Antichi saperi - 1° edizione - Coordinamento Donne di Montagna

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Antichi saperi - 1° edizione - Coordinamento Donne di Montagna
Donna +
Marginalità geografica e sociale +
Minoranza linguistica =
IL COORDINAMENTO DONNE DI MONTAGNA
Il Coordinamento Donne di Montagna è una giovane, associazione sorta nelle valli alpine del cuneese al
cui interno operano donne di diversa provenienza geografica e di diversa formazione.
Gli stati membri dell’UE hanno, dichiarato il 2007 “Anno europeo delle pari opportunità per tutti”. La non
discriminazione è un principio fondamentale dell’Unione Europea. Le leggi comunitarie vietano ogni
forma di discriminazione basata sulla religione, sulle convinzioni personali, sulle disabilita, sull’età e
sull’orientamento sessuale. Tra le varie parità quella presa in considerazione dal progetto è quella tra i
generi e tra territorialità (aree marginali montane). Uomini e donne devono avere uguali diritti in tutte le
sfere della vita civile, una paritaria rappresentatività, una partecipazione equilibrata alla vita sociale,
economica e politica.
Purtroppo i documenti europei rivelano un quadro negativo per l’Italia. Nelle graduatorie per
l’occupazione femminile, ad esempio, il nostro Paese risulta quello con il tasso più basso in Europa. Le
donne sono discriminate sul lavoro specialmente per quanto riguarda la maternità, spesso le loro
qualifiche professionali non vengono riconosciute e i servizi rivolti alle donne sono insufficienti. Nei
piccoli centri e nelle aree marginali queste condizioni sono particolarmente evidenti e esasperate. Per
creare una effettiva parità occorre costruire un sistema integrato di servizi di conciliazione tra attività
professionale e familiare e bisogna occuparsi di tutti i livelli della vita civile: politica, economia, società,
cultura.
Le attività del C.D.M. sono rivolte alle donne che vivono e lavorano nelle vallate alpine e nelle aree ad
alta marginalità.
Le azioni dell’associazione sono rivolte a:
coinvolgere le donne e sensibilizzarle alle tematiche di genere,
fornire loro gli strumenti per rendersi parte attiva del miglioramento delle proprie condizioni di vita e
lavoro,
dare valore alla diversità delle culture femminili delle zone marginali
creare una rete di contatti e conoscenze per incentivare la collaborazione. “Fare rete” è il filo rosso che
connette tra loro gli ambiti delle attività e che saranno la linea guida nei prossimi anni per futuri
progetti.
Per chiarirvi meglio le idee vi illustriamo l’articolo 2 del nostro statuto.
Oggetto e Scopo sociale.
Premesso che:
- la figura della donna (madre, nonna, zia, figlia e sorella) è di vitale importanza per la sopravvivenza
della vita sociale, artistica, amministrativa, politica ed economica nei territori montani;
- solo con il permanere delle donne e conseguentemente delle loro famiglie nei territori ad alta
marginalità delle Alpi queste potranno uscire dallo stato di defezione politica ed amministrativa che da
anni impera e che crea lo stato di abbandono in cui versano questi territori;
- le donne, i loro figli e le loro famiglie, per continuare a vivere nelle valli ad alta marginalità delle zone
montane, necessitano di tutti quei servizi fondamentali, presenti peraltro nelle zone di pianura, che
creino le condizioni per una buona qualità di vita.
Al fine di creare le condizioni per cui la montagna ritorni ad avere i valori che ricopriva in passato,
l’Associazione si prefigge i seguenti scopi:
- La lotta all’emarginazione delle donne e dei giovani, sia essa geografica, politica, sociale ed
economica.
- La rinascita delle zone ad alta marginalità.
- La creazione di una rete di piccoli comuni montani e/o ad alta marginalità al fine di
trasferire le esperienze.
- L’attivazione di studi; l’ideazione, la realizzazione e la gestione di progetti; la promozione e
lo sviluppo di ogni attività idonea a valorizzare il ruolo delle donne e dei giovani delle Alpi e
delle zone ad alta marginalità unitamente al loro patrimonio culturale, storico, artistico,
linguistico, ambientale, artigianale e imprenditoriale, turistico, sportivo, e sociale.
A tal fine l’Associazione svolge attività nei seguenti settori:
• Tutela e valorizzazione dell’ambiente naturale e antropizzato e dei beni culturali.
• Cultura, letteratura, arte, spettacolo, musica, cinema, danza e teatro.
• Studio, tutela e valorizzazione dei saperi femminili.
• Studio, tutela e valorizzazione delle lingue e culture minoritarie delle zone marginali montane e non.
• Turismo, turismo sociale e rurale, agriturismo rivolto alle famiglie e ai giovani.
• Formazione, educazione, istruzione rivolto alle donne e ai giovani.
• Sport ed attività motoria in genere rivolta alle donne, ai giovani ed ai giovani.
• Comunicazione, informazione, editoria, emittenza radiotelevisiva, cinematografia.
• Tutela dei diritti della famiglia, e nello specifico del cittadino donna e del cittadino bambino e giovane.
• Volontariato sociale e assistenza nei confronti della famiglia, in particolare della donna e dei suoi figli.
• Giochi, hobbies, ricreazione.
In particolare, a titolo puramente esemplificativo, l’Associazione si propone di:
• Ricostruire, testimoniare, catalogare e valorizzare la memoria storica, la vita e la cultura materiale, le
tradizioni e le attività delle donne dell’arco alpino e montano nonché le relazioni intercorrenti fra
ambiente naturale ed antropizzato, ed il modo in cui l’insediamento tradizionale dell’organizzazione
femminile nella famiglia e nella società, ha caratterizzato la formazione e l’evoluzione delle società e del
paesaggio alpino anche in collaborazione con altre istituzioni quali: aree protette, ecomusei, musei,
fondazioni, enti territoriali e associazioni.
• Incentivare il sorgere di un imprenditorialità ed un economia femminile e giovanile, anche in
collaborazione con enti e istituzioni, con la creazione di prodotti e/o manufatti realizzati dalle donne e da
giovani, promuovendone l’attività di vendita, attraverso l’analisi, lo studio, le ricerche di mercato, la
realizzazione di cataloghi, l’ideazione e lo svolgimento di azioni promozionali .
• Promuovere la conoscenza del microcredito, anche in collaborazione con enti e istituzioni, al fine di
incentivare le attività economiche femminili e giovanili nei territori ad alta marginalità montana e
sociale.
• Organizzare e partecipare, anche in collaborazione con enti e istituzioni, a manifestazioni fieristiche,
culturali, sportive in Italia e all’estero.
• Individuare, segnalare, costruire, ripristinare e adeguare percorsi funzionali al miglioramento del
sistema sentieristico di interesse turistico, ambientale e culturale anche mediante la creazione di
strumenti didattici e di aree attrezzate rivolte in particolarmodo ai bambini e alle loro famiglie, nuovi
sentieri, idonea segnaletica e la gestione degli stessi.
• Realizzare, anche in collaborazione con enti e istituzioni, attività di studio, ricerca, recupero e
catalogazione di beni culturali, artistici, architettonici, demo- etno- antropologici materiali e immateriali
e di cultura orale femminile e locale.
• Promuovere e realizzare momenti di formazione, anche in collaborazione con enti e istituzioni,, come
ad esempio: laboratori di formazione su tecniche costruttive locali e bioclimatiche; laboratori nel campo
dell’artigianato artistico; momenti formativi di cultura generale, amministrativa e di impresa;
• Dotare, anche in collaborazione con enti e istituzioni, le donne ed i giovani di strumenti rivolti al
raggiungimento della massima professionalità in ogni settore di applicazione e al raggiungimento di una
coscienza economica, politica, amministrativa e di impresa.
• Individuare, allestire, gestire, promuovere e realizzare impianti e infrastrutture finalizzate alla
diffusione di attività sportive a basso impatto ambientale, rivolte in particolare modo alle donne, ai
bambini, ai giovani, quali, ad esempio: sci di fondo, corsa in montagna, mountain-bike, equitazione,
alpinismo.
• Valorizzare, anche in collaborazione con enti e istituzioni, le lingue e le culture minoritarie ed in
particolare l’Occitano oltre alle lingue tutelate dalla legge nazionale n. 482 del 15 Dicembre 1999
“Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche e storiche” e dalla normativa comunitaria di
riferimento.
• Individuare, censire, catalogare e segnalare le aree di particolare interesse ambientale quali: geositi,
biotopi, endemismi, alberi monumentali e specie protette proponendone la tutela con particolare
riferimento alle norme Regionali e Nazionali, conformemente alle direttive comunitarie di riferimento.
Favorire la partecipazione alle proprie attività e alla gestione dei soggetti svantaggiati in particolare alle
donne.
• Promuovere, anche in collaborazione con enti e istituzioni, azioni rivolte allo sviluppo culturale, civile e
imprenditoriale delle donne e dei giovani e alla sempre più ampia diffusione della democrazia e della
solidarietà nei rapporti umani, alla pratica, nonché alla difesa delle libertà civili, individuali e collettive;
• Promuovere e gestire, anche in collaborazione con enti e istituzioni, iniziative, servizi, attività culturali,
sportive, ricreative atte a soddisfare le esigenze delle socie, delle donne in genere e dei giovani.
Documento UNESCO sulle diversità culturali
"La Conferenza Generale,
Impegnata nella piena realizzazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali proclamati nella
Dichiarazione Universale dei Diritti dell|’uomo e negli altri accordi internazionali del 1966 relativi,
rispettivamente, ai diritti civili e politici e a quelli economici, sociali e culturali;
Ricordando che il preambolo della costituzione dell'UNESCO afferma che ‘l'ampia diffusione della cultura
e l'educazione degli uomini alla giustizia, alla libertà e alla pace sono indispensabili alla dignità dell'uomo
e costituiscono un dovere primario che tutte le nazioni sono tenute a rispettare in uno spirito di mutua
assistenza e interesse ’;
Richiamandosi inoltre all'art. I della Costituzione che assegna all'UNESCO, fra i vari compiti, quello di
raccomandare "gli accordi internazionali che possono essere necessari per promuovere la libera
circolazione di idee utilizzando parole ed immagini";
In riferimento a quanto previsto in merito alla diversità culturale e all'esercizio dei diritti culturali negli
accordi internazionali stipulati dall'UNESCO;
Riaffermando che la cultura dovrebbe essere considerata come un insieme dei distinti aspetti presenti
nella società o in un gruppo sociale quali quelli spirituali, materiali, intellettuali ed emotivi, e che include
sistemi di valori, tradizioni e credenze, insieme all'arte, alla letteratura e ai vari modi di vita;
Notando che la cultura è il cuore dei dibattiti contemporanei che vertono sull'identità, la coesione sociale
e sullo sviluppo di un'economia fondata sulla conoscenza;
Affermando che il rispetto per la diversità fra le culture, la tolleranza, il dialogo e la cooperazione, in un
clima di fiducia e comprensione reciproca, costituiscono le migliori garanzie per la pace e la sicurezza
internazionale;
Aspirando ad una maggiore solidarietà sulla base del riconoscimento della diversità culturale, della
consapevolezza dell'unicità del genere umano e dello sviluppo degli scambi interculturali;
Considerando che il processo di globalizzazione, facilitato dal rapido sviluppo delle nuove tecnologie
dell'informazione e della comunicazione, benché rappresenti una sfida per le diversità culturali, crea le
condizioni per un rinnovato dialogo fra le varie culture e civiltà;
Consapevole dello specifico mandato che è stato assegnato all'UNESCO, nel quadro dell'Organizzazione
delle Nazioni Unite al fine di assicurare la tutela e promozione della feconda diversità delle culture;
Proclama i principi che seguono e adotta la presente Dichiarazione:
IDENTITA’. DIVERSITA’ E PLURALISMO
Articolo 1 – La diversità culturale: il patrimonio comune dell’umanità
La cultura assume forme diverse attraverso il tempo e lo spazio. Questa diversità si incarna nell’unicità e
nella pluralità delle identità dei gruppi e delle società che costituiscono l’umanità. Come fonte di
scambio, innovazione e creatività, la diversità culturale è necessaria per l’umanità quanto la biodiversità
per la natura. In questo senso, è il patrimonio comune dell’umanità e dovrebbe essere riconosciuta e
affermata per il bene delle generazioni presenti e future.
Articolo 2 – Dalla diversità culturale al pluralismo culturale
Nelle nostre società sempre più differenziate, è essenziale assicurare un’interazione armoniosa e un
voler vivere insieme di persone e
gruppi con identità culturali molteplici, variate e dinamiche. Le
politiche per l’inclusione e la partecipazione di tutti i cittadini sono garanzie di coesione sociale, della
vitalità della società civile e della pace. Definito in questo modo, il pluralismo culturale dà espressione
politica alla realtà della diversità culturale. Indissociabile da un quadro democratico, il pluralismo
culturale favorisce lo scambio culturale e lo sviluppo delle capacità creative che sostengono la vita
pubblica.
Articolo 3 – La diversità culturale come fattore di sviluppo
La diversità culturale amplia la gamma di opzioni aperte a tutti; è una delle radici dello sviluppo, inteso
non semplicemente in termini di crescita economica, ma anche come mezzo per raggiungere
un’esistenza più soddisfacente dal punto di vista intellettuale, emotivo, morale e spirituale.
DIVERSITA’ CULTURALE E DIRITTI UMANI
Articolo 4 – I diritti umani come garanzie della diversità culturale
La difesa della diversità culturale è un imperativo etico, inseparabile dal rispetto per la dignità umana.
Questo comporta un impegno a livello di diritti umani e di libertà fondamentali, in particolare dei diritti
delle persone che appartengono a minoranze e quelli delle popolazioni indigene. Nessuno può appellarsi
alla diversità culturale per violare i diritti umani garantiti dal diritto internazionale, né per limitarne la
portata.
Articolo 5 – I diritti culturali come ambiente favorevole alla diversità culturale
I diritti culturali sono parte integrante dei diritti umani, che sono universali, indivisibili e interdipendenti.
Lo sviluppo di una diversità creativa esige la piena realizzazione dei diritti culturali come definiti
dall’Articolo 27 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo e dagli Articoli 13 e 15 della
Convenzione Internazionale relativa ai diritti economici sociali e culturali. Ogni persona deve così potersi
esprimere, creare e diffondere le sue opere nella lingua di sua scelta e in particolare nella propria lingua
madre; ogni persona ha il diritto ad una educazione e ad una formazione di qualità che rispettino
pienamente la sua identità culturale; ogni persona deve poter partecipare alla vita culturale di sua scelta
ed esercitare le sue attività culturali nei limiti imposti dal rispetto dei diritti umani e delle libertà
fondamentali.
Articolo 6 – Verso un accesso alla diversità culturale per tutti
Oltre ad assicurare la libera circolazione di idee attraverso parole e immagini, bisogna vegliare affinché
tutte le culture possano esprimersi e di farsi conoscere. La libertà di espressione, il pluralismo dei media,
il multilinguismo, l’accesso paritario all’arte e alla conoscenza scientifica e tecnologica, compreso il
formato digitale, e la possibilità data a tutte le culture di accedere ai mezzi di espressione e di diffusione
sono le garanzie della diversità culturale.
DIVERSITA’ CULTURALE E CREATIVITA’
Articolo 7 – Il patrimonio culturale come fonte principale della creatività
La creazione si basa sulle radici della tradizione culturale, ma si sviluppa in contatto con altre culture.
Per questo motivo, il patrimonio in tutte le sue forme deve essere conservato, valorizzato e trasmesso
alle generazioni future come testimonianza dell’esperienza e delle aspirazioni umane, in modo da
incoraggiare la creatività in tutta la sua diversità e da ispirare un dialogo autentico tra culture.
Articolo 8 – Beni e servizi culturali: dei prodotti unici
A fronte del cambiamento economico e tecnologico di questo momento storico, che apre ampie
prospettive di creazione e innovazione, bisogna prestare particolarmente attenzione alla diversità
dell’offerta di lavoro creativo, al dovuto riconoscimento dei diritti degli autori e degli artisti come alla
specificità di beni e servizi culturali che, quali vettori di identità, valori e significati, non devono essere
trattati come semplici prodotti o merci di consumo.
Articolo 9 – Le politiche culturali come catalizzatori della creatività
Oltre ad assicurare la libera circolazione delle idee e delle opere, le politiche culturali devono creare
condizioni favorevoli alla produzione e alla diffusione di beni e servizi culturali diversificati attraverso
industrie culturali che abbiano modo di affermarsi a livello sia locale che globale. Ogni Stato, con il
dovuto riguardo ai suoi obblighi internazionali, ha il compito di definire la sua politica culturale e di
realizzarla con i mezzi che ritiene opportuni, sia tramite sostegni operativi, sia tramite cornici normative
appropriate.
LE ALPI …. OCCITANE
L’ETNIA
Nel 1999 con la legge 482, lo Stato Italiano ha riconosciuto ufficialmente l’esistenza dell’etnia occitana al
suo interno. L’Europa, come il resto del mondo, è divisa in stati che sono così delimitati per ragioni
storiche e geografiche anche se questi stati non comprendono solo il popolo che ne ha caratterizzato la
lingua e la cultura ma anche altri popoli che pur essendo stati importanti per la sua storia, non sono mai
riusciti ad affermare la propria indipendenza. Questi ultimi vengono sovente denominati come minoranze
etnico – linguistiche, poiché minoritari rispetto agli stati in cui si trovano. Da qui la differenza tra Stato
ed Etnia, dove lo stato rappresenta un ente territoriale con una propria organizzazione politica,
amministrativa e giuridica, mentre l’etnia definisce un gruppo umano che abita un determinato territorio
e che si connota per un insieme di caratteristiche linguistiche, culturali, storiche, sociali, economiche.
L’OCCITANO
Il momento d’oro delle lingue d'oc si ebbe tra la fine dell'XI e la metà del XIII secolo, periodo in cui
venne utilizzata anche come lingua giuridica ed amministrativa.
L'ambito di diffusione della lingua occitana copre l’insieme delle Province che si estendono dai Pirenei a
tutto il sud della Francia fino alle vallate delle Alpi Marittime, Cozie, Graie, dove viene tutt’ora parlata la
lingua d’oc. Dal punto di vista fisico il territorio costituisce una regione ben definita, delimitata dal
Mediterraneo, dai Pirenei, dall’Oceano Atlantico, dal Massiccio Centrale, dalle montagne del Delfinato e
dalle Alpi incluse sia nel versante occidentale che orientale.
Fu Dante Alighieri, padre della lingua italiana, a tentare la classificazione delle parlate romanze
prendendo come base la ripartizione della particella, sempre diversa, che nelle varie lingue serviva per
l’affermazione. Egli teorizzò pertanto tre idiomi: la lingua d’oc (occitano), la lingua d’oil (il francese), la
lingua del si (l’italiano); per designare l’insieme delle regioni nelle quali si parlava la lingua d’oc venne
coniato il termine Occitania, apparso per la prima volta nel 1290.
Dante nell'opera latina De Vulgari Eloquentia loda i trovatori e nella Divina Commedia per ribadire il suo
stretto legame letterario con questa tradizione, incontra, non certo casualmente, un poeta di lingua d’OC
in ognuna delle tre cantiche: Bertram de Born nell'Inferno, Folchetto da Mariglia nel Paradiso, Arnaut
Daniel nel Purgatorio. Quest'ultimo è forse il più celebre dei trovatori, famoso per il suo poetare difficile
e oscuro, il trobar clus.
Dante nella Divina Commedia attribuisce ad Arnaut Daniel la colpa di aver cantato l'amore terreno e non
quello del Cielo.
"Ieu sui Arnaut, que chantan,
consiros vei la passada folor,
e vei jausen lo joi qu'esper, denar".
(Inf.XXVI vv.141-144)
E' significativo il fatto che proprio nella Commedia, il poema che diede inizio alla letteratura italiana,
Arnaut sia introdotto a parlare nella sua lingua (le sole tre lingue che compaiono nel poema sono il
latino, la lingua della poesia, l'italiano - la nuova lingua del poema dantesco e l'occitano).
I TERRITORI DI LINGUA OCCITANA
Il territorio piemontese di lingua occitana è prettamente montagnoso. Quella occitana è una montagna
severa, specialmente a sud della Val Chisone, dove incombe direttamente sulla pianura.
Anche il clima è particolare, poiché sulle Alpi si incontrano e scontrano influssi mediterranei e padanoalpini, con evidenti ripercussioni sull'andamento delle temperature e delle precipitazioni. Altrettanto
singolare è il connubio tra la vegetazione alpina e quella mediterranea, testimoniata dalla fioritura di
lavanda o di ginestre a quote relativamente elevate.
Se consideriamo come Occitania l'intero territorio delle Comunità Montane comprese tra l'alta Val di
Susa a nord e l'estremo lembo occidentale delle Valli Monregalesi a sud, ci troviamo di fronte a una
piccola regione di oltre 4900 Kmq. con una popolazione al 1991 di quasi 180.000 abitanti.
Gran parte delle vallate occitane è soggetta a un forte processo di spopolamento, condiviso con gran
parte delle aree alpine italiane.
LE MUSICA E LE DANZE
Le danze nelle valli occitane d'Italia sono, con la lingua e la religione, elemento fondamentale di
aggregazione per la comunità locale. Vengono ballate tuttora - prevalentemente nei territori occitani del
Piemonte - in quasi tutte le occasioni di festa nelle valli e sono ben conosciute anche fuori dai confini
delle valli occitane italiane.
Il territorio impervio e le difficoltà di spostamento dei tempi andati hanno fatto sì che ogni valle abbia
conservato le proprie melodie e i propri balli, differenti per passi e per schemi da quelli delle vallate
contigue.
La musica occitana ha origini antichissime che risalgono alla fase di sviluppo della lirica trobadorica;
come già detto, il trovatore era il semplice compositore di parole, motz, e musica, son; vi era poi il
joglar, il musico, che le eseguiva. Questa musica aveva in origine espressione monodica, cioè ad una
sola voce, ma subisce nei secoli influenze assai varie, da quella del canto gregoriano, polifonico a quella
della musica araba. A fronte di 2542 opere di trovatori , siamo in possesso di solo 260 musiche, forse
perché erano trasmesse oralmente, o forse una melodia veniva impiegata più volte, anche per più
componimenti diversi, o perché molto spesso venivano improvvisate. Ci sono giunte anche i Nouvé,
canti sacri dedicati al Natale.
A partire dagli anni Ottanta è cominciata la riscoperta e la diffusione delle sonorità e del patrimonio
tradizionale della musica delle valli di lingua d’Oc delle Alpi sud occidentali ed in particolare di quelle
cuneesi. Questa riscoperta ha coinciso con la graduale presa di coscienza dell’appartenenza ad una
minoranza etnica di cui la musica rappresenta senz’altro la forma espressiva più immediata e diretta;
attraverso la musica molti giovani si sono avvicinati alla cultura delle valli occitane che vanta un
repertorio musicale molto vario, originato secoli orsono dalla musica colta medievale e dei trovatori che
è sempre andato arricchendosi in diversi ambiti sociali e culturali.
Il consenso popolare è notevole: i concerti ed i balli occitani sono affollatissimi al punto che, negli anni
Novanta alcuni consideravano questo successo come un fatto folcloristico e di moda. Il divertimento è
sicuramente uno dei motivi principali che inducono a partecipare a questi incontri musicali, soprattutto
per chi non si identifica con l’ambiente e la musica da discoteca, ma sarebbe limitativo considerarlo
soltanto un fenomeno consumistico. Si tratta anche di una forte ricerca da parte di molti giovani di un
retroterra culturale, di tradizioni e di una lingua di appartenenza. I gruppi musicali che pazientemente
hanno raccolto e fatto rivivere le musiche tradizionali creandone di nuove, oltre a fare musica fanno
anche cultura ridando vita ad un patrimonio di grande valore. Ormai vi sono più di sessanta gruppi a
proporre questo tipo di musica distribuiti in tutta l’area di lingua d’oc del territorio piemontese, oltre
ovviamente a quelli del versante francese.
Negli anni Settanta hanno cominciato a diffondersi anche i corsi di danze occitane che rappresentano un
importante elemento di socializzazione durante le feste popolari come le Baìe. Questi laboratori di
danza, seguiti da animatori professionisti permettono di apprendere oltre alle danze locali come
courento, gigo, cuntrodanso, tresso, le danze di origine franco-provenzale, basche e celtiche: rondeau,
rigaudon, scottish. Queste danze hanno origini antichissime, tanto che nei graffiti del Monte Bego nella
Valle delle Meraviglie, compare una figura antropomorfa nota come la “danzatrice”(1800-850 a.C.) che
sembra rappresentare la danza oggi conosciuta come les cercles.
Sicuramente le danze nell’antichità erano rituali propiziatori per l’agricoltura e di iniziazione in seguito
inglobati nelle feste e nelle rappresentazioni popolari della gente delle nostre valli.
Gli strumenti utilizzati erano: la viola, la ghironda, la piva, il violino, l’organetto, il liuto, il tun tun, il
fifre, l’arebebo. Molti strumenti presenti ancora oggi nella musica tradizionale hanno un origine
medievale e venivano utilizzati per la musica religiosa e colta.
Lo strumento più famoso, usato nella musica tradizionale è la ghironda che trae le sue origini dal nord
Europa, dall’antico “organistrum”, di cui rimangono tracce in Provenza; inizialmente aveva una funzione
di strumento per la musica sacra e più tardi in Francia accompagnava le canzoni dei giullari e dei
menestrelli. La ghironda possiede una cassa armonica a forma di liuto o di chitarra e la sua caratteristica
principale è il suono ottenuto con una serie di corde che sfregano su una ruota fatta girare con una
manovella. L’organetto o fisarmonica diatonica, fondamentale nella musica occitana è uno strumento
molto diffuso nelle musiche tradizionali del centro e sud Italia. Il violino che anticamente accompagnava
le danze di corte, nell’Ottocento venne introdotto anche nelle musiche tradizionali delle valli. Altri
strumenti tipici sono la cornamusa, che evoca melodie celtiche ed è chiamata chabreta dal materiale
con cui viene confezionata e numerosi flauti tra cui il galoubet, dall’inconfondibile suono.
LE VALLI VALDESI
Storia europea, plurilinguismo, impegno sociale e culturale
L’incontro con le Valli valdesi costituisce un’esperienza significativa: un’area di dimensioni modeste ma
con un’identità molto particolare.
Situata nel Piemonte occidentale, ad ovest di Pinerolo, l’area comprende le valli del Pellice, della
Germanasca e del Chisone. Le aree presentano un carattere prevalentemente alpino, con notevole
varietà di ambienti.
Una terra di dissidenza
Queste vallate sono state per secoli teatro di scontro fra la chiesa cattolica e minoranze che se ne
distanziavano sotto il profilo teologico e religioso, che l’istituzione ecclesiastica considerò eretiche e,
pertanto, pericolose. Di qui una situazione di tensione che in molti casi sfociò in conflitto, un fenomeno
che dura dal medioevo ai giorni nostri.
Nel Medioevo si diffuse anche in queste valli la dissidenza dei «Poveri di Lione» (dalla città da cui ebbe
origine il movimento alla fine del XII secolo), conosciuti come valdesi. Scomunicati come eretici,
dovettero rifugiarsi nella clandestinità. Nonostante la caccia spietata da parte dell’Inquisizione, essi non
solo sopravvissero, ma si diffusero in quasi tutti i paesi d’Europa.
Nel Cinquecento, con l’avvento della Riforma protestante, l’area conobbe una forte presenza di chiese
riformate di impronta calvinista e fu terreno di scontro tra queste chiese e la cattolica, sostenuta dal
Duca di Savoia e dal Re di Francia. Il conflitto politico e culturale che si verificò fra XVI e XVII secolo,
comunemente noto come «guerre di religione» è un caso unico in Italia, caratterizzando la storia delle
grandi nazioni europee. Le azioni repressive militari del 1560 imposero ai sudditi valdesi l’abiura. Una
seconda ondata violenta porta un nome tristemente famoso: «Pasque Piemontesi». Nella primavera del
1655 le truppe sabaude effettuarono un vero e proprio massacro. Personaggio simbolo della resistenza
armata dei valdesi impegnati nella difesa delle loro terre fu un contadino guerriero di Rorà, Giosuè
Gianavello.
Nel 1685 Luigi XIV (il «Re Sole») revocò l’editto di Nantes e Vittorio Amedeo II riprese il progetto di
cattolicizzare con la forza le Valli valdesi. Stretti tra Savoia e Francia, i valdesi furono massacrati e a
migliaia morirono nelle carceri piemontesi. I pochi superstiti espatriarono in terre protestanti, grazie
all’intervento dei Cantoni svizzeri. Dopo oltre cinque secoli di vita, la presenza della dissidenza nelle Alpi
era così cancellata.
Ma nel 1689 la storia ebbe un colpo di scena: con l’appoggio dell’Inghilterra, una spedizione di un
migliaio di valdesi (nota come «Glorioso Rimpatrio») rientrò nelle Valli attraverso la Savoia con una
marcia divenuta leggendaria, tenendo testa per un intero inverno alle truppe franco-piemontesi. Intanto,
il Duca di Savoia bandì dai suoi stati tutti i sudditi riformati non sabaudi e fu così che migliaia di valdesi
della Val Chisone (allora dominio francese) dovettero emigrare in Germania. Finito il tempo dei massacri
iniziò quello della segregazione, del ghetto. Anche i valdesi, come gli ebrei, erano chiusi in limiti assai
ristretti.
Nel 1789 i valdesi aderirono alla Rivoluzione francese e alle idee di libertà che essa portava con sé. Dopo
la caduta di Napoleone, il ghetto valdese fu ripristinato: con gli stessi divieti di sempre, riprese la dura
battaglia per ottenere la sistemazione di un luogo di culto o per importare delle Bibbie.
La rivoluzione liberale del 1848 diede inizio alla storia dell’Italia moderna. Sotto la pressione di
progressisti e liberali, il 17 febbraio 1848 il Re Carlo Alberto concesse i diritti civili e politici ai sudditi
valdesi, e poco dopo anche a quelli ebrei.
Durante il fascismo, anche le Valli valdesi vissero un peggioramento nelle condizioni di libertà: i valdesi
furono sempre visti con sospetto, fu vietato l’insegnamento del francese nelle scuole, fu soppresso il loro
giornale. Le Valli diventarono un riferimento ideale per chi la pensava diversamente dal regime, un luogo
di rifugio, una garanzia di identità. Non è dunque casuale che nel 1943 la Resistenza abbia trovato nelle
Valli una forte adesione, prima a livello organizzativo, poi di militanza.
Una storia europea: dal medioevo all’Ottocento
Fondamentale per definire l’identità delle Valli valdesi è una ricca e complessa vicenda storica connessa
a due fattori, la posizione geografica e la confessione religiosa. Questo piccolo angolo di Piemonte alpino
ha vissuto esperienze politiche e culturali di dimensione europea, più della stessa capitale Torino, o di
grandi centri dell’Italia moderna.
Nel Medioevo, i valdesi giunsero dalla Provenza o dalla Lombardia; nel Cinquecento entrarono in
contatto con i Riformatori delle maggiori città europee, a Basilea, Strasburgo, Ginevra. Nel Settecento,
anche quando alla segregazione giuridica e l’emarginazione culturale, che nelle intenzioni dello Stato
sabaudo dovevano condurre al soffocamento del ghetto, corrispose un’apertura culturale: i valdesi
guardarono sempre oltre i loro mantenendo sempre stretti contatti con la cultura europea moderna, in
una vivace circolazione di idee. Nell’ottocento, i legami con l’Inghilterra fecero sì che molti personaggi di
rilievo cercassero in questa «isola protestante» nelle Alpi un angolo di natura, credenti esemplari, un
mondo di semplicità evangelica. Grazie a loro sorsero ospedali e scuole, segnando una svolta nell’opera
di rinnovamento culturale e sociale delle Valli (in particolare Charles Beckwith e William Stephen Gilly).
Una visione internazionale
Nel 1848, i valdesi, ottenuti i diritti civili e politici, acquistarono un nuovo slancio. Anziché rimanere
chiusi nelle valli cui erano stati costretti per secoli, si lanciarono in un’avventura spirituale che lascia
stupiti ancora oggi. Il loro progetto fu quello di evangelizzare i propri concittadini, proponendo una
conoscenza più approfondita della Bibbia, ma anche contribuendo a creare una nazione moderna.
Colpisce nella lettura delle vicende di queste valli la dimensione non localistica, ma europea, con cui le
comunità valdesi hanno affrontato i loro problemi. Il risultato di questa visione è stato un’apertura
mentale, un interesse per le realtà e le novità, una curiosità intellettuale che ha caratterizzato
l’ambiente valligiano fino ai nostri giorni.
Dal 1949 a Prali (in val Germanasca) sorse il Centro ecumenico di Agàpe, costruito grazie al lavoro
volontario, luogo di frontiera di respiro internazionale, simbolo di riconciliazione e dialogo fra le nazioni
che avevano combattuto il conflitto mondiale appena concluso. I seminari e gli incontri che vi si tengono
costituiscono esperienze di apertura in campo ecumenico e politico che a livello internazionale danno alla
chiesa valdese una visibilità che va ben oltre la sua consistenza numerica.
Civiltà contadina e tradizioni
Fino al XIX secolo, l’economia nel complesso è stata di sussistenza a carattere chiuso. Si segnalano
poche attività artigianali e industriali. Insediamenti tessili si stabilirono nella bassa val Pellice già alla
fine del Settecento, con lo sfruttamento dell’energia idraulica, più tardi a Luserna, Lusernetta, San
Germano Chisone e Perosa Argentina. A ciò si aggiungono l’allevamento del baco da seta in bassa val
Pellice, la raccolta del legname e la produzione di carbone nelle alte valli, le attività estrattive: calce e
pietra a Rorà, talco in val Germanasca, grafite a San Germano Chisone. Ma la successiva contrazione
dell’occupazione fu accompagnata da un calo della popolazione, fenomeno comune a tutta l’area alpina.
Un’importante risorsa, ed elemento caratterizzante del suo paesaggio, è stata la castagna. La maggior
parte dei grandi castagneti delle Valli è stata purtroppo abbandonata e il bosco ha preso il sopravvento.
Sui pendii, in terrazzamenti sostenuti da muri a secco, prosperavano estesi vigneti, ed ancora oggi è
attiva la produzione di varietà di vini pregiati (Ramìe, Doux d’Henri).
Le Valli costituivano in passato un mondo organico e strutturato, autosufficiente in campo economico e
culturale, che l’emancipazione civile ha aperto mentalmente. Ogni borgata, anche la più sperduta, ha
ancora la sua piccola scuola, testimonianza di uno sforzo culturale che risale all’Ottocento.
Sul territorio è inoltre presente una rete di musei etnografici che illustrano le usanze e le tradizioni della
realtà sociale delle Valli: gli spazi domestici, le tecniche agricole ed artigianali, la scuola, il ruolo della
donna nella vita della famiglia e della comunità.
Plurilinguismo
La dimensione non localistica, ma europea, delle Valli valdesi è stata resa possibile da un altro elemento,
quello linguistico.
Collocate nell’area di parlata occitana, i suoi abitanti ne hanno per secoli fatto uso nella vita quotidiana,
mentre nelle località di pianura la lingua abituale è il piemontese. Le due parlate subiscono però una
forte erosione da parte dell’italiano; un quarto importante fattore linguistico è costituito dall’uso del
francese, per motivi di ordine storico e religioso. Nel medioevo, la letteratura valdese che conosciamo
attraverso le piccole biblioteche dei predicatori itineranti (i «barba»), era caratterizzata da una lingua
provenzale, letteraria, non parlata. Questa letteratura manoscritta, raccolta in minuscoli codici, si trova
a Cambridge, Ginevra e Dublino.
L’uso del francese è stato favorito dalla collocazione geografica di confine con la Francia e dal fatto che,
nel corso dei secoli, i valdesi ebbero l’appoggio delle chiese ugonotte del Delfinato e di Ginevra, dalle
quali ricevettero sostegno militare, finanziario e culturale, facendo anche costante uso della loro lingua.
Già nel 1532, all’assemblea di Chanforan (in Val Pellice), i valdesi avevano deciso di aderire alla teologia
della Riforma e di pubblicare una traduzione della Bibbia in lingua francese.
All’inizio del Novecento, la chiusura delle scuole valdesi di quartiere ed il passaggio alla scuola di stato
segnarono il declino del francese, anche se le comunità fecero ogni sforzo per opporsi a questa
tendenza.
Impegno sociale
Un aspetto rilevante della situazione sociale e politica delle Valli valdesi è dato ancora una volta dal
fattore religioso. La compresenza di due diverse confessioni, cattolica e protestante, ha prodotto una
singolare vivacità in campo sociale e culturale.
Una popolazione educata alla scelta individuale e alla responsabilità personale ha infatti sempre presente
una naturale sensibilità per i valori di libertà, laicità, equilibrio sociale, convivenza democratica,
autonomia.
Negli ultimi 50 anni, analogamente a quanto è avvenuto a livello nazionale, anche le Valli valdesi sono
state attraversate da profonde trasformazioni, sempre più verso una società moderna con prevalenza di
servizi. La realtà valdese, di fronte alla situazione di crisi sociale e lavorativa, ha investito il massimo
delle sue forze nella difesa del tessuto sociale con un programma di rinnovamento delle istituzioni a
carattere assistenziale ereditate dal passato. Negli anni ‘70 del XX secolo la Val Pellice realizzò un
interessante esperimento di autonomia locale sviluppando programmi sociali d’avanguardia e di notevole
impegno.
Vita culturale
Negli ultimi anni il fenomeno delle minoranze e della loro valorizzazione ha contribuito a formare negli
abitanti la coscienza di vivere in un’area con tratti peculiari. Un aspetto assai rilevante è quello che
attiene alla sua posizione in campo civile e politico, caratterizzata da uno spirito laico e da un
atteggiamento critico nei confronti di ciò che la circonda.
Per valorizzare l’attenzione crescente nei confronti dei valdesi è stato creato il Centro Culturale Valdese
con sede a Torre Pellice, che dal 1989 raccoglie in un unico complesso i musei, gli archivi e le biblioteche
ed è al centro di una rete museale che costituisce una realtà interessante nel quadro regionale. Alla base
di questa realtà culturale sta a sua volta un’identità religiosa: ciò costituisce una particolarità all’interno
di una società, quella attuale, in cui le identità religiose sono oggetto di studio e suscitano un’attenzione
crescente.
Dopo essere state la piccola patria di una minoranza marginale nel contesto della vita nazionale, le Valli
valdesi assurgono così a simbolo di una società fondata sul dialogo interreligioso, una società di tipo
ecumenico, che non vive solo del rispetto dell’altro, ma sa realizzare un incontro costruttivo con le varie
realtà ed arricchirsi di questo dialogo. Dopo aver vissuto per secoli in un tollerato isolamento, esse sono
diventate un luogo di visita, un incontro con realtà significative. Oltre alla realtà valdese, le tre valli
proliferano di attività in campo culturale, dal teatro alla musica, dalle arti figurative agli studi storici, una
tradizione che affonda le sue radici nell’associazionismo ottocentesco.
DONNE FUORI CASA: IL LAVORO NEI PRATI E NEI BOSCHI
La raccolta dei fiori
Le testimonianze orali riportano la consuetudine, per le ragazze nubili di andare a raccogliere fiori ed
erbe officinali. Dopo il matrimonio questo non succedeva più per mancanza di tempo. Le ragazze non
andavano in gruppo, ma ciascuna per conto proprio, quasi in concorrenza le une con le altre, ed ognuna
andava in posti diversi1.
I fiori raccolti erano principalmente violette viulétes, genziane cucües, arnica (arnica montana)
sturnéles2, genziana maggiore àrgensàna e l'assenzio l'erba bianza, erba molto amara che veniva
utilizzata per curare i vermi ai bambini3 Raccoglievano anche la corteccia del maggiociondolo plàven i
ambùrn.
Occorrevano dieci chili di fiori freschi per ottenere un chilo di fiori secchi. I fiori venivano raccolti in
primavera, nei mesi di maggio e giugno e venivano fatti essiccare presso le proprie abitazioni; sistemati
dentro dei sacchi venivano successivamente venduti a Stroppo dove vi era un rivenditore di fiori secchi
detto Malìn oppure dati al commerciante che passava con una gerla in cambio di piantini di porro o di
cavoli o di altre verdure.
Era un lavoro abbastanza faticoso perché si partiva molto presto al mattino per arrivare nei prati quando
i fiori stavano per sbocciare. Poi per molte ore si stava chine a raccoglierli. La signora Nina ricorda però
con gioia quei momenti. Racconta che partiva da Elva alle quattro del mattino e che andava fino sulle
montagne dell’Arma. Spesso i fiori erano ancora chiusi e così, prima di mettersi al lavoro, si godeva lo
spettacolo del loro sbocciare e dei prati variopinti.
I fiori essiccati e venduti erano destinati poi a erboristi, farmacisti, liquoristi o all’industria profumiera.
Le montagne però non erano l'unica meta delle raccoglitrici di fiori; molte ragazze della Val Maira si
recavano stagionalmente nelle regioni temperate del Sud della Francia: «...fanno a guisa degli uccellini,
nella bella stagione a casa, appena giunta la brutta stagione via oltre monti per ameni lidi...»4 Gruppi di
cinquanta ragazze partivano da Stroppo, San Damiano, Albaretto e, varcando a piedi il Sutrùn,
camminavano per giorni e giorni avendo cura di non essere avvistate dalle guardie di confine. Una volte
giunte a destinazione, le ragazze venivano affittate dai padroni delle serre a Barcelonette, al mercato del
sabato mattina detto mercà di asu5. Le donne lavoravano nelle grandi coltivazioni floreali e orticole della
zona di Hyéres: piccole mani agili e nervose attorno alle tenere e fragili pianticine delle violette che,
composte in graziosissimi bouquet, venivano inviate a Parigi e nelle città del nord della Francia. «Ah, era
anche pericoloso per delle ragazze giovani. Ma allora i nostri pensavano solo che andassimo a
guadagnarci qualche soldo, c'era la miseria e si preoccupavano poco di noi..».6 La raccolta primaverile
delle erbe officinali costituiva, infatti, una buona fonte di reddito in denaro per le famiglie del luogo.
Questo era anche un mestiere che metteva in stretto contatto con la natura. Le raccoglitrici seguivano
scrupolosamente il calendario e i rituali di cernita, che venivano tramandati di generazione in
generazione, e avevano una profonda conoscenza delle proprietà delle piante e del modo di raccoglierle
1
P. Raina, I reis chanten encaro, Coumboscuro Centre Prouvençal e Il Maira editore, Borgo San Dalmazzo, 1997
2 Il nome deriva dall'impulso di starnutire che provoca il fiore se odorato da vicino. Raccolta per la vendita agli
erboristi, l'arnica trova pure uso locale in medicina: impachi del fiore macerato nella grappa o alcool denaturato,
curano slogature, strappi muscolari e contusioni varie. Nel corso della seconda guerra mondiale, il fiore essiccato,
sostituì il tabacco divenuto introvabile (Giovanni Bernard, Lou Saber, Dizionario enciclopedico dell'occitano di
Blins, Edizioni Ousitanio Vivo, Vensca – CN, 1996).
3 Nella fitoterapia locale l'assenzio viene utilizzato in tisane contro la tosse e il catarro. E' pure un buon vermifugo
per i vitelli (Giovanni Bernard, Lou Saber, Dizionario enciclopedico dell'occitano di Blins, Edizioni Ousitanio
Vivo, Vensca – CN, 1996).
4 Raina Piero, I reis chanten encaro, Coumboscuro Centre Provençal – Il Maira editore, Cuneo, 1997: 89-90.
5 Il mercato degli asini.
6 Revelli Nuto, L'anello forte, Giulio Einaudi editore, Torino, 1985: 217-218.
per non far perdere le loro benefiche proprietà7. Si diceva quindi, ad esempio, che la camomilla doveva
essere raccolta solo dalla mano sinistra senza farle toccare terra prima di essere giunte a casa, la carlina
era la pianta meteorologica simbolo del sole e doveva essere appesa alla porta della baita, l’ortica era in
grado di preservare da tutti i malanni e malefici, il ginepro oltre che medicamentoso, era la pianta che
sapeva restituire il maltolto, conoscenze di medicina popolare che gradualmente si sono perse perché
sminuite e soppresse dalla medicina ufficiale.
Le raccoglitrici di castagne, càstagnarìss
L' avìa l'usànsa d'anàr fa le càstagnarìss d'isì, da Séles, l'Arma chi òuta, anàven al far la stagiùn a cüie
chistàgness. Anàven la prima diaméngia d'utùbre, lu giùrn dla Madònna del Rusàri, éren vìntadùes fìes a
chel giùrn achì. Sen anà chabàl lu sànde séra bu la curiéra, a Ciüse, pres avén virà bucù per la Ciüsa per
trubàr en post per anàr dürmìr.
Le ragazze di Celle di Macra, Seles, Macra, l’Arma, e Albaretto, Albarét, fino alla prima metà del
Novecento, erano solite recarsi a Chiusa Pesio, Ciüse, per la raccolta delle castagne. In genere partivano
la prima domenica di ottobre, in occasione di Madonna del Rosario.
Partivano gruppi composti da una ventina di ragazze, oltre i diciotto anni. Partivano il sabato sera con la
corriera e una volta arrivate a Chiusa Pesio dovevano trovare un posto dove dormire; di solito trovavano
alloggio in qualche stalla e dormivano sulla paglia che era a volte piena di pulci, nìiere, che disturbavano
il quieto riposo delle ragazze. La domenica mattina si recavano al mercato sulla piazza di Chiusa Pesio,
disponendosi in fila di modo che i proprietari dei castagneti potessero esaminarle e quindi sceglierle. Le
mani callose indicavano che la ragazza era una buona lavoratrice. Una volta scelte, le ragazze
negoziavano la paga con il padrone. Solitamente si veniva pagate in denaro o in castagne. La raccolta
delle castagne durava fino alla fine di novembre/inizio dicembre circa. L'emigrazione stagionale per la
raccolta delle castagne ha fatto si che molte ragazze di Celle si siano sposate a Chiusa Pesio.
Le raccoglitrici di castagne a servizio, servéntes, venivano aiutate nella raccolta da persone della
famiglia che le ospitava, fornendo loro vitto e alloggio. Per cercare le castagne tra le foglie e per aprire i
ricci, penìs, si usava il martello, lu màrtel, detto anche pichét de bosc o rastrelét, un piccolo rastrello di
legno a 4-5 punte disposte su una lunghezza di circa 15-20 cm, con un manico di circa 30 cm. Le
castagne si raccoglievano con le mani da terra e si riponevano in un sacchetto legato in vita a mò di
grembiule. Una volta riempito, si rovesciava il contenuto del sacchetto in grossi sacchi di canapa. Spesso
si utilizzava la tecnica di radunare tutti i ricci in un mucchio di modo da poter raccogliere le castagne
stando ferme. Dopo aver raccolto le castagne, occorreva rastrellare il sottobosco per ripulirlo dalle
foglie.
Oltre a raccogliere le castagne le ragazze venivano anche impiegate per altri lavori, secondo le
inclinazioni e le attitudini delle stesse: portare al pascolo le mucche, arare il campo con la mula oppure
eseguire piccoli lavori domestici, quali ad esempio il rammendo.
Quando gli uomini erano in guerra, molte famiglie non avevano manodopera sufficiente per raccogliere
le castagne ed erano quindi costrette a cedere i propri boschi a terzi; in questo caso solitamente metà
del raccolto andava al proprietario e l'altra metà alla raccoglitrice oppure, se la ragazza affittava il
castagno, beneficiava interamente della vendita del raccolto. A Roccabruna, per esempio, venivano
affittati i boschi di castagno: per ogni appezzamento vi erano circa 4-5 castagni. Si elencano di seguito
alcuni nomi di località in affitto della bassa valle Maira: la Pìiètta, Piciòt Lumbàrdi, Cumiàn, Ca Bianca e
Furést. La stagione delle castagne costituiva un buon guadagno, in soldi o castagne a seconda del
contratto, per le famiglie dell'epoca.
7
P. Jorio, G. Burzio, Gli “altri“ mestieri delle valli alpine occidentali, Quaderni di cultura alpine, Priuli & Verlucca
editori, Ivrea, 1986
Le castagne solitamente si consumavano in inverno; alcune si mangiavano ancora fresche, ma la
maggior parte si consumava secca. Le castagne venivano bollite e private della seconda pelle, bianche,
oppure cotte in minestra , con il riso e il latte.
L'allevamento del baco da seta
L'allevamento del baco da seta, bigàt, diffuso in valle Maira fin verso la prima metà del Novecento,
rivestiva un peso notevole nell'economia domestica delle famiglie. In valle Maira i gelsi, piantati in filari
sulle superfici in declivio del fondovalle, si trovavano fino a San Damiano.
A Dronero esistevano due grossi filatoi per la seta, dove lavoravano decine di donne e ragazze. Una
delle due filande si trovava a nord della città, nel fabbricato successivamente adibito a mattatoio civico;
l'altra si trovava in località Borgo Sottano.
Il seme ovvero le uova del baco da seta, erano reperibili presso i proprietari delle filande: minuscoli
puntini scuri racchiusi tra due fazzoletti bianchi o due fogli di carta velina, in confezioni da un'oncia e
un'oncia e mezza pari e 30 e 45 grammi. I semi si mettevano a covare in primavera, tra la fine di marzo
e l'inizio di aprile, solitamente il giorno di San Marco, in una gerla nella stalla al caldo (18-20 gradi). Nel
giro di quindici giorni i bachi cominciavano ad uscire: le larve venivano deposte in una cesta rivestita di
foglie di gelso e dimostravano un grande appetito, divorando le foglie sminuzzate di gelso, che venivano
loro fornite in abbondanza. Dopo otto giorni circa dalla nascita i bachi si addormentavano per due o tre
giorni; al loro risveglio si rinnovava il giaciglio di gelso e si alimentavano per altri sette-otto giorni con
foglie di gelso selvatico; dopo l'ottavo giorno i bachi si addormentavano una seconda volta. Il ciclo
mangia – dormi si ripeteva per quattro volte in quaranta giorni: “dormire della quarta” indica ancora
oggi un atteggiamento indolente al punto da lasciarsi sfuggire le buone occasioni. Dalla terza dormita i
bachi venivano alimentati con gelso domestico e dopo la quarta dormita si preparava il “letto” per i
bozzoli. Nel ciclo finale la voracità delle crisalidi che filavano il cocét, il bozzolo entro cui rinchiudersi,
aumentava a dismisura. I ragazzi e le ragazze correvano ai gelsi della campagna a procacciarsi le foglie
strappandole dai rami, muniti di un grande sacco, sia di giorno sia di notte. Il baco si muoveva ed
appendeva i suo bozzolo nella cicia, lettiera preparata con fascine di brughiera tenute dritte al muro con
grossi bastoni o disposte orizzontalmente su appositi scaffali detti bigatiére. L'ambiente doveva essere
molto caldo affinché il bozzolo venisse completato nel giro di otto giorni circa. I bozzoli maturando
assumevano una tonalità di giallo più o meno carica a seconda della specie. Il maschio era legato a metà
e la femmina era, invece, ovale e gialla. I bozzoli venivano raccolti prima che la crisalide si trasformasse
in insetto (una farfalla biancastra, tozza e sgraziata) e bucasse il bozzolo per uscire. I bozzoli venivano
consegnati alla filanda dove venivano gettati in acqua bollente e ripresi con le mani ad uno ad uno per
rintracciare il capo del filo sottile ed appenderlo ai telai. Il colore dei bachi era bianco oppure nero a
righe.
Solitamente le ragazze con il ricavato dalla vendita dei bachi si compravano scampoli di tela, spesso
utilizzati per il confezionamento del corredo nuziale.
DONNE IN CASA: I LAVORI DI TESSITURA E DI RICAMO
Donne e ciclo di lavorazione della canapa
La canapa, ciàrbu, era una coltura storicamente presente in modo rilevante nella zona ed investita di
importanti funzioni economiche e socio-culturali. Parlare del suo ciclo di lavorazione significa penetrare
nella realtà del lavoro contadino, delle classi subalterne e soprattutto delle donne.
La lavorazione della canapa consisteva in un procedimento lungo e faticoso. Il prodotto finale però era
resistente e poteva durare tutta una vita. Corredi, lenzuola, asciugamani, capi d’abbigliamento, in gran
parte costituiti da questa fibra vegetale, erano caratterizzati dalla ruvidezza tipica della canapa. Ora
questo tipo di tessuto si trova solo più nei bauli e negli armadi delle nostre nonne e bisnonne. Non si
produce e non si usa più e con esso si è estinto anche un savoir faire tradizionalmente femminile. Per
questo motivo le testimonianze dirette di persone che l’hanno lavorata, che ne hanno seguito tutte le
fasi sono una ricchezza inestimabile per scrivere un capitolo fondamentale della nostra storia passata.
Cercare testimonianze e documenti sul ciclo della canapa significa soffermarsi sugli aspetti tecnologicostrumentali del ciclo, sull’assetto storico-economico-sociale della valle, sulle condizioni di vita e di lavoro
delle persone, sui momenti e le forme di socialità e ritualità. Ripercorrere il ciclo della canapa e
studiarne le connessioni con i vari aspetti della vita della comunità significa recuperare un patrimonio di
conoscenze
agronomiche,
botaniche
e
naturalistiche,
tecnologico-strumentali,
astronomico-
metereologiche, igienico-sanitarie; evidenziare l’uso funzionale dei prodotti intermedi e dei manufatti
finiti e le relazioni sociali che si instauravano; soffermarsi sul lavoro collettivo, sullo scambio di lavoro,
sul prestito di macchinari o manufatti e, soprattutto, sulla condizione femminile8.
Per sottolineare lo stretto legame tra la lavorazione di questa fibra vegetale e le donne è interessante
riportare la testimonianza di Pomero Santina raccolta da Garnero Secondo e trascritta in La memorio
della Val Mairo9:
«Il prodotto della canapa serviva per molti usi per chi l’apprezzava e ci credeva. Mia mamma la usava
anche per togliere il fuoco di Sant’Antonio e guarire le scottature. […] Mia mamma faceva anche “girare i
vermi” sempre con il filo di canapa appena filato e non ancora lavato. Questo si faceva sempre
pregando».
I TESSUTI
Il tessuto di canapa: la telo 'd caso
Con la canapa si producevano la tela e le corde, indispensabili per la vita e il lavoro. La semina avveniva
generalmente dopo il 17 maggio e la raccolta nella prima decade di settembre10. Le piante venivano
estirpate, accoppiate in fasci di due steli ciascuno detti ristés, lasciate essiccare sul campo per alcuni
giorni e successivamente portate a macerare nel nais per tre settimane esatte. Dopodiché gli steli
venivano di nuovo esposti al sole, lasciati essiccare e uniti in fasci di cinque steli, feisino. D'inverno si
divideva la canapule, ciandüei, dalla fibra che veniva raccolta in matasse, manùi, pettinata con un
apposito pettine, brüstio, da cui si otteneva una matassa detta, àpunai che, trattata con il follone per sei
ore, era di nuovo pronta per essere pettinata su tre pettini di misure diverse dalle quali si ottenevano
filamenti di qualità diversa cuciùn/brüstüm/risto/ristun. Dal ristun si otteneva il filo da cucito o per il
calzolaio, trà; gli altri filamenti venivano invece filati e portati a tessere. In Val Maira i paesi specializzati
in questo lavoro erano Stroppo e Paglieres. Dalla canapa tessuta si ricavavano principalmente lenzuola,
asciugamani e camicie per il corredo.
«Era lungo…per avere un pezzo di tela bisognava sudarselo, era guadagnato. A parte che poi era
resistente, durava tanto11».
Il tessuto di lana: lu drap
La lana filata si trasforma in drap mediante una lavorazione su telaio apposito che offre un prodotto non
perfettamente rifinito, peloso e costellato di piccoli fori, derivanti dalla scarsa aderenza dei fili.
L'inconveniente si supera trattando il drap con il paròur (attrezzo per lo più mosso da acqua, utilizzato
per ammorbidire e lisciare i tessuti), per varie ore di seguito, conferendogli robustezza (a scapito della
morbidezza)12 ed una superficie liscia e omogenea. Dal drap si ricavavano abiti pesanti maschili e
8
R. Di Vincenzo, G. Tavano, R. Tinaro, Il ciclo della canapa della Valle Vibrata, in Fonti Orali Studi e Ricerche, n.2,
1982
9
S. Garnero, La memorio della Val Mairo, Coumboscuro Centre Provençal-il Maira Editore, Cuneo, 1999: 93-94
10
Bernard Giovanni, Lou Saber, edizioni Ousitanio Vivo, Venasca, Cuneo, 1996: pag. 93
11
Dall’intervista a Marietta, Soglio di Celle Macra, del 29 agosto 2006
12
Bernard Giovanni, Lou Saber, edizioni Ousitanio Vivo, Venasca, Cuneo, 1996: pag. 139
femminili, coperte e tomaie per le calzature, ciòusùn (calzatura di produzione locale utilizzata fin al 1970
ca.). Le misure del drap, come per la tela, erano il ràs e la tezo.
Il tessuto misto canapa-lana: la sàrgio
La sargia, sargio, è un tessuto misto di canapa e lana; la sargia, infatti è una stoffa lavorata sul telaio
della tela di canapa usando brüstüm o cuciùn (canapa di seconda scelta ovvero lo scarto della
pettinatura della canapa ciàrbu) sull'ordito e lana sulla trama. Come il dràp, la sargio abbisognava di un
trattamento speciale sotto il follone, paròur, per renderla omogenea e resistente. La sargio si utilizzava
per fare delle coperte pesanti fiasà, nonchè mantelline e indumenti vari, femminili e maschili. Usuali
pure, in alta valle Varaita, le più pregiate sargie di importazione, provenienti in genere dalla Francia con
tessuti di Cadis, Valence, Pierrelatte, Apollinaire, de Chalon, ecc. Del Piemonte era rinomata la Sarge de
Bielle13.
Era abitudine utilizzare, al posto del lenzuolo inferiore, un tessuto misto di canapa e lana detto tridàino,
perché più caldo del lenzuolo di canapa, il cui uso si attesta fin verso la fine del secolo XIX. Il lenzuolo
misto di canapa e lana viene nominato in alta Valle Varaita sargiòt.
Pouiéntes d’Oc (merletti occitani) Il merletto a fuselli
L’origine del merletto a fuselli nelle valli Occitane del Piemonte e del Queyras risale alla seconda metà
del sec. XVII. Questo merletto si utilizzava per confezionare le cuffie degli abiti da cerimonia delle donne
dell’epoca (oggi diventati abiti tradizionali), talvolta decorava anche gli abiti maschili e le tovaglie da
altare.
L’area di tradizionale diffusione della produzione di questa difficile “arte del fusello e del filo” era quella
montana alle pendici del Monviso. In particolare sul versante italiano si lavorava a Sampeyre, Bellino,
Casteldelfino e Pontechianale in Val Varaita e ad Acceglio in Val Maira ed in piccole aree della Val Roia,
Val Chisone e Val d’Oulx; mentre nel versante francese a Molines, Saint Véran in Queyras.
Il merletto a fuselli deriva quasi certamente dalla tecnica della tessitura della passamaneria. Si usava,
infatti, appoggiare il lavoro su un cuscino imbottito ed i fili necessari per tessere bordure e galloni erano
arrotolati su asticciole (in genere di legno o di osso; e spesso nei dialetti italiani i fuselli vengono
chiamati "legni" o "ossi") e successivamente intrecciati e fissati al cuscino con spilli. La sua origine è
incerta, ma si può dire che sia comparso più o meno simultaneamente in Italia e nelle Fiandre a partire
dal XVI secolo.
Dal punto di vista della tecnica, è possibile individuare due tipologie di merletto a fuselli: quello a fili
continui e quello a pezzi riportati. Nel primo caso, il merletto viene lavorato dall’inizio alla fine con lo
stesso numero di fuselli, che può essere anche molto elevato (per alcuni merletti particolarmente
complessi possono servire diverse centinaia di fuselli); il merletto aquilano è un esempio tipico di questa
lavorazione. Nel secondo caso, le varie parti del merletto sono lavorate separatamente e poi unite; il
numero di fuselli può dunque variare nell’ambito della lavorazione, ma in genere non è molto elevato.
Altro elemento fondamentale è il tombolo, cuscino imbottito su cui si fissano il disegno ed i fuselli e da
cui lo stesso merletto spesso prende il nome (pizzo a tombolo). La forma del tombolo può essere molto
varia: nella maggior parte delle regioni italiane è costituito da una sorta di cilindro o manicotto, in altre
zone invece troviamo un cuscino piatto o leggermente bombato (cosiddetto "a testa di fungo"); tipico da
questo punto di vista è il tombolo in uso a Sansepolcro.
Si lavora in genere seguendo un disegno sottostante, fissato sul tombolo, su cui i fuselli ed i vari
passaggi del merletto sono bloccati per mezzo di spilli. Talvolta, come avviene per il merletto di Cogne, il
disegno manca e si lavora liberamente, seguendo l'estro, regolando semplicemente le dimensioni dei
13
Bernard Giovanni, Lou Saber, edizioni Ousitanio Vivo, Venasca, Cuneo, 1996: pag. 369
motivi ornamentali su elementi del tombolo (nel caso di Cogne, sui motivi quadrettati del tessuto che
tradizionalmente ricopre il tombolo).
I fuselli si lavorano a coppie e per eseguire i movimenti di base, da cui originano tutti i punti del
merletto (la girata e l’incrocio), ne servono almeno due coppie. Con quattro coppie di fuselli, eseguendo
una o due volte la girata e l'incrocio, si ottengono rispettivamente il mezzo punto ed il punto intero, che
sono i punti di base del merletto a fuselli.
Il filato è tradizionalmente di lino o di cotone, bianco o avorio; nelle creazioni moderne si usano spesso
anche filati colorati e la seta. Una tecnica anticamente in uso che sta suscitando un nuovo interesse è
poi quella che prevede l’uso di fili di rame, d’argento o d’oro per la creazione di originali gioielli.
Dal punto di vista dello stile, è possibile individuare una grandissima varietà di motivi, da quelli
tradizionali e tipici delle varie zone di produzione, da cui talvolta il merletto prende il nome (Venezia,
Milano, Cantù, merletto Aquilano, merletto di Sansepolcro, per fare qualche esempio) ai disegni
moderni, svincolati dalla tradizione, quindi libera, autentica espressione artistica.
LE PROFESSIONI DELLE DONNE DI MONTAGNA
La maestra
Fin da tempi più remoti la scuola, escolo, era al centro della vita di ogni comunità. Pietro Ponzo ci
racconta ad esempio come le lezioni erano solite svolgersi in locali al cui riscaldamento provvedevano le
famiglie con la legna che si portava ogni giorno andando a scuola14.
La memoria della scuola è forte nel racconto di molti anziani. Raccontano che tutte le borgate avevano
una scuola e una maestra e diverse pluriclassi. Il periodo scolastico era più breve perché iniziava a
ottobre per finire a maggio consentendo in questo modo ai bambini di aiutare la famiglia nei lavori estivi
nei campi e nei pascoli. L’orario quotidiano prevedeva anche delle ore pomeridiane. La maestra risiedeva
nella borgata dove sorgeva la scuola se non nella scuola stessa come succedeva a Robbio di San
Damiano Macra, dove la maestra ricavava all’interno dell’aula scolastica, tirando una tenda divisoria, un
suo spazio fornito di un letto. Le maestre erano in questo modo a stretto e continuo contatto non solo
con i bambini, ma anche con le loro famiglie e con l’intera comunità. Partecipavano ai momenti collettivi,
come la Messa domenicale per dare l’esempio, o la veglia serale. Spesso dai loro racconti trapela
l’entusiasmo e la volontà di fornire sempre e comunque un servizio alla comunità: anche con il tempo
avverso non volevano mancare mai a lezione e se furibonde nevicate impedivano il passaggio, a dorso di
un mulo o, più di recente, direttamente sul trattore spazzaneve si arrivava comunque dai propri
bambini.
L’educatrice, che, volenterosa e gentile, arrivava spesso da lontano, dalla città o dalla pianura, viveva
una bella avventura intensamente vissuta, goduta e sofferta15. La gente le dimostrava affetto e si
mostrava attenta e sensibile alle sue necessità. Si instauravano così stretti rapporti di amicizia e spesso
sembrava loro di stare in famiglia. Vera Ferrua maestra a Elva nel 1935-36 così scrive nel suo diario:
«Imparerò a conoscerli bene questi montanari […] che diventeranno tanto cari al mio cuore»16.
Ora i bambini sono pochi e le uniche scuole elementari rimaste sono a Prazzo e a San Damiano Macra.
L’ultima scuola sussidiata, quella di Celle Macra, ha chiuso nel 1998, dopo quattordici anni dalla sua
14
P. Ponzo, Val Mairo, la nosto. Testimonianza di civiltà provenzale alpina in alta val Maira, Centre Provençal
Coumboscuro, Busca, 1982: pp 61-62
15
P. Raina, La caresso dal temp. Protagonisti, testimonianze, voci, immagini nel respiro antico della Valle Maira,
Coumboscuro Centre Prouvençal e Il Maira editore, Monterosso Grana-dronero, 2003
16
Pagine del diario di Vera Ferrua sono state trascritte in “La maestrina delle nevi” in P. Raina, La caresso dal temp.
Protagonisti, testimonianze, voci, immagini nel respiro antico della Valle Maira, Coumboscuro Centre Prouvençal e Il
Maira editore, Monterosso Grana-dronero, 2003: pp. 24-29
riapertura17. In molte frazioni abbandonate la scuola è solo più un rudere. In altri comuni è stata adibita
alle più svariate funzioni: uffici, magazzini o colonie estive per i bambini della pianura che trascorrono
solo alcuni giorni e poi tornano alle loro case lasciandosi la montagna alle spalle. Da altre parti si è
tentato di preservarla intatta con i banchi, le pagelle, la stufa, e di trasformarla in un piccolo museo
etnografico. Ovunque però, sia tra gli ex-alunni, sia tra le maestre il ricordo è ancora vivo e i loro
racconti mescolano gioia, nostalgia e un po’ di speranza per il futuro. Quest’anno a Prazzo è stata
richiesta una maestra in più perché si è riuscito a formare una prima elementare con ben sette bambini:
possiamo sperare in un nuovo periodo con tanti bambini, scuole e maestre?
La lavoratrice di capelli
Per Elva i capelli furono un’importante risorsa sia per gli uomini che viaggiavano per recuperarne in
abbondanti quantità sia per le donne che li lavoravano e li rendevano utilizzabili.
Queste righe non intendono descrivere il mestiere itinerante dei caviè che già largo spazio ha avuto in
altre pubblicazioni, ma vogliono parlare di donne: donne diverse, spesso lontane, parlanti dialetti e
lingue diversi, ma accomunate dai lunghi e forti capelli. Sì, perché erano donne coloro che davano i
propri capelli ed erano nuovamente donne quelle che dovevano lavorarli e occuparsi della loro
trasformazione. In periodi di povertà e in economie di sussistenza le donne, costrette ai più svariati e
pesanti lavori, per racimolare un po’ di denaro si servivano dei propri capelli. Da sempre simbolo di
vezzo e di dignità femminile, il capello diventava una moneta di scambio, una risorsa per le donne e per
le loro famiglie.
Le donne, di tutte le età, dalle giovani alle anziane, davano i loro capelli, o quelli che cadevano
pettinandosi o quelli che tagliavano. Una volta raccolti li vendevano o li scambiavano con altri beni,
stoffe soprattutto. I caviè viaggiavano attraverso tutta l’Italia settentrionale e non solo: si spostavano
lungo le pianure e le valli del Piemonte, della Lombardia, del Veneto, scendevano lungo l’Appennino
tosco-emiliano e attraversavano le Alpi per raggiungere la Savoia, la Svizzera e il Tirolo. Tra i capelli più
pregiati c’erano quelli delle novizie che si accingevano a dare i voti, quelli ondulati e quelli bianchi delle
anziane. Questi capelli provenienti da tutto il settentrione confluivano a Elva dove numerosi laboratori
erano destinati alla loro lavorazione. In questi laboratori lavoravano ragazze e donne che sottoponevano
il capello ad una serie di successive lavorazioni: disinfezione, lavaggio, sgrassatura, pettinatura, cernita
per forma, colore, lunghezza e grossezza, mazzettatura con punte e teste unidirezionale18. Nei laboratori
lavoravano per molte ore decine di ragazze e di donne sposate. Si cominciava a metà settembre e si
lavorava anche fino a metà maggio quando iniziava il lavoro in campagna.
Una delle prime operazioni era “fare il colore”. Si mettevano i capelli per terra e poi si dividevano per
colore mettendo insieme i castani, i neri, i rossi, i biondi. A questo punto si facevano dei mazzetti
mettendo dalla stessa parte le testine. Alcune ragazze erano poi addette alla pettinatura che si
effettuava con speciali spazzole con le punte in ferro. Una volta pettinate si lavavano con acqua e soda.
Questo era abbastanza faticoso perché come racconta la signora Nina di Elva «si prendeva delle sudate
con quell’acqua calda e perché bisognava sempre muoverli, per evitare che i capelli che si
ammucchiavano insieme ti stringessero troppo le dita e ti tagliassero»19. Poi si portavano alla fontana e
si lavavano bene, si dipanavano di nuovo, si pettinavano, si tiravano di nuovo, e alla fine si legavano con
17 Le cosiddette scuole sussidiate sono scuole elementari non statali, ma finanziate dal comune per dare un servizio a
chi era insediato in aree montane difficilmente raggiungibili. In Val Maira è stata una realtà abbastanza diffusa in
molte borgate dei vari comuni. I bambini alla fine di ogni anno dovevano sostenere un esame per poi accedere alla
classe successiva.
18
P. Jorio, G. Burzio, Gli “altri“ mestieri delle valli alpine occidentali, Quaderni di cultura alpine, Priuli & Verlucca
editori, Ivrea, 1986: pp. 99-100
19
Intervista a Bruna Giovanna, 28 agosto 2006.
dei fili. Si ricavavano così mazzi di diverse lunghezze non più corti, in ogni caso, di
20 cm. La
lavorazione non era sempre uguale, subiva a volte delle variazioni dovute alle richieste del mercato.
Quindi quando si diffuse la moda dei ricci le ragazze del laboratorio iniziarono a svolgere un ulteriore
lavoro.
Bisognava arrotolare i capelli che erano stati precedentemente lavati e ancora bagnati, attorno ad un
ferro da ricci, detto calamistro. Si facevano tanti mazzetti di tutte le misure che successivamente, erano
cotti. In quei giorni un odore di capelli bruciati si diffondeva per il laboratorio provocando tra le ragazze
un terribile senso di nausea. Dopo la cottura che durava alcune ore si portavano nuovamente alla
fontana per lavarli. Una volta asciugati si toglieva il ferro, si facevano passare le dita e i capelli
restavano ondulati.
Questo sinteticamente descritto era il lungo e particolareggiato lavoro di trasformazione dei capelli cui
giornalmente si dedicavano le ragazze di Elva20. Così lavorati i capelli venivano spediti in altri laboratori
a Saluzzo, Borgo San Dalmazzo, Villafalletto dove li avrebbero trasformati in parrucche e esportati a
Londra, Parigi, New York, Amburgo per le acconciature posticce delle dame dell’aristocrazia o delle attrici
del cinema. I capelli di una contadina veneta trasportati fino in Val Maira, lavorati dalle ragazze di Elva,
alla fine del loro lungo viaggio, potevano incorniciare il volto di un’altra donna ancora più lontana e
sicuramente inconsapevole di tutto quello che quei capelli avevano passato. Tutte queste donne, tra loro
diversissime e ignare le une delle altre, erano comunque accomunate da un forte legame ed erano parte
di una stessa rete il cui filo era il capello.
La lavandaia
Il bucato si faceva due volte all’anno, in primavera e in autunno. Tutte le donne di casa si impegnavano
e si dedicavano con energia e forza a questo avvenimento stagionale. Erano dette le lavandaie,
lavandieres, e il grande bucato era chiamato la lissìo. Le donne alle fine del loro lavoro avevano le mani
rosse e screpolate: l’immersione per ore e giorni delle braccia nell’acqua ghiacciata dei torrenti, infatti,
provocava un affluire di sangue tale da conferire alle loro mani un colore rosso chiaro che persisteva a
lungo. In quei giorni erano definite dagli uomini acerbe e intrattabili e legate a tale attività esistono
innumerevoli aneddoti, leggende e modi di dire come “le ciarle delle lavandaie” che probabilmente
devono la loro origine al fatto che quella del bucato era una delle poche volte in cui le donne avevano la
possibilità di stare tutte insieme e parlare. Connessa alle lavandaie e all’elemento dell’acqua esiste
inoltre una ricca e interessante simbologia.
Ma torniamo all’attività vera e propria cui si dedicavano le lavandaie. Come avveniva il grande
bucato21?
Nel corso dei mesi bisognava raccogliere la cenere ricavata dalla combustione di legni come il frassino,
l’acero, il faggio e il sorbo che davano le ceneri migliori. Bisognava fare attenzione a non raccogliere con
la cenere anche ramoscelli o i resti non completamente bruciati della legna.
La prima operazione, che durava tutta la notte, avveniva in una grande tinozza di legno cerchiato,
munita, alla base, di un foro per regolare lo scarico dell’acqua. Si poneva la biancheria, in seguito la
cenere e poi sul tutto si versavano paiolate di acqua bollente. La giornata successiva vedeva invece le
donne impegnate al lavatoio della borgata o al torrente dove su grosse e lisce lose, fregavano,
strizzavano, battevano con un attrezzo particolare chiamato picou e infine risciacquavano. I capi così
lavati venivano poi appesi sui loggiati della famiglia o stesi sui prati e lasciati due giorni in modo che il
sole e la rugiada desse loro un po’ di morbilità. La signora Mariuccia di Grangetta, borgata di San
20
A Elva esiste un museo dei Caviè in cui sono esposti gli oggetti che le ragazze usavano nel loro quotidiano lavoro e
alcune rare fotografie.
21
Si veda il capitolo “Le fremes abou le mans rousses” pp. 111-112 in P. Raina, La caresso dal temp. Protagonisti,
testimonianze, voci, immagini nel respiro antico della Valle Maira, Coumboscuro Centre Prouvençal e Il Maira
editore, Monterosso Grana-Dronero, 2003
Damiano Macra22, che ancora oggi continua a lavare in questo modo, assicura che il risultato era un
bucato profumato e bianco. Sottolinea, inoltre, come un tempo le persone non avevano le allergie della
pelle come oggigiorno, allergie che dipendono prima di tutto dai prodotti usati per lavare che non sono
naturali come la cenere e l’acqua.
La balia
I neonati in epoca passata potevano essere allevati solo con il latte materno. Capitava però che la
mamma non potesse o non volesse allattare o crescere il figlio e in questo caso veniva cercata
una
balia.
La balia, era quella donna che si prendeva cura dei figli altrui, allattando il neonato al posto della madre.
Quando non avevano questo incarico o i bambini erano già cresciuti venivano dette “balie asciutte” (oggi
si chiamerebbe babysitter).
Il termine “fratelli di latte” indica due neonati nati da madri diverse ma allattati da una sola di esse,
questo fatto creava tra i bambini un legame che spesso durava nel tempo.
Le balie prestavano il loro servizio nel proprio paese, tuttavia alcune donne furono costrette ad emigrare
anche in Francia per necessità di guadagno o alla ricerca di autonomia.
Fino ad pochi decenni fa, le donne non sposate o rimaste vedove andavano a lavorare presso le famiglie
borghesi per occuparsi dei bambini.
Singolare il caso delle famiglie di Casteldelfino, Chianale e Bellino (Val Varaita)
che ai tempi della
Castellata, intorno XIV secolo, godevano di un certo benessere, accoglievano stagionalmente in casa le
ragazze della bassa valle come balie.
La guaritrice
Le donne sono spesso le depositarie del sapere legato alle cure mediche. Esse in passato si dedicavano
alla raccolta dei fiori e delle erbe officinali. Conoscevano, inoltre, tecniche e rimedi per la cura delle
malattie, quali ad esempio il mal di pancia, mal maschiùn, la febbre, mal suschiàme, il mal di gola, mal
dal grif, attraverso l'utilizzo di rimedi fitoterapici, ma anche di pratiche che fanno ricorso a saperi antichi,
tramandati in segreto di generazione in generazione: la desmentiòura. Con questa pratica le donne
curavano e curano tuttora i casi di ossiurasi23, ovvero i cosiddetti vermi dei bambini, le slogature, le
scottature, lu brujà e il fuoco di Sant'Antonio, lu fuéc 'd Sant Antoni, altrimenti detto fuéc sarvage. La
desmentiòura costituiva un vero e proprio prontuario per le emergenze mediche ed ancora oggi questa
pratica viene utilizzata in alternativa alle cure ufficiali, delle quali spesso risulta più efficace, specie per il
fuoco di Sant'Antonio. Numerosi infatti sono gli aneddoti di casi in cui là dove le cure mediche non sono
valse a nulla, la pratica di “segnare” il fuoco di Sant'Antonio si è rivelata decisiva per la guarigione.
Nonostante l'opinione secondo cui la Chiesa non veda di buon occhio le pratiche della desmentiòura
considerate magiche, pare che almeno in un caso anche un sacerdote si sia rivolto a queste pratiche per
la guarigione del Fuoco di Sant'Antonio e che addirittura una guaritrice della Val Maira abbia i ricevuto il
dono di “segnare” il fuoco di Sant' Antonio proprio dalla sorella di un sacerdote che consigliò di
tramandare questa pratica affinché altri potessero far del bene alle persone sofferenti.
Naturalmente la tecnica della desmentiòura è nota solo a chi l'ha ricevuta in dono e viene tramandata
segretamente ad una persona sola o al massimo a tre persone, pena il rischio di perdere il dono.
Numerosi sono gli aneddoti di bambini che, soffocati dai vermi che dalla pancia risalivano fino alla gola,
sono stati salvati in extremis dalla desmentiòura; tuttavia altri rimedi più casalinghi e meno segreti
erano utilizzati per questo tipo di problema: ad esempio schiacciare la parte legnosa di due piante di
assenzio, gambo contro gambo, in modo da far fuoriuscire una goccia di linfa che somministrata pura al
22
23
Dall’intervista del 4 giugno 2007.
L'ossiuro è un piccolissimo verme filiforme che vive come parassita nell'intestino retto, specialmente dei bambini
bambino lo guariva dai vermi oppure ponendo a contatto del corpo collane di spicchi di aglio o
ingerendolo direttamente.
Per curare il mal di pancia era abitudine applicare sulla pancia dei bambini un pezzo di carta da zucchero
che era particolarmente assorbente, unto di burro che ha la proprietà di togliere l'infiammazione.
Compito esclusivo delle donne era inoltre quello di occuparsi del parto dei bambini e di recitare il rosario
per i morti, compito per il quale era addetta una donna per borgata o paese.
LE FASI DELLA VITA: NASCITA, MORTE E…MAGIA
Credenze e gesti rituali si perpetuano da millenni, non però alla stadio di
sopravvivenze o di “superstizioni”, ma sotto forma di una vera religione.
Robert Hertz
Sono innumerevoli i riti che si svolgono intorno alla culla, al talamo e alla tomba, le tre sedi sopra le
quali sorge, si agita e ricade la vita, poiché tutto nasce, tutto si sposa per moltiplicarsi, tutto muore e si
succede quaggiù; una sola legge naturale governa gli esseri dal principio misterioso della generazione al
principi, più misterioso ancora, della dissoluzione.
La nascita
Spesso, accanto al letto della gestante vi erano la madre – che, nel caso si trattasse del primo nato,
doveva provvedergli il corredino – la suocera, la levatrice ed alcune donne del paese, tra le più esperte
in questo genere di assistenza.
La nascita di un bambino era solitamente annunciata con il suono delle campane a festa le baudete così
come lugubri rintocchi segnalavano il trapasso da questo mondo all'aldilà. Si diceva ai bambini che il
nuovo nato era stato trovato dalla levatrice in un tino e comprato dalla mamma che, per scaldarlo e farsi
venire il latte per nutrirlo, si coricava nel letto insieme a lui. Era divieto della puerpera cambiare camicia
o lenzuola per una settimana dopo il parto, perché la biancheria fresca sarebbe stata dannosissima; se
proprio bisognava cambiarla, era necessario che prima la indossasse qualcun'altro, magari il marito. Se
la poveretta continuava a dissanguarsi per l'emorragia, le legavano strettamente il dito mignolo; se le
spuntava sul seno un ascesso, occorreva applicarle un pollo squartato; per rinforzarla occorreva
somministrarle brodo di gallina giovane, che non facesse ancora l'uovo. Per proteggere la puerpera e il
neonato dai malefizi, si doveva ritirare la biancheria stesa prima che scendesse la notte affinché non si
bagnasse di rugiada e le masche o i sarvan potessero attaccargli le loro diavolerie o fare ogni sorta di
scherzi maligni.24
Il ruolo della madrina
Fondamentali erano poi il ruolo della madrina e del padrino, soprattutto nei momenti di passaggio della
vita dei figliocci, in particolare nei momenti del battesimo e del funerale, che segnano la nascita e la
morte del loro legame “artificiale”25. Durante il corteo battesimale il bimbo è tutto adorno di trine e di
nastrini detti bindel, con cui venivano in genere confezionate le coccarde e gli ornamenti per i momenti
di festa. Il ruolo della madrina è particolarmente importante perchè oltre a proteggere e ad
accompagnare in chiesa la puerpera al rito di purificazione che avveniva quaranta giorni dopo il parto, in
occasione del battesimo, severamente vestita e velata, aveva il compito di portare il cero battesimale.
Inoltre, nel caso di morte di un bambino di età inferiore ai sette anni la madrina era colei che, insieme
alle donne di famiglia, doveva occuparsi dell'addobbo della cassa cucendo su un pezzo di stoffa delle
24 Milano Euclide, Dalla culla alla bara, Istituto Geografico Bertello, Borgo San Dalmazzo (CN), 1973: 4-21.
25 Fine Anne, Le Parrain, son Filleul et l'Au-delà in Etudes Rurales, Paris, 1987: 127.
piccole rose di bindel che, dopo l'interramento, venivano scucite e conservate per altre occasioni, in
genere festive. Gli stessi nastri colorati, indossati da tutti i bambini durante il corteo funebre della
piccola salma, rappresentavano il carattere gioioso della morte di un bambino, considerato angelo.26
Le preghiere
Le comunità alpine tradizionali, erano caratterizzate da una pratica religiosa assidua, quotidiana e
fortemente ritualizzata. Al di fuori delle pratiche di “preghiera officiata” era abitudine recitare il rosario
tutte le sere a stalla, dopo cena; si recitavano solitamente cinque misteri dopodiché le donne facevano
una filata di lana o canapa al fuso. Il rosario veniva recitato in latino. Dopo il rosario venivano ancora
recitate alcune preghiere come la Salve oh Regina e il Viadoro. A condurre il rosario era una donna di
famiglia, ma in caso di veglie funebri vie era una donna addetta a condurre questo rosario.
27
I dinà
I dinà erano delle “colazioni di preghiera” che si svolgevano in casa al mattino presto in primavera
durante le quali si pregava per i morti della ospite; vi partecipavano i parenti della famiglia allargata ed i
poveri della comunità. Consistevano nel recitare il rosario, che doveva essere condotto da una donna
“abilitata” a svolgere la funzione, socialmente riconosciuta, di “guida”.28 Tutti i poveri che partecipavano
al dinà ricevevano una paga; chi conduceva il rosario la riceveva doppia.
I riti funebri: l'offerta e l'offertorio
L'offerta e l'offertorio erano due momenti rituali della cerimonia funebre tenuti in grande considerazione
che spettavano entrambi alla primogenita, ad un fratello o ad una sorella del defunto. L'offertorio
consisteva nel distribuire candele contenute in un cestino all'inizio della cerimonia funebre, quale
simbolo di luce necessaria per accompagnare il defunto nell'Aldilà; l’offerta consisteva invece nel donare
del pane al parroco dopo la benedizione del defunto.
La léisìo dal mort
Dopo la cerimonia funebre, le donne si recavano al biàl, lavatoio, per la léisìo dal mort, ovvero il bucato
del morto che consisteva nel lavare gli indumenti e la biancheria del letto del defunto: oltre alla evidente
funzione igienica, il bucato rituale rappresenta una tappa simbolica del distacco del defunto dal mondo
terreno poiché con esso venivano eliminate le impurità della permanenza in vita del defunto.
Il lutto
Il lutto è il tempo necessario perché ciò che un tempo era unito si separi per sempre. Il lutto era
regolato soprattutto in merito all'abbigliamento femminile, che veniva scandito dalla modulazione di
colori obbligatori, permessi e proibiti; il percorso variava a seconda del grado di parentela con il morto.
E' come se le donne con il lutto trasformassero il momento drammatico della morte in evento sociale.29
La levatrice
La levatrice è una figura misteriosa, sospesa tra la vita e la morte, posta dall’immaginario comune nella
penombra delle stanze e delle stalle tra le urla doloranti delle partorienti. Si situa tra gioia e dolore, riso
26 L'abitudine di chiamare “angeli” i bambini defunti era diffusa in tutta l'Europa cristiana e derivava dal messaggio
ottimistico dell'accesso diretto al paradiso che la Chiesa Cattolica ha cominciato a diffondere a partire dal XV
secolo (Fine, 1987, 135).
27 Intervista a Bianco Maria in Bonetto del 9 novembre 2006.
28 Menàr lu ruzari (guidare il rosario), al di fuori di quello quotidiano della famiglia, era compito delicato, al quale
potevano essere delegati solo individui idonei, esemplari sotto il profilo morale (Ottonelli, 2004, 13).
29 Pussetti C.G., Le donne, la morte, il dolore. Pratiche funebri ed elaborazione del lutto tra i Bijagò dell'isola di
Bubaque (Giunea Bissau) in Erreffe. La ricerca Folklorica, 49, Brescia, 2004: 45.
e pianto. Molti ne parlano ma solo per cenni, lei è colei che porta alla vita e che accompagna alla morte.
Figura liminale, si dimentica spesso che la levatrice è una donna anch’essa con sentimenti che si occupa
di uno dei mestieri più difficili e che spesso gioisce e soffre con le madri.
Non è la madre della partoriente e neanche il marito che per primi vedono il nascituro. Ma è una donna
esterna alla famiglia a cui ci si affida completamente.
È difficile trovare notizie su questa figura femminile e sul suo sapere come è difficile riuscire a trovare
ancora testimoni dirette. Sono alcuni decenni ormai che anche nelle aree alpine ci si affida alle strutture
ospedaliere e non più alle mani esperte di queste donne30.
Quello della levatrice era un mestiere difficile. Per ogni borgata, in media, c’era una levatrice che a
qualsiasi ora del giorno e della notte doveva dare la propria disponibilità e fornire la propria assistenza.
Il suo sapere veniva tramandato all’interno della famiglia, di generazione in generazione, dalla madre
alla figlia o dalla nonna alla nipote, ed era collegato in modo particolare alle conoscenze botaniche.
In tempi molto remoti non è da escludersi che esistessero all’interno della varie comunità dei luoghi
specifici adibiti all’accoglienza e all’assistenza delle puerpere e dei loro bimbi. Queste case avevano
un’importanza fondamentale all’interno della comunità ed erano quindi poste sui sentieri maggiormente
percorsi e facilmente raggiungibili. La levatrice assisteva la partoriente: teneva sempre molta paglia per
far distendere le donne e per costruire, attorcigliandola, delle specie di sgabelli a forma di U da mettere
sotto le loro ginocchia per agevolare il parto e agevolare il suo lavoro. Era solita inoltre somministrare
erbe e piante di cui conosceva le caratteristiche per alleviare i dolori. Con particolari rituali, stava vicino
alla donna e facilitava il travaglio31.
Più di recente i bambini nascevano nelle case o, più precisamente, nelle stalle. La figura esperta della
levatrice era comunque sempre presente come si evince dalle parole di Nina d’Elva32:
«Noi compravamo nelle stalle. Io della prima figlia sono stata tre giorni prima di averla, avevo male,
nella stalla e poi han fatto venire la levatrice, quella lì mi ha fatto nascere la bambina, tutta blu…un po’
che tardavano… Avevo cominciato il venerdì ad vere male… Ma noi qui c’era donne che sapevano…
Ce n’era una al capoluogo, quella lì mi sembra che abbia fatta nascere…99, ne manca uno a cento, ma
allora c’era più gente. Ma quella lì, faceva come un dottore. Invece le nostre mamme non erano così…»
Sovente la “donna-saggia”, come veniva chiamata, arrivava dalla partoriente dopo aver detto nel
percorso una preghiera che tutto andasse per il meglio, quindi chiedeva notizie riguardo all’avanzamento
delle convulsioni, faceva preparare tutto l’occorrente – sapone, olio, lenzuola, asciugamani – e, in certi
casi, faceva fare un po’ di pulizia attorno al luogo. A questo punto procedeva e analizzava lo stato di
dilatazione. Dopo essersi unta la mano con quello che vi era a disposizione – grasso di marmotta, olio di
noci, burro – lubrificava anche la vagina e il collo dell’utero per facilitare l’uscita del feto. Quando le
dilatazioni provocavano dolori acuti la levatrice esercitava pressioni sull’addome. Spesso la levatrice
dava alla donna in travaglio vino caldo aromatizzato o infusioni di segala per darle un po’ di energia o
somministrava un infuso di “Angelica Arcangelica” per calmare i dolori. Dopo il parto invece faceva bere
decotti di erbe medicinali per aiutare l’espulsione della placenta. Non sempre però le nascite andavano a
buon fine. Purtroppo succedeva, allora come ora, che durante il parto ci fossero delle complicazioni. Se il
feto si presentava di piedi le sue possibilità di sopravvivenza erano minime. Spesso era troppo tardi per
ricorrere ad un medico per il taglio cesareo e allora la levatrice tentava il possibile per salvare almeno la
vita della mamma.
30
31
32
Le notizie che compaiono sono tratte da Rose-Claire Schuele, Naissances difficile set le chapelles à répit an
Valais et en Vallée d’Aoste,Atti di SPEA6, San Michele all’Adige, 2003 e dalle testimonianze raccolte in anni di
studi da Adriano Aimar, ricercatore culturale della Val Maira.
Crf. Rose-Claire Schuele, Naissances difficile set le chapelles à répit an Valais et en Vallée d’Aoste,Atti di SPEA6,
San Michele all’Adige, 2003.
Dall’intervista del 28 agosto 2006
Era abbastanza diffusa l’usanza di portare i neonati morti ai santuari per chiedere la grazia divina. La
Chiesa predicava l’esistenza del Limbo, luogo dell’Aldilà che raccoglieva le anime dei non battezzati. Se i
neonati morivano senza aver ricevuto il Battesimo i genitori, per evitare alle loro piccole anime la
dannazione eterna, andavano in pellegrinaggio. I santuari principali erano quelli dedicati alla Santa
Vergine o a sua madre Sant’Anna o a un santo particolare come ad esempio Sant’Orso. In questi luoghi
sacri c’era una sorgente d’acqua miracolosa dove i corpicini venivano immersi. Durante il rito i neonati
resuscitavano un momento, venivano battezzati e poi sepolti sul luogo. I ricordi di avvenimenti simili e di
questi rituali è vivo in alcune testimonianze orali anche nelle nostre valli.
Gradualmente la figura della levatrice è scomparsa. Le motivazioni possono essere molteplici prima tra
tutte il fatto che la medicina ufficiale da un lato e la Chiesa dall’altro abbiano cercato di soffocare le
conoscenze erboristiche e i saperi terapeutici tradizionali perché considerati frutto di superstizioni. Il
divieto ad usare erbe e piante ha causato l’estinzione di un’ ampia e profonda conoscenza legata al
territorio.
Dalla fine degli anni Cinquanta la struttura ospedaliera ha iniziato ad accogliere le donne gravide e la
levatrice, figura cardine della comunità, è stata sostituita da infermiere, ostetriche e medici.
Le masche
La masca, figura chiave dell’immaginario popolare di tutto il Piemonte e protagonista dei racconti che
caratterizzavano le vihà, le veglie serali nelle nostre valli, affonda le sue origini in tempi lontanissimi.
La parola masca probabilmente trae origine dal longobardo maska, che indica l'anima di un morto, o
dall'antico provenzale mascar, borbottare, nel senso di borbottare incantesimi
Già nell’editto di Rotari del 634 masca compare alternativamente a stria, strega. Il termine masca si
conserva poi nel dialetto piemontese con il significato generico di strega, una strega però dalle forti tinte
locali, che molto si differenzia dalla vittima in carne ed ossa della “caccia alle streghe” portata avanti
dall’Inquisizione.
In Piemonte la masca ha molti volti: non è solo la donna anziana con il viso solcato da rughe profonde,
che conosce i segreti della natura ed è depositaria di misteriosi saperi di dubbia origine. Si tratta per lo
più di un essere ignoto a cavallo tra il mondo dei vivi e quello dei morti, uno spirito negativo
appartenente all’universo delle creature immaginarie e non umane, tant’é che in alcune zone del
Piemonte masca viene impiegato con l’accezione di incubo. La masca è anzitutto una creatura notturna,
malvagia e vendicativa, dotata di poteri di probabile origine diabolica tra cui il misterioso dono della
metamorfosi. E’ infatti sotto sembianze animali e non umane che la masca, protetta dall’oscurità,
compie i suoi più terribili misfatti. Primo tra tutti e non a caso il gatto, e perché no, per di più di colore
nero, già associato al diavolo, diventa il miglior travestimento da lei utilizzato per colpire le sue vittime
preferenziali: i viandanti solitari ed i bambini ancora in fasce.
Molto interessante è notare come masca indichi sempre e solo una figura femminile e mai maschile. La
ragione per cui le donne predominano nella storia della stregoneria è probabilmente legata al ruolo
cheesse rivestivano nella società e alla loro posizione subordinata. Considerate a lungo inferiori e deboli
per natura, le donne sono state spesso e volentieri immaginate una facile preda di tentazioni diaboliche.
La tradizione orale popolare, pur privilegiando la versione della masca negativa, ha tuttavia riservato
ampio spazio anche alle masche buone e un po’ birichine, dipinte con tratti vivaci, che si limitano a
compiere beffe e scherzi innocui a danno dei poveri contadini.
I racconti di masche, che tanto hanno occupato le veglie serali nelle nostre borgate di montagna e di
campagna, oltre ad avere una funzione di svago, a conclusione di una lunga giornata di lavoro, avevano
anche e soprattutto valenza pedagogica. Il rito del narrare era infatti concepito in ambiente rurale come
necessario al mantenimento e al buon funzionamento dell’organizzazione sociale. Attraverso il racconto
veniva trasmesso ai più giovani un patrimonio di conoscenze e di regole che stavano a fondamento della
società stessa.
In Valle Vermenagna si racconta che ...
Nella frazione Folchi di Vernante si ricordano con timore le vicende del misterioso don Dutto, figura di
prete “immascato” che trascorreva le sue notti solitarie a terrorizzare i poveri abitanti della borgata.
Mediante l’impiego della “fisica”, una sorta di scienza occulta, egli sapeva trasformarsi in fuoco e celarsi
dietro vesti animalesche. Si narra che una sera, un giovane sventurato rimasto solo nella stalla fu
aggredito da un tremendo lupo nero. Con prontezza il ragazzo afferrò un bastone e lo scagliò con
violenza sul lupo colpendolo ad una zampa. Questi ferito non tardò a fuggire. Il caso vuole che per
diversi giorni nessuno riuscì più a vedere il prete, costretto a letto per motivi di salute. Non tardò
tuttavia a rimettersi dal brutto colpo e quando tornò a dire messa tutti si avvidero della sua malcelata
fasciatura al braccio.
Si dice, invece, che, al tetto Peroutun (Vernante), le masche avessero addirittura invaso un’abitazione.
La povera Luisa, tormentata da rumori sinistri e miagolii agghiaccianti non riusciva a chiudere occhio.
Una notte, spaventata più che mai, vide nella stalla un signore con abiti e viso di colore rosso. Corse
così a chiedere aiuto ai vicini ma solo l’intervento e la benedizione del prete riuscirono a scacciare la
minaccia delle masche.
Si racconta ancora che, una sera, prima di rientrare a casa, una signora si fermò sul piazzale di
fronte alla chiesa, incuriosita dalle luci e dal rumore. Oltrepassata la soglia, con grande sorpresa e
spavento, vide un prete, morto ormai da tempo dire messa per un oratorio di suoi compaesani anch’essi
defunti. Si narra che fu opera delle masche.