelli
delle Fonderie Riunite
chi chiedeva lavoro ebbe piombo:
a Reggio Emilia, quando ci destò
l'indomabile rombo del "fischione",
e i nostri bimbi piangevano
di nascosto dal padre
battuto per le strade,
e l'inverno fu duro, ma a Natale
il loro albero crebbe favoloso
tra le macchine salvate,
nero presepe fu la fonderia
dell'Erre Sessanta,
e un canto di vittoria
cantarono angeli in tuta turchina
con le ali macchiate di grasso:
Bandiera di pace
e di libertà,
trattore, passa e va!
Dove la pianta uomo non si umilia,
ma di tutto il suo sangue
fu una bandiera accesa di coraggio,
là sono vivi i miei figli,
a Genova, nel porto conteso:
oggi la prima linea
passa tra le banchine,
sui moli si tende
il reticolato,
la trincea è scavata nelle case
dove non c'è più pane
ma non entra viltà?
I sette Cervi scendono con voi
sulle piazze d'Italia quando scoppia
come un uragano di speranza
la parola della classe operaia?
Stretti con voi nei banchi di scuola,
con voi si macchiano il dito di inchiostro,
Scrivete: Italia? E' il loro nome, e il vostro.
Sgranate gli occhi limpidi
20
sul mappamondo, fragile giocattolo
fatto per un festoso girotondo,
ed essi, guidano la vostra mano
di frontiera in frontiera
a cercare i fratelli
sconosciuti e vicini,
e segnano per voi
nel cuore delle genti
la strada della pace,
e vi dicono: Un giorno
la terra conoscerà
un solo colore,
quello della felicità.
Allora sarà vostra
come una palla, come una trottola.
come il cuore che vi fa vivi e buoni.
La prenderete allegri sulle spalle.
Vi presteremo noi la vostra forza
che non conosce nemici:
perché voi siete degli olmi nuovi
e noi siamo le vostre radici.
Gianni Rodari
Reggio Emilia 8 maggio 1955
OLTRE IL PONTE
di Italo Calvino e Sergio Liberovici
L’attività letteraria di Italo Calvino è lunga e varia e comincia a vent’anni,
quando nel 1944 il giovane scrittore lascia la facoltà di Agraria per raggiungere
la Brigata comunista Garibaldi rifiutando l’arruolamento nella Repubblica
Sociale.
A ricordo e testimonianza letteraria di quel periodo, che fu breve ma ricco di
esperienze formative, è il Oltre il ponte, un canto scritto da Calvino e musicato
da Sergio Liberovici più di mezzo secolo fa, nel 1959. Dato l’anno di creazione,
non può essere annoverato tra i canti nati durante la guerra di Liberazione;
tuttavia appartiene di diritto ai Canti della Resistenza. È infatti una
composizione concepita nell’ambito di “Cantacronache”, un movimento
culturale in cui ricercatori, musicisti e scrittori si prefissero di porre l’attenzione
su temi di carattere sociale e politico, ereditati dalla Lotta di Liberazione, in cui
la trasmissione di pensieri e messaggi avvenisse tramite la riproposizione
musicale di canti popolari e colti.
Il canto Oltre il ponte è senza dubbio fra i risultati più significativi di questo
impegno. Il suo tentativo di tramandare alle nuove generazioni la speranza di
un «avvenire più umano, e più giusto, più libero e lieto» lo rende più che mai
attuale. Nelle parole di questa canzone Calvino rievoca il tempo della
21
Resistenza, del suo impegno e quello di tanti giovani per liberare il proprio
Paese dal nazifascismo, con la nostalgia dolce-amara dell’ingenuo manicheismo
tipico dei giovani:
Tutto il bene del mondo oltre il ponte
tutto il male avevamo di fronte.
Tutto il bene avevamo nel cuore.
A vent’anni la vita è oltre il ponte
oltre il fuoco comincia l’amore.
O ragazza dalle guance di pesca,
O ragazza dalle guance d'aurora,
Io spero che a narrarti riesca
La mia vita all'età che tu hai ora.
Coprifuoco: la truppa tedesca
La città dominava. Siam pronti.
Chi non vuole chinare la testa
Con noi prenda la strada dei monti.
Avevamo vent'anni e oltre il ponte
Oltre il ponte che è in mano nemica
Vedevam l'altra riva, la vita,
Tutto il bene del mondo oltre il ponte.
Tutto il male avevamo di fronte,
Tutto il bene avevamo nel cuore,
A vent'anni la vita è oltre il ponte,
Oltre il fuoco comincia l'amore.
Silenziosi sugli aghi di pino,
Su spinosi ricci di castagna,
Una squadra nel buio mattino
Discendeva l'oscura montagna.
La speranza era nostra compagna
Ad assaltar caposaldi nemici
Conquistandoci l'armi in battaglia
Scalzi e laceri eppure felici.
Avevamo vent'anni…
Non è detto che fossimo santi,
L'eroismo non è sovrumano,
Corri, abbassati, dài, corri avanti,
Ogni passo che fai non è vano.
Vedevamo a portata di mano,
Oltre il tronco, il cespuglio, il canneto,
L'avvenire d'un giorno più umano
22
E più giusto, più libero e lieto.
Avevamo vent'anni…
Ormai tutti han famiglia, hanno figli,
Che non sanno la storia di ieri.
lo son solo e passeggio tra i tigli
Con te, cara, che allora non c'eri.
E vorrei che quei nostri pensieri,
Quelle nostre speranze d'allora,
Rivivessero in quel che tu speri,
O ragazza color dell'aurora.
La ballata dell'ex
Endrigo e Bardotti (1966)
È un brano degli anni '60: la guerra partigiana, ma con un taglio ironico e non
celebrativo, che sottolinea la distanza tra i sogni e la realtà degli anni '50.
Interessante è il riferimento ai regolamenti di conti verificatisi nei giorni della
liberazione, e anche in quelli immediatamente successivi, oggetto di inchieste
giornalistiche pubblicizzate con grande clamore in particolare dal giornalista
Giampaolo Pansa ("Il sangue dei vinti", "La grande bugia") e tendenti a una
sorta di pareggio delle colpe tra le due parti, con assoluzioni (o condanne)
equamente distribuite.
Questa canzone esprime l’amarezza di quanti avevano creduto nella grande
rivoluzione che doveva avvenire nel dopoguerra e che invece non c’è stata.
Questo brano è stato censurato dalla Presidenza del Consiglio del governo
Moro per i versi:
“Se il tempo è galantuomo io son figlio di nessuno
Vent’anni son passati e il nemico è sempre là”
La Fonit-Cetra, la casa discografica che incise la canzone, allora era legata
all’IRI e quindi probabilmente doveva dar conto a qualcuno che stava in alto, a
cui questa canzone dava fastidio. Fatto sta che il verso incriminato compare
nello spartito ed è sostituito dal fischio nel disco.
Andava per i boschi con due mitra e tre bombe a mano
Di notte solo il vento gli faceva compagnia
Laggiù nella vallata è già pronta l'imboscata
Nell'alba senza sole eccoci qua
Qualcuno il conto oggi pagherà.
Andava per i boschi con due mitra e tre bombe a mano
Il mondo è un mondo cane ma stavolta cambierà
Per tutti finiranno i giorni neri di paura
Un mondo tutto nuovo sorgerà
Per tutti l'uguaglianza e la libertà.
23
A soli cinque anni questa guerra è già finita
È libera l'Italia, l'oppressore non c'è più
Si canta per i campi dove il grano ride al sole
La gente è ritornata giù in città
Ci son nell'aria grandi novità.
E scese giù dai monti per i boschi fino al piano
Passava fra la gente che applaudiva gli alleati
Andava a consegnare mitra barba e bombe a mano
Ormai l'artiglieria non serve più
Un mondo tutto nuovo sorgerà:
Per tutti l'uguaglianza e la libertà.
E torna al suo paese che è rimasto sempre quello
Con qualche casa in meno ed un campanile in più
C'è il vecchio maresciallo che lo vuole interrogare
Così per niente per formalità
Mi chiamano Danilo e sono qua.
E vogliono sapere perché come quando e dove
Soltanto per vedere se ha diritto alla pensione
Gli chiedono per caso come è andata quella sera
Che son partiti il conte e il podestà
E chi li ha fatti fuori non si sa.
Se il tempo è galantuomo io son figlio di nessuno
Vent'anni son passati e il nemico è sempre là
Ma i tuoi compagni ormai non ci son più
Son tutti al ministero o all’aldilà
Ci fosse un cane a ricordare che
Andava per i boschi con due mitra e tre bombe a mano.
Festa d'aprile
Sergio Liberovici e Franco Antonicelli
Incisa da Giovanna Daffini in un 45 giri della Linea Rossa (Dischi del Sole).
Molte delle strofette sono la rielaborazione di alcuni stornelli che venivano
mandati in onda dall'emittente partigiana “Radio Libertà” (che trasmetteva da
Sala Biellese).
E' già da qualche tempo che i nostri fascisti
si fan vedere poco e sempre più tristi,
hanno capito forse, se non son proprio tonti,
che sta per arrivare la resa dei conti.
Forza che è giunta l'ora, infuria la battaglia
per conquistar la pace, per liberar l'Italia;
scendiamo giù dai monti a colpi di fucile;
evviva i partigiani! è festa d'Aprile.
24
Nera camicia nera, che noi abbiam lavata,
non sei di marca buona, ti sei ritirata;
si sa, la moda cambia quasi ogni mese,
ora per il fascista s'addice il borghese.
Quando un repubblichino omaggia un germano
alza la mano destra al saluto romano,
ma se per caso incontra noialtri partigiani
per salutare alza entrambe le mani.
In queste settimane, miei cari tedeschi,
maturano le nespole persino sui peschi;
l'amato Duce e il Furer ci davano per morti
ma noi partigiani siam sempre risorti.
Ma è già da qualche tempo che i nostri fascisti
si fan vedere spesso, e non certo tristi;
forse non han capito, e sono proprio tonti,
che sta per arrivare la resa dei conti.
Le tre bandiere
Anonimo
Cantato soprattutto durante la lotta partigiana, questo canto ha probabilmente
avuto origine d’osteria con contenuto osceno, essere poi passato nel repertorio
goliardico e infine in quello politico. Un’altra ipotesi è invece quella che ne vede
l’antecedente nel canto risorgimentale E la bandiera dei tre colori, per la quale
ci sarebbero analogie sia di testo che di struttura musicale. In ogni caso la
canzone è stata ripresa, in campo politico, numerose volte e ne esiste anche
una versione fascista del periodo squadristico:
Camicia nera la vogliamo sì
Camicia nera la vogliamo sì
Ce ne frghiamo della galera
Camicia nera la vogliamo sì
Nel dopoguerra fu estremamente popolare fra gli ex-partigiani ed è ancora la
più cantata ad ogni manifestazione con i più svariati riadattamenti.
Bandiera nera la vogliamo: No!
Perchè l'è il simbolo della galera
Bandiera nera la vogliamo: No!
Bandiera bianca la vogliamo: No!
Perchè l'è il simbolo dell'ignoranza
Bandiera bianca la vogliamo: No!
25
Bandiera rossa la vogliamo: Si!
Perchè l'è il simbolo della riscossa
Bandiera rossa la vogliamo: Si!
Bella Ciao
È la più famosa delle canzoni della Resistenza italiana. La grande diffusione del
canto, però, inizia con gli Anni Sessanta, dopo che fu incisa da Yves Montand e
dette il titolo allo spettacolo del Nuovo Canzoniere Italiano presentato al
Festival di Spoleto nel 1964.
Le ascendenze musicali della canzone devono cercarsi in un gioco infantile, La
me nona l’è vecchierella, usato per l’educazione del coordinamento dei
movimenti dei bimbi attraverso il battito ritmato delle mani. Per quanto
riguarda invece il testo la derivazione è da una canzone narrativa che ha ampia
diffusione in Italia e in Europa, solitamente pubblicata con il titolo Fiore di
tomba.
FIORE DI TOMBA
Di là da cui boscage na bela fia a j’è
so pare e sua mare
la völo maridè.
A völo dè-i-la a ün prinsi fiöl d’imperadur.
- Mi vöi nè re nè prinsi fiöl d’imperadur
déi- me cul giovinoto ch’a j’è ‘n cula përzun.
- O fia dla mia fia, l’è pà ‘n partì da ti
Duman a úndes ure a lo faran mürì.
- S’a fan mürì cul giuvo,
ch’a m’fasso mürì mi
Ch’a m’ fasso fè na tumba ch’a i sia d’ post për tri,
Ch’a i stago pare e mare, ‘l me amur an brass a mi.
An sima a cula tumba piantran dle röze e fiur
Tüta la gent ch’a i passa
a sentiran l’odur
Diran: - J’è mort la bela, l’è morta për l’amour
Al di la da quella boscaglia una bella ragazza c’è
Suo padre e sua madre vogliono maritarla
Vogliono darla a un principe figlio d’imperatore
-Io non voglio nè re nè principe figlio d’imperatore
Datemi quel giovanotto che è in quella prigione
-O figlia la mia figlia non è un partito per te
Domani alle ore undici lo faranno morire
-Se fanno morire quel giovane che facciano morire (anche) me
Che mi facciano fare una tomba che ci sia posto per tre
Che ci stiano padre e madre il mio amore in braccio a me
In cima a quella tomba pianteranno delle rose e (dei) fiori
Tutta la gente che ci passa sentirà l’odore
Diranno – è morta la bella è morta per amore
Nel 1953 l’antropologo Alberto Cirese (direttore della rivista La Lapa, che
trattava di "argomenti di storia e letteratura popolare") aveva pubblicato il
testo di Stamattina mi sono alzata segnalandone appunto il rapporto con la
26
canzone edita da Nigra col titolo Fior di tomba nella sua raccolta “Canti Popolari
del Piemonte” (un punto di riferimento obbligato per gli studi folklorici).
STAMATTINA MI SONO ALZATA
Stamattina mi sono alzata,
un'ora prima che leva il sole,
mi son messa alla finestra
mi go visto el primo amor.
L'era al braccio di una ragazza:
una ferita mi viene al cor.
« Cara mamma serè la porta,
che qua non entra mai più nissun.
« Cara figlia sta alegra e canta,
sta alegra e canta, sta qua con me.
Farem fare una casetta
E ci staremo poi tutti e tre.
Prima il padre e poi mia madre
e il mio amore in braccio a me.
Tutti quelli che passeranno
dimanderanno cos'è quel fior:
Quello è il fiore della Rosina
che l'è già morta pel troppo amor.
Questa di Cirese è la prima segnalazione del testo di Bella ciao! che negli anni
sessanta divenne poi emblematica di tutta la Resistenza.
Sulla nascita della versione partigiana si sa pochissimo. Erroneamente ne sono
state attribuite le origine legate ad una canzone di risaia, che è invece
dell’immediato dopoguerra e le cui parole sono del mondino Scansani, di
Gualtieri in provincia di Reggio Emilia.
Bella Ciao
Una mattina mi sono alzato,
o bella ciao, bella ciao,
bella ciao, ciao, ciao,
questa mattina mi sono alzato
e ho trovato l'invasor.
O partigiano, portami via,
o bella ciao, bella ciao,
bella ciao, ciao, ciao,
o partigiano, portami via,
che mi sento di morir.
E se muoio da partigiano
o bella ciao, bella ciao,
bella ciao, ciao, ciao,
e se muoio da partigiano
tu mi devi seppellir.
27
E seppellire lassù in montagna,
o bella ciao, bella ciao,
bella ciao, ciao, ciao,
e seppellire lassù in montagna
sotto l'ombra d'un bel fior.
E le genti che passeranno,
o bella ciao, bella ciao,
bella ciao, ciao, ciao,
e le genti che passeranno
e diranno: «O che bel fior!».
È questo il fiore del partigiano,
o bella ciao, bella ciao,
bella ciao, ciao, ciao,
è questo il fiore del partigiano,
morto per la libertà.
E quei briganti neri
E quei briganti neri mi hanno arrestato
in una cella scura mi hanno portato
mamma non devi piangere per la mia triste sorte
piuttosto di parlare vado alla morte
Mamma non devi piangere per la mia triste sorte
piuttosto di parlare vado alla morte
E quando mi portarono alla tortura
legandomi le mani alla catena
legate pure forte le mani alla catena
piuttosto che parlare torno in galera
E quando mi portarono al tribunale
dicendo se conosco il mio pugnale
sì sì che lo conosco ha il manico rotondo
nel cuore dei fascisti lo spinsi a fondo
E quando mi portarono al tribunale
chiedendo se conosco il mio compare:
sì sì che lo conosco, ma non dirò chi sia
io faccio il partigiano e non la spia
E quando l'esecuzione fu preparata
fucile e mitraglie eran puntati
non si sentiva i colpi i colpi di mitraglia
ma si sentiva un grido: Viva l'Italia!
Non si sentiva i colpi della fucilazione,
ma si sentiva un grido: Rivoluzione!
28
Molto cantato e conosciuto nella Val d’Ossola, questo canto, fra i più intensi e
veramente popolari della Resistenza, deriva da un antecedente testo da
cantastorie dedicato all’anarchico Sante Caserio. Sante Caserio è l’anarchico
lombardo che, il 24 giugno 1894, a Lione, uccise con una pugnalata al petto il
presidente della repubblica francese Sadi Carnot. Processato e condannato a
morte, venne ghigliottinato a Lione il 16 agosto dello stesso anno. Il fatto
suscitò enorme impressione anche per il comportamento di Sante durante il
processo, coraggioso e fermo, che contribuì a creare attorno all’ex-panettiere
italiano un alone di leggenda e una viva solidarietà popolare. I cantastorie
italiani portarono subito in giro varie ballate su di lui con enorme successo.
Nacquero successivamente anche altre canzoni d’autore sull’episodio (una
anche per mano di Pietro Gori).
Il testo che segue, di anonimo, è incentrato sul processo di Sante Caserio (da
qui anche l'altro titolo con cui è noto: "Il processo di Sante Caserio"). L'eco del
fiero e celeberrimo verso: "Caserio fa il fornaio e non la spia" (parole
realmente pronunciate da Caserio, in francese, durante il processo: Caserio est
boulanger, pas espion!) è arrivato a quello che è uno dei più famosi canti
partigiani italiani.
Partito da Milano senza un soldo
Partito da Milano senza un soldo
arrivai a Parigi a tasche vuote
sempre col mio pugnale ben affilato
il cuore di quel vigliacco devo spaccare.
Quando Caserio vide la carrozza
e lui s'avvicinava piano piano
quel mazzolin di fiori e che gridava amore
gl'inferse il pugnale dentro il cuore.
Quando Caserio fu arrestato
gli domandaron chi eran i suoi compagni
“I miei compagni sono dell'anarchia
io facevo il fornaio e non la spia.”
Quando Caserio fu in tribunale
gli domandarono se conosceva il suo pugnale
“Sì sì che lo conosco ha il manico rotondo
nel cuore di Carnot andò nel fondo.”
Quando Caserio fu condannato
gli domandarono s'era pentito del suo reato
“Se per dieci minuti m'avessero lasciato
il nuovo presidente l'avrei scannato.”
Quando Caserio vide la ghigliottina
a lei s'avvicinò pian piano
con una mano levandosi il cappello
29
“Addio amici e compagni vado al macello
ma prima di morire vo' dire una parola
sia maledetto il re, casa Savoia.”
Nella sua nuova funzione il canto è stato profondamente rimaneggiato, ma si
possono riconoscere alcuni elementi del testo d’origine che sono rimasti. Si
vedano la terza e la quarta strofa, con il riferimento al pugnale con il “manico
rotondo” (che nella versione di Caserio è piantato “nel fondo” del cuore del
presidente della repubblica francese Sadi Carnot) e alla richiesta di rivelare il
nome del presunto complice (che per il testo di Caserio suona: “I miei
compagni sono dell'anarchia / io facevo il fornaio / e non la spia”).
Fischia il vento
Felice Cascione e Blanter
Fischia il vento e infuria la bufera,
scarpe rotte e pur bisogna andar
a conquistare la rossa primavera
dove sorge il sol dell'avvenir.
A conquistare...
Ogni contrada è patria del ribelle,
ogni donna a lui dona un sospir,
nella notte lo guidano le stelle,
forte il cuor e il braccio nel colpir.
Nella notte...
Se ci coglie la crudele morte,
dura vendetta verrà dal partigian;
ormai sicura è già la dura sorte
del fascista vile e traditor.
Ormai sicura...
Cessa il vento, calma è la bufera,
torna a casa il fiero partigian,
sventolando la rossa sua bandiera;
vittoriosi, al fin liberi siam!
Sventolando...
Il testo fu scritto nel settembre 1943 dal giovane medico ligure Felice
Cascione, ma la musica è quella della canzone russa Katyusha.
Fischia il vento divenne l'inno ufficiale di tutte le Brigate Garibaldi del Nord
Italia: lo storico Roberto Battaglia nella "Storia della Resistenza" la cita come la
canzone più nota ed importante nella lotta di Liberazione.
Non esistevano ancora canzoni partigiane e si cantavano vecchi canti socialisti
e comunisti: "L'Internazionale", "La guardia rossa", "Bandiera Rossa" o canzoni
di origine anarchica "Addio Lugano Bella" trasformata in “Addio Imperia Bella”,
“Vieni o Maggio" o "Canzone del Maggio” sull'aria del Nabucco; su essa si
tentava di comporre un inno per la banda partigiana di Cascione. Sul cippo
eretto in memoria della medaglia d'oro Felice Cascione a Fontane di Alto, una
lapide porta la dicitura “date fiori al ribelle caduto con lo sguardo rivolto
30
all'aurora al vegliardo che lotta e lavora al veggente poeta che muor" strofa
finale del canto "Vieni o Maggio".
Nel frattempo giunse in banda Giacomo Sibilla, nome di battaglia "Ivan",
reduce dalla campagna di Russia. Nella regione del Don, "Ivan" fece
conoscenza con prigionieri e ragazze russe; da loro imparò la canzone Katjuša
del musicista Blanter; rientrato in Italia, al Passu du Beu ne abbozzò alcuni
versi con la chitarra insieme con Vittorio Rubicone "Vittorio il Biondo"; a questo
punto intervenne Cascione che con altri componenti della banda ne composero
i versi. La canzone fu intonata per la prima volta nel Natale 1943 e cantata in
forma ufficiale ad Alto nella piazza di fronte alla chiesa (il giorno dell'Epifania
del 1944). In seguito divenne, come già detto, l'Inno Ufficiale delle Brigate
Garibaldi.
Con Bella ciao, è una delle più famose canzoni che commemorano la
Resistenza Italiana.
Fischia il vento è un canto di larghissima diffusione fra tutte le formazioni
partigiane, riconosciuto nell'immediato dopoguerra come l'inno della
Resistenza.
Ma, dopo la vittoria elettorale della Democrazia Cristiana, sono venuti alla luce
i suoi “imperdonabili” difetti: essere basata su una melodia russa, contenere
espliciti riferimenti socialcomunisti ("il sol dell'avvenir"), essere stata cantata
soprattutto dai garibaldini.
La Brigata Garibaldi
Le brigate d'assalto "Garibaldi" furono delle brigate partigiane legate
prevalentemente al Partito Comunista Italiano, in cui militavano anche
esponenti di altri partiti del CLN, specialmente socialisti. Pochi furono invece i
componenti legati al Partito d'Azione o democristiani. Coordinate da un
comando generale diretto dagli esponenti comunisti Luigi Longo e Pietro
Secchia, furono le formazioni partigiane più numerose e quelle che subirono le
maggiori perdite totali durante la Guerra partigiana. In azione i componenti
delle brigate indossavano per riconoscimento fazzoletti rossi al collo e stelle
rosse sui copricapi.
Le parole partigiane di questo canto nacquero tra la fine di Marzo e i primi
d’Aprile 1944 a Castagneto di Ramiseto (Reggio Emilia), opera comune di più
partigiani della divisione Aristide, ma principalmente di Mario Bisi e Rinaldo
Pellicone.
Il testo fu adattato alla musica di una vecchia marcia militare forse di
discendenza risorgimentale e ancor oggi è nel repertorio dei bersaglieri. La
stessa melodia è stata usata da un canto fascista cantato nella guerra di
Spagna che ad un certo punto recita “e se la Russia spedisce i suoi cannoni, la
nostra fede li distruggerà“. È considerato l'inno ufficiale delle brigate
garibaldine della provincia di Reggio Emilia.
31
LIBERTA’? SI’
LIBERTA’? SI’
LIBERTA’? SIAM PARTIGIAN!
Fate largo che passa
La Brigata Garibaldi
La più bella la più forte
La più ardita che ci sia
quando passa, quando avanza
Il nemico fugge allor
Tutto rompe e tutto infrange
con la forza e con l’ardor!
Abbiam la giovinezza in cor
Simbolo di vittoria
Marciamo sempre forte
E non temiamo la morte.
La stella rossa in fronte
La civiltà portiamo
Ai popoli oppressi
La libertà noi porterem
Fate largo che passa
La Brigata Garibaldi
La più bella la più forte
La più ardita che ci sia
quando passa, quando avanza
Il nemico fugge allor
Siam fieri, siamo forti
Per cacciare l’invasor
Col mitra e col fucile
Siam pronti per scattare
Ai traditor fascisti
Gliela faremo pagare
Con la mitraglia fissa
E con le bombe a mano
Per le barbarie commesse
Sul nostro popol fedel!
Fate largo che passa…
LIBERTA’? SI’
LIBERTA’? SI’
LIBERTA’? SIAM PARTIGIAN!
32
Bandiera rossa
Bandiera rossa non è solo l'unico inno della classe operaia italiana che possa
considerarsi come un vero canto popolare di tradizione orale ma è anche un
inno che è sedimento di larga parte della storia d'Italia. Formata da due
diverse melodie di largo uso popolare sin dall'Ottocento, trova genealogia sia
melodica che testuale in un canto repubblicano, del quale una versione è stata
raccolta nel 1973 in una colonia di valsuganotti emigrati a Stivor (in Bosnia)
verso il 1884 e da allora rimasti senza più contatti con l'Italia:
Avanti popolo con la riscossa
bandiera rossa bandiera rossa
avanti popolo con la riscossa
bandiera rossa bandiera rossa
Bandiera rossa la triunferà
viva la repubblica viva la repubblica
bandiera rossa la triunferà
viva la repubblica la libertà
Come è noto, la bandiera rossa divenne emblema ufficiale dei repubblicani fin
dal 1870, dopo l'entrata delle truppe regie in Roma. Voleva essere l'adozione di
un simbolo diverso dalla bandiera nazionale, che recava lo stemma sabaudo
sul tricolore ed aveva quindi snaturato il vessillo della repubblica romana
«immune da ogni insegna servile». La melodia della canzone doveva però già
essere di uso garibaldino, come fa pensare il frammento di un canto ancora in
uso nel Novarese nei primi anni del Novecento, soprattutto in occasione della
commemorazione del 20 settembre 1870:
E la sciavata del Pio nono
giü giü dal trono
giü giü dal trono
e la sciavata dal Pio nono
giü dal trono voiàm bütà.
Viva Roma e la libertà
viva Roma e la libertà
Strofette risalenti ai primi anni del secolo, inneggianti a Giovan Battista Pirolini,
nel 1897 segretario nazionale del Partito Repubblicano Italiano, erano cantate
a Ravenna:
Sta forte o Pirulini
e non ti avelire
che prima di morire
repubblica farem.
Allegro popolo a la riscossa
bangera rossa trionferà.
Bangera rossa la s'indosserà
evviva la repubblica e la libertà.
La genealogia repubblicana della Bandiera rossa socialista è stata del resto già
ricordata da Luigi Repossi (politico italiano e rivoluzionario comunista) sin
dall'ottobre 1920, che dà queste informazioni sulle trasformazioni del canto a
Milano: «Bandiera rossa [... ] pur non avendo musica propria, non fu scritta né
33
cantata per i primi dai socialisti. Il suo motivo è composito: si tratta di diversi
couplets (coppia di versi rimati o anche strofa di canzone) che nei giorni di
festa cantavano i repubblicani a Milano. Circa dieci o dodici anni or sono eranvi
a Milano una fanfara repubblicana e un Circolo repubblicano: il circolo e la
fanfara avevano però un passato glorioso, e, nel 1905 (o 1906) inaugurarono il
loro vessillo - un gagliardetto rosso con berretto frigio in mezzo a rami di edera
- attorno al quale anche noi socialisti qualche volta facemmo a pugni colla Vula
vula che ven el luf (‘Vola vola che viene il lupo'), molto usato per beffare la
poliziottaglia di quel tempo [... ]. Ora ecco che, verso il 1910, tal Boschetti
Piero, operaio meccanico dello stabilimento Miani e musicante e suonatore di
bombardino (terzo bombardino), quando detta fanfara si portava a fare
qualche scampagnata (come allora usavasi) o qualche serenata sotto i balconi,
verso la fine suonava dei couplets, e fra gli altri quello che divenne Bandiera
rossa. La prima parte la credo sua (Avanti popolo, alla riscossa!). Quanto alla
musica della seconda parte, i vecchi milanesi se la devono ricordare. È un
antichissimo ritornello milanese, cantato, probabilmente, anche dal nonno di
Berlusconi:
Ven chì Ninetta
sott'all'umbrelin;
ven chì Ninetta,
te farò un basin.
Te farò un basin,
ti donerò il mio cor;
ven chì Ninetta
che farem l'amor
Un repubblicano (credo certo Marzorati) ne trovò le parole: Avanti popolo, alla
riscossa ecc. e, come si vede, erano coerenti anche quest'altre: Bandiera rossa
la s'innalzerà, in quanto il loro vessillo era del più bel rosso fiammante. Venne
la lotta elettorale pro-Cipriani [nel 1886-88], ed anche i repubblicani vi presero
parte. Ma alle parole Viva la repubblica, sostituirono le altre Viva Cipriani; il
popolo le fece sue, e tutta Milano proletaria, anche per la facilità d'impararle, le
ricantò. I socialisti, finalmente, cambiarono l'ultima frase: Viva la repubblica...;
ed ecco come è risultato l'inno che ha fatto dimenticare il bellissimo inno di
Turati».
Repossi fa risalire le prime versioni socialiste di Bandiera rossa anteriormente
al formarsi del Partito Socialista nel 1892, ma le ricerche condotte su campo
negli anni Sessanta hanno permesso di accertare il suo uso solo a partire dal
1901, pure se l'inno salì a vera grande popolarità tra i socialisti solo con il
«Biennio Rosso», espressione con cui viene comunemente indicato il periodo
compreso fra il 1919 e il 1920, caratterizzato da una serie di lotte operaie e
contadine che culminarono con l'occupazione delle fabbriche del settembre
1920.
Si può tuttavia dire che sulla melodia di Bandiera rossa si improvviserà di tutto
e da parte di tutti, così com'è giusto si faccia sui modi popolari.
E perfino dai fascisti... La melodia di Bandiera rossa viene del resto usata dagli
arditi durante la Grande Guerra e il Diciannovismo, dai pipini e dai socialisti
durante il «Biennio rosso», dai comunisti e dai fascisti dopo il «Biennio rosso»,
in ininterrotte trasformazioni. Per esempio, nel 1921 gli squadristi cantano:
34
Avanti popolo alla riscossa
ai comunisti si rompe l'ossa
Questa strofetta passa nel repertorio dei neofascisti e negli anni Sessanta
diventa:
Avanti popolo alla riscossa
dei comunisti vogliam le ossa
dei socialisti vogliam la pelle
per far salsicce e mortadelle
Di qui passa poi negli stadi:
Avanti popolo alla riscossa
dei milanisti vogliam le ossa
e di Rivera vogliam la pelle
per far salami e mortadelle.
E se qualcuno ce lo impedisce
noi gli faremo il culo a strisce
Dallo stadio passa in fabbrica e viene così trasformata nel 1972 dalle operaie
della Crouzet di Milano, fabbrica di timers per lavatrici e lavastoviglie:
Avanti o popolo alla riscossa
che dei crumiri vogliam le ossa
dei dirigenti vogliam la pelle
per far salami e mortadelle.
E del Lally [il direttore della fabbrica] ce ne freghiamo
e noi la lotta la continuiamo
e se qualcuno ce lo impedisce
noi gli faremo il culo a strisce
Ci u elle o! Culo a strisce gli farò
Quindi sull'aria di Bandiera rossa si è cantata pressoché tutta la storia d'Italia
dal punto di vista del sentire popolare, nelle sue molteplici variegazioni, anche
di segno reazionario. E questo canto, popolare per la melodia, tanto da
divenire un modo dell'improvvisazione, lo è anche per il testo. E non solo
perché sia anch'esso carico di storia e di costume, e sia con Bella ciao il solo
dei nostri canti sociali diventato noto in tutto il mondo; e nemmeno soltanto
perché esso sia divenuto al quinto congresso del PCI, il primo dopo la
Liberazione, uno degli inni ufficiali di quel partito assieme al Canto dei
lavoratori di Filippo Turati e Amintore Galli e all'Internazionale di Eugène
Pottier e Pierre Degeyter.
Ne esistono anche varie versioni in lingue diverse. Sono note anche una
versione tedesca (con testo di Walter Dehmel) e una ucraina.
Divertente e ironico è il suo utilizzo da parte di Sergio Endrigo nell’incipit
musicale dell’innocua Ci vuole un fiore!
Avanti o popolo alla riscossa
bandiera rossa, bandiera rossa
avanti o popolo alla riscossa
bandiera rossa trionferà.
35
Bandiera rossa la trionferà
bandiera rossa la trionferà
bandiera rossa la trionferà
evviva il comunismo e la libertà.
Degli sfruttati l'immensa schiera
al sole innalzi, rossa bandiera.
O proletari, alla riscossa
bandiera rossa trionferà.
Bandiera rossa la s’innalzerà
Bandiera rossa la s’innalzerà
Bandiera rossa la s’innalzerà
il frutto del lavoro a chi lavora andrà.
Dai campi al mare, alla miniera,
all'officina, chi soffre e spera,
sia pronto, è l'ora della riscossa
bandiera rossa sventolerà.
Bandiera rossa la sventolerà
Bandiera rossa la sventolerà
Bandiera rossa la sventolerà
soltanto il comunismo è vera libertà.
Non più nemici, non più frontiere:
Sono i confini rosse bandiere.
O comunisti, alla riscossa,
Bandiera rossa trionferà.
Bandiera rossa la trionferà
Bandiera rossa la trionferà
Bandiera rossa la trionferà
solo nel comunismo è pace e libertà.
Avanti o popolo tuona il cannone
rivoluzione, rivoluzione
avanti o popolo tuona il cannone
rivoluzione vogliamo far.
Rivoluzione noi vogliamo far
rivoluzione noi vogliamo far
rivoluzione noi vogliamo far
evviva il comunismo e la libertà.
BIBLIOGRAFIA CONSIGLIATA:
Roberto Battaglia “Storia della Resistenza italiana” – Einaudi
Savona A. Virgilio, Straniero Michele L. “Canti della Resistenza italiana” –
Rizzoli
Roberto Leydi, Sandra Mantovani “Canti Popolari Italiani” - Mondadori
36