resistenza - CONTROcanto pisano
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resistenza - CONTROcanto pisano
Lo avrai camerata Kesselring il monumento che pretendi da noi italiani ma con che pietra si costruirà a deciderlo tocca a noi. Non coi sassi affumicati dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio non colla terra dei cimiteri dove i nostri compagni giovinetti riposano in serenità non colla neve inviolata delle montagne che per due inverni ti sfidarono non colla primavera di queste valli che ti videro fuggire. Ma soltanto col silenzio del torturati più duro d'ogni macigno soltanto con la roccia di questo patto giurato fra uomini liberi che volontari si adunarono per dignità e non per odio decisi a riscattare la vergogna e il terrore del mondo. Su queste strade se vorrai tornare ai nostri posti ci ritroverai morti e vivi collo stesso impegno popolo serrato intorno al monumento che si chiama ora e sempre RESISTENZA I canti della Resistenza A cura di CONTROcanto Pisano www.controcantopisano.it PIERO CALAMANDREI - "Lo avrai, Camerata Kesselring..." Processato nel 1947 per crimini di Guerra (Fosse Ardeatine, Marzabotto e altre orrende stragi di innocenti), Albert Kesselring, comandante in capo delle forze armate di occupazione tedesche in Italia, fu condannato a morte. La condanna fu commutata nel carcere a vita. Ma già nel 1952, in considerazione delle sue "gravissime" condizioni di salute, egli fu messo in libertà. Tornato in patria fu accolto come un eroe e un trionfatore dai circoli neonazisti bavaresi, di cui per altri 8 anni fu attivo sostenitore. Pochi giorni dopo il suo rientro a casa, Kesselring dichiarò pubblicamente che non aveva proprio nulla da rimproverarsi, ma che - anzi - gli italiani dovevano essergli grati per il suo comportamento durante i 18 mesi di occupazione, tanto che avrebbero fatto bene a erigergli... un monumento. A tale affermazione rispose Piero Calamandrei, con l’epigrafe (recante la data del 4.12.1952, ottavo anniversario del sacrificio di Duccio Galimberti1) con cui vogliamo aprire il nostro seminario-laboratorio. Fu incisa su di una lapide "ad ignominia" e collocata nell'atrio del Palazzo Comunale di Cuneo in segno di imperitura protesta per l'avvenuta scarcerazione del criminale nazista. La proposta di CONTROcanto Pisano Ripercorrere insieme tutta la produzione di canti Resistenti, sia contemporanea agli eventi storici che quella rievocativa successiva, è un’impresa di notevoli dimensioni! Per quest’appuntamento proponiamo di lavorare a partire dai brani scelti per uno spettacolo che abbiamo presentato in occasione della festa del 25 Aprile 2012 organizzata dall’ANPI di Pisa a Putignano. Analizzeremo, anche con documentazioni foniche, tutte le canzoni e, in fase di laboratorio, ne elaboreremo insieme alcune per proporle con voi all’interno dello spettacolo di questa sera. 1 Duccio Galimberti. Comandante di Giustizia e Libertà, Medaglia d’oro della Resistenza, proclamato Eroe nazionale dal CLN piemontese.Localizzato e bloccato dai repubblichini venne trasportato nella caserma delle brigate nere di Cuneo, interrogato e ridotto in fin di vita dalle sevizie. Il mattino del 4 dicembre del ’44, trasportato nei pressi di Centallo fu abbattuto dai suoi aguzzini con una raffica alla schiena. Il suo nome è ricordato nella canzone “Per i morti di Reggio Emilia” 1 I Canti della Resistenza. I canti della Resistenza antifascista fanno parte integrante del nostro repertorio popolare nazionale. I loro testi, i loro suoni si riallacciano a quelli del Risorgimento e della Grande Guerra. Ed esiste anche una creatività specifica, di gruppo, di zona, di formazione, che ricostruisce per immagini genuine, a volte ingenue, il clima popolare di quella lotta partigiana cui si deve la salvezza dell'onore del nostro Paese. Come già detto c'erano due grandi modelli a cui si riferivano le canzoni partigiane: le canzoni del Risorgimento, già filtrate e rinnovate nell'altra guerra, e le canzoni della classe operaia. Modelli divergenti nella tematica e negli accenti, “militari” o combattentistici nel primo, “sociali” nel secondo. La poesia popolare della Resistenza ricompose in un unico indirizzo ciò che nella tradizione nazionale aveva avuto origini o fonti diverse, rivelando i suoi collegamenti profondi con la tradizione nazionale. Gli studi sul canto partigiano A proposito del canto partigiano c'è un primo mito da sfatare: che sia stato sufficientemente studiato. Su di esso, infatti, si è fatta poca ricerca sul campo, e i numerosi canzonieri della Resistenza prodotti dalle associazioni partigiane o dai gruppi politici, soprattutto della sinistra, ci dicono poco su quanto effettivamente si cantasse in montagna. Quando, nel 1962, il "Nuovo Canzoniere Italiano" iniziò massicce ricerche sul canto sociale italiano, esso sperò di riuscire a moltiplicare con il proprio esempio il lavoro di ricerca. Tuttavia, al di fuori di questa vicenda, s'è mosso ben poco. Infatti le ricerche sul canto sociale si sono scontrate con una cultura accademica poco recettiva verso le innovazioni metodologiche e prevenuta in particolare nei confronti delle fonti orali. Inoltre le ricerche sul canto della Resistenza promosse dal "Nuovo Canzoniere Italiano" non divennero un'esperienza moltiplicante, perché si scontrarono con dinamiche politiche che andavano in direzione diametralmente opposta all'allargamento conoscitivo della nostra Resistenza. I "Dischi del Sole" uscirono nel ventennale della Resistenza. Allora le associazioni partigiane trovarono il proprio inno in Bella ciao, una canzone poco cantata durante la Resistenza e prevalentemente nel Centro Italia, ma che da allora si sarebbe sostituita sempre più a Fischia il vento, la canzone della Resistenza al Nord e quella maggiormente diffusa. Il lavoro di ricerca degli anni sessanta non è però riuscito a sensibilizzare gli storici e a fare sì che considerassero i canti sociali come una delle possibili fonti della storia. Eppure, già a metà degli anni cinquanta, Roberto Battaglia, sostenne per primo, e lucidamente, l'assoluta necessità dell'uso della memorialistica e delle fonti orali per lo sviluppo del lavoro storico sulla Resistenza. Negli anni settanta gli istituti storici della Resistenza furono teatro di uno scontro senza mezzi termini che aveva per oggetto del contendente proprio l'uso delle testimonianze orali fra cui i canti partigiani: fonti orali di base furono così considerate pericolose dai partiti moderati, in quanto spesso riaffermavano 2 dei valori classisti e delle "verità" che si volevano esorcizzare. La saggistica sui canti della Resistenza, dagli anni ottanta in poi, assomma soltanto a una dozzina di titoli: si tratta in quasi tutti i casi di articoli basati su ricerche degli anni sessanta, legati a persone che hanno preso parte al "Nuovo Canzoniere Italiano". Ricordare oggi quei canti significa non dimenticare che le radici della Repubblica, della Costituzione, della democrazia italiana sono nella lotta di liberazione antifascista e antinazista, nella Resistenza, nella scelta di una generazione di prendere in mano le armi per rispettare la dignità dell’Italia e restituirla alla libertà. Non è davvero inutile ricordarlo oggi, in tempi di revisionismo storico a cui in modo sbrigativo troppi accedono, quasi che l’antifascismo sia non già la matrice che ha dato impronta alla nostra Repubblica, bensì un marchio imbarazzante di cui finalmente liberarsi. Eppure se guardiamo ai quasi settanta anni che abbiamo alle spalle, non possiamo non vedere quanto i valori dell’antifascismo - la libertà, la democrazia, l’uguaglianza, la dignità della persona - siano tuttora necessari al mondo e all’Italia. Chi nell’autunno del ’43 salì in montagna lo fece per mettere fine ad una guerra terribile e con la speranza che il mondo non conoscesse più guerre: sappiamo che non è avvenuto e aver derubricato i molti conflitti armati di questo mezzo secolo in «guerre locali» - forse per rassicurare noi stessi che una guerra mondiale non ci sarebbe stata più - non ha reso quelle guerre né meno tragiche, né meno devastanti. Chi settant’anni fa si levò in armi lo fece perché l’umanità non conoscesse più le aberrazioni delle razze pure e delle leggi razziali, dei lager e dell’olocausto. Ma abbiamo visto come l’odio etnico, l’annientamento delle identità, l’umiliazione fisica e psichica del diverso, sono malepiante mai estirpate una volta per tutte. Né è inutile dimenticare che quell’idea di unire l’Europa - che oggi vive un passaggio difficile e critico a cui non vogliamo rassegnarci - nacque proprio all’indomani della seconda guerra mondiale con l’obiettivo di impedire che gli egoismi delle nazioni continuassero ad insanguinare il continente intero. E chi oltre mezzo secolo fa scelse di mettere a repentaglio la propria vita per riscattare l’onore del paese lo fece perché voleva un’Italia libera e democratica, capace di dare certezze e speranze di vita e di futuro ai suoi cittadini. Ed è bene ricordarlo oggi in tempi nei quali molti - e soprattutto i giovani guardano al proprio futuro con minori certezze e la vita di tanti è insidiata da vecchie e nuove precarietà. Non c’è in tutto ciò nessuna visione celebrativa della Resistenza. Anzi, non dimenticare significa anche fare i conti con le pagine tragiche dell’immediato dopoguerra. Quando la vittoria agognata acceca la ragione dei vincitori. Non abbiamo chiuso gli occhi - e dobbiamo continuare a non chiuderli - per restituire giustizia a quanti furono vittime di episodi di vendetta e di esecuzioni sommarie che solo la tremenda asprezza di quella stagione può spiegare, ma non giustificare. Così come non chiudiamo gli occhi di fronte alle foibe e all’esodo degli italiani dell’Istria e della Dalmazia. 3 Dalle belle città [Siamo i ribelli della montagna] Parole di Emilio Casalini "Cini". Musica di Angelo Rossi "Lanfranco" Dalle belle città date al nemico fuggimmo un dì su per l'aride montagne, cercando libertà tra rupe e rupe, contro la schiavitù del suol tradito. Lasciammo case, scuole ed officine, mutammo in caserme le vecchie cascine, armammo le mani di bombe e mitraglia, temprammo i muscoli ed i cuori in battaglia. Siamo i ribelli della montagna, viviam di stenti e di patimenti, ma quella fede che ci accompagna sarà la legge dell'avvenir. Ma quella fede che ci accompagna sarà la legge dell'avvenir. Di giustizia è la nostra disciplina, libertà è l'idea che ci avvicina, rosso sangue è il color della bandiera, partigian della folta e ardente schiera. Sulle strade dal nemico assediate lasciammo talvolta le carni straziate. sentimmo l'ardor per la grande riscossa, sentimmo l'amor per la patria nostra. Siamo i ribelli della montagna, viviam di stenti e di patimenti, ma quella fede che ci accompagna sarà la legge dell'avvenir. Ma quella fede che ci accompagna sarà la legge dell'avvenir. Il canzoniere partigiano, come abbiamo detto, si compone essenzialmente di rielaborazioni, adattamenti, parodie di motivi precedenti, appartenenti alla tradizione militare o popolare, a inni del movimento operaio nazionale o internazionale, a canzonette di consumo. Pochi i canti originali, nel testo e nella melodia. Uno di questi, uno dei più intensi e significativi inni partigiani, Dalle belle città (Siamo i ribelli della montagna), venne creato nel marzo del 1944 sull'Appennino ligure-piemontese dai partigiani del 5° distaccamento della III Brigata Garibaldi "Liguria" dislocati alla cascina Grilla con il comandante Emilio Casalini "Cini". Sulle circostanze e modalità reali della nascita di questo originale canto della Resistenza, disponiamo della testimonianza diretta di Carlo De Menech, allora diciottenne commissario politico del distaccamento: “Ad un certo punto avvertiamo la necessità di creare qualcosa che riguardi noi e tutti i giovani della nostra generazione, in aderenza alla realtà della lotta che conduciamo. Sarà la nostra storia e traccerà le dure vicende della vita 4 partigiana e gli ideali che la sostengono. Su questi presupposti Cini prende l'iniziativa e un bel giorno comincia a scrivere delle parole su un foglio di carta biancastra da impaccare; in mancanza di tavolo, utilizza una grossa pietra posta all'ingresso della "caserma", che serviva ai contadini per battervi le castagne, e noi facciamo circolo attorno a lui proponendo e suggerendo vocaboli e argomenti. Dopo alcuni giorni la bozza è stesa. In distaccamento c'è uno studente di musica, ventenne, Lanfranco, al quale viene consegnato il testo delle parole che si porta appresso durante il servizio di sentinella sul monte Pracaban; al ritorno, le note sono vergate su un pezzo di carta da pacchi. Siamo i ribelli della montagna, con la sua originalità del testo e della musica, diventa così la nostra canzone, la canzone del 5° distaccamento, in cui si potrà riconoscere la storia di tanti altri giovani che, come noi, hanno scelto la montagna e la libertà.” È un testo che per molti aspetti rivela un certo grado di cultura. Sin dall'incipit denuncia la sua origine urbano-metropolitana (genovese, per la precisione) indicando quella simbolica opposizione "belle città/aride montagne" che appare come esemplare di una rivolta politico-morale partita dalla città ma vissuta nella campagna, nel paesaggio aspro e selvaggio dei monti. I principi ideali che animano la lotta partigiana (giustizia, libertà) si conquistano a duro prezzo ("viviam di stenti e di patimenti") alla dura scuola della montagna, in cui si dissolvono differenze sociali, privilegi, egoismi. Nel tono generale del canto, nella sua stessa melodia baldanzosa, in certe formule testuali, appaiono influenze, moduli e caratteristiche risorgimentali, alla Mameli (vedi "la schiavitù del suol tradito" o "l'ardor per la patria nostra"). Dalle belle città è una canzone fresca, giovane, piena di speranza, in cui si sente l’eccitazione utopica e la grande carica di idealità civile e politica che animò la stagione partigiana. E' commovente pensare che appena qualche settimana dopo la composizione di questo inno, molti di quei coraggiosi "ribelli della montagna" finirono fucilati alla Benedicta o al passo del Turchino, braccati sui monti come belve, uccisi in battaglia o deportati nei campi di sterminio. Con i sopravvissuti, sopravvisse anche il canto, che divenne il simbolo della rivincita morale contro la ferocia del nemico, il segnale della riscossa partigiana, e come inno della rinata Divisione "Mingo" accompagnò il movimento di liberazione ligure-piemontese sino alla vittoria finale. 5 ll bersagliere ha cento penne anonimo Questa invece è la trasformazione partigiana di un canto della tradizione militare Il bersagliere ha cento penne e l'alpino ne ha una sola, il partigiano ne ha nessuna e sta sui monti a guerreggiar. Bersagliere ha cento penne ma l'Alpino ne ha una sola; un po' più lunga, un po' più mora, sol l'Alpin la può portar. Là sui monti vien giù la neve, la bufera dell'inverno, ma se venisse anche l'inferno il partigian riman lassù. Quando scende la notte nera tutti dormon giù alla Pieve; ma con la faccia giù nella neve solo l'Alpin là può dormir. Quando viene la notte scura tutti dormono alla pieve, ma camminando sopra la neve il partigian scende in azion. Su pei monti vien giù la neve, la tormenta dell'inverno, ma se venisse anche l'inferno sol l'Alpin può star lassù. Quando poi ferito cade non piangetelo dentro al cuore, perché se libero un uomo muore che cosa importa di morir. Se dall'alto dirupo cade confortate i vostri cuori, perchè se cade cade tra i fiori non gli importa di morir. Dai monti di Sarzana Anonimo Inno del battaglione partigiano anarchico "Lucetti" Momenti di dolore, giornate di passione ti scrivo, cara mamma, domani c'è l'azione e la Brigata Nera noi la farem morire. Dai Monti di Sarzana un dì discenderemo, all'erta, Partigiani del battaglion "Lucetti" il battaglion "Lucetti" son libertari e nulla più, coraggio e sempre avanti! la morte e nulla più. Bombardano i cannoni e fischia la mitraglia, 6 sventola anarchica bandiera al grido di battaglia più forte sarà il grido che salirà lassù, fedeli a Pietro Gori noi scenderemo giù. Il Battaglione Lucetti è stata una formazione partigiana anarchica operante nei dintorni di Massa. I precedenti storici del tessuto sociale di Carrara portano alla conseguenza che la presenza in zona di formazioni anarchiche partigiane autonome fosse la più alta di tutta Italia. Il nome della formazione è stato dedicato a Gino Lucetti, ex Ardito assaltatore, nativo di Carrara, decorato della prima guerra mondiale che mise in atto uno dei soli due attentati (con quello di Violet Gibson) a Benito Mussolini che ebbero la possibilità di concludersi con successo. Fin dall'inizio del secolo con lo svilupparsi del movimento operaio, nel settore dell'estrazione e della lavorazione del marmo, Carrara si puo' considerare la patria del socialcomunismo di matrice libertaria e l'antifascismo locale è strettamente legato a questa matrice. La provincia di Carrara con le vicine di La Spezia, Pisa e Livorno, fu uno dei principali obiettivi degli attacchi squadristici degli anni '20 con relative difese da parte delle formazioni di difesa proletaria e degli Arditi del Popolo. Anche sotto il regime l'antifascismo di Carrara non si spense nonostante, per converso, la presenza di fascismo affermato, di quelli che durante il ventennio furono i tristemente chiamati carrarini, ovvero gli squadristi di Carrara, al servizio dei grossi industriali del marmo che con il fascismo videro incrementare la estrazione e la lavorazione del materiale a causa delle mire imitatrici degli splendori imperiali romani da parte del regime fascista. I 'carrarini' durante gli anni '20 erano fra le milizie più mobili dello squadrismo fascista: ad esempio parteciparono sia all'attacco della camera del Lavoro di Genova che di Parma: dopo l'8 settembre del 1943 le truppe tedesche erano in procinto di disarmare i soldati Italiani della caserma Dogali di Carrara per cui diversi anarchici di Carrara, guidati da Romualdo Del Papa, intervenirono impossessandosi di armi, in modo da strutturare le prime brigate partigiane. Pietà l'è morta Nuto Revelli La canzone riprende chiaramente, nella sua struttura, "Sul ponte di Perati bandiera nera", un dolentissimo canto degli Alpini della divisione "Julia", mandati al macello nei Balcani ("Perati" è il villaggio di Perat, in Albania) che fu ben presto severamente censurato e infine del tutto proibito dal regime fascista come "disfattista" e "sovversivo". In una versione anteriore, risalente alla prima guerra mondiale invece del "ponte di Perati" c'è il "ponte di Bassano". 7 Sul ponte di Perati, bandiera nera: L'è il lutto degli alpini che va a la guera. L'è il lutto degli alpini che va a la guera, La meglio zoventù va soto tera Sull'ultimo vagone c'è l'amor mio Col fazzoletto in mano mi dà l'addio. Col fazzoletto in mano mi salutava E con la bocca i baci lui mi mandava. Con la bocca i baci lui mi mandava E il treno pian pianino s'allontanava. Quelli che son partiti, non son tornati: Sui monti della Grecia sono restati. Sui monti della Grecia c'è la Vojussa Col sangue degli alpini s'è fatta rossa. Un coro di fantasmi vien giù dai monti È il coro degli alpini che sono morti. Alpini della Julia in alto il cuore Sui monti della Grecia c'è il tricolore. Gli alpini fan la storia, ma quella vera Scritta col sangue lor, e la penna nera. Lassù sulle montagne bandiera nera: è morto un partigiano nel far la guerra. È morto un partigiano nel far la guerra, un altro italiano va sotto terra. Laggiù sotto terra trova un alpino, caduto nella Russia con il Cervino. Ma prima di morire ha ancor pregato: che Dio maledica quell'alleato! Che Dio maledica chi ci ha tradito lasciandoci sul Don e poi è fuggito. Tedeschi traditori, l'alpino è morto ma un altro combattente oggi è risorto. Combatte il partigiano la sua battaglia: Tedeschi e fascisti, fuori d'Italia! Tedeschi e fascisti, fuori d'Italia! Gridiamo a tutta forza: Pietà l'è morta! 8 Fra le canzoni di guerra e di Resistenza, questa che è tra le più famose testimonianze di brutalità, di spietatezza, di lotta e di morte persino della pietà. Benvenuto ("Nuto") Revelli la compose nella primavera del 1944; Revelli è stato uno scrittore, ufficiale e partigiano italiano. Ufficiale effettivo degli Alpini, durante la seconda guerra mondiale, partecipò alla disastrosa campagna di Russia. Dopo l'8 settembre prese parte alla Resistenza italiana, guidando le formazioni Giustizia e Libertà nel Cuneese. Dopo la guerra si dedicò alla scrittura narrando le sue esperienze durante il conflitto mondiale. I suoi due più importanti lavori, Il mondo dei vinti e L'anello forte, sono basati su lunghe interviste biografiche (oltre 270, stenografate e successivamente ribattute a macchina) con uomini e donne delle vallate cuneesi, rappresentano un importanti e pionieristico contributo all'affermazione e allo sviluppo della storia orale italiana. Eurialo e Niso Massimo Bubola La vicenda dei due valorosi guerrieri è nota a molti: dopo la caduta di Troia, Niso, figlio di Irtaco e della ninfa Ida, ed Eurialo, giovanissimo figlio di Ofelte, fuggirono con Enea. I due combattevano sempre uno vicino all'altro, fieri di farlo. Quando i Rutuli assalirono il campo troiano, i due amici si offrirono per superare le linee nemiche ed avvertire Enea, che si trovava in una zona lontana. Essi vennero scoperti a causa del riflesso dell’elmo di Eurialo, illuminato dalla luna. I due si ritrovarono accerchiati in un agguato, soli contro un esercito. Niso riuscì a scappare, mentre Eurialo fu ucciso dai nemici. Il profondo affetto per l’amico spinse Niso a tornare sui suoi passi per cercarlo, ma potè soltanto vendicarlo, e morire a sua volta, soggiogato dai nemici. Questa storia meravigliosa è stata ripresa da Massimo Bubola e adattata alla dura realtà partigiana. Ha trasformato questa storia in una canzone contro la guerra, per esaltare il vero orgoglio italiano, la Resistenza. Bubola ha attribuito ad Eurialo e Niso lo stesso coraggio, la stessa forza, la stessa passione, ma anche lo stesso amore e la stessa sorte. Il testo descrive perfettamente la realtà di quel periodo. Racconta Massimo Bubola: “Il testo di questa ballata l’ho scritto per una promessa fatta a mio padre, comandante a soli 22 anni della Brigata partigiana “Adige” di Giustizia e Libertà. Visto il suo amore per la cultura classica e per Virgilio in particolare, ho cercato così di collegare idealmente questa storia di amore e di guerra, ambientata nel 1943, con l’episodio dell’Eneide in cui i due soldati troiani Eurialo e Niso vanno a compiere l’azione notturna nel campo dei latini”. La notte era chiara, la Luna un grande lume Eurialo e Niso uscirono dal campo verso il fiume. E scesero dal monte lo zaino sulle spalle, dovevano far saltare il ponte a Serravalle. 9 Eurialo era un fornaio e Niso uno studente, scapparono in montagna all'otto di Settembre i boschi già dormivano, ma un gufo li avvisava c'era un posto di blocco in fondo a quella strada. Eurialo fece a Niso asciugandosi la fronte "Ci sono due tedeschi di guardia sopra al ponte." la neve era caduta e il freddo la induriva ma avevan scarpe di feltro, e nessuno li sentiva. Le sentinelle erano incantate dalla Luna, fu facile sorprenderle tagliandogli la fortuna, una di loro aveva una spilla sul mantello, Eurialo la raccolse e se la mise sul cappello. La spilla era d'argento, un'aquila imperiale splendeva nella notte più di un aurora boreale. Fu così che li videro i cani e gli aguzzini che volevan vendicare i camerati uccisi. Eurialo fu sorpreso in mezzo a una radura, Niso stava nascosto spiando di paura Eurialo lo circondarono coprendolo di sputo, a lungo ci giocarono come fa il gatto col topo. Ma quando vide l'amico legato intorno a un ramo, trafitto dai coltelli come un San Sebastiano Niso dovette uscire, che troppo era il furore quattro ne fece fuori prima di cadere. E cadde sulla neve ai piedi dell'amico, e cadde anche la Luna nel bosco insanguinato, due alberi fiorirono vicino al cimitero, i fiori erano rossi, sbocciavrono d'inverno. La notte era chiara, la Luna un grande lume Eurialo e Niso uscirono dal campo verso il fiume. Se non ci ammazza i crucchi I partigiani Italiani si dirigono in montagna per organizzare la resistenza e la guerriglia. La vita è dura, c’è il problema quotidiano della sopravvivenza, si campa alla giornata in un ambiente povero di risorse, nutrendosi di castagne e di quanto viene offerto dai contadini della zona. Il testo di questo brano è semplice, scherzoso come a voler dimenticare il pericolo e le difficoltà che i “ribelli” stavano sostenendo. La canzone affronta il tema drammatico della guerra con la spensieratezza che solo i giovani animati da forti ideali sanno e riescono a trovare anche negli 10 episodi più drammatici della vita. Questo testo è stato raccolto da Dario Fo dalla viva voce di un amico partigiano nell'autunno del '43, in un'osteria di Porto Val Travaglia, presso Varese. L'informatore faceva parte della banda del colonnello Carlo Croce, operante appunto nella zona di Varese, che fu decimata durante la battaglia di San Martino del 12/15 novembre 1943 (Taluni dicono che sia invece una leggenda, e che Fo abbia composto personalmente questo canto). È bene ricordare che per "crucchi" si intendono i tedeschi, i "bricchi" sono le rocce, infine il "vento di marenca" è il maestrale. La mia mamma la mi diceva non andare sulle montagne mangerai sol polenta e castagne ti verrà l'acidità mangerai sol polenta e castagne ti verrà l'acidità se non ci ammazza i crucchi, se non ci ammazza i bricchi, i bricchi ed i crepacci e il vento di Marenca se non ci ammazza i crucchi, se non ci ammazza i bricchi, quando saremo vecchi ne avrem da raccontar quando saremo vecchi ne avrem da raccontar La mia morosa la mi diceva non andare con i ribelli non avrai più i miei lunghi capelli sul cuscino a riposar non avrai più i miei lunghi capelli sul cuscino a riposar se non ci ammazza i crucchi, se non ci ammazza i bricchi… Questa notte mi sono sognato ch'ero sceso giù in città, c'era la mamma vestita di rosso che ballava col mio papà c'era i tedeschi gettati in ginocchio che chiedevano pietà c'era i fascisti vestiti da prete che scappavan di qua e di là se non ci ammazza i crucchi, se non ci ammazza i bricchi.. 11 Sette fratelli Mercanti di Liquore e Marco Paolini Era una livida e fredda mattina del 28 dicembre del ’43, quando al poligono di tiro di Reggio Emilia un plotone di esecuzione della Repubblica di Salò assassinò i sette fratelli Cervi e il soldato Quarto Camurri arrestato con loro qualche settimana prima. I sette fratelli Cervi: Gelindo (classe 1901), Antenore (1906), Aldo (1909), Ferdinando (1911), Agostino (1916), Ovidio (1918), Ettore (1921).Tutti nati a Campegine (Reggio Emilia), tutti fucilati. Sono passati quasi settanta anni, ben più di mezzo secolo, un tempo nel quale si sono succedute nuove generazioni e su cui incombe il rischio dell’oblio, come accade a ciò che si allontana nel tempo, divenendo via via rarefatto nella memoria. Proprio per questo sentiamo, invece, la responsabilità -meglio il dovere civicodi non dimenticare. Sì, perché non dimenticare significa battersi, sempre e ovunque, perché gli ideali per cui i Cervi morirono vivano e siano riconosciuti a ogni uomo e a ogni donna. Con la consapevolezza che quei valori non muoiono, ma sono motore della storia. Perché come ci ha insegnato papà Cervi: «Dopo un raccolto ne viene un altro». C'erano sette fratelli che andavano per il mondo: sei erano sempre allegri, il settimo sempre giocondo. Sei andavano a piedi perché non avevano fretta, il settimo invece perché non aveva la bicicletta. La leggenda dirà dell'ultima battaglia: dove cantò la cicala ora abbaia la mitraglia. Una muta di cani la notte ha circondata, il fumo lecca i muri della casa incendiata. Ma quando li portarono alla crudele morte, non eri tu, fucile, il più fermo, il più forte. C'erano sette fratelli che andavano per il mondo: sei erano sempre allegri, il settimo sempre giocondo. Sei andavano a piedi perché non avevano fretta, 12 il settimo invece perché non aveva la bicicletta . Nella nebbia dell'alba si nascosero i cani, e chiusero gli occhi per non vedersi le mani. Negli occhi dei sette Cervi l'aurora si specchiò, dagli occhi fucilati il sole si levò. Vecchio, tenero padre, olmo dai sette rami, nella vuota prigione per nome ancora li chiami, C'erano sette fratelli che andavano per il mondo: sei erano sempre allegri, il settimo sempre giocondo. Sei andavano a piedi perché non avevano fretta, il settimo invece perché non aveva la bicicletta . E a notte fra le sbarre fin dove soffia il vento intatte vedi splendere sette stelle d'argento. Sette stelle dell'Orsa come sette sorelle. I cani non potranno fucilare le stelle. Sette stelle dell'Orsa come sette sorelle. I cani non potranno fucilare le stelle. La canzone è tratta da un poema di Gianni Rodari scritto nel 1955. 13 COMPAGNI FRATELLI CERVI Dedicato a papà Cervi nel suo ottantesimo compleanno e alle giovanissime generazioni d'Italia A papà Cervi con ammirazione con affetto I Bella Emilia, splendeva la polvere delle tue strade che si aprono il passo fino al cuore verde della pianura Ora immobili al sole, ora smarrite nel labirinto delle vigne, dove il campanello di una bicicletta sembra squillare in cielo con le allodole o sugli olmi affollati di cicale come splendeva, Emilia, la tua pace il giorno che Aldo Cervi guidò il trattore nuovo verso casa e bastava la mano sul volante a domare il puledro di ferro dal muso fiammante e il cuore prestava le sue parole alla cieca canzone del motore: Trattore, passa e va! Le case si affacciavano in cima alle cavedagne, mandavano filari, mandavano cani festosi e bambini dalle voci più acute delle frecce incontro al suo ruggito, e un ragazzo che a scuola le vecchie favole aveva sentito rise : Guardate Atlante, il gigante che regge il mondo in collo! Perché sulla macchina alto in trono viaggiava un mappamondo, solenne goffo re da biblioteca esiliato fra i campi, e ad ogni scossa la sua rotazione attorno ai poli mostrava i continenti di sette colori e gli oceani celesti, navigati 14 da flotte di arcipelaghi, l'Asia, l'Europa, l'Africa, l'America? alla spinta d'un dito giravano in un vortice di trottola, e il cane impazzito abbaiava alla giostra, e i bimbi gli volevano mostrare l'Italia che bagna il piede del mare e lì è casa nostra, noi siamo lì sotto l'unghia. Balenò sulla sfera il riflesso di fiamma del trattore, si bagnarono acque e terre in un bagliore d'incendio e di sangue. II Sette fratelli come sette olmi, alti robusti come una piantata. I poeti non sanno i loro nomi, si sono chiusi a doppia mandata: sul loro cuore si ammucchia la polvere e ci vanno i pulcini a razzolare. I libri di scuola si tappano le orecchie. Quei sette nomi scritti con il fuoco brucerebbero le paginette dove dormono imbalsamate le vecchie favolette approvate dal ministero. Ma tu mio popolo, tu che la polvere ti scuoti di dosso per camminare leggero, tu che nel cuore lasci entrare il vento e non temi che sbattano le imposte, piantali nel tuo cuore i loro nomi come sette olmi: Gelindo, Antenore, Aldo, Ovidio, Ferdinando, Agostino, Ettore? Nessuno avrà un più bel libro di storia, il tuo sangue sarà il loro poeta dalle vive parole, con te crescerà la loro leggenda come cresce una vigna d'Emilia 15 aggrappata ai suoi olmi con i grappoli colmi di sole. III La leggenda dirà della mano, grossa mano contadina, che ogni sera in cucina a un lume di lucerna fece sul mappamondo il suo viaggio cercando fraterna altre mani, altre genti; dirà degli occhi fermi che videro città gonfie di vita e giardini e feste dove toccavano caute le dita sabbie di deserti, mistero di foreste; dirà di sette fratelli, fratelli a tutta la terra, che sognarono un mondo senza fame, senza guerra, senza paura. Ai quattro venti, fuori, la pianura spalancava le braccia nel buio, su tutta Italia era notte e paura, ma, nella stanza, intrepida una voce parlava col domani: Un giorno sarà tutta la terra di un solo colore, il colore della libertà. D'un ceppo la vampa nel vasto focolare ancora un lampo di sangue strappò sulla piccola terra, ed un'ombra più lunga l'ingoiò. IV La leggenda dirà che lunga notte, Italia, fu la tua, rotta dal canto ubriaco del fascista? Cara patria, terra avara, non era la tua voce che cantava la sconcia canzone: essa tremava nelle nostre gole, pianto e maledizione, quanto tu ci mandavi per il mondo a seminare paesi e città perché di terra nostra non avevamo da riempire il pugno; 16 e quando morivamo abbandonati sull'orlo delle trincee tu non eri la bandiera usurpata di tante stolte guerre, ma il pianto oscuro della madre ignara, non eri il proclama del generale ma la nenia, il lutto degli alpini che vanno alla guerra, la meglio gioventù che va sotto terra. Tu non hai mai parlato dai balconi dei palazzi pieni di boria, tu disertavi le adunate imperiali, battevi con le nocche insanguinate i muri delle prigioni, sibillavi in segreto la tua storia, eri la penna che graffiò paziente i quaderni di Antonio Gramsci, il giornale proibito, il volantino di cui ogni parola era pagata con un anno di galera; sei cresciuta nelle officine, nelle grige periferie, nella stalla del contadino. Italia, tu vivevi nella casa di Fraticello, seduta al focolare dei Cervi, non padrona né schiava ma sorella e compagna di fatica e d'amore. E quando lo stivale straniero calcò il tuo cuore e infangò le tue strade, la tua bandiera sventolò sui monti, vegliò ai fuochi fumosi delle baite, viaggiò segreta nella bicicletta del gappista, brillò nei suoi occhi d'acciaio, e i tuoi sette fratelli, i tuoi sette Cervi dal limpido cuore furono i tuoi sette fucili, per colpire ti diedero gli artigli: "I cani ci chiamano banditi, ma il popolo conosce i suoi figli" V La leggenda dirà di una casa emiliana che materna abbracciò coi suoi muri il fuggitivo braccato dai cani, 17 e per l'inglese, il russo prigioniero impastò il pane con tenere mani, e vegliò il lor sonno. Il cuore non conosce frontiere, per donarsi non chiede passaporti. A te, a te aviatore americano delle tue bombe non ti chiese conto, gettate sulle nostre città sui nostri morti, ma fasciò la tua ferita. La tua vita, nel Texas, nel Nevada, fu comprata con la vita di sette comunisti, e la loro casa fu bruciata, la loro madre uccisa dal dolore perché tua madre non dovesse piangere. VI La leggenda dirà dell'ultima battaglia: dove cantò la cicala abbaia la mitraglia. Una muta di cani la notte ha circondata, il fumo lecca i muri della casa incendiata. Ma quando li portarono alla crudele morte, non eri tu, fucile, il più fermo, il più forte. Nella nebbia dell'alba si nascosero i cani, e chiusero gli occhi per non vedersi le mani. Negli occhi dei sette Cervi l'aurora si specchiò, dagli occhi fucilati il sole si levò. Vecchio, tenero padre, olmo dai sette rami, nella vuota prigione per nome ancora li chiami, e a notte fra le sbarre fin dove soffia il vento intatte vedi splendere sette stelle d'argento. Sette stelle dell'Orsa 18 come sette sorelle. I cani non potranno fucilare le stelle. VII Vecchio nodoso come un olmo antico, pianta potata dai miei sette rami, che dura scorza gli anni e il nemico hanno fatto al mio volto, alle mie mani. I Cervi, è buona terra: ara, nemico, affonda il vomero nelle mie carni, coi pugnali dell'erpice colpisci: morte puoi darmi, male non puoi farmi. E' buona terra questa carne antica. mieti, nemico, le mie sette spighe : il grano non muore nel pane, non sono morti i miei sette figli che hanno dato la vita alla vita. In tutto ciò che vive sono vivi, in tutto ciò che spera sono vivi, in tutto ciò che soffre e lotta vive i miei figli per sempre sono vivi. VIII Li hanno veduti su tutti i fronti? E quando irresistibile, fiorita di rossi fazzoletti partigiani la primavera dirupò dai monti a rendere la patria agli italiani Erano il canto più ardito, la lagrima più stellante di gioia, i colori più belli dell'aprile i compagni fratelli Cervi? Li hanno visti nel Sud vestito di nero e di sole quando uscì dalle grotte di Matera una valanga umana a conquistare la patria e la terra; uomini, donne, bimbi arruffati e puri negli stracci, e gli animali dall'occhio fraterno, cavalli, asini, muli, e le bandiere e i santi paesani sui ricamati stendardi, tutti quel giorno, Italia, ti baciarono, ti tolsero gli spini con mano amorosa. C'erano, c'erano i Cervi a Melissa, anche di loro la terra fu rossa, 19 e sul primo trattore che la vittoria si scavò tra i cardi. alto su tutti gli sguardi c'era il mio Aldo, e fu il suo canto un tuono: Bandiera di libertà, trattore passa e va! E li hanno visti a Modena, un mattino d'inverno che ai cancelli delle Fonderie Riunite chi chiedeva lavoro ebbe piombo: a Reggio Emilia, quando ci destò l'indomabile rombo del "fischione", e i nostri bimbi piangevano di nascosto dal padre battuto per le strade, e l'inverno fu duro, ma a Natale il loro albero crebbe favoloso tra le macchine salvate, nero presepe fu la fonderia dell'Erre Sessanta, e un canto di vittoria cantarono angeli in tuta turchina con le ali macchiate di grasso: Bandiera di pace e di libertà, trattore, passa e va! Dove la pianta uomo non si umilia, ma di tutto il suo sangue fu una bandiera accesa di coraggio, là sono vivi i miei figli, a Genova, nel porto conteso: oggi la prima linea passa tra le banchine, sui moli si tende il reticolato, la trincea è scavata nelle case dove non c'è più pane ma non entra viltà? I sette Cervi scendono con voi sulle piazze d'Italia quando scoppia come un uragano di speranza la parola della classe operaia? Stretti con voi nei banchi di scuola, con voi si macchiano il dito di inchiostro, Scrivete: Italia? E' il loro nome, e il vostro. Sgranate gli occhi limpidi 20 sul mappamondo, fragile giocattolo fatto per un festoso girotondo, ed essi, guidano la vostra mano di frontiera in frontiera a cercare i fratelli sconosciuti e vicini, e segnano per voi nel cuore delle genti la strada della pace, e vi dicono: Un giorno la terra conoscerà un solo colore, quello della felicità. Allora sarà vostra come una palla, come una trottola. come il cuore che vi fa vivi e buoni. La prenderete allegri sulle spalle. Vi presteremo noi la vostra forza che non conosce nemici: perché voi siete degli olmi nuovi e noi siamo le vostre radici. Gianni Rodari Reggio Emilia 8 maggio 1955 OLTRE IL PONTE di Italo Calvino e Sergio Liberovici L’attività letteraria di Italo Calvino è lunga e varia e comincia a vent’anni, quando nel 1944 il giovane scrittore lascia la facoltà di Agraria per raggiungere la Brigata comunista Garibaldi rifiutando l’arruolamento nella Repubblica Sociale. A ricordo e testimonianza letteraria di quel periodo, che fu breve ma ricco di esperienze formative, è il Oltre il ponte, un canto scritto da Calvino e musicato da Sergio Liberovici più di mezzo secolo fa, nel 1959. Dato l’anno di creazione, non può essere annoverato tra i canti nati durante la guerra di Liberazione; tuttavia appartiene di diritto ai Canti della Resistenza. È infatti una composizione concepita nell’ambito di “Cantacronache”, un movimento culturale in cui ricercatori, musicisti e scrittori si prefissero di porre l’attenzione su temi di carattere sociale e politico, ereditati dalla Lotta di Liberazione, in cui la trasmissione di pensieri e messaggi avvenisse tramite la riproposizione musicale di canti popolari e colti. Il canto Oltre il ponte è senza dubbio fra i risultati più significativi di questo impegno. Il suo tentativo di tramandare alle nuove generazioni la speranza di un «avvenire più umano, e più giusto, più libero e lieto» lo rende più che mai attuale. Nelle parole di questa canzone Calvino rievoca il tempo della 21 Resistenza, del suo impegno e quello di tanti giovani per liberare il proprio Paese dal nazifascismo, con la nostalgia dolce-amara dell’ingenuo manicheismo tipico dei giovani: Tutto il bene del mondo oltre il ponte tutto il male avevamo di fronte. Tutto il bene avevamo nel cuore. A vent’anni la vita è oltre il ponte oltre il fuoco comincia l’amore. O ragazza dalle guance di pesca, O ragazza dalle guance d'aurora, Io spero che a narrarti riesca La mia vita all'età che tu hai ora. Coprifuoco: la truppa tedesca La città dominava. Siam pronti. Chi non vuole chinare la testa Con noi prenda la strada dei monti. Avevamo vent'anni e oltre il ponte Oltre il ponte che è in mano nemica Vedevam l'altra riva, la vita, Tutto il bene del mondo oltre il ponte. Tutto il male avevamo di fronte, Tutto il bene avevamo nel cuore, A vent'anni la vita è oltre il ponte, Oltre il fuoco comincia l'amore. Silenziosi sugli aghi di pino, Su spinosi ricci di castagna, Una squadra nel buio mattino Discendeva l'oscura montagna. La speranza era nostra compagna Ad assaltar caposaldi nemici Conquistandoci l'armi in battaglia Scalzi e laceri eppure felici. Avevamo vent'anni… Non è detto che fossimo santi, L'eroismo non è sovrumano, Corri, abbassati, dài, corri avanti, Ogni passo che fai non è vano. Vedevamo a portata di mano, Oltre il tronco, il cespuglio, il canneto, L'avvenire d'un giorno più umano 22 E più giusto, più libero e lieto. Avevamo vent'anni… Ormai tutti han famiglia, hanno figli, Che non sanno la storia di ieri. lo son solo e passeggio tra i tigli Con te, cara, che allora non c'eri. E vorrei che quei nostri pensieri, Quelle nostre speranze d'allora, Rivivessero in quel che tu speri, O ragazza color dell'aurora. La ballata dell'ex Endrigo e Bardotti (1966) È un brano degli anni '60: la guerra partigiana, ma con un taglio ironico e non celebrativo, che sottolinea la distanza tra i sogni e la realtà degli anni '50. Interessante è il riferimento ai regolamenti di conti verificatisi nei giorni della liberazione, e anche in quelli immediatamente successivi, oggetto di inchieste giornalistiche pubblicizzate con grande clamore in particolare dal giornalista Giampaolo Pansa ("Il sangue dei vinti", "La grande bugia") e tendenti a una sorta di pareggio delle colpe tra le due parti, con assoluzioni (o condanne) equamente distribuite. Questa canzone esprime l’amarezza di quanti avevano creduto nella grande rivoluzione che doveva avvenire nel dopoguerra e che invece non c’è stata. Questo brano è stato censurato dalla Presidenza del Consiglio del governo Moro per i versi: “Se il tempo è galantuomo io son figlio di nessuno Vent’anni son passati e il nemico è sempre là” La Fonit-Cetra, la casa discografica che incise la canzone, allora era legata all’IRI e quindi probabilmente doveva dar conto a qualcuno che stava in alto, a cui questa canzone dava fastidio. Fatto sta che il verso incriminato compare nello spartito ed è sostituito dal fischio nel disco. Andava per i boschi con due mitra e tre bombe a mano Di notte solo il vento gli faceva compagnia Laggiù nella vallata è già pronta l'imboscata Nell'alba senza sole eccoci qua Qualcuno il conto oggi pagherà. Andava per i boschi con due mitra e tre bombe a mano Il mondo è un mondo cane ma stavolta cambierà Per tutti finiranno i giorni neri di paura Un mondo tutto nuovo sorgerà Per tutti l'uguaglianza e la libertà. 23 A soli cinque anni questa guerra è già finita È libera l'Italia, l'oppressore non c'è più Si canta per i campi dove il grano ride al sole La gente è ritornata giù in città Ci son nell'aria grandi novità. E scese giù dai monti per i boschi fino al piano Passava fra la gente che applaudiva gli alleati Andava a consegnare mitra barba e bombe a mano Ormai l'artiglieria non serve più Un mondo tutto nuovo sorgerà: Per tutti l'uguaglianza e la libertà. E torna al suo paese che è rimasto sempre quello Con qualche casa in meno ed un campanile in più C'è il vecchio maresciallo che lo vuole interrogare Così per niente per formalità Mi chiamano Danilo e sono qua. E vogliono sapere perché come quando e dove Soltanto per vedere se ha diritto alla pensione Gli chiedono per caso come è andata quella sera Che son partiti il conte e il podestà E chi li ha fatti fuori non si sa. Se il tempo è galantuomo io son figlio di nessuno Vent'anni son passati e il nemico è sempre là Ma i tuoi compagni ormai non ci son più Son tutti al ministero o all’aldilà Ci fosse un cane a ricordare che Andava per i boschi con due mitra e tre bombe a mano. Festa d'aprile Sergio Liberovici e Franco Antonicelli Incisa da Giovanna Daffini in un 45 giri della Linea Rossa (Dischi del Sole). Molte delle strofette sono la rielaborazione di alcuni stornelli che venivano mandati in onda dall'emittente partigiana “Radio Libertà” (che trasmetteva da Sala Biellese). E' già da qualche tempo che i nostri fascisti si fan vedere poco e sempre più tristi, hanno capito forse, se non son proprio tonti, che sta per arrivare la resa dei conti. Forza che è giunta l'ora, infuria la battaglia per conquistar la pace, per liberar l'Italia; scendiamo giù dai monti a colpi di fucile; evviva i partigiani! è festa d'Aprile. 24 Nera camicia nera, che noi abbiam lavata, non sei di marca buona, ti sei ritirata; si sa, la moda cambia quasi ogni mese, ora per il fascista s'addice il borghese. Quando un repubblichino omaggia un germano alza la mano destra al saluto romano, ma se per caso incontra noialtri partigiani per salutare alza entrambe le mani. In queste settimane, miei cari tedeschi, maturano le nespole persino sui peschi; l'amato Duce e il Furer ci davano per morti ma noi partigiani siam sempre risorti. Ma è già da qualche tempo che i nostri fascisti si fan vedere spesso, e non certo tristi; forse non han capito, e sono proprio tonti, che sta per arrivare la resa dei conti. Le tre bandiere Anonimo Cantato soprattutto durante la lotta partigiana, questo canto ha probabilmente avuto origine d’osteria con contenuto osceno, essere poi passato nel repertorio goliardico e infine in quello politico. Un’altra ipotesi è invece quella che ne vede l’antecedente nel canto risorgimentale E la bandiera dei tre colori, per la quale ci sarebbero analogie sia di testo che di struttura musicale. In ogni caso la canzone è stata ripresa, in campo politico, numerose volte e ne esiste anche una versione fascista del periodo squadristico: Camicia nera la vogliamo sì Camicia nera la vogliamo sì Ce ne frghiamo della galera Camicia nera la vogliamo sì Nel dopoguerra fu estremamente popolare fra gli ex-partigiani ed è ancora la più cantata ad ogni manifestazione con i più svariati riadattamenti. Bandiera nera la vogliamo: No! Perchè l'è il simbolo della galera Bandiera nera la vogliamo: No! Bandiera bianca la vogliamo: No! Perchè l'è il simbolo dell'ignoranza Bandiera bianca la vogliamo: No! 25 Bandiera rossa la vogliamo: Si! Perchè l'è il simbolo della riscossa Bandiera rossa la vogliamo: Si! Bella Ciao È la più famosa delle canzoni della Resistenza italiana. La grande diffusione del canto, però, inizia con gli Anni Sessanta, dopo che fu incisa da Yves Montand e dette il titolo allo spettacolo del Nuovo Canzoniere Italiano presentato al Festival di Spoleto nel 1964. Le ascendenze musicali della canzone devono cercarsi in un gioco infantile, La me nona l’è vecchierella, usato per l’educazione del coordinamento dei movimenti dei bimbi attraverso il battito ritmato delle mani. Per quanto riguarda invece il testo la derivazione è da una canzone narrativa che ha ampia diffusione in Italia e in Europa, solitamente pubblicata con il titolo Fiore di tomba. FIORE DI TOMBA Di là da cui boscage na bela fia a j’è so pare e sua mare la völo maridè. A völo dè-i-la a ün prinsi fiöl d’imperadur. - Mi vöi nè re nè prinsi fiöl d’imperadur déi- me cul giovinoto ch’a j’è ‘n cula përzun. - O fia dla mia fia, l’è pà ‘n partì da ti Duman a úndes ure a lo faran mürì. - S’a fan mürì cul giuvo, ch’a m’fasso mürì mi Ch’a m’ fasso fè na tumba ch’a i sia d’ post për tri, Ch’a i stago pare e mare, ‘l me amur an brass a mi. An sima a cula tumba piantran dle röze e fiur Tüta la gent ch’a i passa a sentiran l’odur Diran: - J’è mort la bela, l’è morta për l’amour Al di la da quella boscaglia una bella ragazza c’è Suo padre e sua madre vogliono maritarla Vogliono darla a un principe figlio d’imperatore -Io non voglio nè re nè principe figlio d’imperatore Datemi quel giovanotto che è in quella prigione -O figlia la mia figlia non è un partito per te Domani alle ore undici lo faranno morire -Se fanno morire quel giovane che facciano morire (anche) me Che mi facciano fare una tomba che ci sia posto per tre Che ci stiano padre e madre il mio amore in braccio a me In cima a quella tomba pianteranno delle rose e (dei) fiori Tutta la gente che ci passa sentirà l’odore Diranno – è morta la bella è morta per amore Nel 1953 l’antropologo Alberto Cirese (direttore della rivista La Lapa, che trattava di "argomenti di storia e letteratura popolare") aveva pubblicato il testo di Stamattina mi sono alzata segnalandone appunto il rapporto con la 26 canzone edita da Nigra col titolo Fior di tomba nella sua raccolta “Canti Popolari del Piemonte” (un punto di riferimento obbligato per gli studi folklorici). STAMATTINA MI SONO ALZATA Stamattina mi sono alzata, un'ora prima che leva il sole, mi son messa alla finestra mi go visto el primo amor. L'era al braccio di una ragazza: una ferita mi viene al cor. « Cara mamma serè la porta, che qua non entra mai più nissun. « Cara figlia sta alegra e canta, sta alegra e canta, sta qua con me. Farem fare una casetta E ci staremo poi tutti e tre. Prima il padre e poi mia madre e il mio amore in braccio a me. Tutti quelli che passeranno dimanderanno cos'è quel fior: Quello è il fiore della Rosina che l'è già morta pel troppo amor. Questa di Cirese è la prima segnalazione del testo di Bella ciao! che negli anni sessanta divenne poi emblematica di tutta la Resistenza. Sulla nascita della versione partigiana si sa pochissimo. Erroneamente ne sono state attribuite le origine legate ad una canzone di risaia, che è invece dell’immediato dopoguerra e le cui parole sono del mondino Scansani, di Gualtieri in provincia di Reggio Emilia. Bella Ciao Una mattina mi sono alzato, o bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao, questa mattina mi sono alzato e ho trovato l'invasor. O partigiano, portami via, o bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao, o partigiano, portami via, che mi sento di morir. E se muoio da partigiano o bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao, e se muoio da partigiano tu mi devi seppellir. 27 E seppellire lassù in montagna, o bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao, e seppellire lassù in montagna sotto l'ombra d'un bel fior. E le genti che passeranno, o bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao, e le genti che passeranno e diranno: «O che bel fior!». È questo il fiore del partigiano, o bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao, è questo il fiore del partigiano, morto per la libertà. E quei briganti neri E quei briganti neri mi hanno arrestato in una cella scura mi hanno portato mamma non devi piangere per la mia triste sorte piuttosto di parlare vado alla morte Mamma non devi piangere per la mia triste sorte piuttosto di parlare vado alla morte E quando mi portarono alla tortura legandomi le mani alla catena legate pure forte le mani alla catena piuttosto che parlare torno in galera E quando mi portarono al tribunale dicendo se conosco il mio pugnale sì sì che lo conosco ha il manico rotondo nel cuore dei fascisti lo spinsi a fondo E quando mi portarono al tribunale chiedendo se conosco il mio compare: sì sì che lo conosco, ma non dirò chi sia io faccio il partigiano e non la spia E quando l'esecuzione fu preparata fucile e mitraglie eran puntati non si sentiva i colpi i colpi di mitraglia ma si sentiva un grido: Viva l'Italia! Non si sentiva i colpi della fucilazione, ma si sentiva un grido: Rivoluzione! 28 Molto cantato e conosciuto nella Val d’Ossola, questo canto, fra i più intensi e veramente popolari della Resistenza, deriva da un antecedente testo da cantastorie dedicato all’anarchico Sante Caserio. Sante Caserio è l’anarchico lombardo che, il 24 giugno 1894, a Lione, uccise con una pugnalata al petto il presidente della repubblica francese Sadi Carnot. Processato e condannato a morte, venne ghigliottinato a Lione il 16 agosto dello stesso anno. Il fatto suscitò enorme impressione anche per il comportamento di Sante durante il processo, coraggioso e fermo, che contribuì a creare attorno all’ex-panettiere italiano un alone di leggenda e una viva solidarietà popolare. I cantastorie italiani portarono subito in giro varie ballate su di lui con enorme successo. Nacquero successivamente anche altre canzoni d’autore sull’episodio (una anche per mano di Pietro Gori). Il testo che segue, di anonimo, è incentrato sul processo di Sante Caserio (da qui anche l'altro titolo con cui è noto: "Il processo di Sante Caserio"). L'eco del fiero e celeberrimo verso: "Caserio fa il fornaio e non la spia" (parole realmente pronunciate da Caserio, in francese, durante il processo: Caserio est boulanger, pas espion!) è arrivato a quello che è uno dei più famosi canti partigiani italiani. Partito da Milano senza un soldo Partito da Milano senza un soldo arrivai a Parigi a tasche vuote sempre col mio pugnale ben affilato il cuore di quel vigliacco devo spaccare. Quando Caserio vide la carrozza e lui s'avvicinava piano piano quel mazzolin di fiori e che gridava amore gl'inferse il pugnale dentro il cuore. Quando Caserio fu arrestato gli domandaron chi eran i suoi compagni “I miei compagni sono dell'anarchia io facevo il fornaio e non la spia.” Quando Caserio fu in tribunale gli domandarono se conosceva il suo pugnale “Sì sì che lo conosco ha il manico rotondo nel cuore di Carnot andò nel fondo.” Quando Caserio fu condannato gli domandarono s'era pentito del suo reato “Se per dieci minuti m'avessero lasciato il nuovo presidente l'avrei scannato.” Quando Caserio vide la ghigliottina a lei s'avvicinò pian piano con una mano levandosi il cappello 29 “Addio amici e compagni vado al macello ma prima di morire vo' dire una parola sia maledetto il re, casa Savoia.” Nella sua nuova funzione il canto è stato profondamente rimaneggiato, ma si possono riconoscere alcuni elementi del testo d’origine che sono rimasti. Si vedano la terza e la quarta strofa, con il riferimento al pugnale con il “manico rotondo” (che nella versione di Caserio è piantato “nel fondo” del cuore del presidente della repubblica francese Sadi Carnot) e alla richiesta di rivelare il nome del presunto complice (che per il testo di Caserio suona: “I miei compagni sono dell'anarchia / io facevo il fornaio / e non la spia”). Fischia il vento Felice Cascione e Blanter Fischia il vento e infuria la bufera, scarpe rotte e pur bisogna andar a conquistare la rossa primavera dove sorge il sol dell'avvenir. A conquistare... Ogni contrada è patria del ribelle, ogni donna a lui dona un sospir, nella notte lo guidano le stelle, forte il cuor e il braccio nel colpir. Nella notte... Se ci coglie la crudele morte, dura vendetta verrà dal partigian; ormai sicura è già la dura sorte del fascista vile e traditor. Ormai sicura... Cessa il vento, calma è la bufera, torna a casa il fiero partigian, sventolando la rossa sua bandiera; vittoriosi, al fin liberi siam! Sventolando... Il testo fu scritto nel settembre 1943 dal giovane medico ligure Felice Cascione, ma la musica è quella della canzone russa Katyusha. Fischia il vento divenne l'inno ufficiale di tutte le Brigate Garibaldi del Nord Italia: lo storico Roberto Battaglia nella "Storia della Resistenza" la cita come la canzone più nota ed importante nella lotta di Liberazione. Non esistevano ancora canzoni partigiane e si cantavano vecchi canti socialisti e comunisti: "L'Internazionale", "La guardia rossa", "Bandiera Rossa" o canzoni di origine anarchica "Addio Lugano Bella" trasformata in “Addio Imperia Bella”, “Vieni o Maggio" o "Canzone del Maggio” sull'aria del Nabucco; su essa si tentava di comporre un inno per la banda partigiana di Cascione. Sul cippo eretto in memoria della medaglia d'oro Felice Cascione a Fontane di Alto, una lapide porta la dicitura “date fiori al ribelle caduto con lo sguardo rivolto 30 all'aurora al vegliardo che lotta e lavora al veggente poeta che muor" strofa finale del canto "Vieni o Maggio". Nel frattempo giunse in banda Giacomo Sibilla, nome di battaglia "Ivan", reduce dalla campagna di Russia. Nella regione del Don, "Ivan" fece conoscenza con prigionieri e ragazze russe; da loro imparò la canzone Katjuša del musicista Blanter; rientrato in Italia, al Passu du Beu ne abbozzò alcuni versi con la chitarra insieme con Vittorio Rubicone "Vittorio il Biondo"; a questo punto intervenne Cascione che con altri componenti della banda ne composero i versi. La canzone fu intonata per la prima volta nel Natale 1943 e cantata in forma ufficiale ad Alto nella piazza di fronte alla chiesa (il giorno dell'Epifania del 1944). In seguito divenne, come già detto, l'Inno Ufficiale delle Brigate Garibaldi. Con Bella ciao, è una delle più famose canzoni che commemorano la Resistenza Italiana. Fischia il vento è un canto di larghissima diffusione fra tutte le formazioni partigiane, riconosciuto nell'immediato dopoguerra come l'inno della Resistenza. Ma, dopo la vittoria elettorale della Democrazia Cristiana, sono venuti alla luce i suoi “imperdonabili” difetti: essere basata su una melodia russa, contenere espliciti riferimenti socialcomunisti ("il sol dell'avvenir"), essere stata cantata soprattutto dai garibaldini. La Brigata Garibaldi Le brigate d'assalto "Garibaldi" furono delle brigate partigiane legate prevalentemente al Partito Comunista Italiano, in cui militavano anche esponenti di altri partiti del CLN, specialmente socialisti. Pochi furono invece i componenti legati al Partito d'Azione o democristiani. Coordinate da un comando generale diretto dagli esponenti comunisti Luigi Longo e Pietro Secchia, furono le formazioni partigiane più numerose e quelle che subirono le maggiori perdite totali durante la Guerra partigiana. In azione i componenti delle brigate indossavano per riconoscimento fazzoletti rossi al collo e stelle rosse sui copricapi. Le parole partigiane di questo canto nacquero tra la fine di Marzo e i primi d’Aprile 1944 a Castagneto di Ramiseto (Reggio Emilia), opera comune di più partigiani della divisione Aristide, ma principalmente di Mario Bisi e Rinaldo Pellicone. Il testo fu adattato alla musica di una vecchia marcia militare forse di discendenza risorgimentale e ancor oggi è nel repertorio dei bersaglieri. La stessa melodia è stata usata da un canto fascista cantato nella guerra di Spagna che ad un certo punto recita “e se la Russia spedisce i suoi cannoni, la nostra fede li distruggerà“. È considerato l'inno ufficiale delle brigate garibaldine della provincia di Reggio Emilia. 31 LIBERTA’? SI’ LIBERTA’? SI’ LIBERTA’? SIAM PARTIGIAN! Fate largo che passa La Brigata Garibaldi La più bella la più forte La più ardita che ci sia quando passa, quando avanza Il nemico fugge allor Tutto rompe e tutto infrange con la forza e con l’ardor! Abbiam la giovinezza in cor Simbolo di vittoria Marciamo sempre forte E non temiamo la morte. La stella rossa in fronte La civiltà portiamo Ai popoli oppressi La libertà noi porterem Fate largo che passa La Brigata Garibaldi La più bella la più forte La più ardita che ci sia quando passa, quando avanza Il nemico fugge allor Siam fieri, siamo forti Per cacciare l’invasor Col mitra e col fucile Siam pronti per scattare Ai traditor fascisti Gliela faremo pagare Con la mitraglia fissa E con le bombe a mano Per le barbarie commesse Sul nostro popol fedel! Fate largo che passa… LIBERTA’? SI’ LIBERTA’? SI’ LIBERTA’? SIAM PARTIGIAN! 32 Bandiera rossa Bandiera rossa non è solo l'unico inno della classe operaia italiana che possa considerarsi come un vero canto popolare di tradizione orale ma è anche un inno che è sedimento di larga parte della storia d'Italia. Formata da due diverse melodie di largo uso popolare sin dall'Ottocento, trova genealogia sia melodica che testuale in un canto repubblicano, del quale una versione è stata raccolta nel 1973 in una colonia di valsuganotti emigrati a Stivor (in Bosnia) verso il 1884 e da allora rimasti senza più contatti con l'Italia: Avanti popolo con la riscossa bandiera rossa bandiera rossa avanti popolo con la riscossa bandiera rossa bandiera rossa Bandiera rossa la triunferà viva la repubblica viva la repubblica bandiera rossa la triunferà viva la repubblica la libertà Come è noto, la bandiera rossa divenne emblema ufficiale dei repubblicani fin dal 1870, dopo l'entrata delle truppe regie in Roma. Voleva essere l'adozione di un simbolo diverso dalla bandiera nazionale, che recava lo stemma sabaudo sul tricolore ed aveva quindi snaturato il vessillo della repubblica romana «immune da ogni insegna servile». La melodia della canzone doveva però già essere di uso garibaldino, come fa pensare il frammento di un canto ancora in uso nel Novarese nei primi anni del Novecento, soprattutto in occasione della commemorazione del 20 settembre 1870: E la sciavata del Pio nono giü giü dal trono giü giü dal trono e la sciavata dal Pio nono giü dal trono voiàm bütà. Viva Roma e la libertà viva Roma e la libertà Strofette risalenti ai primi anni del secolo, inneggianti a Giovan Battista Pirolini, nel 1897 segretario nazionale del Partito Repubblicano Italiano, erano cantate a Ravenna: Sta forte o Pirulini e non ti avelire che prima di morire repubblica farem. Allegro popolo a la riscossa bangera rossa trionferà. Bangera rossa la s'indosserà evviva la repubblica e la libertà. La genealogia repubblicana della Bandiera rossa socialista è stata del resto già ricordata da Luigi Repossi (politico italiano e rivoluzionario comunista) sin dall'ottobre 1920, che dà queste informazioni sulle trasformazioni del canto a Milano: «Bandiera rossa [... ] pur non avendo musica propria, non fu scritta né 33 cantata per i primi dai socialisti. Il suo motivo è composito: si tratta di diversi couplets (coppia di versi rimati o anche strofa di canzone) che nei giorni di festa cantavano i repubblicani a Milano. Circa dieci o dodici anni or sono eranvi a Milano una fanfara repubblicana e un Circolo repubblicano: il circolo e la fanfara avevano però un passato glorioso, e, nel 1905 (o 1906) inaugurarono il loro vessillo - un gagliardetto rosso con berretto frigio in mezzo a rami di edera - attorno al quale anche noi socialisti qualche volta facemmo a pugni colla Vula vula che ven el luf (‘Vola vola che viene il lupo'), molto usato per beffare la poliziottaglia di quel tempo [... ]. Ora ecco che, verso il 1910, tal Boschetti Piero, operaio meccanico dello stabilimento Miani e musicante e suonatore di bombardino (terzo bombardino), quando detta fanfara si portava a fare qualche scampagnata (come allora usavasi) o qualche serenata sotto i balconi, verso la fine suonava dei couplets, e fra gli altri quello che divenne Bandiera rossa. La prima parte la credo sua (Avanti popolo, alla riscossa!). Quanto alla musica della seconda parte, i vecchi milanesi se la devono ricordare. È un antichissimo ritornello milanese, cantato, probabilmente, anche dal nonno di Berlusconi: Ven chì Ninetta sott'all'umbrelin; ven chì Ninetta, te farò un basin. Te farò un basin, ti donerò il mio cor; ven chì Ninetta che farem l'amor Un repubblicano (credo certo Marzorati) ne trovò le parole: Avanti popolo, alla riscossa ecc. e, come si vede, erano coerenti anche quest'altre: Bandiera rossa la s'innalzerà, in quanto il loro vessillo era del più bel rosso fiammante. Venne la lotta elettorale pro-Cipriani [nel 1886-88], ed anche i repubblicani vi presero parte. Ma alle parole Viva la repubblica, sostituirono le altre Viva Cipriani; il popolo le fece sue, e tutta Milano proletaria, anche per la facilità d'impararle, le ricantò. I socialisti, finalmente, cambiarono l'ultima frase: Viva la repubblica...; ed ecco come è risultato l'inno che ha fatto dimenticare il bellissimo inno di Turati». Repossi fa risalire le prime versioni socialiste di Bandiera rossa anteriormente al formarsi del Partito Socialista nel 1892, ma le ricerche condotte su campo negli anni Sessanta hanno permesso di accertare il suo uso solo a partire dal 1901, pure se l'inno salì a vera grande popolarità tra i socialisti solo con il «Biennio Rosso», espressione con cui viene comunemente indicato il periodo compreso fra il 1919 e il 1920, caratterizzato da una serie di lotte operaie e contadine che culminarono con l'occupazione delle fabbriche del settembre 1920. Si può tuttavia dire che sulla melodia di Bandiera rossa si improvviserà di tutto e da parte di tutti, così com'è giusto si faccia sui modi popolari. E perfino dai fascisti... La melodia di Bandiera rossa viene del resto usata dagli arditi durante la Grande Guerra e il Diciannovismo, dai pipini e dai socialisti durante il «Biennio rosso», dai comunisti e dai fascisti dopo il «Biennio rosso», in ininterrotte trasformazioni. Per esempio, nel 1921 gli squadristi cantano: 34 Avanti popolo alla riscossa ai comunisti si rompe l'ossa Questa strofetta passa nel repertorio dei neofascisti e negli anni Sessanta diventa: Avanti popolo alla riscossa dei comunisti vogliam le ossa dei socialisti vogliam la pelle per far salsicce e mortadelle Di qui passa poi negli stadi: Avanti popolo alla riscossa dei milanisti vogliam le ossa e di Rivera vogliam la pelle per far salami e mortadelle. E se qualcuno ce lo impedisce noi gli faremo il culo a strisce Dallo stadio passa in fabbrica e viene così trasformata nel 1972 dalle operaie della Crouzet di Milano, fabbrica di timers per lavatrici e lavastoviglie: Avanti o popolo alla riscossa che dei crumiri vogliam le ossa dei dirigenti vogliam la pelle per far salami e mortadelle. E del Lally [il direttore della fabbrica] ce ne freghiamo e noi la lotta la continuiamo e se qualcuno ce lo impedisce noi gli faremo il culo a strisce Ci u elle o! Culo a strisce gli farò Quindi sull'aria di Bandiera rossa si è cantata pressoché tutta la storia d'Italia dal punto di vista del sentire popolare, nelle sue molteplici variegazioni, anche di segno reazionario. E questo canto, popolare per la melodia, tanto da divenire un modo dell'improvvisazione, lo è anche per il testo. E non solo perché sia anch'esso carico di storia e di costume, e sia con Bella ciao il solo dei nostri canti sociali diventato noto in tutto il mondo; e nemmeno soltanto perché esso sia divenuto al quinto congresso del PCI, il primo dopo la Liberazione, uno degli inni ufficiali di quel partito assieme al Canto dei lavoratori di Filippo Turati e Amintore Galli e all'Internazionale di Eugène Pottier e Pierre Degeyter. Ne esistono anche varie versioni in lingue diverse. Sono note anche una versione tedesca (con testo di Walter Dehmel) e una ucraina. Divertente e ironico è il suo utilizzo da parte di Sergio Endrigo nell’incipit musicale dell’innocua Ci vuole un fiore! Avanti o popolo alla riscossa bandiera rossa, bandiera rossa avanti o popolo alla riscossa bandiera rossa trionferà. 35 Bandiera rossa la trionferà bandiera rossa la trionferà bandiera rossa la trionferà evviva il comunismo e la libertà. Degli sfruttati l'immensa schiera al sole innalzi, rossa bandiera. O proletari, alla riscossa bandiera rossa trionferà. Bandiera rossa la s’innalzerà Bandiera rossa la s’innalzerà Bandiera rossa la s’innalzerà il frutto del lavoro a chi lavora andrà. Dai campi al mare, alla miniera, all'officina, chi soffre e spera, sia pronto, è l'ora della riscossa bandiera rossa sventolerà. Bandiera rossa la sventolerà Bandiera rossa la sventolerà Bandiera rossa la sventolerà soltanto il comunismo è vera libertà. Non più nemici, non più frontiere: Sono i confini rosse bandiere. O comunisti, alla riscossa, Bandiera rossa trionferà. Bandiera rossa la trionferà Bandiera rossa la trionferà Bandiera rossa la trionferà solo nel comunismo è pace e libertà. Avanti o popolo tuona il cannone rivoluzione, rivoluzione avanti o popolo tuona il cannone rivoluzione vogliamo far. Rivoluzione noi vogliamo far rivoluzione noi vogliamo far rivoluzione noi vogliamo far evviva il comunismo e la libertà. BIBLIOGRAFIA CONSIGLIATA: Roberto Battaglia “Storia della Resistenza italiana” – Einaudi Savona A. Virgilio, Straniero Michele L. “Canti della Resistenza italiana” – Rizzoli Roberto Leydi, Sandra Mantovani “Canti Popolari Italiani” - Mondadori 36