Lettera di Paul Scheuermeier Como, 11 luglio 1920 Caro Signor

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Lettera di Paul Scheuermeier Como, 11 luglio 1920 Caro Signor
Lettera di Paul Scheuermeier
Como, 11 luglio 1920
Caro Signor Professore!
Stamattina presto mi è giunto il Suo telegramma. Molte grazie. Ora ho tutto ciò che di
cartaceo mi si può mettere in groppa, a mia protezione. Perché ieri sera sono ritornato a casa
dalla battuta di caccia nel milanese con un bottino accettabile e in un bagno di sudore.
Rubare, non mi hanno rubato niente, ma mi hanno fatto correre e aspettare, patir la sete e
sudare. Ascolti un po’.
Dopo essermi installato nella casa dei miei parenti, che è in una splendida posizione, nella
medesima stanza in cui, anni fa, mio fratello aveva dimorato per una dozzina di anni, venerdì
mattina, con il treno delle 6, sono andato a Milano. Qui la mia prima commissione mi ha
portato da Hoepli che certamente è il solo a Milano che si può trovare al lavoro già alle 7¾. I
suoi impiegati, però, si radunano in un secondo tempo attorno al Maestro, gli intimi salutati
con una patriarcale stretta di mano. Un originale. È stato molto gentile con me e ai suoi fedeli
ha parlato con i toni più solenni del “grande atlante linguistico”, dell’“opera importantissima”.
Tutti sono dovuti venire per ammirare con il padrone le fotografie che avevo portato. Poi ha
anche chiesto informazioni a chi poteva sapere qualcosa e lui stesso mi ha dato vari indirizzi
per la Valtellina. Mi ha detto che non devo presentarmi dal console Vonwiller, che è vecchio e
mezzo addormentato; devo invece parlare con un suo conoscente, il non piccolo, ma molto
capace e gentile Piccoli, viceconsole, ticinese, e mi ha dato subito un biglietto indirizzato a lui.
Peraltro mi ha rifornito anche di alcuni biglietti da visita del Commendatore, ecc. In una
parola, ha fatto di tutto per aiutarmi, mi ha dato perfino il consiglio paterno di ritornare a Como
la sera stessa con il treno delle 5, e di non aspettare quello delle 9, cosa per la quale non
sono stato ubbidiente.
Poi partenza per palazzo arcivescovile. Avevo un biglietto indirizzato al vicario generale,
monsignor Rossi, amico di monsignor Maspoli di Lugano. Sono stato immediatamente
introdotto, ma ho subito commesso la sciocchezza di parlare della lettera di monsignor
Maglione di Berna che mi raccomandava direttamente al cardinale. Così, il fine, alto e snello
signore mi ha ascoltato solo da un orecchio e mi ha detto subito che allora dovevo
presentarmi a Sua Eminenza stessa all’indomani, essendo oggi il cardinale assente per degli
esami. Così ho dovuto prolungare le mie speranze di ventiquattro ore, ma le ho mantenute
valorosamente intatte, perché sono stato presentato anche al segretario e da questi ho avuto
l’appuntamento per le 10 della mattina dopo.
Poi sono andato da Salvioni1, ma anche lui era andato via, fortunatamente a Menaggio, dove
andrò a trovarlo prossimamente.
Ho potuto ancora sgattaiolare dentro il consolato svizzero proprio prima della chiusura, alle
12. Il signor Piccoli è stato molto gentile e ha mostrato comprensione e molto interesse per la
nostra impresa. Le fotografie lo hanno rallegrato. Mi ha invitato ad andare con lui
personalmente in prefettura, alle 4.
Successivamente è iniziata la ricerca di un albergo, dal momento che all’indomani dovevo
essere di nuovo qui. Ho avuto la fortuna di trovare subito nel secondo albergo una stanza che
costava meno di un biglietto di andata e ritorno a Como e addirittura senza cimici! Nel
pomeriggio ho avuto ancora il tempo di rintracciare rapidamente uno studente ticinese che
avevo conosciuto durante il mio servizio militare in Ticino, e di visitare alcune esposizioni
d’arte.
Alle 4 sono andato con il viceconsole dal prefetto, con una vettura di piazza. Ma Ponzio ci ha
mandati da Pilato: è cosa dei carabinieri, quindi della questura. Qui si tirò in lungo con molti
se e ma: è una questione diplomatica e deve andare a Roma. Alla fine, il questore ci promise
che avrebbe benignamente dato un’occhiata a una richiesta scritta. Speriamo che mi venga
spedita presto dal consolato. Dopo di che il viceconsole ha avuto anche la gentilezza di
equipaggiarmi con quattro lettere, in cui c’è una piccola raccomandazione a mio favore,
indirizzate alle prefetture delle province di Como, Sondrio, Bergamo e Brescia. Poiché per
fare fotografie sono ancora in vigore determinate prescrizioni di polizia, il viceconsole scriverà
anche un’istanza a Roma, affinché l’ufficio competente di laggiù mi permetta di fotografare.
Adesso, oltre alla lettera di raccomandazione del ministro, tutto questo non sarebbe più
necessario, ma il troppo non storpia.
A sera sono riuscito ancora a incontrare un amico di mio fratello, che mi ha invitato a cena,
ma in un quartiere periferico, dove dopo le 11 bisogna sparire dalle strade se non si vuole
essere alleggeriti da manigoldi armati.
1
Carlo Salvioni (Bellinzona 1858 – Milano 1920), dialettologo ticinese allievo di Ascoli, insegnò all’università di Pavia.
Sabato mattina, alle 10 in punto, varcavo la soglia del cardinale – senza presagire che l’avrei
ripassata solo verso le 2. Ora so che cosa significa fare anticamera, le ho studiate l’una dopo
l’altra le stanze, quella blu, bianca, rossa, d’oro. Splendide stanze, alte, fresche, tappezzerie
magnifiche, quadri ancora più belli e oggetti d’arte, tutto disposto in buon ordine con molto
gusto. E la gente: preti pingui, belle teste caratteristiche, fini e astute, dame quasi piangenti
per la disperazione e l’impazienza, bellimbusti giovani e sfacciati, uomini d’affari indaffarati:
tutto questo ho visto passare prima di me. Ma io avevo l’appuntamento alle 10: “oh! oggi è
proprio una giornata burrascosa!”. Il segretario attraversa al galoppo la lunga fila delle sale.
Movimento nella parte interna. Molti trillo [sic] si avvicinano. All’improvviso tutti si mettono in
ginocchio, quelli più davanti baciano la mano del cardinale benedicente e annuente: viola,
oro, una calottina splendente sui capelli bianchi; tutto intorno una schiera nera. E l’eretico va
goffamente indietro come un gambero, con le ginocchia rigide e faticosi inchini. Passato! Di
nuovo alcune ore. Visita del medico. Pranzo. Se ho già pranzato, mi domanda passando il
fine e alto vicario generale, e anche se ho voglia di continuare ad aspettare se dovesse
durare così fino alle 2, aggiunge con uno sguardo indagatore. Ma non mi sono lasciato tanto
facilmente stanare con il fumo dalla tana della volpe. (Fortunatamente non sapevo ancora
niente della raccomandazione di Roma). E dire che qui avevo appuntamento, ero quasi
atteso. Che sfacciataggine! Una lettera di monsignor Maglione?? Due segretari hanno scosso
il capo interrogativamente. Mai arrivata, non sappiamo niente di qualcosa del genere. Ma
devo ora tentare da solo. Devo attendere però! “È un disastro oggi! Tanta gente! ”. E ho
aspettato. Ecco verso l’una un cenno, finalmente. Saltello a passo di corsa. Sono in un
piccolo e sontuoso salotto; uno scintillio viola e oro, al centro, in una poltrona dorata con
braccioli, un vecchio signore curvo, con gli occhi grandi, marroni e severi. Il segretario spiega
in due parole e sparisce. Sua Eminenza legge il biglietto che Maspoli ha indirizzato a Rossi.
“Ma a chi parla? Per chi è questo?”, sussurra con tono lievemente accusatorio. Spiego, ma
della lettera scomparsa di Maglione non posso parlare, in tre parole dico l’essenziale. “Ma
questo è un affare molto grave”, continua a mormorare severo. Sua Eminenza si degna di
leggere la commendatizia della cancelleria vescovile di Lugano indirizzata al clero ticinese. La
lettera di Motta cade come pula leggera a lato. “Ma questo non mi tocca. È un affare del
vicario generale. Vada da lui.” Con nobile dignità e calma, senza emettere una sola parola ad
alta voce, volo fuori dall’uscio. L’operazione non è durata nemmeno due minuti. Nella fretta
del commiato, ho dimenticato perfino di baciare la mano destra, che mi era stata porta. föra
da bál! [così nel testo] Al vicario generale illustro, forse un po’ troppo a mio favore, la grande
grazia di cui ho goduto. Egli si degna subito di far copiare dal cancelliere la lettera di Maspoli
anche per la diocesi di Milano. Anche da lui la letteruccia di Motta cade in disgrazia. In una
parola: senza Lugano – Bertoni – Maspoli, a Milano non avrei ottenuto nulla. Già dopo una
buona mezz’ora sono riuscito ad avere la lettera di raccomandazione indirizzata al clero
milanese, sottoscritta dal vicario generale. Sì, e adesso, in conclusione, lo snello signore mi
concede perfino anche alcune parole gentili in libertà, e si compiace inoltre, interessato, di
parlare della nostra opera e di guardare le mie fotografie. E così, dopo lunghi giri e rigiri, sono
pur pervenuto a quel buon fine che, senza la raccomandazione di monsignor Maglione, avrei
potuto raggiungere direttamente, il giorno prima e in un quarto d’ora, tramite monsignor
Rossi.
Avevo dunque quello che mi serviva. Adesso, dopo aver tacitato la fame e la sete, si trattava
di superare l’ultimo martirio: il ritorno a casa con il treno delle 5. È partito alle 7. Come
centinaia di formiche s’attaccano a un povero verme, così il treno era stracolmo di persone.
Sui respingenti, sui predellini, appesi alle maniglie; alle porte aperte i passeggeri penzolavano
per metà all’esterno. In uno scompartimento per otto persone, insieme con circa altri venti
compagni di sventura, ho avuto la fortuna di conquistarmi uno spazio, sul quale, durante più
di tre ore, nell’enorme calura e tra torrenti di sudore, sono riuscito a reggermi diritto in piedi,
quasi senza poter fare un solo movimento. Alle 9½ è suonata finalmente l’ora della
liberazione.
Dunque, all’incirca: parturiunt montes, nascetur ridiculus mus.
Lunedì si va con l’autobus a Erba – Canzo.
Per favore, anche questa lettera giunga al signor prof. Jud. Vi saluta tutti cordialmente il
Vostro Paul Scheuermeier
Ecco qui le fotografie mancanti 149 e 157 per Voi due.
Le copie delle raccomandazioni seguono non appena ho tempo.