numero 24 anno VII – 24 giugno 2015
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www.arcipelagomilano.org numero 24 anno VII – 24 giugno 2015 edizione stampabile www.arcipelagomilano.org LESSICO ELETTORALE: MILANO TRA RUSPISTI E ASFALTISTI? Luca Beltrami Gadola Come diceva Thomas Gresham - “la moneta cattiva scaccia la buona” così possiamo noi dire per il linguaggio: quello cattivo scaccia quello buono. Due casi recenti ma uno alla volta per carità. Cominciamo da “ruspa”: il nuovo simbolo di Salvini e della Lega. La sua politica è quella della ruspa: si ruspano via campi dei Rom, gli immigrati, gli oppositori politici o l’intero governo. Linguaggio rozzo, populista, di chi non considera alcuna possibilità di confronto politico ma solo sgomberare brutalmente il campo dai diversi da te. Piace soprattutto ai talk show che oramai lo esibiscono quasi come un fenomeno da baraccone. Anche lui ha fatto però il suo piccolo errore per ignoranza (storica). Il simbolo della ruspa ricorda gli USA, la Caterpillar (che non è padana) ma soprattutto Robert Gilmour Le Tourneau, il suo inventore: uomo moderato, fondatore di una università, cristiano pio, filantropo, detto “uomo d’affari di Dio”. Tutt’altro tipo dal nostro. In ogni caso ormai la ruspa fa parte dell’iconografia classica della Lega al punto tale che a Pontida il leader maximo ha rilasciato interviste davanti a una di queste macchine. Veniamo al caso di “asfalto” e al suo verbo asfaltare. Temo proprio che questo sia un’adozione linguistica di sinistra, in particolare della sinistra renziana, quella anche lei “dura e pura” dei primi tempi. Brutta espressione che ricorda anch’essa la distruzione fisica, il ricoprire, lo schiacciare, il camminarci sopra, la voluttà di seppellire una volta per tutte il proprio avversario. Non è la gag dei cartoni animati alla Walt Disney, nessuno si deve rialzare ridotto a foglio di carta, deve solo scomparire. La rozzezza dl linguaggio non è solo forma ma anche sostanza? Probabilmente sì: questo è un dramma per una società che deve affrontare problemi complessi con una classe politica che cerca di conquistare consenso con messaggi semplici e non si fa un problema se confonde il semplice col rozzo. Sul palcoscenico delle prossime consultazioni elettorali risuonerà questo linguaggio? A Roma c’è cascato persino il discusso sindaco Marino che l’altro ieri, parlando della destra, ha risposto alla folla di sinistra che gridava (appunto) “asfaltali” dicendo “Li ricacceremo nelle fogne”. Se n’è poi pentito ma, come si dice, “voce dal sen fuggita …”. Milano non è Roma e quattro anni di Giuliano Pisapia, anche se non hanno soddisfatto tutte le attese, ci hanno però abituato a una compostezza della politica che ha costretto persino la destra più chiassosa ad abbassare i toni: speriamo che l’effetto “forza gentile” non se ne vada insieme al suo ideatore. Milano non è Roma: negli ultimi anni è molto cambiata e gli attori urbani sono altri, come dice Cristina Tajani su questo stesso numero di ArcipelagoMilano. Penso, spero, che questa “nuova gente” meno incollata al video dei talk show strillati, non incline alla sguaiatezza, non una maggioranza silenziosa ma una maggioranza pensante, possa fare le sue scelte ascoltando una classe politica meno intenta a guardarsi l’ombelico o a cullarsi nei mali della sinistra. Quanto a questo lo vedremo nei prossimi giorni perché stiamo aspettando quel che diranno sulle primarie e le relative regole, quel che diranno e faranno sul dopo Expo, quel che sapranno fare per fondare la Città Metropolitana. Tanto per cominciare. Dal modo di affrontare questi temi si capirà molto ma una cosa prima delle altre: se l’interesse per il bene comune prevarrà sull’interesse per la “bottega” o la “ditta”. E sul proprio. IL FUTURO DI MILANO: DOVE CERCARE LA NUOVA CLASSE DIRIGENTE Cristina Tajani Nel dibattito di avvicinamento alle elezioni amministrative 2016 c’è un argomento che viene curiosamente omesso, ma rischia di essere decisivo. Si tratta di una - seppur sommaria - analisi della composizione sociale di Milano, fotografata dopo sette anni di crisi economica. Accanto alla contabilità del "cosa si è fatto, cosa non si è fatto, cosa si potrebbe ancora fare”, nel nostro bilancio di fine mandato dovrebbe vivere una riflessione più originale e, a mio avviso, più utile: con chi e per chi abbiamo lavorato. Se riteniamo di aver coltivato ciò che la città del 2011 esprimeva in potenza, è il momento di riflettere sui protagonisti insieme con i quali, da qui al 2021, vogliamo definire i nuovi assetti della città. Ci ha offerto uno spunto Dario Di Vico, pochi giorni fa, dal suo osservatorio sul Corriere della Sera: insieme al tradizionale aggregato sociale composto di lavoratori del n.24 VII 17 giugno 2015 pubblico impiego, della scuola e dell'università - scrive - nella città in trasformazione è rilevante la spinta delle competenze, cosa diversa dalle tradizionali “professioni”. Un blocco sociale composito quanto rilevante, anche in termini di espressione del consenso, che vive la contraddizione tra detenere un alto capitale umano e percepire un basso reddito. La mia opinione è che le pratiche messe in campo in questi anni sia dall’amministrazione sia dal settore privato - microcredito, sharing, start up, coworking, nuove manifatture, nuove forme di distribuzione dei prodotti - abbiano dato voce a tali forze molto più di quanto il racconto della città e l’offerta politica abbiano registrato. Il divario è tra politiche che consistono nell'amministrare assecondando forze vive e spontanee - e politica, che dovrebbe intuire, di là dai singoli tasselli, il mosaico; per renderlo riconoscibile prima di tutto ai diretti interessati, chiamandoli al protagonismo. Si tratta di ceti sociali che vivono di lavoro, non di rendita. Con limitato potere d’acquisto ma crescente capitale simbolico, relazionale, culturale. Soggetti cui dovremmo rivolgerci in maniera privilegiata, anche per altre due ragioni. In primo luogo essi rappresentano uno dei motori propulsivi della "città che sale", che si contende competitività internazionale con altre grandi piattaforme urbane. In secondo luogo, sono ceti quantitativamente crescenti e pongono un tema tipicamente politico, quello delle alleanze sociali prima ancora di quelle politiche. Dovremmo proporre loro delle alleanze progressive e mutuamente vantaggiose con quella parte del mondo del lavoro e del sociale che hanno resistito trasformandosi nel mezzo della crisi, facendosi ponte tra due vocazioni storiche di Milano: innovazione e inclusione. Intorno a 2 www.arcipelagomilano.org queste alleanze sociali, poi, affinare il progetto politico amministrativo. Dalle analisi compiute dal 2008 al 2013, emerge infatti che mezzo milione di nostri concittadini vive di redditi da lavoro dipendente o "assimilati", dove gli assimilati sono sempre più numerosi e vari: 300.000 pensionati, quasi 50.000 lavoratori autonomi. La crisi ha fatto aumentare la consistenza delle due classi di reddito estreme: quella degli incapienti è passata da circa 3.000 individui a circa 4.000; quella dei redditi superiori ai 120mila euro è passata da oltre 26.000 individui a oltre 27.000. In generale si sono assottigliate le classi centrali - tra i 10.000 e i 26.000 euro - e sono aumentati gli individui che percepiscono dai 26.000 euro in su. La lettura materiale della città è un tema rilevante che ci restituisce un’immagine della città più complessa e meno standardizzata rispetto al passato. È con questa complessità che, ben oltre le stagioni elettorali, bisogna misurare un progetto di governo, ma anche immaginare di far emergere nuove classi dirigenti cittadine. Non mi riferisco (solo) a quelle che amministrano il Comune ma, più ambiziosamente, a quelle che fanno camminare la città: si posizionino esse nelle imprese, negli enti intermedi o ... dove non siamo abituati a cercarle, in ogni caso ben lontano dai salotti. Scopriremo - mi piace pensare di aver cominciato a farlo - che molti di loro portano sulle spalle già oggi, non in un prossimo e indefinito futuro, responsabilità importanti. Il deficit nella proposta politica per Milano 2016 premierà chi saprà colmarlo insieme ai protagonisti, non accanto né al posto loro. Rendere evidenti nella società il sistema delle alleanze maggiormente progressivo e vantaggioso riduce la discrezionalità nella definizione del progetto politico-amministrativo e gli restituisce efficacia. Si tratta di passare dal tema dell’ascolto e della partecipazione a quello del protagonismo per nuovi attori e nuove alleanze, non politiche ma prioritariamente sociali. RIAPRIRE I NAVIGLI: VECCHIAIA SAGGIA O RIMBAMBITA? Giorgio Goggi Quand’ero giovane pensavo che fosse inutile riaprire i Navigli perché il paesaggio che li circondava, quando erano aperti, ora non c’è più. Oggi che sono vecchio, e ho visto la città trasformarsi continuamente, la penso diversamente: è utile riaprire i Navigli perché intorno a essi si formi nuovo e migliore paesaggio per la Milano di domani. Lascio ai lettori decidere se questa mia è la vecchiaia che rende saggi o quella che rende rimbambiti. Dalle righe dell’editoriale della settimana scorsa mi sembra traspaia il concetto pessimistico di una città statica, in gran parte irreparabilmente rovinata, che è possibile solo “rammendare”. Ove ogni volontà di cambiare il paesaggio diventa un guardare indietro e dove ai guasti del “tardo modernismo/futurista” non si può più porre rimedio. Madrid ha riaperto il Manzanarre e Tokio sta riaprendo i suoi canali, ma a noi non importa come va il mondo. Saranno anche quelli casi di senilità o di vista lunga? È la stessa concezione che sta negando a Milano gli strumenti per evolversi nel futuro come grande area urbana moderna e sostenibile (espungendo dal PUMS rami di metropolitana già incardinati al CIPE, confinando nel dimenticatoio il secondo passante, spendendo retorica per una Darsena “restituita” alla città senza l’accessibilità consentita dai parcheggi e istituzionalizzando di fatto lo scandalo della sosta serale e notturna irregolare). Ma la città è un organismo in continuo mutamento: va progettata - con la necessaria visione - trasformata e ri- n. 23 VII - 17 giugno 2015 costruita incessantemente, se la si vuol mantenere viva. È questo l’unico modo per “preservarla”. Veniamo alla democrazia: la si misura sul fatto che interventi di miglioramento si facciano in centro piuttosto che altrove, o sul fatto che la più grande quantità di cittadini di ogni classe possa godere anche del centro? È più democratico enfatizzare le biciclette, che interessano tanto chi sta in centro (tagliando fuori i cittadini della città metropolitana che non pendolano a distanza ciclabile - si sa che oggi sono i meno abbienti che vanno in auto) o organizzare ferrovie e metropolitane in modo che da tutta la Lombardia si abbia facile ed economico accesso al centro di Milano? Eliminare la funzione di circonvallazione della cerchia dei Navigli (un’inaccettabile situazione antistorica che porta il suo carico di congestione nell’area più delicata di Milano) vuol dire aumentare l’accessibilità con i mezzi pubblici, ferrovie e metropolitane (la M4 ha anche questa precisa funzione: scambia con il Passante e distribuisce lungo i Navigli), a piedi e in bicicletta, per una massa di cittadini ben più grande e non necessariamente abbiente come chi risiede in Milano. Inoltre, questo conferirà al centro di Milano una qualità ambientale nuova, degna del suo livello artistico e culturale, anche se l’edificato intorno ai canali non cambierà a breve termine. Tuttavia, pensare alla riapertura della fossa interna come a un intervento o a un problema esclusivamente “milanese” è un errore in cui non dobbiamo cadere. La rete canalizia della Lombardia è lunga 150 chilometri. Con la riapertura della fossa interna tor-nerebbe a essere di nuovo tutta connessa e percorribile (con minori aggiustamenti in alcuni punti ove la navigazione è impedita - come certi ponti a raso - e con gl’interventi più importanti già previsti dalla Regio-ne). Non lo sarebbe certo per il trasporto merci, come un tempo, ma per la navigazione da diporto e per l’uso turistico delle alzaie, certamente. La Darsena tornerebbe ad essere il vero porto di Milano e non solo un bacino ornamentale. Tutto questo produce reddito e occupazione, che va ad aggiungersi a quello calcolato dagli economisti che hanno lavorato per lo studio di fattibilità del Politecnico (coordinati dai professori Boscacci e Camagni), ovvero che la riapertura della fossa interna restituirà alla città, in termini di redditi, più del doppio del costo delle opere. Ricordiamoci che la più frequentata pista ciclabile d’Europa, che attira migliaia di turisti, è quella che corre lungo il Danubio in Austria. Soprattutto, cambierà l’immagine di Milano nel mondo: tutti noi sappiamo che oggi la competizione internazionale si fa tra grandi città e che la qualità ambientale è uno dei fattori chiave per competere. Su una cosa sono d’accordo: oggi sono assolutamente contrario ad un altro referendum, perché i grandi mutamenti nella città devono maturare conquistando il consenso dei più nel dibattito, e in questo l’editoriale di ArcipelagoMilano ci aiuta. Non escludo che, in futuro, se ne possa indire un altro, ma solo dopo 3 www.arcipelagomilano.org che tutti siano stati ampiamente informati e se ne siano dibattuti tutti gli aspetti. LE CONSEGUENZE DELLA PARTECIPAZIONE Patrizia Ciardiello Una pur superficiale indagine sulle parole maggiormente ricorrenti nel lessico dei politici (siano essi impegnati nell'arena nazionale o in quelle locali) come in quello degli analisti e dei commentatori d'occasione rivela che «partecipazione» si colloca tendenzialmente fra quelle che, prima o poi, vengono utilizzate per connotare (o criticare) un corso d'azione orientato (o non sufficientemente) a definire uno o più processi decisionali correlati all'avanzamento della qualità del discorso pubblico e della democrazia. Primarie per la scelta dei candidati alle elezioni politiche o amministrative, cantieri, fabbriche, officine, comitati, stati generali sono andati nel tempo configurandosi come strumenti per sollecitare il coinvolgimento dei cittadini in processi che, di frequente, vengono presentati come vettori di un cambiamento sempre vagheggiato e ormai prossimo che non può rinunciare al loro protagonismo in qualità di cocostruttori. A titolo di esemplificazione (in quanto numerosi potrebbero essere i riferimenti anche risalenti nel tempo) e solo per ragioni di stretta contiguità con l’attualità, pochi hanno notato (o scelto di non enfatizzare) che le contingenti turbolenze generate dall’annuncio del governo di voler procedere in tempi rapidi alla riforma della scuola sono state precedute da quella che, nel sito istituzionale, viene definita «Una grande campagna d’ascolto, in cui coinvolgere tutti, per disegnare la scuola che verrà» e nelle slides che ne sintetizzano gli esiti «la più grande consultazione d’Europa». E a supporto dell’affermazione di tale primato vengono elencate con dovizia di particolari le cifre, una imponente mole di dati categorizzati attraverso il ricorso alla linguistica computazionale, che ha consentito «di sapere cosa [i cittadini] hanno discusso» e di conseguire «un ottimo arricchimento della proposta». Certo, nel «patto di partecipazione» era precisato «La consultazione pubblica... non è un referendum o uno degli strumenti di iniziativa popolari a cui il nostro ordinamento attribuisce un valore vincolante». Come sarebbero stati utilizzati i contributi dei cittadini è spiegato nel periodo successivo: «... i suoi risultati n. 23 VII - 17 giugno 2015 integreranno, all’interno di un quadro di lavoro i cui cardini sono chiari... ad esempio attraverso azioni progettuali, linee guida, protocolli d’intesa, bandi e altri strumenti». Una domanda, tra le tante, si impone: come mai l’esito della consultazione più grande d’Europa è stata accolta da così ampie e generalizzate critiche, unendo studiosi (Tullio De Mauro in primis) e addetti a vario titolo ai lavori? Si è andati da chi ha scelto di non partecipare alla consultazione «perché riteniamo che il modello di scuola proposto come «la buona scuola» non sia emendabile o oggetto di una discussione in quanto del tutto estraneo a qualsiasi idea di una scuola democratica, pubblica, laica, inclusiva, come prevista dalla Costituzione» a chi, sintetizzando le ragioni di chi è sceso in piazza o semplicemente commentato il progetto, reputa che la Buona Scuola sia soltanto il prodotto di un «marketing narrativo che accompagna un progetto di modernizzazione della scuola, sentito come una privatizzazione diretta dall’alto e senza autentico ascolto per chi vive e lavora nel mondo della scuola». Passando dalla scala nazionale a quella locale, e, nella fattispecie, milanese, accenti non dissimili è possibile rinvenire in molti testi che affrontano il rapporto fra il promesso cambiamento dell’approccio alla amministrazione e partecipazione dei cittadini. Nel testo che sintetizza «cosa è andato bene e cosa no in questi quattro anni di mandato» nell’ambito dell’iniziativa dei ComitatixMilano in vista delle elezioni amministrative del 2016 (#allamiacittànonrinuncio) fra gli aspetti definiti come negativi c’è il non essere andati oltre l’ascolto («il livello 0 della partecipazione») che «non ha inciso sul processo decisionale: la giunta decideva, a volte comunicava le decisioni prese, a volte neppure comunicava (es. ciclabile di viale Tunisia...; quartiere Rizzoli....)». E, risalendo nel tempo (2012-2013), il Gruppo interzonale sulla partecipazione degli stessi ComitatixMilano affermava «C’è una crisi di fiducia fondamentalmente basata sul fatto che non c’è partecipazione e non si sanno le cose». Ancora, nel documento che sintetizzava gli esiti della prima «Due giorni per Milano. Riflessione e confronto per una città partecipata» (2011) si può leggere: «Milano nel 2016 sarà una città partecipata se i cittadini avranno avuto ambiti per incontrarsi e confrontarsi su problemi specifici della comunità cittadina tra loro e con la pubblica amministrazione (processi di partecipazione alle scelte)». Arrivando alle conclusioni di questo contributo (e in continuità con quello ospitato da questa rivista nel 2014), le vicende nazionali e quelle meneghine (nonché l’intensificarsi dell’astensione dal voto registrato al termine della recente tornata elettorale) impongono una riflessione non estemporanea su quelle che, parafrasando il titolo di un celebre film di Sorrentino, definiamo come le conseguenze della partecipazione che si instaura in condizioni di squilibrio fra governo e cittadini con evidente supremazia del primo sui secondi. Per riferirsi a tale partecipazione Gangemi (2009), impiegando un’espressione coniata da Arnstein, parla di tokenism, «termine con cui si intende la pratica di produrre i vari tipi di moneta che non hanno in sé valore – i soldi del monopoli, i gettoni per i giochi d’azzardo come il poker, etc. – ma hanno valore solo nel contesto in cui sono usati …». Lo stesso autore, per esemplificare icasticamente la sfiducia nei confronti dei politici che, negli anni ’60, invitavano alla partecipazione «e, spesso, finivano per manipolare ad altri scopi le motivazioni ideali di chi partecipava», trascrive il manifesto divenuto popolare in tutto il mondo dopo il maggio francese del 1968: «Je participe, tu participe, il participe, nous participons, vous participez, ils profitent» (ibidem). Superare il tokenism e impegnarsi nella costruzione di nuovi equilibri tra partecipazione e rappresentanza costituisce la nuova frontiera della democrazia. Tale impegno deve configurarsi come elemento strategico quanto ordinario di un fare politica promosso e sostenuto dalle istituzioni. A condizione che delle voci dei partecipanti al dialogo si faccia un uso competente quanto scientificamente adeguato all’oggetto dei processi partecipativi sfociando nella generazione di regole discendenti 4 www.arcipelagomilano.org non dall’aggregazione delle preferenze, ma dalla loro trasformazione attraverso il dialogo stesso. L’alternativa potrebbe diventare la speculare impotenza dei cittadini e dei governi magistralmente descritta da Saramago nel “Saggio sulla lucidità”. CERCHIA DEI NAVIGLI, PIANI E PROGETTI Fabrizio Bottini A Milano forse il nome dell’ingegner Fasana non dice gran che, anche se lega il suo nome a quello che si può considerare il piano urbanistico di svolta nella vita della città, all’alba del suo grande balzo verso la definitiva modernizzazione ottocentesca. Era il 1876, l’anno della battaglia del Generale Custer contro i Sioux a Little Big Horn per intenderci, e al di qua dell’oceano l’amministrazione della città provava a interpretare in modo avanzato quelle parti della legge post-unitaria italiana sull’esproprio dedicata al Piano Regolatore Edilizio. Su una carta tracciata appunto dall’ingegner Fasana, si riportano tutti i grandi progetti di trasformazione urbana, tentandone una mosaicatura, un coordinamento, una specie di valutazione comparativa che vada oltre la pura somma aritmetica. Si è intuito insomma che procedere per progetti, subirne le ripercussioni e gli effetti, e poi progettare altre soluzioni parziali non giova a nessuno: né alla pubblica amministrazione, né agli operatori socioeconomici, né alla qualità della vita dei cittadini. Da quel primo tentativo ancora assai perfettibile, di puro accostamento per quanto critico di progetti, nascerà poi, di lì a poco e anche a seguito di eventi traumatici come il colera a Napoli e la relativa nuova legge urbanisticosanitaria, il più celebre piano edilizio e di ampliamento redatto da Cesare Beruto. Inutile ricordare che, come ci ricorda anche il bel volume della Milano Tecnica dal 1859 al 1884 i tavoli degli ingegneri già all’epoca sfornavano una enorme mole di progetti avveniristici, degni di un libro di Giulio Verne, da quelli realizzati come il moderno carcere cellulare secondo i principi panottici di Jeremy Bentham a San Vittore, a quelli immaginati come le infinite idee di riuso dei tracciati dei Navigli, magari come percorsi ipotetici per una versione locale in sedicesimo della London Underground, ampiamente citata anche da Cesare Beruto nel suo piano generale. Acquisito a quanto pareva in modo definitivo il concetto che non convenisse a nessuno procedere per singoli progetti, ma inserirli via via dentro una strategia, dentro una n. 23 VII - 17 giugno 2015 «idea di città» diremmo noi, arriviamo al periodo cruciale in cui almeno una delle tante grandiose pensate degli ingegneri di Milano Tecnica inizia a prendere forma: gli anni ’20 del XX secolo, in cui parte la trasformazione della Cerchia dei Navigli in un anello stradale. Al pari delle mura, le acque sono viste dagli efficientisti urbani come un ostacolo al libero sviluppo dell’edilizia e della mobilità, oltre che portatrici di zanzare e peggio, chiamano spesso quei canali e ponticelli «un cappio al collo di Milano»: discutibile ma efficace, come immagine. Però qui è sottolineare il metodo che interessa, il progetto tecnico si inserisce a pieno titolo e coerenza dentro una idea di città di lungo periodo, che per riassumere abbastanza rozzamente potremmo chiamare la «manhattanizzazione automobilistica in sedicesimo» del centro di Milano, quella city terziaria vagamente intravista nelle prospettive di Piero Portaluppi e del suo piano Ciò per Amor vincitore del concorso nel 1927, e poi ampiamente confermata dal piano Albertini, che nelle intenzioni (ribadite all’infinito in una miriade di articoli) si sostanzia come una sorta di Greater Milan Plan 1930. I cui capisaldi sono (al pari del più noto progetto di Abercrombie per Londra) un decentramento della popolazione e delle attività produttive in poli satellite e quartieri giardino, regolati da un piano metropolitano/regionale, alimentati da un sistema stradale e di trasporto collettivo adeguato, e il mantenimento nella city, consegnata alla logica automobilistica anche se non ancora di massa, delle funzioni residenziali di lusso e soprattutto degli uffici direzionali. E va detto che quello schema, spesso contestato sin da suo apparire solo in dettagli estetizzanti o aspetti specifici, non ha mai avuto sostanziali smentite sino ai nostri giorni, in cui uno solo forse dei componenti sembra perdere peso relativo (e solo per quanto riguarda la cerchia centrale), ovvero l’assoluta centralità dell’auto anche nel determinare le forme urbane. Assoluta e indiscutibile centralità forse vagamente incrinata, certo, dalle questioni ambientali, di abitabilità, dai nuovi modelli di mobilità dolce e condivisa. Ma non certo degli effetti sedimentati, dentro l’area interessata dalla tombatura dei Navigli e fuori, di quell’antica «idea di città e di territorio». Nei tanti articoli più o meno divulgativi o «politici» con cui lo stesso Cesare Albertini dalle pagine di vari giornali e riviste sosteneva la strategia territoriale del Comune di Milano, nonché la necessità di dotarsi al più presto di autorità metropolitane e/o regionali sui modelli internazionali, era chiarissima questa idea, se vogliamo abbastanza schematica, di concentrazione del potere e dei valori immobiliari nella city, e di decentramento della residenza, dell’amministrazione, della produzione industriale e agricola, sul territorio metropolitano. E la domanda, puramente di metodo si badi, oggi potrebbe suonare più o meno: è possibile, pur con tutte le contestualizzazioni del caso, rimettere in discussione, in pratica sabotare, questa idea di città-territorio, di gerarchia dei valori, semplicemente facendo saltare il tappo (o meglio inserendone uno), attraverso una operazione abbastanza puntuale sull’ex «cappio al collo della città»? Cosa accadrebbe in tempi piuttosto rapidi, ad esempio, in termini di gentrification e/o sostituzione funzionale, o puri sconvolgimenti di valori immobiliari? Certi quadretti pittoreschi di pur assai auspicabili spazi pubblici centrali, certamente evocano in qualche modo quelli analoghi di altre città storiche italiane. Ma insieme evocano - inevitabilmente, per pura analogia - cose come lo spopolamento di Venezia, quel problema gigantesco di interi tessuti urbani di fatto convertiti in parco a tema per il turismo mordi e fuggi, a cui al massimo si auspica di sostituire, nel migliore degli scenari, un turismo d’élite d’altri tempi. Per non perdersi troppo in esempi e supposizioni, basterebbe, restando a Milano, ripensare agli effetti indesiderati e non considerati del recentissimo schema Vie d’Acqua, che al netto di tutto ciò che se ne può dire sul versante giudiziario o di qualità specifica del progetto, nasceva da una medesima concezione induttiva dell’idea di città, dal particolare all’universale. Oggi, come in prospettiva all’epoca della tombatura 5 www.arcipelagomilano.org dei Navigli, esiste una dimensione anche istituzionale metropolitana, non sarebbe il caso, forse, di partire da quella scala per riflettere su cose che proprio alla medesima scala, manifestano poi i propri effetti? Tutto qui. QUALE EDUCAZIONE ANTIMAFIA? Giuseppe Teri* Qualsiasi discorso sull’educazione antimafia deve confrontarsi oggi con due questioni fondamentali, il contesto sociale e istituzionale e il ruolo e la tendenziale crisi della scuola come luogo di apprendimento. Gli insegnanti sanno benissimo che oggi mantenere un livello di qualità dell’insegnamento si scontra da un lato con un crescente disciplinamento burocratico della struttura e dall’altro con un vissuto di separazione dei ragazzi dal tempo della scuola, che non è visto più come collegabile alle altre parti della loro vita; ciò che avviene a scuola non è, infatti, molto spesso, percepito come un’esperienza di senso e della quale a torto sfugge l’interesse e il valore. Nell’immaginario dei ragazzi il tempo della vita è quello senza futuro del sabato sera e dell’evasione dai tempi “costretti” dai doveri, inoltre per un numero crescente di genitori la formazione è subordinata a regole adatte più che altro all’affermazione dei figli e a far loro raggiungere con meno fatica possibile traguardi e successi. Gli insegnanti hanno la sensazione che, se non usano l’arma del registro, rischiano di trovarsi di fronte a disinteresse e “teste vuote” con cui è difficile praticare una educazione creativa. In realtà, come ci suggerisce Massimo Recalcati nel suo ultimo libro “Un’ora di lezione”, ciò che sembra appartenere ai “vuoti “della mente sono invece tensioni e conflitti non risolti, insicurezze e fragilità miste a superficiali deliri di onnipotenza, stereotipi e appiattimenti passivi al sistema di informazione web; il silenzio e l’indifferenza apparente dei ragazzi è frutto di contenuti non “pensati” e “ricevuti”, come ad esempio l’idea che “non si possa far niente per cambiare”, “la svalorizzazione dell’opinone pubblica”, “l’inutilità della parola e dell’interessarsi, perché tanto non contiamo niente” e altre convinzioni radicatissime come “l’utilità del farsi gli affari propri”, la persecuzione del proprio interesse a ogni costo, la scorciatoia per faticare di meno, … . n. 23 VII - 17 giugno 2015 Riguardo al contesto culturale e sociale con il quale ci confrontiamo nel definire il ruolo dell’educazione antimafia c’è da ricordare la sostanziale rimozione culturale dalla “grande Storia e dalla grande Letteratura” delle origini delle mafie e del suo indissolubile legame con il sistema della corruzione. Sottovalutando il fenomeno, le aziende del nord per decenni non hanno esitato a fare affari e prendere appalti al sud. Grazie a queste disattenzioni costruite ad arte, le mafie hanno potuto estendersi e radicarsi in tutta Italia e nel nord Italia. Nella seconda repubblica, in particolare, si è fatta strada una nuova schiera di politici, animati da uno spirito predatorio e cinico, il cui scopo fondamentale è quello di impossessarsi di risorse pubbliche per ridurle a interessi e speculazioni private. Si tratta di colletti bianchi che fin dall’inizio si associano per conquistare il seggio politico, il controllo di un assessorato o di un ufficio tecnico. La Lombardia è la regione che è al quarto posto per gli immobili e al terzo posto per le aziende confiscate alla mafia. Si tratta di un processo di vera e propria colonizzazione che non punta solo a guadagni facili e illeciti, ma anche a “clonare” i contesti ambientali tramite l’illegalità diffusa, la corruzione, le relazioni e i legami di interessi che sostituiscono le regole dello stato. La vera forza delle mafie è questa capacità di relazioni esterne, quella che chiamiamo “zona grigia”. Ciò richiama l’importanza e il senso generale del nostro educare. La riflessione che l’associazione Libera a livello nazionale, la Scuola di formazione politica Antonino Caponnetto e il Coordinamento delle scuole milanesi per la legalità e la cittadinanza attiva a Milano stanno conducendo porta a precise indicazioni e pratiche future che qui vorrei indicare brevemente, riservandomi di riprendere il discorso in ulteriori occasioni: - l’educazione antimafia e contro la corruzione deve rifiutare di essere collocata nelle “educazioni” extra- curriculari affidate ai buoni propositi di insegnanti che “fanno strappi ai programmi”; essa deve collocarsi formalmente e ufficialmente nei contenuti obbligatori dei programmi e rappresentare l’orizzonte formativo e deontologico degli insegnamenti e delle professioni; - i valori e i principi della Costituzione devono essere la guida per un’attenzione e un’informazione che colloca il suo nucleo fondamentale nella partecipazione attiva, nella trasparenza di istituzioni che operino per il bene comune e la giustizia sociale; - il contesto della scuola deve diventare il luogo dove si educa a praticare la cittadinanza, nel conflitto, nella condivisione, nella gestione della relazione educativa e istituzionale; - l’educazione alle regole è educazione in primo luogo a scegliere e prendere parte, a assumersi la responsabilità di condividere percorsi di cittadinanza; di questa educazione fa parte l’alto valore dell’eguaglianza di fronte alla legge al di sopra di tutti i particolarismi e l’invito alla disobbedienza di Don Milani. In questa direzione l’educazione antimafia può sviluppare a pieno il suo storico contributo a una scuola del tempo del pensare e della qualità, attraverso: - la pregnanza del valore delle testimonianze e la contemporaneità degli avvenimenti che propone; - la centralità del raccontare e del promuovere la sollecitazione a diventare tutti narratori; - il ridare senso e significato a una “parola” che deve portare a pensare e agire consapevolmente; - l’attenzione a un sapere significativo, profondo che crea interrogativi e ricerca didattica e che costruisce soggettività e superamento di ciò che Kant chiamava superamento dello stato di minorità dell’uomo. *Coordinamento delle scuole milanesi per la legalità e la cittadinanza attiva Libera formazione 6 www.arcipelagomilano.org ROM CASE POPOLARI LA CLASSIFICA DEGLI ESCLUSI Fabrizio Patti «Vogliamo una casa pulita, che non sia connotata come rom, dove possiamo vivere una vita normale». Se le cose fossero semplici, basterebbe seguire la richiesta che arrivava, dopo un sgombero di un campo rom di Milano, da parte di un giovane manutentore di ascensori. Il caso viene citato nella Casa della Cultura di Milano, da parte dell’architetto Jacopo Muzio. Si parla del tema che sta riempiendo le pagine di giornali, senza che nessuno voglia seriamente approfondire la questione. All’incontro partecipano tre architetti, un sociologo, due rappresentanti di associazioni che lavorano nell’assistenza ai rom e una decina di rom del campo di Chiesa Rossa, nella parte sud di Milano. «La qualità ambientale aiuta l’integrazione – continua da dietro il palco dei relatori Muzio, l’architetto, che collabora con la Facoltà di architettura del Politecnico di Milano -. Bisogna stare dalla parte di quel ragazzo. La Francia ha costruito case popolari, evitando di fare ghetti. Questa è l’unica proposta possibile di integrazione per le minoranze: costruire case popolari per tutti. Il tema, per i rom, è favorire la permanenza nello spazio interno, piuttosto che di una dimensione effimera». Purtroppo le cose non sono così semplici. Al termine di tre ore di discussione molto franca alla Casa della Cultura, si esce con una sola certezza, su cui tutti sono d’accordo: la necessità di chiudere i campi più disastrati, dove trionfa l’illegalità e non ci può essere alcuna prospettiva di miglioramento. Al di là di questo punto fermo, ce ne sono ben pochi. Le stesse parole hanno significati doppi. “Sicurezza” è una di quelle più citate, ma per indicare la richiesta da parte dei rom che tutto quello che hanno non venga distrutto. “Relazioni familiari” o “emancipazione”, “integrazione” o “identità” sono altre parole che sottendono concezioni del presente e del futuro non conciliabili alla leggera. Soprattutto, per scendere nel concreto, la composizione dell’universo “rom” è talmente varia per provenienza, religione, percorsi più o meno avviati, che mettere tutto insieme non serve. Così come non serve negare i problemi, a partire da quelli legati alla criminalità, e avere atteggiamenti paternalistici. «Finché mettete tutto insieme questa discussione è inutile», è stata una delle prime parole di uno dei ragazzi rom intervenuti. Quello che si ricava, a mezzanotte passata, è che per trovare delle soluzioni bisogna fare qualcosa che viene rifiutato sempre più categoricamente dalla stampa e dalla politica: accettare la complessità del tema e proporre soluzioni diverse per situazioni diverse. E soprattutto, via ancora meno popolare: non avere fretta, perché non è un problema risolvibile nei tempi stretti su cui ragionano i politici in cerca di rielezione. Per rendersene conto basta sentire le parole del professor Antonio Tosi, professore di sociologia urbana e di politiche della casa nella facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, che da decenni si occupa della questione rom. «Non avrei mai pensato, 20 anni fa, di difendere i campi rom. Ma il momento è così teso che dobbiamo ripensare il dibattito. Dire “no campi, sì case” si scontra con alcune realtà, la prima delle quali è che le persone soggette a sgomberi sono molte di più di quelle a cui viene offerta una casa». Il punto è però soprattutto un altro. «L’insediamento abitativo è difficile, per varie ragioni – spiega Tosi -. La prima è che ci sono situazioni fragili, precarie, che sono maggioritarie. Se faccio un insediamento abitativo con persone che una volta avuta una casa non hanno altri problemi è un conto. Se invece ci sono situazioni di precarietà è molto più difficile. È una fragilità che si protrae dopo che l’inserimento abitativo è avvenuto». Non è un caso che i programmi di assegnazione delle case popolari diano priorità a chi ha già più stabilità, in genere perché ha un lavoro. Inoltre si chiede il rispetto delle regole delle case, che sono diverse da quelle dei campi rom. «L’insieme di questi due requisiti ha una conseguenza - continua Tosi -: le condizioni di maggiore disagio tendono a essere escluse. Che delle persone siano escluse da un programma ci può stare. Ma se “tutti” i programmi li escludono si pone una questione: che cosa ne facciamo di questi? Essendo un programma che si basa sulla sicurezza e contro la criminalità, questo meccanismo lascia fuori i più “pericolosi”». Anche inserire tutti i rom in case popolari non è la soluzione e per spiegarlo il professore cita il caso di Torino. Dopo uno sgombero tutta la popolazione di un campo fu inserita in case popolari. «Il risultato è stato che ... per continuare a leggere su LINKIESTA clicca qui ADOLESCENTI: RACCOGLIAMO LA SFIDA DEL LORO COCCIUTO OTTIMISMO Maurtizio Tucci* Oggi a Milano (Palazzo Marino, Sala Alessi ore 17,00), nell'ambito del convegno "La professione delle donne, immaginata e reale:un confronto intergenerazionale", organizzato da MOPI Italia, saranno presentati i primi risultati dell'indagine "Generi a confronto nell'oggi sociale" - realizzata dalla associazione Laboratorio Adolescenza e dalla Società Italiana di Medicina dell'Adolescenza su un campione di 800 studenti frequentanti il triennio di licei e istituti tecnici cittadini. In particolare una sezione dell'indagine - realizzata in collaborazione n. 23 VII - 17 giugno 2015 con MOPI Italia - ha riguardato due importanti scenari quali la famiglia e il lavoro e ha fatto emergere risultati che offrono interessanti spunti di riflessione. Riferendoci inizialmente alle risposte del solo campione femminile, troviamo un progetto di famiglia che nel 74% dei casi prevede certamente un figlio (che nel 50% dei casi le ragazze contano di avere tra i 25 e i 30 anni), la cui nascita nel 57% dei casi le porterà, secondo i loro progetti, a ridurre il lavoro, chiedere il part-time o, se le condizioni economiche familiari lo consentiranno, a lasciarlo del tutto. Naturalmente il ménage familiare secondo il 45% delle intervistate sarà equamente gestito con il partner mentre, se proprio uno sbilanciamento dovrà esserci, sarà del tutto svincolato dall'appartenenza di genere, ma regolato - secondo il 42,8% - dall'aurea regola del "fa di più chi ha più tempo". Il restante 12% divide le risposte equamente tra chi pensa che sarà comunque prevalentemente in capo alla donna e chi pensa che sarà in gran parte gestito da nonni, colf e baby sitter. E per quanto riguarda il lavoro, se da un lato le ragazze intervistate 7 www.arcipelagomilano.org affermano in larga maggioranza (76,7%) che in Italia la parità di trattamento e opportunità tra uomini e donne sia molto più formale che sostanziale - pensando al loro futuro contano di avere un lavoro che soddisfi essenzialmente le proprie passioni e i propri interessi (54,6%), e che le porti a viaggiare e conoscere gente (14%). Solo residuale la percentuale di chi considera elemento essenziale per il lavoro un buona retribuzione (11,8%) o la sicurezza di non perderlo (7,3%). Per una brillante carriera - il cui apice lo prevedono tra i 30 e i 35 (in perfetto accordo temporale con la gravidanza).- sarebbero disposte a cambiare lavoro (72%), o a trasferirsi anche all'estero (85,2%). Il 90% non crede che il lavoro sia più importante per un uomo che per una donna e circa la metà preferirebbe lavorare "in proprio". Tutto ciò continuando ad affermare nettamente (93%) che viene sempre prima la famiglia e poi il lavoro e che il "successo" nella vita non è determinato da potere, ricchezza e carriera, ma è essenzialmente identificato dal riuscire a trovare un buon equilibrio tra vita professionale e vita personale (76%). In definitiva una visione prospettica straordinariamente ottimistica e "politicamente corretta" che - presa a sé stante - farebbe completamente ricredere sulla tanto discussa sfiducia nel futuro da parte degli adolescenti di oggi. E anche il campione maschile (che in alcune risposte dimostra comunque una maggiore realpolitik) non si discosta significativamente da questo quadro idilliaco di parità di genere sia a casa (il 42% vede i lavori domestici equamente divisi col partner e il 40% in carico a chi ha più tempo a disposizione) che sul lavoro (il 78% NON ritiene che la carriera lavorativa sia più importante per un uomo che per una donna e anche i maschi pensano, in prevalenza, che il lavoro debba soddisfare essenzialmente i propri interessi - 48% - piuttosto che garantire buona retribuzione - 20% - e sicurezza - 6%). E ancora, futuri padri amorevoli, pensano in significativa percentuale (45,8%) che la nascita di un figlio li indurrà a ridurre più o meno significativamente il proprio impegno lavorativo per essere più vicini al bebè. Quando a una bambina o a un bambino di 3 o 4 anni si chiede "cosa vuoi fare da grande?" non ci stupisce se ci rispondono la regina o il re. Già ci preoccupa un po' di più in termini di senso della realtà - se a 14 anni (come registriamo nelle nostre indagini annuali nelle scuole medie) oltre il 20% dei maschi conta di diventare un campione sportivo e oltre il 15% delle femmine una modella o, in subordinata, una stilista. Mi sono chiesto, leggendo i risultati dell'indagine, cosa sia ragionevole pensare di questi tardo-adolescenti così fiduciosi. Ai quali - per raggiungere gli obiettivi che si prefiggono toccherebbe operare in pochissimi anni una vera e propria rivoluzione culturale (e forse non solo) mettendo effettivamente in pratica ciò che noi vanamente teorizziamo da anni. In pochissimi anni, perché nelle famiglie di provenienza del campione di studenti intervistati le cose vanno ancora in modo molto diverso, con le incombenze domestiche, ad esempio, essenzialmente a carico della madre (65%) e la equa suddivisione ridotta al 10%. E le giovani professioniste, intervistate nell'ambito di una indagine parallela condotta dal MOPI, descrivono una realtà lavorativa molto più discriminante dal punto di vista sessista (posizioni dirigenziali 70% uomini 30% donne; apice della carriera ipotizzato o raggiunto tra i 35 e i 55 anni) e una conciliazione fra famiglia, maternità e carriera molto meno facile di quella ipotizzata dalle adolescenti (meno del 50% ha un figlio e il primo figlio arriva ben oltre gli ottimali 25-30 anni). Ciò posto, cosa rispondiamo a questi irriducibili idealisti ai quali, nonostante tutti gli "sforzi" che abbiamo fatto in questi decenni terribili non siamo riusciti a togliere la voglia di credere in un futuro migliore, in una società meno discriminante? Sorridiamo loro con tenerezza come faremmo con la futura regina di tre anni? Spero di no. Spero che riusciremo, per il tempo che ci resta e per le responsabilità che ciascuno di noi ha "nell'oggi sociale" a dare qualche segnale di ravvedimento collettivo. "Primum non nocere". La nostra generazione ha nuociuto già abbastanza a chi dovrà anagraficamente sostituirci; a questo punto raccogliamo la sfida del loro cocciuto ottimismo e cerchiamo di lasciare loro una società meno a brandelli. *Presidente Laboratorio Adolescenza LA DARSENA - E DINTORNI - GUARDATA PER PARTI Gianni Zenoni L'intervento su questa storica area dismessa di proprietà pubblica, ha avuto un grande successo tra i milanesi. La Darsena, ex Porto Fluviale è la testimonianza di una complessa infrastruttura di canali navigabili, che per 6 secoli ha caratterizzato il rapporto tra Milano e le vie d'acqua, man mano poi cancellato con la copertura dei fiumi, dei Navigli interni e dando altri usi alla Darsena, nonostante l'importanza che questa grande infrastruttura idraulica avesse per Milano. Ma non è mai stata uno spazio pubblico a disposizione dei Milanesi, che però non potevano dimenticarsi dell'abbandono dopo la fine della funzione di Porto e poi del cattivo uso fatto delle banchine, della mancanza dell'acqua in seguito all'inizia- n. 23 VII - 17 giugno 2015 tiva del parcheggio subacqueo che ha paralizzato a lungo l'utilizzo dell'area, il discutibile utilizzo come sede della fiera di Senigallia, della fatiscenza del mercato comunale senza dimenticare i loschi traffici che sempre prolificano nelle zone degradate. Ora una vasta area pedonalizzata, prima inesistente, collega piazzale Cantore con piazza XXIV Maggio conglobando i Caselli Daziari che, facilmente accessibili, ora troveranno un uso più adeguato. Ricordiamo che i Caselli Daziari sono per Milano una infrastruttura storica seriale spesso sottovalutata e che quando recuperati, come in piazza XXV Aprile e XXIV Maggio, rivelano qualità architettoniche e di presenza ambientale di valore. Dobbiamo dire che l'attesa della sistemazione della Darsena era ormai tale che qualsiasi soluzione si adottasse, purché si potesse utilizzare, sarebbe stata la benvenuta. E cosi è stato, avuto il plauso dei Milanesi è però necessario rifletterci dal punto di vista della scena urbana perché molto spesso gli ultimi interventi comunali sono stati un miscuglio di soluzioni accettabili e veri e propri errori di insediamento progettuale, stravolgendo le funzioni da tempo presenti e riflettendosi negativamente alla fine proprio sul disegno urbano che le circonda. Certamente buona è la sistemazione e pavimentazione della larga banchina nord ben protetta dal rumore del viale d'Annunzio, con la previsione dell'accesso della Conca 8 www.arcipelagomilano.org di Viarenna che conferma la volontà della riapertura dei Navigli, con un bel raccordo verso piazzale Cantore e il ridisegno dello specchio d'acqua di competenza della sede dei Canottieri, ma anche dalla presenza sulla banchina nord di un padiglione destinato a Caffetteria, ma provvisoriamente affidato alla Vodafone, occasione che la stessa utilizza per mettere pubblicità sulla struttura di tutti corpi illuminanti. Piacevole il leggero ponte pedonale che collega le due banchine nord e sud valorizzando così la parte sud che era la più degradata. Anche i materiali usati per le murature e i pavimenti, mattoni con fasce in pietra ci ricordano le mura spagnole ma anche le facciate delle case milanesi dove il cotto è sempre stato e lo è anche oggi ben rappresentato. Non si capisce invece la necessità di inserire tra cotto e pietra brani di altre due pavimentazioni una in legno e l'altra in ghiaietto cementato nella banchina nord e un vasto spazio asfaltato sulla banchina sud proprio in coincidenza del ponte pedonale. Rinunciando così alla continuità dei materiali e rendendone inutilmente complessa la futura manutenzione. Questa bella passeggiata pedonale si prolunga e comprende anche i caselli daziari e la Porta del Cagnola fino a ora isolati a causa della viabilità, inserendo però alcuni fasci dei binari del tram a raso della zona pedonalizzata. Viene anche parzialmente portata alla vista una testimonianza del Ticinello, canale che collega la Darsena con la Vettabbia, prima del tutto invisibile. Penso che in questo caso non si potesse fare di più per la complessità dei percorsi tranviari attorno alla porta del Cagnola. Dal punto di vista della viabilità il nodo esistente era complesso per le troppe convergenze viarie e del trasporto pubblico. Il collegamento veicolare tra viale D'Annunzio e viale Gian Galeazzo ora è diretto e non interferisce con la zona pedonale mentre quello tra viale Gorizia, Col di Lana, corso San Gottardo e la deviazione su Ascanio Sforza si sposta sul lato sud ed est di Piazza XXIV Maggio dove è presente il raccordo tra le due circonvallazioni, col grande pregio di mantenere tutti i percorsi precedenti ma al prezzo di un esagerato uso di progettazione viabilistica delimitata da una pesan- n. 23 VII - 17 giugno 2015 te presenza di corsie, cordoli e semafori che rendono difficoltoso, per il cittadino che proviene da San Gottardo e Col di Lana, raggiungere la zona pedonalizzata. E veniamo ora agli elementi risolti in modo poco rispettoso sia della funzione civica che della loro nuova definizione architettonica ma che di fatto sembra vengano usufruiti senza problemi. Il mercato comunale precedente faceva parte della efficiente rete impiantata su tutta la città tra gli anni '30 e '40 e appartiene alla categoria di quelle architetture minori molto importanti per definire la scena urbana e soprattutto le zone pedonalizzate. Purtroppo. fin dalla nascita di basso valore architettonico, hanno dovuto spesso essere spostati a causa dello straripante traffico urbano che ne rendeva difficile l'accesso ai cittadini o spesso ristrutturati con risultati estetici non migliorativi. Ma i pochi rimasti, come quello di piazza Wagner, obbedendo nella distribuzione interna alle peculiari caratteristiche distributive tipiche di questi edifici e cioè al percorso continuo, sono ancora estremamente piacevoli e di facile fruizione, e il loro interno mi ricorda ogni volta “la Vucciria” di Guttuso per l'eterogeneità e accostamenti di colori dei prodotti accumulati in poco spazio. Sensazione che non ricorda certo il nuovo progetto del mercato che ha mantenuto il basso livello architettonico dei vecchi mercati milanesi e peggiorata la fruibilità rinunciando al percorso continuo e offrendo un dispersivo percorso a pettine che costringe a tornare indietro in fondo ai brevi pettini e che ha anche oscurato la vista sulla Darsena senza alcuna ragione. Inutile anche la esagerata altezza interna e la forzatura della struttura in ferro e vetro che nella sua banalità ricorda una stazione di servizio stradale, e che invece, restando sull'argomento, doveva ispirarsi agli Autogrill che consci del loro ruolo non sono mai banali. Si è volutamente rinunciato in questo progetto alla creazione di un “opera minore” di qualità che poteva diventare essenziale invece per arricchire la scena urbana della zona pedonalizzata. Non si capisce anche la posizione della tradizionale pescheria, mantenuta indipendente quando invece poteva far parte del mercato, ma anche qui, nella scelta di restare da sola, manca la ricerca di nobiltà architettonica delle “opere minori”. Mentre appare funzionale invece il corpo negozi su via D'Annunzio con il suo doppio uso, da una parte barriera al viale D'annunzio e dall'altra come mercato coperto ma aperto dove come tradizione dei mercati milanesi si ospiteranno le funzioni collaterali alla attività principale come i riparatori di biciclette, fiorai e altre funzioni utili alla vita di tutti i giorni. In questo caso la semplice costruzione in mattoni a vista segue la continuità di funzione e di materiali sul viale D'Annunzio. Del tutto inaccettabili e spero provvisori, invece il cubo nero e i due padiglioni bianchi in ferro e vetro posati su piattaforme galleggianti e attraccate alla banchina nord. Il cubo è solo pubblicità urbana, (quella che a Grenoble è stata bandita dalla città mentre a Milano dilaga), ma per raggiungere il suo scopo è purtroppo visibilissimo da lontano, da qualsiasi lato ci si avvicini alla Darsena e la domina in modo volgare e inopportuno. Assieme alle due strutture bianche in ferro e vetro galleggianti, su una delle quali spicca il nome della Regione Lombardia, e sull'altra per adesso fanno solo pubblicità, questi tre inserimenti sullo specchio d'acqua sono una inaccettabile occupazione di un'area che invece dovrebbe rispettare la memoria storica del Porto di Milano e quindi continuare a essere utilizzato con funzioni di competenza portuale e non sottrarre superficie d'acqua per sfruttamenti pubblicitari o di presenzialismo. Nel complesso, davanti al successo dell'intervento, che ricordo è dovuto essenzialmente alla disponibilità di un area per il tempo libero che prima non c'era, il progetto tra la creazione di una zona archeologica o una di straniante modernità ritengo possa essere accettabile e assimilabile al concetto di Continuità che ci ha insegnato Rogers a proposito del rinnovamento delle città. Resta solo il rammarico per come avrebbe potuto essere ancora meglio con una maggiore attenzione verso i particolari costruttivi, una continuità più rigorosa delle pavimentazioni, una migliore qualità nella progettazione dei mercati e senza la invadente presenza pubblicitaria. 9 www.arcipelagomilano.org RISPETTARE IL MONTE STELLA MEMORIALE DI MILANO Graziella Tonon e Giancarlo Consonni Mettiamola così: se la più prestigiosa e la più apprezzata delle Associazioni chiedesse di disporre di una balza del Giardino di Boboli per collocarvi muri, muretti, totem e un teatro all’aperto per rendere visibile il proprio messaggio, cosa pensereste? Il Monte Stella di Milano non è il Giardino di Boboli, ma quanto ad architettura del paesaggio è un gioiello della contemporaneità: in Italia ha inaugurato una nuova sintesi tra disegno urbano e progetto del paesaggio che ha fatto scuola. In più quello è il memoriale di Milano. Là sotto ci sono membra e ossa della città ambrosiana. È infatti costruito con le macerie prodotte dal secondo conflitto mondiale che ha distrutto il 13% del patrimonio edilizio della città: Nel definirne configurazione e carattere, Piero Bottoni ha voluto farne un messaggio di pace contro tutte le guerre. Percorrendone le balze, si può apprezzare la sapiente composizione in cui gli elementi naturali sono stati chiamati a giocare la loro parte, in un’ascensione che porta, al culmine, a spaziare con lo sguardo sulla città in continua trasformazione. Su una di queste balze dal 2002 si è innestata l’iniziativa bellissima del Giardino dei Giusti. Ne è venuta un’integrazione, anche simbolica, che fin qui ha funzionato bene. Ora però l’associazione Gariwo, non contenta della modalità fin qui seguita, ha chiesto di seguire un’altra linea: più incentrata sulla comunicazione, sul segnare il territorio con muri, muretti, totem e un teatro all’aperto. Una pesante manomissione che snaturerebbe l’unitarietà dell’organismo Monte Stella. L’operazione, che ha trovato pieno sostegno nell’Amministrazione comunale, ha incontrato la forte opposizione degli abitanti (più di mille firme) e di intellettuali ed esperti (oltre 230 firme). Purtroppo il confronto non è mantenuto nel merito. Un rappresentante di Gariwo per primo ha assunto la grave responsabilità di evocare fantasmi, scrivendo su Facebook: «La verità […] è che gratta gratta troveremo oscuri interessi dietro il Comitato per i no». E ancora: «sotto sotto il giudeo massonico ritorna anche se mascherato dalle migliori intenzioni». Di fronte a queste uscite, abbiamo cercato di mettere in guardia alcuni illustri sottoscrittori di un appello lanciato da Gariwo dalla scelta irresponsabile di mettere fuori gioco dissenso e proteste bollandoli come inquinati da antisemitismo. Apriti cielo! Lo stesso esponente di Gariwo va sostenendo che i promo- tori dell'appello avrebbero ingannato i sottoscrittori, non mostrando loro la delicatezza (!) delle trasformazioni proposte. No: i firmatari hanno sottoscritto dopo aver visto il confronto tra lo stato attuale e i rendering del progetto. È una verifica che chi legge, se vuole, può fare di persona sul sito dedicato. Molti sono i nomi prestigiosi (e tra questi diversi di appartenenza ebraica) che chiedono di rispettare l’architettura del Monte Stella, salvaguardando nel contempo il Giardino dei Giusti, meravigliosa iniziativa, così com'è. È questa adesione ampia e qualificata che si cerca di demolire ricorrendo a travisamenti e insinuazioni. Gariwo dovrebbe invece meditare se, con il progetto che umilia il Monte Stella, non abbia imboccato una strada sbagliata. Si vuole sgombrare il campo da strumentalizzazioni ed equivoci? Si faccia una grande festa popolare dove insieme Gariwo, i Comitati dei cittadini e la città tutta celebrano il Giardino dei Giusti e il Monte Stella: due memoriali che finora hanno ben convissuto. Ma questo comporta che vengano abbandonati progetti che devastano un parco tra i più belli di Milano. Scrive Valeria Corbella a favore della riapertura dei Navigli Gentile e stimato Direttore, sono cittadina qualunque, ma attenta al sentire della città. E vorrei dire qualcosa che forse nel suo pragmatismo razionalista le sfugge. Milano ha una tremenda nostalgia dell'acqua perduta. Tutte le capitali piccole o grandi sono aiutate a vivere dall'acqua, tranne la nostra che chiudendo i suoi canali ha perduto l'anima. Si è mai chiesto perché dal bar di Affori a quello di Brera così in tanti espongono le malinconiche "vedute navigliesche del secolo scorso"? Come mai tra gli oscuri referendum del 2011, negletti e osteggiati dalla politica, tra i più votati c'era proprio questo? È stato a passeggiare in quel luogo -architettonicamente mediocre- che è la nuova Darsena? Io non ho mai visto un uso così massiccio e soddisfatto di uno spazio pubblico. È per- n. 23 VII - 17 giugno 2015 ché è tornata l'acqua. È perché puoi dimenticarti una giornata faticosa socchiudendo gli occhi, coi piedi a penzolo sulle papere e sulle ondine. I milanesi che hanno subìto e causato ben più di un "sacco", evidentemente oggi sono avidi di un bello che stentano a trovare e lo riconoscono nel fluire dell'acqua. Dentro città l'acqua porta energia, toglie lo stress, l'acqua ci manca da morire. Lei sa meglio di me che Milano rappresenta nella mappa dell'acqua di Lombardia una strozzatura, un nodo, un tombino chiuso. Con soli otto km di canali e una cifra contenuta (e i ritorni ci sono, ho letto) si potrebbe ricollegare una rete idrica meravigliosamente vasta, anche solo simbolicamente. Il progetto è moderno e ben fatto pare, tiene in considerazione tutti i temi, dalla mobilità ai servizi. E non si tratta di una ricostruzione fanè o biecamente nostalgica, con ponti e lavandaie "finto vecchio".Questo progetto sì che sarebbe un super rammendo sociale dalla Martesana al Ticino, passando per il centro della città, davvero riunificante in spirito e materia. Anche i cantieri avrebbero un senso: i bisnonni hanno guardato interrare i canali, i pronipoti li guarderanno riaprire Dobbiamo rassegnarci a subire - perché "consolidati e metabolizzati" - solo i cantieri dei padroni della città, la tirannia omnipervasiva delle auto, le speculazioni private sui beni comuni (come l'imminente spartizione degli ex scali ferroviari o dei terreni ex militari, di cui nessuno dice)? Quanto alla sua visione di un centro città roccaforte di riccastri che si scavano il fossato difensivo: Veramente io dentro la prima cerchia più 10 www.arcipelagomilano.org che sedi di banche e uffici frequentati da cittadini periferici non vedo. Se poi vi risiedono le famiglie altolocate meno male, sono loro i custodi del bello che è poi fruito dagli occhi di tutti noi. I centri storici come scrigni preziosi di tutti, vigiliamo che restino di libero accesso, facciamoli pedonali (magari …), impediamo che si chiudano cortili e pàssages. Occasione di passeggio e ... sciabordìo per tutti nella storia alta della città, al posto di stare in coda la domenica all'ingresso del Fiordaliso. A me pare che qui lei cada addirittura nell'Errore Ideologico: allertandoci su un pericolo (il creare confini territoriali di classe), lei lo sostanzia e lo invera … . Insomma, per me è un coraggioso progetto simbolo, di lunga vita, con radici storiche, concreto e fruibile per tutti, dal costo contenuto, di cui abbiamo davvero bisogno. Un po' come Expo … no? Scrive Marco Vitale contrario alla riapertura dei Navigli Caro direttore, sottoscrivo totalmente il tuo giudizio sulla ipotesi di riapertura della fossa interna dei Navigli “è un’idea vecchia, assolutamen- te sbagliata, disallineata rispetto ai problemi milanesi, il relativo referendum è ipocrita e per finire è un’idea classista”. Meglio non si po- teva dire. È demoralizzante doversi sempre battere contro queste autentiche follie. Scrive Walter Monici contrario alla riapertura dei Navigli Caro Direttore, sostanzialmente d'accordo con l'inopportunità di riaprire i Navigli senza una considerazione sui costi e sulle priorità. E sulla incongruenza rispetto al panorama attuale. A maggior ragione vendendo i gioielli di famiglia come propongono i referendum. Forse, se una amministrazione sparagnina, dopo aver ridotto al minimo le tasse sugli immobili si ritrovasse a fine anno con qualche decina di milioni che avanzano, bene, forse solo a quel punto, si potrebbe ipotizzare di riaprire le due conche superstiti e il tratto fino alla chiesa di San Marco, e collegandole con un tubo sotterraneo si avrebbe un piccolo scolmatore delle piene. Oltre che un ambiente quasi simile ai quadri dell'ottocento se non fosse per la sagoma del grattacielo Unicredit sullo sfondo. Peccato che gli architetti abbiano dimenticato nei rendering di mettere una curva sotto i ponti e di rialzarli un poco. Quei ponti a raso sono veramente brutti e non dialogano con il canale sotto. Ma si sa che la sensibilità degli architetti di regime, e dei cosiddetti archistar è sensibile solo alla valorizzazione del proprio ego smisurato. Ho letto di una cosa che non avrei mai voluto leggere: intendono costruire grattacieli anche a Roma, Tor vergata, e così ci giochiamo 2000 anni di storia e di paesaggio col beneplacito di tutti gli architetti distruttori e sovrintendenti che non proteggono le belle arti che popolano il nostro disastrato paese. MUSICA questa rubrica è a cura di Paolo Viola [email protected] Il privilegio dei milanesi “Ciò che è curioso, e che vorremmo porre come “questione musicale” ai nostri lettori, è la totale incomunicabilità fra le diverse istituzioni ...”. Così scriveva il curatore di questa rubrica nel suo primo articolo, il 12 febbraio del 2009. Allora si riferiva alla assenza di coordinamento fra le diverse istituzioni musicali milanesi. Si riferiva anche alla ricchezza di offerta musicale di Milano, ricchezza che la mette in linea con le grandi capitali europee. Ma nello stesso tempo si augurava una programmazione “intelligente”, un “sistema” milanese volto a promuovere una stagione nella quale le varie istituzioni, autonome nel costruire i loro programmi, si mettessero in sintonia tra di loro, per dar vita a proposte musicali ricche di alternative e finalizzate a rispondere alle esigenze di un pubblico curioso e desideroso di una completa esperienza musicale. n. 23 VII - 17 giugno 2015 In riferimento a quella sua iniziale riflessione, un' idea forse un po' stravagante può fare capolino e presentarsi ai famosi quattro lettori di questa rubrica. A Milano ci sono tre Orchestre stabili: Scala, Pomeriggi Musicali e Orchestra Verdi. Vi sono anche altre Istituzioni, certo importanti, ma non così stabili. Se tra i musicisti di queste orchestre ci fosse uno scambio che potesse permettere a un musicista della Verdi di sperimentare - per una stagione? - l'opera lirica, o a un musicista dei Pomeriggi Musicali di immergersi nell'esperienza sinfonica della Verdi o a uno Scaligero di mettersi in sintonia con l'orchestra da camera dei Pomeriggi? Forse ne trarrebbero vantaggio i musicisti, che arricchirebbero non solo il loro bagaglio cultural - musicale ma anche la loro esperienza professionale. Può accadere, infatti, che restare per anni nello stesso posto, con lo stesso ruolo, provochi assuefazione, forse anche pigrizia intellettuale ... . Mentre con uno scambio tra orchestre forse ne trarrebbe vantaggio anche l'istituzione di cui i musicisti sono dipendenti. D'accordo sulla singolarità di questa riflessione e soprattutto sulla sua difficile messa in atto. E tuttavia quel “sistema” milanese di cui si parlava in quel primo articolo, potrebbe riguardare non solo la costruzione delle stagioni musicali ma anche gli stessi musicisti, coinvolti in una sinergia che romperebbe l'incomunicabilità tra le diverse istituzioni. Il 21 giugno, Festa della Musica. E Milano, città dalle mille, sorprendenti, iniziative non si fa trovare impreparata. Molti i luoghi coinvolti, dal Parco Forlanini al Parco Sempione, dal Cortile delle Armi del Castello Sforzesco al Museo del Novecento; 11 www.arcipelagomilano.org diversi i generi musicali, dalla musica barocca per finire al tango e al reggae. Diventa una Festa della Collettività. Al Museo del Novecento, musica barocca! Un concerto così intitolato “Du grand Siècle à la première guerre mondiale”. Abbiamo ascoltato musiche di Francois Couperin, Marin Marais, Jacques Duphly, Jean Baptiste Antoine Forqueray e Jean Baptiste Barrière - e siamo nel Settecento - per finire con Claude Debussy, Gabriel Fauré, Francis Poulenc, con il quale arriviamo al 1919! Concerto singolarissimo! Percorrere le sale del Museo del Novecento, adocchiando le meraviglie - anche disturbanti - dell'arte del secolo scorso e arrivare alla Sala dell'Arte Povera, dove da un clavecin uscivano suoni d'altri tempi, un hautbois diffondeva altri suoni deliziosamente nasali, e violon e basse de viole accarezzavano non solo l'orecchio ma anche l'anima, è stata un'esperienza straniante e affascinante insieme. Il concerto era dedicato a Laura Alvini, nel decennale della morte, ed è stato promosso dagli “Amici di Laura” in collaborazione con gli “Amici della GAM” e l'associazione OttavaNota. Diviso in tre diverse parti del giorno: ore 11.00, ore 15.30, musica barocca; ore 17.00 Debussy, Fauré, Poulenc. Laura Alvini è stata docente di clavicembalo, clavicordo e basso continuo alla Scuola Civica di Musica di Milano. Ha avuto il merito di far conoscere e diffondere, a partire dagli anni '70, la musica barocca e soprattutto di favorire un uso consapevole degli strumenti musicali antichi, di far crescere una pratica interpretativa tesa a fondere sensibili- tà musicale e precisione filologica. “... il fine che l'interprete si pone non è né semplice né delimitato e soprattutto evolve continuamente, poiché un buon interprete si pone delle domande sul passato in connessione a problemi e a contesti sempre nuovi”, così scriveva Laura Alvini nel gennaio del 1976 nella presentazione di un concerto dedicato a “L'interpretazione della musica francese dal Re Sole alla rivoluzione”. E così possiamo ritornare a quel primo articolo del febbraio 2009: “... ci rendiamo facilmente conto che la fortuna di poter ascoltare tanta musica di così grande livello artistico e professionale arride ad una sparuta minoranza di esseri umani; e noi abbiamo questo privilegio “in casa”!" Maria Matarrese Righetti ARTE questa rubrica è a cura di Benedetta Marchesi [email protected] L’età dorata di Milano Un’immersione in una Milano sfarzosa e lucente, questo è quello che consente di vivere quel periodo storico che fu la vera e propria “età dell’oro” milanese. La mostra Arte lombarda dai Visconti agli Sforza (a Palazzo reale fino al 27 giugno), allestita nel 1958 nelle stesse sale, fu per l’epoca un progetto che contribuì all’affermazione dell’identità culturale milanese e lombarda e della grandezza della sua tradizione artistica. Le circa duecentocinquanta opere in mostra sono state selezionate per consentire al visitatore non solo di apprezzare la preziosità dei materiali e la bellezza dei singoli oggetti, ma anche di riconoscerne i legami formali e il linguaggio comune. In mostra sono i secoli dal primo Trecento al primo Cinquecento: tutta la signoria dei Visconti, poi degli Sforza, fino alla frattura costituita dall’arrivo dei Francesi. Il percorso della mostra si svolge attraverso una serie di tappe in ordine cronologico, che costituiscono altrettante sezioni e sottosezioni, che illustrano la progressione degli eventi e la densità della produzione artistica: pittura, scultura, oreficeria, miniatura, vetrate, con una vitalità figurativa che soddisfa le esigenze della civiltà cortese e conquista notorietà internazionale al punto da n. 23 VII - 17 giugno 2015 divenire sigla d’eccellenza riconosciuta: l’“ouvraige de Lombardie”. Cinque tappe che ripercorrono cinque fasi della storia delle due famiglie: i decenni centrali del Trecento costituiscono la prima sezione espositiva, dedicata a illustrare come i Visconti abbiano impresso una svolta fondamentale alla cultura lombarda, dapprima importando a Milano e in Lombardia artisti “stranieri” - i toscani Giotto e Giovanni di Balduccio - poi aprendo cantieri nelle capitali del ducato, nelle città satelliti, nelle campagne, occupando gli spazi urbani e rinnovando quelli ecclesiastici; seconda tappa è quella degli anni attorno al 1400, dove domina Gian Galeazzo Visconti, personaggio chiave del tardo gotico lombardo: sono gli anni del grande cantiere del Duomo di Milano (al quale si deve un grosso contributo in quanto la stessa istituzione milanese ha generosamente accettato di smontare dalle guglie ed esporre in mostra alcune statue della Cattedrale e alcune vetrate, altrimenti difficilmente visibili). Nella terza sezione si passa al lungo regno di Filippo Maria Visconti, molto diverso da Gian Galeazzo e non adatta a riunire una vita di corte di qualità. Comincia la crisi del ducato e molti degli artisti coinvolti lasciano la Lombardia. La quarta sezione, mette a fuoco l’importanza dello snodo che corrisponde alla fine dinastica dei Visconti e alla presa di potere di Francesco Sforza (gli anni intorno al 1450) fino a tutto il periodo di governo di Galeazzo Maria Sforza: i nomi degli artisti sono straordinari da Vincenzo Foppa a Bembo, da Zanetto Bugatto a Bergognone. La quinta e ultima tappa è dedicata agli anni di Ludovico il Moro e alla spaccatura provocata alla sua caduta e dall’arrivo dei Francesi: sono anni di cambiamenti radicali nell’urbanistica, nell’architettura e in generale nella produzione artistica grazie alla presenza a Milano di personalità eccezionali come Bramante, Leonardo e Bramantino. A rendere ancora più magico il percorso di mostra sono le musiche dell’epoca che diffuse nelle sale creano un’atmosfera unica e fuori dal tempo. Purtroppo l’esposizione è prossima alla chiusura, sarebbe stato bello mostrare a chi viene in città in occasione di Expo gli splendori di una Milano che fu. Arte lombarda dai Visconti agli Sforza fino al 27 giugno Palazzo Reale piazza del Duomo Milano orari lun: 14:30 - 19:30 mar - mer ven - dom: 09:30 - 19:30 gio - sab: 09:30 - 22:30 Ultimo ingresso un ora e mezza prima della chiusura; Intero € 12,00 Ridotto € 10,00 12 www.arcipelagomilano.org Alla Gam non si spara sul pittore (e neanche sul pianista) È una mostra che sorprende Don’t Shoot the Painter. Dipinti dalla UBS Art Collection, curata da Francesco Bonami e ospitata alla GAM dal 17 giugno al 4 ottobre, non solo per l’altissimo livello qualitativo delle opere esposte ma anche, e forse soprattutto, per l’innovazione dell’allestimento. Le pareti delle sale al piano terra sono coperte da gigantografie che riproducono le sale della GAM come sono quando ospitano la collezione permanente del museo e su di esse, come in una quadreria ottocentesca, i dipinti della collezione UBS. Un dialogo generazionale dove le collezioni ottocentesche accolgono e danno risalto al contemporaneo, attribuendo ad esso un valore ancora nuovo. L’esposizione è un omaggio alla pittura contemporanea e riunisce per la prima volta alla GAM di Milano oltre cento tra i maggiori capolavori della UBS Art Collection di novantu- no artisti internazionali, dallo sguardo fotografico di Thomas Struth all’arte neo espressionista di JeanMichel Basquiat. In mostra, visibili per la prima volta al pubblico italiano, oltre 100 tra le maggiori opere della UBS Art Collection dagli anni ‘60 ad oggi di 91 artisti internazionali fra cui John Armleder, John Baldessari, Jean-Michel Basquiat, Max Bill, Michaël Borremans, Alice Channer, Sandro Chia, Francesco Clemente, Enzo Cucchi, Günther Förg, Gilbert & George, Katharina Grosse, Andreas Gursky, Damien Hirst, Alex Katz, Bharti Kher, Gerhard Richter, Thomas Struth, Hiroshi Sugimoto, per citare alcuni nomi. Il titolo, Don’t Shoot the Painter, è un riferimento ironico alla frase “don’t shoot the pianist” che spesso compare nei saloon dei film western: ogni volta che le idee e i linguaggi dell’arte si confondono e rendendo difficile decifrare il signifi- cato degli elementi in gioco, la pittura torna sulla scena per riportare l’attenzione su ciò che è facilmente riconoscibile e interpretabile da tutti, esattamente come la musica del pianista nei film western riporta l’ordine nel caos del saloon. La mostra durerà fino alla fine dell’estate, in questi mesi di caldo cogliete l’occasione, andate a fare una passeggiata al parco di Palestro ed entrate a sbirciare la mostra (acquistando il biglietto per il museo l’ingresso è gratuito): non ne rimarrete delusi! Don’t Shoot the Painter. Dipinti dalla UBS Art Collection GAM Galleria d’Arte Moderna di Milano via Palestro 1 martedì – domenica 9:00 - 19.30 giovedì apertura straordinaria mostra fino alle 22.30 biglietto intero € 5,00 biglietto ridotto € 3,00 Ingresso gratuito ogni giorno dalle ore 16.30 e tutti i martedì dalle ore 14.00 Wave: Milano riscopre l’ingegnosità collettiva Quando si parla di mostra l’immaginario collettivo associa la parola a quadri, sculture, immagini o prodotti, trascurando spesso che si possano esporre e mettere all’attenzione dei visitatori anche idee e buone pratiche. WAVE - Come l’ingegnosità collettiva sta cambiando il mondo è l’esposizione voluta da BNP Paribas che si basa sul principio per cui l’ingegnosità collettiva sia da sempre il principale motore dell’evoluzione umana, e che negli ultimi anni alcune tra le correnti più interessanti dell’economia stiano servendosi dell’ingegnosità collettiva per rendere il mondo un posto migliore. L’ingegnosità collettiva è parte di un fondamentale cambiamento di mentalità: passare dal pensiero individuale a quello collettivo e allo stesso tempo riconoscere che tutti siamo destinati a entrare in relazione gli uni con gli altri. In un sistema che è sempre più connesso e interdi- pendente, interessi personali e interessi collettivi convergono: il benessere di ogni persona dipende da quello di tutti gli altri. Dopo essere stata a Parigi, Marsiglia, Lille, WAVE approda a Milano (dal 4 giugno al 3 luglio 2015), prima di raggiungere Dakar, Mumbai e Hong Kong. La mostra racconta le storie di alcuni innovatori, che hanno saputo interpretare le correnti più interessanti dell’economia contemporanea: co-creazione, condivisione, inclusione, circolarità, movimento dei maker. Immagini, testi, video raccontano esempi virtuosi del passaggio dal pensiero individuale a quello collettivo: la homepage di ipaidabribe.com mostra una mappa dell'India, aggiornata in base ad anonime segnalazioni di corruzione; la storia di Salvatore Iaconesi, il quale dopo aver scoperto di avere un tumore al cervello, hackerò il sistema ospedaliero e caricò i propri dati su internet invitando tutti ad a- nalizzare il suo caso; o ancora: Protei, un drone capace di risucchiare due tonnellate di petrolio e altre inquinanti, Blablacar, il sistema di carpooling o Beacon Food Forest, che è molto più di un orto collettivo. “L’onda di cui racconta WAVE è molto più articolata di quanto non appaia a coloro che considerano l’economia campo esclusivo degli economisti, e l’ingegnosità dominio privato di pochi talentuosi creativi. Al contrario, Wave Milano indica la forza che l’ingegnosità collettiva può generare, e il promettente valore economico che si ottiene non appena si offre alle persone l’opportunità d’ingegnarsi.” Leonardo Previ, Presidente di Trivioquadrivio e curatore di Wave Milano. Wave Milano Galleria San Fedele. Piazza San Fedele fino al 3 luglio 2015 Orario: da lunedì a venerdì 7 – 19 Ingresso gratuito Il principe dei sogni Defilata rispetto alla grande retrospettiva dedicata a Leonardo e meno “milanese” rispetto alla mostra dedicata all’Arte lombarda dai Visconti agli Sforza, nella Sala delle Cariatidi al Palazzo Reale di Milano è racchiusa una mostra gioiello: quella da titolo “Il Principe dei sogni. Giuseppe negli arazzi medicei di n. 23 VII - 17 giugno 2015 Pontormo e Bronzino”. Nella grande sala monumentale sono radunati, dopo centocinquanta anni, i 20 arazzi cinquecenteschi commissionati da Cosimo de' Medici per raccontare la storia del personaggio biblico di Giuseppe, le cui vicende sono narrate nella Genesi. L’esposizione è curata da Louis Godart e riunisce l'intero ciclo di arazzi che i Savoia avevano diviso nel 1882 tra Firenze e il Palazzo del Quirinale; grazie all’impegno della Presidenza della Repubblica Italiana e del Comune di Firenze, i grandi panneggi tornano a essere esposti insieme in una mostra unica. Dopo 13 www.arcipelagomilano.org la tappa di Roma, nel Salone dei Corazzieri del Palazzo del Quirinale, sono a Milano e successivamente a Firenze nella Sala dei Duecento di Palazzo Vecchio dal 15 settembre 2015 fino al 15 febbraio 2016. Nella grande sala decorata gli imponenti arazzi riempiono le pareti e nella semioscurità i colori dei tessuti risplendono. Questa serie di panni monumentali, oggetto di un complesso e pluridecennale restauro presso l’Opificio delle Pietre Dure di Firenze e il Laboratorio Arazzi del Quirinale, rappresenta una delle più alte testimonianze dell’artigianato e dell’arte rinascimentale. Gli arazzi con le Storie di Giuseppe vennero commissionati da Cosimo I de’ Medici tra il 1545 e il 1553 per la Sala dei Duecento di Palazzo Vecchio a Firenze. I disegni preparatori furono affidati ai maggiori artisti del tempo, primo fra tutti il Pontormo. Ma le prove predisposte da quest’ultimo non piacquero a Cosimo I, che decise di rivolgersi ad Agnolo Bronzino, allievo del Pontormo e già pittore di corte, e a cui si deve parte dell’impianto narrativo della serie. Tessuti alla metà del XVI secolo nella manifattura granducale, tra le prime istituite in Italia, furono realizzati dai maestri arazzieri fiamminghi Jan Rost e Nicolas Karcher sui cartoni forniti da Agnolo Bronzino, Jacopo Pontormo e Francesco Salviati. Un'occasione per immergersi nella bellezza, intensa e rara, di opere che oltre che di arte parlano anche di maestria artigiana e soprattutto della storia d'Italia, attraverso la vicenda esemplare di Giuseppe, degli artisti che lo hanno immaginato e dei committenti che hanno finanziato il lavoro. Audioguide e didascalie guidano il visitatore in un percorso alla scoperta della bellezza e della maestria artigiana del cinquecento fiorentino, senza perdersi in dettagli specialistici o ad appannaggio esclusivo degli addetti ai lavori. Il principe dei sogni Giuseppe negli arazzi medicei di Pontormo e Bronzino fino al 23.08.15 Palazzo Reale Lunedì 14.30 -19.30 Martedì mercoledì, venerdì e domenica 9.30 – 19.30 Giovedì e sabato 9.30 – 22.30 La Fondazione Prada e la rigenerazione culturale di Milano Il 9 maggio il sempre più vasto mosaico culturale di Milano si è arricchito di un importantissimo e preziosissimo tassello: la Fondazione Prada. La celebre stilista Miuccia Prada e il marito Patrizio Bertelli hanno regalato al capoluogo lombardo uno dei più interessanti interventi culturali visti in Italia in materia di arte, ma anche di architettura e, soprattutto, di rigenerazione urbana. Le vecchie distillerie di inizio Novecento sono state restaurate, ristrutturate, trasformate e integrate per offrire ai visitatori una superficie di 19.000 mq dove trovano posto non soltanto spazi espositivi per le varie mostre temporanee, ma anche un cinema, un’area didattica dedicata ai bambini, una biblioteca e il Bar Luce concepito dal regista Wes Anderson che si ispira ai celebri caffè meneghini e già diventato “cult” nel giro di pochi giorni. La molteplicità e la versatilità degli spazi della Fondazione consentono un’offerta culturale estremamente variegata. Sono attualmente aperte al pubblico le mostre “An Introduction”, nata da un dialogo fra Miuccia Prada e Germano Celant, “In Part” a cura di Nicholas Cullinan e le installazioni permanenti di Robert Gober e di Louise Bourgeois presso la “Haunted House”, una struttura preesistente che, rivestita di uno strato di foglia d’oro, acquista un’aura altamente immaginifica e imprime un segno forte ed evidente nel paesaggio urbano di Milano. Ma è “Serial Classic” la mostra più sorprendente: Miuccia Prada abbandona momentaneamente la passione per il contemporaneo per rivolgersi al passato, all’arte antica dove sono scolpite le origini della nostra cultura. Salvatore Settis e Anna Anguissola curano magistralmente una mostra che presenta l’ambiguo rapporto fra l’originale e la copia nell’arte greca e romana. Un allestimento geniale presenta più di sessanta opere che dialogano fra di loro e con lo spazio esterno circostante attraverso ampie vetrate. Il modello perduto, giustamente sfocato, giunge ai nostri giorni attraverso le innumerevoli imitazioni, emulazioni o interpretazioni commissionate dalla ricca aristocrazia romana. Ed ecco che il solido blocco di marmo prende vita e si circonda di un’aura di sacralità ancora oggi percettibile. Gli spazi rivisti da Rem Koolhaas e dal suo studio OMA consentono a una vecchia fabbrica di trovare nuova vita in un tempio che ospita personaggi della mitologia, guerrieri e divinità quali Venere e Apollo con opere provenienti dai più importanti musei del mondo, dai Vaticani al Louvre. La Fondazione Prada diventa oggi il modello di quella inevitabile e illuminata collaborazione che deve esserci fra pubblico e privato per il beneficio dei cittadini milanesi, italiani e di tutti i visitatori stranieri che iniziano a intravedere nel laboratorio creativo di Milano la nuova Capitale Europea. Giordano Conticelli Fondazione Prada - Largo Isarco 2 Milano (M3 Lodi T.I.B.B.) orari: tutti i giorni h10-21 biglietti: 10€ ridotto 8€ gratuito minori 18 anni e maggiori di 65 Parigi è a Milano grazie agli scatti di Brassaï In tempo di Expo Palazzo Morando porta Brassaï a Milano: dal 20 marzo al 28 giugno 2015 sono esposte al piano terra del palazzo di via S. Andrea 260 immagini di una Parigi onirica e poetica attraverso lo sguardo innamorato dell’artista ungherese che fece sua la capitale francese. Nato nel 1899 a Brasso (l’attuale Braşov) in Transilvania, Gyula Halász - che prenderà il nome di Brassaï quando inizierà a fotografare, n. 23 VII - 17 giugno 2015 nel 1929 - arriva la prima volta a Parigi a soli 4 anni, con il padre, professore di letteratura che vi trascorre un anno sabbatico. I ricordi di quegli anni, come "petites madeleines" di proustiana memoria, rimarranno in lui riaffiorando talvolta e lasciandogli perennemente dentro uno sguardo incantato nei confronti della città. Le prime tre sale portano il visitatore in una Parigi dolce, malinconica: dove i bambini dai calzini bian- chi giocano con le barchette al Jardin du Luxembourg o i leoni di pietra hanno criniere di neve nel parco delle Tuileries. La Tour Eiffel luccica nella notte e a Longchamp si pesano i cavalli da corsa. Passano gli anni e lo sguardo muta, giunge il disincanto ma rimane l’accuratezza e le assenza di giudizio nel raccontare la notte e i suoi protagonisti. Brassaï inizia a inseguire, nella luce notturna della città, una Parigi insolita, sconosciuta e finora non degna 14 www.arcipelagomilano.org di attenzione. Durante le sue lunghe passeggiate che lo portano solo o in compagnia di Henry Miller, Blaise Cendrars e Jacques Prévert, complici nell’alimentare le sue curiosità, rende visibili le prostitute dei quartieri “caldi” o i lavoratori della notte alle Halles, o ancora i quarti di animali appesi dai macellai. Brassaï in quegli anni ricerca gli oggetti più ordinari e ne trasforma il significato, osa giustapposizioni in- solite e defamiliarizza la percezione, togliendo il reale dal suo contesto. Il suo pensiero si concentra nel trasformare il reale in decoro irreale, è a partire dal 1929 che nascerà la sua ostinata ricerca dei graffiti. Circo, nudi femminili, ancora Parigi, Picasso e molti altri artisti sono i soggetti degli scatti del grande fotografo (ma anche scrittore e cineasta) che testimoniano il tanto profondo quanto fecondo rapporto che per oltre cinquanta anni lo ha legato alla Ville lumière, fino alla sua scomparsa nel 1984. Brassaï. Pour l’amour de Paris fino al 28 giugno 2015 Palazzo Morando | Costume Moda Immagine via Sant’Andrea 6, piano terra, spazi espositivi, mart. – dom., ore 10 - 19 Biglietteria € 10,00 / 8,50 / 5,00 L’Africa si mostra a Milano L’Africa approda a Milano con una mostra allestita nel nuovo Mudec, il Museo delle Culture che ha finalmente aperto i suoi battenti dopo 12 anni di agognati lavori. Il capoluogo lombardo, a breve al centro del mondo come sede dell’Esposizione Universale, afferma la propria identità di città multietnica, bacino delle tante culture che negli ultimi decenni si sono andate a integrare nell’antico e complesso tessuto urbano di Milano. “Africa. Terra degli spiriti” è un interessante progetto espositivo che raccoglie circa 270 manufatti e che da il via alla vivace stagione culturale milanese organizzata durante i mesi di EXPO 2015. La mostra si articola in vari ambienti presentando le affascinanti sfaccettature della cultura subsahariana dalle figure reliquiario alle armi, dagli altari vudu alle celeberrime maschere utilizzate durante le danze e le cerimonie religiose. Sorprendenti risultano essere alcuni manufatti come cucchiai e olifanti realizzati interamente in avorio ed eseguiti con un altissimo e raffinatissimo livello qualitativo. Interessante è an- che il progetto d’allestimento che tenta di creare un’atmosfera intima e infondere un profondo senso religioso nel visitatore. Convincente è la soluzione adottata nella prima sala dove sono esposte figure custodite all’interno di teche cilindriche sorrette da una struttura che vuole forse richiamare le affascinanti e impenetrabili foreste di questo continente. Da notare anche l’utilizzo di alcuni effetti sonori come il frinire dei grilli o il penetrante ritmo delle percussioni, espedienti che aiutano il visitatore a immergersi nella ancestrale cultura africana. Unica interazione tra opere esposte e pubblico è la possibilità che ha quest’ultimo di far rivivere le divinità di un altare vudu. Come suggerisce Claudia Zevi attraverso l’audio guida distribuita gratuitamente, il visitatore è invitato a lasciare un oggetto personale in segno di devozione per manufatti che riescono ancora oggi a serbare in sé un elevato valore sacrale. La fretta di inaugurare ha, però, determinato la presenza di alcuni errori, minimi dettagli a cui bisognerebbe prestare sempre la massima attenzione. Grazie a una buona e suggestiva illuminazione, i singoli reperti sono facilmente fruibili nonostante la presenza, in alcuni casi, di polvere e di impronte lasciate sulla superficie delle teche. Di difficile lettura risultano essere, inoltre, alcuni pannelli, ora velati da un sottile tessuto reticolato, ora posti in una zona d’ombra, lontano del cono di luce. Alcune didascalie sono poste al livello della superficie di calpestio, elemento che porta il visitatore a doversi sforzare per leggerle. Tutti questi aspetti di disturbo non vanno, comunque, a intaccare una mostra che nel complesso risulta essere un ottimo progetto curatoriale, di enorme interesse per Milano che si conferma città internazionale e che si affaccia con prepotenza sulla società globale contemporanea. Giordano Conticelli Africa - la terra degli spiriti fino al 30 agosto 2015 MUDEC Museo delle culture via Tortona 56 Milano orari lunedì 14.30-19.30 martedì/mercoledì/venerdì /domenica 9.3019.30 giovedì e sabato 9.30-22.30 biglietti 15/13 euro Food. Quando il cibo si fa mostra Food | La scienza dai semi al piatto, non è solo una mostra dedicata all’alimentazione: è un percorso di avvicinamento e scoperta del processo di produzione di ciò che mangiamo. Anche questa definizione è riduttiva: le quattro sezioni accompagnano il visitatore dalla scoperta dei cibo, dall’origine quando è seme fino alle reazioni chimiche che sottendono la cottura, passando attraverso dettagliate spiegazioni su provenienza storico-geografica, suggerimenti sulle modalità di conservazione o exhibit interattivi. La mostra, in corso fino al 28 giugno 2015 e allestita nelle sale del Museo di Storia Naturale Milano, rappresenta il più importante evento di divulgazione scientifica promosso dal Comune di Milano sul tema di Expo n. 23 VII - 17 giugno 2015 2015. “Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita” e costituisce una delle più importanti iniziative del programma di “Expo in Città”. Tutto nasce dai semi è il titolo della prima sala, nella quale vengono raccontate le diverse classi e famiglie con caratteristiche, provenienza e utilizzo. Decine e decine di barattoli mostrano, portando, in alcuni casi per la prima volta, esemplari che appartengono alle più importanti banche dei semi italiane. Si prosegue poi con Il viaggio e l’evoluzione degli alimenti dove mele, agrumi, riso, caffè e cacao non avranno più segreti: tra giochi interattivi e alberi genealogici, tutto è facilmente accessibile e non superficiale. Grande elemento positivo della mostra è infatti la capacità di rendere fruibili le nozioni più scientifiche a un pubblico differenziato, senza per questo incorrere nel rischio di semplicismo. Che la cucina sia un’arte è risaputo da tempo, ma che alla base di tante ricette vi siano principi di chimica e fisica passa spesso inosservato: la terza sezione della mostra illustra come funzionano alcuni degli elettrodomestici più comuni, con consigli sulla conservazione degli alimenti (sapevate che i broccoli hanno un metabolismo più veloce delle cipolle e che per meglio conservarli andrebbero avvolti in una pellicola di plastica?!) e soluzioni fisico-chimiche ai problemi di chi cucina (cosa fare se la maionese impazzisce?). Quando poi sembra che niente in materia di cibo possa più sorpren- 15 www.arcipelagomilano.org derci si giunge all’ultima sala I sensi. Non solo gusto ovvero niente è come sembra: vista, olfatto e tatto anche nel mangiare giocano un ruolo determinante, al punto talvolta di allontanare il gusto dalla reale percezione. Il costo del biglietto è medio alto (12/10 euro), ma la visita merita davvero il prezzo d’ingresso se non altro per cominciare ad affacciarsi nel tema che, grazie ad Expo, ci accompagnerà per tutto il 2015. Food. La scienza dai semi al piatto fino al 28 giugno 2015 Lunedì 09.30 – 13.30 / Martedì, Mercoledì, Venerdì, Sabato e Domenica 9.30 – 19.30 / Giovedì 9.30 – 22.30 Biglietto 12/10/6 euro LIBRI questa rubrica è a cura di Marilena Poletti Pasero [email protected] Nikola P. Savic Vita migliore Bompiani 2014 pp.286 ,euro 12,56 Giurato a Masterpiece,il noto talent scout televisivo per scrittori esordienti, lo scrittore Andrea De Carlo dice di Nicola P. Savic "Non imita nessuno. Ha tutto quello che gli serve: lo sguardo,il cuore, l'istinto, il senso del ritmo". E ancora: "Un raro caso di romanzo originale". "Un romanzo forte, autentico. Un mondo nel quale i sentimenti hanno ancora un senso" aggiunge Giancarlo De Cataldo. E Susanna Tamaro: "La vecchia Europa esiste ancora". È il contesto che contribuisce a tutto ciò: la Jugoslavia di Tito, prima della sua scomparsa. Ne scaturisce un romanzo di formazione, perché la storia si sviluppa nel quartiere 62° nord di Belgrado, costruito da Tito, enormi casermoni grigi, dove scorre, inconsapevole degli eventi storici, la vita randagia dei ragazzi locali. Deki è il 12enne che ci racconta le sue peripezie, sempre sul punto di piangere, tra amori - amicizie nascenti per Ivana, sua compagna di scuola, che lo giostra con affetto sincero ma un po' distaccato e impermeabile alle sue profferte d'amore. Battaglie tra opposte gang di ragazzi più grandi, che sfociano in vere piccole guerre per il dominio del territorio, pistole sotto i giubbotti per intimorire chi ha superato il confine immaginario dei vari quartieri, che si raggiungono attraverso scorciatoie in cortili o sui tetti, con ardui passaggi, vere stimolanti sciarade. E poi c'è l'ingegnere, suo padre, che sta per partire, per lavoro, per l'Italia, argomento che la madre Sve ama trattare, non senza vanteria, con le amiche, alle feste dei figli. E lui Deki, che fa? È contento della promessa di una "Vita migliore", come recita il titolo del libro? Forse sì, perché questo evento lo fa sentire al centro dei discorsi dei grandi e perché tante novità lo attendono al di là del confine. È bravo a scuola, non teme l'ignoto, anzi si sente attratto da tutto ciò che non conosce ancora, una promessa di nuovo inizio. Perciò Savic, il Deki della situazione, ha voluto scrivere questo romanzo direttamente in lingua italiana. Verrà selezionato e poi pubblicato da Bompiani nell'aprile del 2014, con il beneplacito di Elisabetta Sgarbi, ideatrice di Masterpiece. Il romanzo vincerà anche il primo premio per il romanzo straniero della Associazione "Amici di Leonardo", conferito come di consueto al Museo Diocesiano. Perché la sua lingua personalissima ti scivola via nella mente veloce, senza affettazioni. E non ti accorgi quasi del passaggio del protagonista dalla fanciullezza all'adolescenza, tra una bottiglia di birra che ti inebria e le "pischelle" che ti scocciano quando tu vorresti startene solo con gli amici tuoi coetanei a farti i fatti tuoi, per vivere quei riti di iniziazione in libertà, antefatto dell'età più adulta.. E mentre Deki, ormai cresciuto, saluta Zerica, prima di partire per l'Italia, in una maniera molto disinibita, "dentro di lei", che lo ammonisce di non volere restare incinta, lui divaga con il pensiero e pensa già al giorno dopo, quando toccherà a lui caricare tutti i bagagli della sua famiglia in macchina e la madre Sve, chissà perché, all'ultimo minuto sarà in ritardo. Per un luogo dove "insieme a mio fratello faremo finta ... di essere una famiglia normale, che fa cose normali". Lasciandosi alle spalle Tito, nell'ombra di una Jugoslavia che, morto lui, tornerà nel caos più totale, con il sogno della Grande Serbia, domato ma non vinto, la Bosnia con le sue rivendicazioni inascoltate, l'esercito di pace dell'Onu impotente per malafede o imperizia. Marilena Poletti Pasero SIPARIO questa rubrica è a cura di E. Aldrovandi e D.Muscianisi [email protected] Il Premio Hystrio a Emanuele Aldrovandi Siamo lieti di segnalare ai nostri lettori il Premio Hystrio Scritture di Scena 2015 conferito a Emanuele Aldrovandi redattore della nostra rubrica Sipario. Qui per voi le motivazioni. La giuria del Premio Hystrio-Scritture di Scena - formata da Valerio Binasco (presidente), Laura Bevione, Fabrizio Caleffi, Claudia Cannella, Roberto Canziani, Sara Chiappo- n. 23 VII - 17 giugno 2015 ri, Renato Gabrielli, Roberto Rizzente, Massimiliano Speziani e Diego Vincenti - dopo lunga e meditata analisi dei 96 copioni in concorso, ha deciso, all’interno di una rosa di sei testi finalisti (Dieci milligrammi di Maria Teresa Berardelli, E allora cadi di Francesco Marioni, Farfalle di Emanuele Aldrovandi, Fossili di Mattia Conti, Gli ultimi giorni di Va- 16 www.arcipelagomilano.org lentina Gamna e La zona Cesarini di Filippo Pozzoli), di assegnare il Premio Hystrio-Scritture di Scena 2015 a: Farfalle di Emanuele Aldrovandi, affascinante e originale partitura drammaturgica per due personaggi femminili, sapientemente tratteggiati con gusto contemporaneo, dove complicità e distruzione reciproca si mantengono in sottile equilibrio. Ciclicamente alle prese con l’incombere di una figura paterna di grottesca ed emblematica inaffidabilità, le due protagoniste attraversano le loro vite perpetuando il proprio rapporto esclusivo attraverso un gioco infantile crudele che però, nella sua coerenza, fa da barriera all’assurdità che le circonda. Un testo capace di mantenere alta l’attenzione, ma anche di emozionare con barlumi di poesia grazie a un realismo magico che lo trasforma in una curiosa favola nera intrisa di ambigua bontà. La giuria ha poi deciso di segnalare: Dieci milligrammi di Maria Teresa Berardelli, per una scrittura che utilizza con abilità le dinamiche sceni- che grazie a dialoghi secchi, di gran ritmo e piglio cinematografico, da cui i personaggi emergono con poche ma decise pennellate. L’ambizione, in buona parte realizzata, è quella di disegnare una storia di ampio respiro, dove analisi sociale, familiare e di coppia si mescolano per raccontare le nostre paure e il nostro senso di inadeguatezza. La sinistra attrazione per l’additivo chimico come soluzione provvisoria dell’infelicità viene così resa senza moralismo, grazie a intense sintesi poetiche e metafore potenti quanto inattese. CINEMA questa rubrica è curata da Anonimi Milanesi [email protected] È arrivata mia figlia di Anna Muylaert [Brasile, 2015, 114'] con Regina Case, Michel Joelsas, Karine Teles, Lourenço Mutarelli Val lavora come governante presso una famiglia ricca di San Paolo composta da un padre pseudoartista che vive di rendita, una madre giornalista di moda in carriera e un ragazzo un po’ perditempo. La donna si prende cura della casa, una lussuosa villa con piscina, e di Fabinho, il figlio dei padroni che ha cresciuto come suo. Il ragazzo ha la stessa età di Jessica, la figlia che ha affidato a parenti nel nord est del Brasile e che mantiene con il suo lavoro. Entrambi i giovani devono sostenere l’esame per accedere all’università. Jessica vuole diventare architetto e studiare nell’ateneo di San Paolo. In attesa di trovare una sistemazione starà con la madre che non vede da più di dieci anni. Giunta a San Paolo, la giovane è meravigliata dal lusso della casa, una vera villa razionalista, e anche dalla sistemazione della madre, uno n. 23 VII - 17 giugno 2015 stanzino stipato in cui lei dovrebbe dormire su un materasso per terra. Sfacciatamente chiede ai proprietari aperti e democratici se può occupare la suite degli ospiti. Il padrone di casa, colpito dalla ragazza, glielo concede. Con naturalità la giovane accede a spazi e servizi che sono socialmente negati alla madre e che la mettono in imbarazzo: Val si ritrova a servire a tavola la figlia e il suo padrone come se Jessica se membro della famiglia padronale. La donna non si raccapezza, sa che nei rapporti di classe ci sono linee che non si possono oltrepassare, lei sa stare al suo posto ma quella ragazza che addirittura fa il bagno in piscina con Fabinho e un suo amico la mette in cattiva luce presso Donna Barbara. Su pressioni della padrona urge trovare una sistemazione esterna a Jessica. Val si trova tra due fuochi: Donna Barbara che le ricorda le regole di comportamento e la figlia che di queste regole se ne infischia e sollecita la madre a ritrovare una dignità calpestata. L’arrivo di Jessica è stato uno sconquasso, lei ha superato il test universitario, Fabinho no, in più ha seminato dubbi con il suo comportamento “sovversivo”. In Val comincia una rivoluzione silenziosa che non può essere fermata. La regista Anna Muylaert ha saputo, attraverso una commedia ironica, occhieggiare a dinamiche complesse e sottrarsi a facili umorismi, stereotipi e cliché. Bravissime le attrici protagoniste specie Regina Casé nei panni di Val e Camila Márdila nel ruolo di Jessica per cui ha ottenuto un premio al Festival di Sundance. Il film ha ricevuto anche l’audience award a Berlino. Dorothy Parker 17 www.arcipelagomilano.org IL FOTO RACCONTO DI URBAN FILE PIAZZA MISSORI: LA FANTASIA AL POTERE http://blog.urbanfile.org/2015/06/22/zona-centro-storico-piazza-missori-ci-siamo/ PROGETTO MILANO È NELLO PAOLUCCI: RESTAURARE ANTICHI STRUMENTI SCIENTIFICI https://youtu.be/ejJcNuucW2M n. 23 VII - 17 giugno 2015 18