numero 24 anno VII – 24 giugno 2015

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LESSICO ELETTORALE: MILANO TRA RUSPISTI E ASFALTISTI?
Luca Beltrami Gadola
Come diceva Thomas Gresham - “la
moneta cattiva scaccia la buona” così possiamo noi dire per il linguaggio: quello cattivo scaccia quello buono. Due casi recenti ma uno
alla volta per carità. Cominciamo da
“ruspa”: il nuovo simbolo di Salvini e
della Lega. La sua politica è quella
della ruspa: si ruspano via campi
dei Rom, gli immigrati, gli oppositori
politici o l’intero governo. Linguaggio rozzo, populista, di chi non considera alcuna possibilità di confronto
politico ma solo sgomberare brutalmente il campo dai diversi da te.
Piace soprattutto ai talk show che
oramai lo esibiscono quasi come un
fenomeno da baraccone.
Anche lui ha fatto però il suo piccolo
errore per ignoranza (storica). Il
simbolo della ruspa ricorda gli USA,
la Caterpillar (che non è padana)
ma soprattutto Robert Gilmour Le
Tourneau, il suo inventore: uomo
moderato, fondatore di una università, cristiano pio, filantropo, detto
“uomo d’affari di Dio”. Tutt’altro tipo
dal nostro. In ogni caso ormai la ruspa fa parte dell’iconografia classica
della Lega al punto tale che a Pontida il leader maximo ha rilasciato
interviste davanti a una di queste
macchine.
Veniamo al caso di “asfalto” e al suo
verbo asfaltare. Temo proprio che
questo sia un’adozione linguistica di
sinistra, in particolare della sinistra
renziana, quella anche lei “dura e
pura” dei primi tempi. Brutta espressione che ricorda anch’essa la distruzione fisica, il ricoprire, lo
schiacciare, il camminarci sopra, la
voluttà di seppellire una volta per
tutte il proprio avversario. Non è la
gag dei cartoni animati alla Walt Disney, nessuno si deve rialzare ridotto a foglio di carta, deve solo scomparire.
La rozzezza dl linguaggio non è solo forma ma anche sostanza? Probabilmente sì: questo è un dramma
per una società che deve affrontare
problemi complessi con una classe
politica che cerca di conquistare
consenso con messaggi semplici e
non si fa un problema se confonde il
semplice col rozzo. Sul palcoscenico delle prossime consultazioni elettorali risuonerà questo linguaggio?
A Roma c’è cascato persino il discusso sindaco Marino che l’altro
ieri, parlando della destra, ha risposto alla folla di sinistra che gridava
(appunto) “asfaltali” dicendo “Li ricacceremo nelle fogne”. Se n’è poi
pentito ma, come si dice, “voce dal
sen fuggita …”.
Milano non è Roma e quattro anni di
Giuliano Pisapia, anche se non
hanno soddisfatto tutte le attese, ci
hanno però abituato a una compostezza della politica che ha costretto
persino la destra più chiassosa ad
abbassare i toni: speriamo che
l’effetto “forza gentile” non se ne
vada insieme al suo ideatore.
Milano non è Roma: negli ultimi anni
è molto cambiata e gli attori urbani
sono altri, come dice Cristina Tajani
su questo stesso numero di ArcipelagoMilano. Penso, spero, che questa “nuova gente” meno incollata al
video dei talk show strillati, non incline alla sguaiatezza, non una
maggioranza silenziosa ma una
maggioranza pensante, possa fare
le sue scelte ascoltando una classe
politica meno intenta a guardarsi
l’ombelico o a cullarsi nei mali della
sinistra. Quanto a questo lo vedremo nei prossimi giorni perché stiamo aspettando quel che diranno
sulle primarie e le relative regole,
quel che diranno e faranno sul dopo
Expo, quel che sapranno fare per
fondare la Città Metropolitana. Tanto per cominciare.
Dal modo di affrontare questi temi si
capirà molto ma una cosa prima
delle altre: se l’interesse per il bene
comune prevarrà sull’interesse per
la “bottega” o la “ditta”. E sul proprio.
IL FUTURO DI MILANO: DOVE CERCARE LA NUOVA CLASSE DIRIGENTE
Cristina Tajani
Nel dibattito di avvicinamento alle
elezioni amministrative 2016 c’è un
argomento che viene curiosamente
omesso, ma rischia di essere decisivo. Si tratta di una - seppur sommaria - analisi della composizione
sociale di Milano, fotografata dopo
sette anni di crisi economica. Accanto alla contabilità del "cosa si è
fatto, cosa non si è fatto, cosa si potrebbe ancora fare”, nel nostro bilancio di fine mandato dovrebbe vivere una riflessione più originale e,
a mio avviso, più utile: con chi e per
chi abbiamo lavorato. Se riteniamo
di aver coltivato ciò che la città del
2011 esprimeva in potenza, è il
momento di riflettere sui protagonisti
insieme con i quali, da qui al 2021,
vogliamo definire i nuovi assetti della città.
Ci ha offerto uno spunto Dario Di
Vico, pochi giorni fa, dal suo osservatorio sul Corriere della Sera: insieme al tradizionale aggregato sociale composto di lavoratori del
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pubblico impiego, della scuola e
dell'università - scrive - nella città in
trasformazione è rilevante la spinta
delle competenze, cosa diversa dalle tradizionali “professioni”. Un blocco sociale composito quanto rilevante, anche in termini di espressione del consenso, che vive la contraddizione tra detenere un alto capitale umano e percepire un basso
reddito.
La mia opinione è che le pratiche
messe in campo in questi anni sia
dall’amministrazione sia dal settore
privato - microcredito, sharing, start
up, coworking, nuove manifatture,
nuove forme di distribuzione dei
prodotti - abbiano dato voce a tali
forze molto più di quanto il racconto
della città e l’offerta politica abbiano
registrato. Il divario è tra politiche che consistono nell'amministrare
assecondando forze vive e spontanee - e politica, che dovrebbe intuire, di là dai singoli tasselli, il mosaico; per renderlo riconoscibile prima
di tutto ai diretti interessati, chiamandoli al protagonismo.
Si tratta di ceti sociali che vivono di
lavoro, non di rendita. Con limitato
potere d’acquisto ma crescente capitale simbolico, relazionale, culturale. Soggetti cui dovremmo rivolgerci
in maniera privilegiata, anche per
altre due ragioni. In primo luogo essi
rappresentano uno dei motori propulsivi della "città che sale", che si
contende competitività internazionale con altre grandi piattaforme urbane. In secondo luogo, sono ceti
quantitativamente crescenti e pongono un tema tipicamente politico,
quello delle alleanze sociali prima
ancora di quelle politiche.
Dovremmo proporre loro delle alleanze progressive e mutuamente
vantaggiose con quella parte del
mondo del lavoro e del sociale che
hanno resistito trasformandosi nel
mezzo della crisi, facendosi ponte
tra due vocazioni storiche di Milano:
innovazione e inclusione. Intorno a
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queste alleanze sociali, poi, affinare
il progetto politico amministrativo.
Dalle analisi compiute dal 2008 al
2013, emerge infatti che mezzo milione di nostri concittadini vive di
redditi da lavoro dipendente o "assimilati", dove gli assimilati sono
sempre più numerosi e vari:
300.000 pensionati, quasi 50.000
lavoratori autonomi.
La crisi ha fatto aumentare la consistenza delle due classi di reddito
estreme: quella degli incapienti è
passata da circa 3.000 individui a
circa 4.000; quella dei redditi superiori ai 120mila euro è passata da
oltre 26.000 individui a oltre 27.000.
In generale si sono assottigliate le
classi centrali - tra i 10.000 e i
26.000 euro - e sono aumentati gli
individui che percepiscono dai
26.000 euro in su.
La lettura materiale della città è un
tema rilevante che ci restituisce
un’immagine della città più complessa e meno standardizzata rispetto al passato. È con questa
complessità che, ben oltre le stagioni elettorali, bisogna misurare un
progetto di governo, ma anche immaginare di far emergere nuove
classi dirigenti cittadine. Non mi riferisco (solo) a quelle che amministrano il Comune ma, più ambiziosamente, a quelle che fanno camminare la città: si posizionino esse
nelle imprese, negli enti intermedi o
... dove non siamo abituati a cercarle, in ogni caso ben lontano dai salotti. Scopriremo - mi piace pensare
di aver cominciato a farlo - che molti
di loro portano sulle spalle già oggi,
non in un prossimo e indefinito futuro, responsabilità importanti.
Il deficit nella proposta politica per
Milano 2016 premierà chi saprà
colmarlo insieme ai protagonisti,
non accanto né al posto loro. Rendere evidenti nella società il sistema
delle alleanze maggiormente progressivo e vantaggioso riduce la discrezionalità nella definizione del
progetto politico-amministrativo e gli
restituisce efficacia. Si tratta di passare dal tema dell’ascolto e della
partecipazione a quello del protagonismo per nuovi attori e nuove alleanze, non politiche ma prioritariamente sociali.
RIAPRIRE I NAVIGLI: VECCHIAIA SAGGIA O RIMBAMBITA?
Giorgio Goggi
Quand’ero giovane pensavo che
fosse inutile riaprire i Navigli perché
il paesaggio che li circondava,
quando erano aperti, ora non c’è
più. Oggi che sono vecchio, e ho
visto la città trasformarsi continuamente, la penso diversamente: è
utile riaprire i Navigli perché intorno
a essi si formi nuovo e migliore paesaggio per la Milano di domani.
Lascio ai lettori decidere se questa
mia è la vecchiaia che rende saggi
o quella che rende rimbambiti.
Dalle righe dell’editoriale della settimana scorsa mi sembra traspaia il
concetto pessimistico di una città
statica, in gran parte irreparabilmente rovinata, che è possibile solo
“rammendare”. Ove ogni volontà di
cambiare il paesaggio diventa un
guardare indietro e dove ai guasti
del “tardo modernismo/futurista” non
si può più porre rimedio. Madrid ha
riaperto il Manzanarre e Tokio sta
riaprendo i suoi canali, ma a noi non
importa come va il mondo. Saranno
anche quelli casi di senilità o di vista
lunga?
È la stessa concezione che sta negando a Milano gli strumenti per evolversi nel futuro come grande area urbana moderna e sostenibile
(espungendo dal PUMS rami di metropolitana già incardinati al CIPE,
confinando nel dimenticatoio il secondo passante, spendendo retorica per una Darsena “restituita” alla
città senza l’accessibilità consentita
dai parcheggi e istituzionalizzando
di fatto lo scandalo della sosta serale e notturna irregolare). Ma la città
è un organismo in continuo mutamento: va progettata - con la necessaria visione - trasformata e ri-
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costruita incessantemente, se la si
vuol mantenere viva.
È questo
l’unico modo per “preservarla”.
Veniamo alla democrazia: la si misura sul fatto che interventi di miglioramento si facciano in centro
piuttosto che altrove, o sul fatto che
la più grande quantità di cittadini di
ogni classe possa godere anche del
centro? È più democratico enfatizzare le biciclette, che interessano
tanto chi sta in centro (tagliando
fuori i cittadini della città metropolitana che non pendolano a distanza
ciclabile - si sa che oggi sono i meno abbienti che vanno in auto) o organizzare ferrovie e metropolitane
in modo che da tutta la Lombardia si
abbia facile ed economico accesso
al centro di Milano?
Eliminare la funzione di circonvallazione della cerchia dei Navigli
(un’inaccettabile situazione antistorica che porta il suo carico di congestione nell’area più delicata di Milano) vuol dire aumentare l’accessibilità con i mezzi pubblici, ferrovie
e metropolitane (la M4 ha anche
questa precisa funzione: scambia
con il Passante e distribuisce lungo i
Navigli), a piedi e in bicicletta, per
una massa di cittadini ben più grande e non necessariamente abbiente
come chi risiede in Milano. Inoltre,
questo conferirà al centro di Milano
una qualità ambientale nuova, degna del suo livello artistico e culturale, anche se l’edificato intorno ai canali non cambierà a breve termine.
Tuttavia, pensare alla riapertura della fossa interna come a un intervento o a un problema esclusivamente
“milanese” è un errore in cui non
dobbiamo cadere. La rete canalizia
della Lombardia è lunga 150 chilometri. Con la riapertura della fossa
interna tor-nerebbe a essere di nuovo tutta connessa e percorribile (con
minori aggiustamenti in alcuni punti
ove la navigazione è impedita - come certi ponti a raso - e con
gl’interventi più importanti già previsti dalla Regio-ne). Non lo sarebbe
certo per il trasporto merci, come un
tempo, ma per la navigazione da
diporto e per l’uso turistico delle alzaie, certamente. La Darsena tornerebbe ad essere il vero porto di Milano e non solo un bacino ornamentale.
Tutto questo produce reddito e occupazione, che va ad aggiungersi a
quello calcolato dagli economisti
che hanno lavorato per lo studio di
fattibilità del Politecnico (coordinati
dai professori Boscacci e Camagni),
ovvero che la riapertura della fossa
interna restituirà alla città, in termini
di redditi, più del doppio del costo
delle opere. Ricordiamoci che la più
frequentata pista ciclabile d’Europa,
che attira migliaia di turisti, è quella
che corre lungo il Danubio in Austria. Soprattutto, cambierà l’immagine di Milano nel mondo: tutti noi
sappiamo che oggi la competizione
internazionale si fa tra grandi città e
che la qualità ambientale è uno dei
fattori chiave per competere.
Su una cosa sono d’accordo: oggi
sono assolutamente contrario ad un
altro referendum, perché i grandi
mutamenti nella città devono maturare conquistando il consenso dei
più nel dibattito, e in questo l’editoriale di ArcipelagoMilano ci aiuta.
Non escludo che, in futuro, se ne
possa indire un altro, ma solo dopo
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che tutti siano stati ampiamente informati e se ne siano dibattuti tutti
gli aspetti.
LE CONSEGUENZE DELLA PARTECIPAZIONE
Patrizia Ciardiello
Una pur superficiale indagine sulle
parole maggiormente ricorrenti nel
lessico dei politici (siano essi impegnati nell'arena nazionale o in quelle
locali) come in quello degli analisti e
dei commentatori d'occasione rivela
che «partecipazione» si colloca tendenzialmente fra quelle che, prima o
poi, vengono utilizzate per connotare (o criticare) un corso d'azione orientato (o non sufficientemente) a
definire uno o più processi decisionali correlati all'avanzamento della
qualità del discorso pubblico e della
democrazia.
Primarie per la scelta dei candidati
alle elezioni politiche o amministrative, cantieri, fabbriche, officine,
comitati, stati generali sono andati
nel tempo configurandosi come
strumenti per sollecitare il coinvolgimento dei cittadini in processi che,
di frequente, vengono presentati
come vettori di un cambiamento
sempre vagheggiato e ormai prossimo che non può rinunciare al loro
protagonismo in qualità di cocostruttori.
A titolo di esemplificazione (in quanto numerosi potrebbero essere i riferimenti anche risalenti nel tempo) e
solo per ragioni di stretta contiguità
con l’attualità, pochi hanno notato (o
scelto di non enfatizzare) che le
contingenti turbolenze generate
dall’annuncio del governo di voler
procedere in tempi rapidi alla riforma della scuola sono state precedute da quella che, nel sito istituzionale, viene definita «Una grande campagna d’ascolto, in cui coinvolgere
tutti, per disegnare la scuola che
verrà» e nelle slides che ne sintetizzano gli esiti «la più grande consultazione d’Europa». E a supporto
dell’affermazione di tale primato
vengono elencate con dovizia di
particolari le cifre, una imponente
mole di dati categorizzati attraverso
il ricorso alla linguistica computazionale, che ha consentito «di sapere cosa [i cittadini] hanno discusso»
e di conseguire «un ottimo arricchimento della proposta».
Certo, nel «patto di partecipazione»
era precisato «La consultazione
pubblica... non è un referendum o
uno degli strumenti di iniziativa popolari a cui il nostro ordinamento
attribuisce un valore vincolante».
Come sarebbero stati utilizzati i contributi dei cittadini è spiegato nel periodo successivo: «... i suoi risultati
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integreranno, all’interno di un quadro di lavoro i cui cardini sono chiari... ad esempio attraverso azioni
progettuali, linee guida, protocolli
d’intesa, bandi e altri strumenti».
Una domanda, tra le tante, si impone: come mai l’esito della consultazione più grande d’Europa è stata
accolta da così ampie e generalizzate critiche, unendo studiosi (Tullio
De Mauro in primis) e addetti a vario
titolo ai lavori? Si è andati da chi ha
scelto di non partecipare alla consultazione «perché riteniamo che il
modello di scuola proposto come
«la buona scuola» non sia emendabile o oggetto di una discussione in
quanto del tutto estraneo a qualsiasi
idea di una scuola democratica,
pubblica, laica, inclusiva, come prevista dalla Costituzione» a chi, sintetizzando le ragioni di chi è sceso
in piazza o semplicemente commentato il progetto, reputa che la
Buona Scuola sia soltanto il prodotto di un «marketing narrativo che
accompagna un progetto di modernizzazione della scuola, sentito come una privatizzazione diretta
dall’alto e senza autentico ascolto
per chi vive e lavora nel mondo della scuola».
Passando dalla scala nazionale a
quella locale, e, nella fattispecie,
milanese, accenti non dissimili è
possibile rinvenire in molti testi che
affrontano il rapporto fra il promesso
cambiamento dell’approccio alla
amministrazione e partecipazione
dei cittadini.
Nel testo che sintetizza «cosa è andato bene e cosa no in questi quattro anni di mandato» nell’ambito
dell’iniziativa dei ComitatixMilano in
vista delle elezioni amministrative
del 2016 (#allamiacittànonrinuncio)
fra gli aspetti definiti come negativi
c’è il non essere andati oltre
l’ascolto («il livello 0 della partecipazione») che «non ha inciso sul processo decisionale: la giunta decideva, a volte comunicava le decisioni
prese, a volte neppure comunicava
(es. ciclabile di viale Tunisia...; quartiere Rizzoli....)».
E, risalendo nel tempo (2012-2013),
il Gruppo interzonale sulla partecipazione degli stessi ComitatixMilano
affermava «C’è una crisi di fiducia
fondamentalmente basata sul fatto
che non c’è partecipazione e non si
sanno le cose».
Ancora, nel documento che sintetizzava gli esiti della prima «Due giorni
per Milano. Riflessione e confronto
per una città partecipata» (2011) si
può leggere: «Milano nel 2016 sarà
una città partecipata se i cittadini
avranno avuto ambiti per incontrarsi
e confrontarsi su problemi specifici
della comunità cittadina tra loro e
con la pubblica amministrazione
(processi di partecipazione alle scelte)».
Arrivando alle conclusioni di questo
contributo (e in continuità con quello
ospitato da questa rivista nel 2014),
le vicende nazionali e quelle meneghine
(nonché
l’intensificarsi
dell’astensione dal voto registrato al
termine della recente tornata elettorale) impongono una riflessione non
estemporanea su quelle che, parafrasando il titolo di un celebre film di
Sorrentino, definiamo come le conseguenze della partecipazione che
si instaura in condizioni di squilibrio
fra governo e cittadini con evidente
supremazia del primo sui secondi.
Per riferirsi a tale partecipazione
Gangemi
(2009),
impiegando
un’espressione coniata da Arnstein,
parla di tokenism, «termine con cui
si intende la pratica di produrre i vari
tipi di moneta che non hanno in sé
valore – i soldi del monopoli, i gettoni per i giochi d’azzardo come il
poker, etc. – ma hanno valore solo
nel contesto in cui sono usati …».
Lo stesso autore, per esemplificare
icasticamente la sfiducia nei confronti dei politici che, negli anni ’60,
invitavano alla partecipazione «e,
spesso, finivano per manipolare ad
altri scopi le motivazioni ideali di chi
partecipava», trascrive il manifesto
divenuto popolare in tutto il mondo
dopo il maggio francese del 1968:
«Je participe, tu participe, il participe, nous participons, vous participez, ils profitent» (ibidem).
Superare il tokenism e impegnarsi
nella costruzione di nuovi equilibri
tra partecipazione e rappresentanza
costituisce la nuova frontiera della
democrazia. Tale impegno deve
configurarsi come elemento strategico quanto ordinario di un fare politica promosso e sostenuto dalle istituzioni. A condizione che delle voci
dei partecipanti al dialogo si faccia
un uso competente quanto scientificamente adeguato all’oggetto dei
processi partecipativi sfociando nella generazione di regole discendenti
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non dall’aggregazione delle preferenze, ma dalla loro trasformazione
attraverso il dialogo stesso.
L’alternativa potrebbe diventare la
speculare impotenza dei cittadini e
dei governi magistralmente descritta
da Saramago nel “Saggio sulla lucidità”.
CERCHIA DEI NAVIGLI, PIANI E PROGETTI
Fabrizio Bottini
A Milano forse il nome dell’ingegner
Fasana non dice gran che, anche
se lega il suo nome a quello che si
può considerare il piano urbanistico
di svolta nella vita della città,
all’alba del suo grande balzo verso
la definitiva modernizzazione ottocentesca. Era il 1876, l’anno della
battaglia del Generale Custer contro i Sioux a Little Big Horn per intenderci, e al di qua dell’oceano
l’amministrazione della città provava a interpretare in modo avanzato
quelle parti della legge post-unitaria
italiana sull’esproprio dedicata al
Piano Regolatore Edilizio.
Su una carta tracciata appunto
dall’ingegner Fasana, si riportano
tutti i grandi progetti di trasformazione urbana, tentandone una mosaicatura, un coordinamento, una
specie di valutazione comparativa
che vada oltre la pura somma aritmetica. Si è intuito insomma che
procedere per progetti, subirne le
ripercussioni e gli effetti, e poi progettare altre soluzioni parziali non
giova a nessuno: né alla pubblica
amministrazione, né agli operatori
socioeconomici, né alla qualità della
vita dei cittadini. Da quel primo tentativo ancora assai perfettibile, di
puro accostamento per quanto critico di progetti, nascerà poi, di lì a
poco e anche a seguito di eventi
traumatici come il colera a Napoli e
la relativa nuova legge urbanisticosanitaria, il più celebre piano edilizio e di ampliamento redatto da
Cesare Beruto.
Inutile ricordare che, come ci ricorda anche il bel volume della Milano
Tecnica dal 1859 al 1884 i tavoli
degli ingegneri già all’epoca sfornavano una enorme mole di progetti
avveniristici, degni di un libro di
Giulio Verne, da quelli realizzati
come il moderno carcere cellulare
secondo i principi panottici di Jeremy Bentham a San Vittore, a
quelli immaginati come le infinite
idee di riuso dei tracciati dei Navigli,
magari come percorsi ipotetici per
una versione locale in sedicesimo
della London Underground, ampiamente citata anche da Cesare Beruto nel suo piano generale.
Acquisito a quanto pareva in modo
definitivo il concetto che non convenisse a nessuno procedere per
singoli progetti, ma inserirli via via
dentro una strategia, dentro una
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«idea di città» diremmo noi, arriviamo al periodo cruciale in cui almeno una delle tante grandiose
pensate degli ingegneri di Milano
Tecnica inizia a prendere forma: gli
anni ’20 del XX secolo, in cui parte
la trasformazione della Cerchia dei
Navigli in un anello stradale. Al pari
delle mura, le acque sono viste dagli efficientisti urbani come un ostacolo al libero sviluppo dell’edilizia e
della mobilità, oltre che portatrici di
zanzare e peggio, chiamano spesso quei canali e ponticelli «un cappio al collo di Milano»: discutibile
ma efficace, come immagine.
Però qui è sottolineare il metodo
che interessa, il progetto tecnico si
inserisce a pieno titolo e coerenza
dentro una idea di città di lungo periodo, che per riassumere abbastanza rozzamente potremmo chiamare la «manhattanizzazione automobilistica in sedicesimo» del
centro di Milano, quella city terziaria
vagamente intravista nelle prospettive di Piero Portaluppi e del suo
piano Ciò per Amor vincitore del
concorso nel 1927, e poi ampiamente confermata dal piano Albertini, che nelle intenzioni (ribadite
all’infinito in una miriade di articoli)
si sostanzia come una sorta di Greater Milan Plan 1930. I cui capisaldi
sono (al pari del più noto progetto di
Abercrombie per Londra) un decentramento della popolazione e delle
attività produttive in poli satellite e
quartieri giardino, regolati da un piano metropolitano/regionale, alimentati da un sistema stradale e di
trasporto collettivo adeguato, e il
mantenimento nella city, consegnata alla logica automobilistica anche
se non ancora di massa, delle funzioni residenziali di lusso e soprattutto degli uffici direzionali.
E va detto che quello schema,
spesso contestato sin da suo apparire solo in dettagli estetizzanti o
aspetti specifici, non ha mai avuto
sostanziali smentite sino ai nostri
giorni, in cui uno solo forse dei
componenti sembra perdere peso
relativo (e solo per quanto riguarda
la cerchia centrale), ovvero l’assoluta centralità dell’auto anche nel
determinare le forme urbane. Assoluta e indiscutibile centralità forse
vagamente incrinata, certo, dalle
questioni ambientali, di abitabilità,
dai nuovi modelli di mobilità dolce e
condivisa. Ma non certo degli effetti
sedimentati, dentro l’area interessata dalla tombatura dei Navigli e fuori, di quell’antica «idea di città e di
territorio».
Nei tanti articoli più o meno divulgativi o «politici» con cui lo stesso Cesare Albertini dalle pagine di vari
giornali e riviste sosteneva la strategia territoriale del Comune di Milano, nonché la necessità di dotarsi
al più presto di autorità metropolitane e/o regionali sui modelli internazionali, era chiarissima questa idea,
se vogliamo abbastanza schematica, di concentrazione del potere e
dei valori immobiliari nella city, e di
decentramento della residenza,
dell’amministrazione, della produzione industriale e agricola, sul territorio metropolitano. E la domanda,
puramente di metodo si badi, oggi
potrebbe suonare più o meno: è
possibile, pur con tutte le contestualizzazioni del caso, rimettere in
discussione, in pratica sabotare,
questa idea di città-territorio, di gerarchia dei valori, semplicemente
facendo saltare il tappo (o meglio
inserendone uno), attraverso una
operazione abbastanza puntuale
sull’ex «cappio al collo della città»?
Cosa accadrebbe in tempi piuttosto
rapidi, ad esempio, in termini di
gentrification e/o sostituzione funzionale, o puri sconvolgimenti di
valori immobiliari? Certi quadretti
pittoreschi di pur assai auspicabili
spazi pubblici centrali, certamente
evocano in qualche modo quelli
analoghi di altre città storiche italiane. Ma insieme evocano - inevitabilmente, per pura analogia - cose
come lo spopolamento di Venezia,
quel problema gigantesco di interi
tessuti urbani di fatto convertiti in
parco a tema per il turismo mordi e
fuggi, a cui al massimo si auspica di
sostituire, nel migliore degli scenari,
un turismo d’élite d’altri tempi.
Per non perdersi troppo in esempi e
supposizioni, basterebbe, restando
a Milano, ripensare agli effetti indesiderati e non considerati del recentissimo schema Vie d’Acqua, che al
netto di tutto ciò che se ne può dire
sul versante giudiziario o di qualità
specifica del progetto, nasceva da
una medesima concezione induttiva
dell’idea di città, dal particolare
all’universale. Oggi, come in prospettiva all’epoca della tombatura
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dei Navigli, esiste una dimensione
anche istituzionale metropolitana,
non sarebbe il caso, forse, di partire
da quella scala per riflettere su cose che proprio alla medesima scala,
manifestano poi i propri effetti? Tutto qui.
QUALE EDUCAZIONE ANTIMAFIA?
Giuseppe Teri*
Qualsiasi discorso sull’educazione
antimafia deve confrontarsi oggi con
due questioni fondamentali, il contesto sociale e istituzionale e il ruolo
e la tendenziale crisi della scuola
come luogo di apprendimento.
Gli insegnanti sanno benissimo che
oggi mantenere un livello di qualità
dell’insegnamento si scontra da un
lato con un crescente disciplinamento burocratico della struttura e
dall’altro con un vissuto di separazione dei ragazzi dal tempo della
scuola, che non è visto più come
collegabile alle altre parti della loro
vita; ciò che avviene a scuola non è,
infatti, molto spesso, percepito come un’esperienza di senso e della
quale a torto sfugge l’interesse e il
valore. Nell’immaginario dei ragazzi
il tempo della vita è quello senza
futuro del sabato sera e dell’evasione dai tempi “costretti” dai doveri,
inoltre per un numero crescente di
genitori la formazione è subordinata
a regole adatte più che altro
all’affermazione dei figli e a far loro
raggiungere con meno fatica possibile traguardi e successi.
Gli insegnanti hanno la sensazione
che, se non usano l’arma del registro, rischiano di trovarsi di fronte a
disinteresse e “teste vuote” con cui
è difficile praticare una educazione
creativa. In realtà, come ci suggerisce Massimo Recalcati nel suo ultimo libro “Un’ora di lezione”, ciò che
sembra appartenere ai “vuoti “della
mente sono invece tensioni e conflitti non risolti, insicurezze e fragilità
miste a superficiali deliri di onnipotenza, stereotipi e appiattimenti
passivi al sistema di informazione
web; il silenzio e l’indifferenza apparente dei ragazzi è frutto di contenuti non “pensati” e “ricevuti”, come ad
esempio l’idea che “non si possa far
niente per cambiare”, “la svalorizzazione
dell’opinone
pubblica”,
“l’inutilità della parola e dell’interessarsi, perché tanto non contiamo
niente” e altre convinzioni radicatissime come “l’utilità del farsi gli affari
propri”, la persecuzione del proprio
interesse a ogni costo, la scorciatoia
per faticare di meno, … .
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Riguardo al contesto culturale e sociale con il quale ci confrontiamo nel
definire il ruolo dell’educazione antimafia c’è da ricordare la sostanziale rimozione culturale dalla “grande
Storia e dalla grande Letteratura”
delle origini delle mafie e del suo
indissolubile legame con il sistema
della corruzione. Sottovalutando il
fenomeno, le aziende del nord per
decenni non hanno esitato a fare
affari e prendere appalti al sud.
Grazie a queste disattenzioni costruite ad arte, le mafie hanno potuto estendersi e radicarsi in tutta Italia e nel nord Italia. Nella seconda
repubblica, in particolare, si è fatta
strada una nuova schiera di politici,
animati da uno spirito predatorio e
cinico, il cui scopo fondamentale è
quello di impossessarsi di risorse
pubbliche per ridurle a interessi e
speculazioni private. Si tratta di colletti bianchi che fin dall’inizio si associano per conquistare il seggio
politico, il controllo di un assessorato o di un ufficio tecnico.
La Lombardia è la regione che è al
quarto posto per gli immobili e al
terzo posto per le aziende confiscate alla mafia. Si tratta di un processo di vera e propria colonizzazione
che non punta solo a guadagni facili
e illeciti, ma anche a “clonare” i contesti ambientali tramite l’illegalità
diffusa, la corruzione, le relazioni e i
legami di interessi che sostituiscono
le regole dello stato. La vera forza
delle mafie è questa capacità di relazioni esterne, quella che chiamiamo “zona grigia”. Ciò richiama
l’importanza e il senso generale del
nostro educare. La riflessione che
l’associazione Libera a livello nazionale, la Scuola di formazione politica Antonino Caponnetto e il Coordinamento delle scuole milanesi per
la legalità e la cittadinanza attiva a
Milano stanno conducendo porta a
precise indicazioni e pratiche future
che qui vorrei indicare brevemente,
riservandomi di riprendere il discorso in ulteriori occasioni:
- l’educazione antimafia e contro la
corruzione deve rifiutare di essere
collocata nelle “educazioni” extra-
curriculari affidate ai buoni propositi
di insegnanti che “fanno strappi ai
programmi”; essa deve collocarsi
formalmente e ufficialmente nei contenuti obbligatori dei programmi e
rappresentare l’orizzonte formativo
e deontologico degli insegnamenti e
delle professioni;
- i valori e i principi della Costituzione devono essere la guida per
un’attenzione e un’informazione che
colloca il suo nucleo fondamentale
nella partecipazione attiva, nella
trasparenza di istituzioni che operino per il bene comune e la giustizia
sociale;
- il contesto della scuola deve diventare il luogo dove si educa a praticare la cittadinanza, nel conflitto, nella
condivisione, nella gestione della
relazione educativa e istituzionale;
- l’educazione alle regole è educazione in primo luogo a scegliere e
prendere parte, a assumersi la responsabilità di condividere percorsi
di cittadinanza; di questa educazione fa parte l’alto valore dell’eguaglianza di fronte alla legge al di sopra di tutti i particolarismi e l’invito
alla disobbedienza di Don Milani.
In questa direzione l’educazione antimafia può sviluppare a pieno il suo
storico contributo a una scuola del
tempo del pensare e della qualità,
attraverso:
- la pregnanza del valore delle testimonianze e la contemporaneità
degli avvenimenti che propone;
- la centralità del raccontare e del
promuovere la sollecitazione a diventare tutti narratori;
- il ridare senso e significato a una
“parola” che deve portare a pensare
e agire consapevolmente;
- l’attenzione a un sapere significativo, profondo che crea interrogativi e
ricerca didattica e che costruisce
soggettività e superamento di ciò
che Kant chiamava superamento
dello stato di minorità dell’uomo.
*Coordinamento delle scuole milanesi
per la legalità e la cittadinanza attiva
Libera formazione
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ROM CASE POPOLARI LA CLASSIFICA DEGLI ESCLUSI
Fabrizio Patti
«Vogliamo una casa pulita, che non
sia connotata come rom, dove possiamo vivere una vita normale». Se
le cose fossero semplici, basterebbe seguire la richiesta che arrivava,
dopo un sgombero di un campo rom
di Milano, da parte di un giovane
manutentore di ascensori. Il caso
viene citato nella Casa della Cultura
di Milano, da parte dell’architetto
Jacopo Muzio. Si parla del tema che
sta riempiendo le pagine di giornali,
senza che nessuno voglia seriamente approfondire la questione.
All’incontro partecipano tre architetti, un sociologo, due rappresentanti
di associazioni che lavorano
nell’assistenza ai rom e una decina
di rom del campo di Chiesa Rossa,
nella parte sud di Milano.
«La qualità ambientale aiuta l’integrazione – continua da dietro il palco dei relatori Muzio, l’architetto,
che collabora con la Facoltà di architettura del Politecnico di Milano -.
Bisogna stare dalla parte di quel ragazzo. La Francia ha costruito case
popolari, evitando di fare ghetti.
Questa è l’unica proposta possibile
di integrazione per le minoranze:
costruire case popolari per tutti. Il
tema, per i rom, è favorire la permanenza nello spazio interno, piuttosto che di una dimensione effimera».
Purtroppo le cose non sono così
semplici. Al termine di tre ore di discussione molto franca alla Casa
della Cultura, si esce con una sola
certezza, su cui tutti sono d’accordo: la necessità di chiudere i campi
più disastrati, dove trionfa l’illegalità
e non ci può essere alcuna prospettiva di miglioramento. Al di là di
questo punto fermo, ce ne sono ben
pochi. Le stesse parole hanno significati doppi. “Sicurezza” è una di
quelle più citate, ma per indicare la
richiesta da parte dei rom che tutto
quello che hanno non venga distrutto. “Relazioni familiari” o “emancipazione”, “integrazione” o “identità”
sono altre parole che sottendono
concezioni del presente e del futuro
non conciliabili alla leggera.
Soprattutto, per scendere nel concreto, la composizione dell’universo
“rom” è talmente varia per provenienza, religione, percorsi più o meno avviati, che mettere tutto insieme
non serve. Così come non serve
negare i problemi, a partire da quelli
legati alla criminalità, e avere atteggiamenti paternalistici. «Finché mettete tutto insieme questa discussione è inutile», è stata una delle prime
parole di uno dei ragazzi rom intervenuti. Quello che si ricava, a mezzanotte passata, è che per trovare
delle soluzioni bisogna fare qualcosa che viene rifiutato sempre più
categoricamente dalla stampa e dalla politica: accettare la complessità
del tema e proporre soluzioni diverse per situazioni diverse. E soprattutto, via ancora meno popolare:
non avere fretta, perché non è un
problema risolvibile nei tempi stretti
su cui ragionano i politici in cerca di
rielezione.
Per rendersene conto basta sentire
le parole del professor Antonio Tosi,
professore di sociologia urbana e di
politiche della casa nella facoltà di
Architettura del Politecnico di Milano, che da decenni si occupa della
questione rom. «Non avrei mai pensato, 20 anni fa, di difendere i campi
rom. Ma il momento è così teso che
dobbiamo ripensare il dibattito. Dire
“no campi, sì case” si scontra con
alcune realtà, la prima delle quali è
che le persone soggette a sgomberi
sono molte di più di quelle a cui viene offerta una casa». Il punto è però
soprattutto un altro. «L’insediamento abitativo è difficile, per varie
ragioni – spiega Tosi -. La prima è
che ci sono situazioni fragili, precarie, che sono maggioritarie. Se faccio un insediamento abitativo con
persone che una volta avuta una
casa non hanno altri problemi è un
conto. Se invece ci sono situazioni
di precarietà è molto più difficile. È
una fragilità che si protrae dopo che
l’inserimento abitativo è avvenuto».
Non è un caso che i programmi di
assegnazione delle case popolari
diano priorità a chi ha già più stabilità, in genere perché ha un lavoro.
Inoltre si chiede il rispetto delle regole delle case, che sono diverse
da quelle dei campi rom. «L’insieme
di questi due requisiti ha una conseguenza - continua Tosi -: le condizioni di maggiore disagio tendono
a essere escluse. Che delle persone siano escluse da un programma
ci può stare. Ma se “tutti” i programmi li escludono si pone una
questione: che cosa ne facciamo di
questi? Essendo un programma che
si basa sulla sicurezza e contro la
criminalità, questo meccanismo lascia fuori i più “pericolosi”».
Anche inserire tutti i rom in case
popolari non è la soluzione e per
spiegarlo il professore cita il caso di
Torino. Dopo uno sgombero tutta la
popolazione di un campo fu inserita
in case popolari. «Il risultato è stato
che ... per continuare a leggere su
LINKIESTA clicca qui
ADOLESCENTI: RACCOGLIAMO LA SFIDA DEL LORO COCCIUTO OTTIMISMO
Maurtizio Tucci*
Oggi a Milano (Palazzo Marino, Sala Alessi ore 17,00), nell'ambito del
convegno "La professione delle
donne, immaginata e reale:un confronto intergenerazionale", organizzato da MOPI Italia, saranno presentati i primi risultati dell'indagine
"Generi a confronto nell'oggi sociale" - realizzata dalla associazione
Laboratorio Adolescenza e dalla
Società Italiana di Medicina dell'Adolescenza su un campione di 800
studenti frequentanti il triennio di
licei e istituti tecnici cittadini.
In particolare una sezione dell'indagine - realizzata in collaborazione
n. 23 VII - 17 giugno 2015
con MOPI Italia - ha riguardato due
importanti scenari quali la famiglia e
il lavoro e ha fatto emergere risultati
che offrono interessanti spunti di
riflessione. Riferendoci inizialmente
alle risposte del solo campione
femminile, troviamo un progetto di
famiglia che nel 74% dei casi prevede certamente un figlio (che nel
50% dei casi le ragazze contano di
avere tra i 25 e i 30 anni), la cui nascita nel 57% dei casi le porterà,
secondo i loro progetti, a ridurre il
lavoro, chiedere il part-time o, se le
condizioni economiche familiari lo
consentiranno, a lasciarlo del tutto.
Naturalmente il ménage familiare
secondo il 45% delle intervistate sarà equamente gestito con il partner
mentre, se proprio uno sbilanciamento dovrà esserci, sarà del tutto
svincolato dall'appartenenza di genere, ma regolato - secondo il
42,8% - dall'aurea regola del "fa di
più chi ha più tempo". Il restante
12% divide le risposte equamente
tra chi pensa che sarà comunque
prevalentemente in capo alla donna
e chi pensa che sarà in gran parte
gestito da nonni, colf e baby sitter.
E per quanto riguarda il lavoro, se
da un lato le ragazze intervistate
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affermano in larga maggioranza
(76,7%) che in Italia la parità di trattamento e opportunità tra uomini e
donne sia molto più formale che sostanziale - pensando al loro futuro
contano di avere un lavoro che soddisfi essenzialmente le proprie passioni e i propri interessi (54,6%), e
che le porti a viaggiare e conoscere
gente (14%). Solo residuale la percentuale di chi considera elemento
essenziale per il lavoro un buona
retribuzione (11,8%) o la sicurezza
di non perderlo (7,3%).
Per una brillante carriera - il cui apice lo prevedono tra i 30 e i 35 (in
perfetto accordo temporale con la
gravidanza).- sarebbero disposte a
cambiare lavoro (72%), o a trasferirsi anche all'estero (85,2%). Il 90%
non crede che il lavoro sia più importante per un uomo che per una
donna e circa la metà preferirebbe
lavorare "in proprio". Tutto ciò continuando ad affermare nettamente
(93%) che viene sempre prima la
famiglia e poi il lavoro e che il "successo" nella vita non è determinato
da potere, ricchezza e carriera, ma
è essenzialmente identificato dal
riuscire a trovare un buon equilibrio
tra vita professionale e vita personale (76%).
In definitiva una visione prospettica
straordinariamente ottimistica e "politicamente corretta" che - presa a
sé stante - farebbe completamente
ricredere sulla tanto discussa sfiducia nel futuro da parte degli adolescenti di oggi. E anche il campione
maschile (che in alcune risposte dimostra comunque una maggiore
realpolitik) non si discosta significativamente da questo quadro idilliaco
di parità di genere sia a casa (il 42%
vede i lavori domestici equamente
divisi col partner e il 40% in carico a
chi ha più tempo a disposizione)
che sul lavoro (il 78% NON ritiene
che la carriera lavorativa sia più importante per un uomo che per una
donna e anche i maschi pensano, in
prevalenza, che il lavoro debba
soddisfare essenzialmente i propri
interessi - 48% - piuttosto che garantire buona retribuzione - 20% - e
sicurezza - 6%). E ancora, futuri
padri amorevoli, pensano in significativa percentuale (45,8%) che la
nascita di un figlio li indurrà a ridurre
più o meno significativamente il
proprio impegno lavorativo per essere più vicini al bebè.
Quando a una bambina o a un
bambino di 3 o 4 anni si chiede "cosa vuoi fare da grande?" non ci stupisce se ci rispondono la regina o il
re. Già ci preoccupa un po' di più in termini di senso della realtà - se a
14 anni (come registriamo nelle nostre indagini annuali nelle scuole
medie) oltre il 20% dei maschi conta
di diventare un campione sportivo e
oltre il 15% delle femmine una modella o, in subordinata, una stilista.
Mi sono chiesto, leggendo i risultati
dell'indagine, cosa sia ragionevole
pensare di questi tardo-adolescenti
così fiduciosi. Ai quali - per raggiungere gli obiettivi che si prefiggono toccherebbe operare in pochissimi
anni una vera e propria rivoluzione
culturale (e forse non solo) mettendo effettivamente in pratica ciò che
noi vanamente teorizziamo da anni.
In pochissimi anni, perché nelle famiglie di provenienza del campione
di studenti intervistati le cose vanno
ancora in modo molto diverso, con
le incombenze domestiche, ad esempio, essenzialmente a carico
della madre (65%) e la equa suddivisione ridotta al 10%. E le giovani
professioniste, intervistate nell'ambito di una indagine parallela condotta
dal MOPI, descrivono una realtà lavorativa molto più discriminante dal
punto di vista sessista (posizioni dirigenziali 70% uomini 30% donne;
apice della carriera ipotizzato o raggiunto tra i 35 e i 55 anni) e una
conciliazione fra famiglia, maternità
e carriera molto meno facile di quella ipotizzata dalle adolescenti (meno
del 50% ha un figlio e il primo figlio
arriva ben oltre gli ottimali 25-30
anni).
Ciò posto, cosa rispondiamo a questi irriducibili idealisti ai quali, nonostante tutti gli "sforzi" che abbiamo
fatto in questi decenni terribili non
siamo riusciti a togliere la voglia di
credere in un futuro migliore, in una
società meno discriminante? Sorridiamo loro con tenerezza come faremmo con la futura regina di tre
anni? Spero di no. Spero che riusciremo, per il tempo che ci resta e per
le responsabilità che ciascuno di noi
ha "nell'oggi sociale" a dare qualche
segnale di ravvedimento collettivo.
"Primum non nocere". La nostra generazione ha nuociuto già abbastanza a chi dovrà anagraficamente
sostituirci; a questo punto raccogliamo la sfida del loro cocciuto ottimismo e cerchiamo di lasciare loro
una società meno a brandelli.
*Presidente Laboratorio Adolescenza
LA DARSENA - E DINTORNI - GUARDATA PER PARTI
Gianni Zenoni
L'intervento su questa storica area
dismessa di proprietà pubblica, ha
avuto un grande successo tra i milanesi. La Darsena, ex Porto Fluviale è la testimonianza di una complessa infrastruttura di canali navigabili, che per 6 secoli ha caratterizzato il rapporto tra Milano e le vie
d'acqua, man mano poi cancellato
con la copertura dei fiumi, dei Navigli interni e dando altri usi alla Darsena, nonostante l'importanza che
questa grande infrastruttura idraulica avesse per Milano.
Ma non è mai stata uno spazio pubblico a disposizione dei Milanesi,
che però non potevano dimenticarsi
dell'abbandono dopo la fine della
funzione di Porto e poi del cattivo
uso fatto delle banchine, della mancanza dell'acqua in seguito all'inizia-
n. 23 VII - 17 giugno 2015
tiva del parcheggio subacqueo che
ha paralizzato a lungo l'utilizzo
dell'area, il discutibile utilizzo come
sede della fiera di Senigallia, della
fatiscenza del mercato comunale
senza dimenticare i loschi traffici
che sempre prolificano nelle zone
degradate.
Ora una vasta area pedonalizzata,
prima inesistente, collega piazzale
Cantore con piazza XXIV Maggio
conglobando i Caselli Daziari che,
facilmente accessibili, ora troveranno un uso più adeguato. Ricordiamo
che i Caselli Daziari sono per Milano una infrastruttura storica seriale
spesso sottovalutata e che quando
recuperati, come in piazza XXV Aprile e XXIV Maggio, rivelano qualità
architettoniche e di presenza ambientale di valore.
Dobbiamo dire che l'attesa della sistemazione della Darsena era ormai
tale che qualsiasi soluzione si adottasse, purché si potesse utilizzare,
sarebbe stata la benvenuta. E cosi
è stato, avuto il plauso dei Milanesi
è però necessario rifletterci dal punto di vista della scena urbana perché molto spesso gli ultimi interventi
comunali sono stati un miscuglio di
soluzioni accettabili e veri e propri
errori di insediamento progettuale,
stravolgendo le funzioni da tempo
presenti e riflettendosi negativamente alla fine proprio sul disegno urbano che le circonda.
Certamente buona è la sistemazione e pavimentazione della larga
banchina nord ben protetta dal rumore del viale d'Annunzio, con la
previsione dell'accesso della Conca
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di Viarenna che conferma la volontà
della riapertura dei Navigli, con un
bel raccordo verso piazzale Cantore
e il ridisegno dello specchio d'acqua
di competenza della sede dei Canottieri, ma anche dalla presenza
sulla banchina nord di un padiglione
destinato a Caffetteria, ma provvisoriamente affidato alla Vodafone, occasione che la stessa utilizza per
mettere pubblicità sulla struttura di
tutti corpi illuminanti. Piacevole il
leggero ponte pedonale che collega
le due banchine nord e sud valorizzando così la parte sud che era la
più degradata. Anche i materiali usati per le murature e i pavimenti,
mattoni con fasce in pietra ci ricordano le mura spagnole ma anche le
facciate delle case milanesi dove il
cotto è sempre stato e lo è anche
oggi ben rappresentato. Non si capisce invece la necessità di inserire
tra cotto e pietra brani di altre due
pavimentazioni una in legno e l'altra
in ghiaietto cementato nella banchina nord e un vasto spazio asfaltato
sulla banchina sud proprio in coincidenza del ponte pedonale. Rinunciando così alla continuità dei materiali e rendendone inutilmente complessa la futura manutenzione.
Questa bella passeggiata pedonale
si prolunga e comprende anche i
caselli daziari e la Porta del Cagnola fino a ora isolati a causa della viabilità, inserendo però alcuni fasci
dei binari del tram a raso della zona
pedonalizzata.
Viene anche parzialmente portata
alla vista una testimonianza del Ticinello, canale che collega la Darsena con la Vettabbia, prima del tutto invisibile. Penso che in questo
caso non si potesse fare di più per
la complessità dei percorsi tranviari
attorno alla porta del Cagnola.
Dal punto di vista della viabilità il
nodo esistente era complesso per le
troppe convergenze viarie e del trasporto pubblico. Il collegamento veicolare tra viale D'Annunzio e viale
Gian Galeazzo ora è diretto e non
interferisce con la zona pedonale
mentre quello tra viale Gorizia, Col
di Lana, corso San Gottardo e la
deviazione su Ascanio Sforza si
sposta sul lato sud ed est di Piazza
XXIV Maggio dove è presente il
raccordo tra le due circonvallazioni,
col grande pregio di mantenere tutti
i percorsi precedenti ma al prezzo di
un esagerato uso di progettazione
viabilistica delimitata da una pesan-
n. 23 VII - 17 giugno 2015
te presenza di corsie, cordoli e semafori che rendono difficoltoso, per
il cittadino che proviene da San Gottardo e Col di Lana, raggiungere la
zona pedonalizzata.
E veniamo ora agli elementi risolti in
modo poco rispettoso sia della funzione civica che della loro nuova
definizione architettonica ma che di
fatto sembra vengano usufruiti senza problemi. Il mercato comunale
precedente faceva parte della efficiente rete impiantata su tutta la città tra gli anni '30 e '40 e appartiene
alla categoria di quelle architetture
minori molto importanti per definire
la scena urbana e soprattutto le zone pedonalizzate. Purtroppo. fin dalla nascita di basso valore architettonico, hanno dovuto spesso essere
spostati a causa dello straripante
traffico urbano che ne rendeva difficile l'accesso ai cittadini o spesso
ristrutturati con risultati estetici non
migliorativi.
Ma i pochi rimasti, come quello di
piazza Wagner, obbedendo nella
distribuzione interna alle peculiari
caratteristiche distributive tipiche di
questi edifici e cioè al percorso continuo, sono ancora estremamente
piacevoli e di facile fruizione, e il loro interno mi ricorda ogni volta “la
Vucciria” di Guttuso per l'eterogeneità e accostamenti di colori dei
prodotti accumulati in poco spazio.
Sensazione che non ricorda certo il
nuovo progetto del mercato che ha
mantenuto il basso livello architettonico dei vecchi mercati milanesi e
peggiorata la fruibilità rinunciando al
percorso continuo e offrendo un dispersivo percorso a pettine che costringe a tornare indietro in fondo ai
brevi pettini e che ha anche oscurato la vista sulla Darsena senza alcuna ragione. Inutile anche la esagerata altezza interna e la forzatura
della struttura in ferro e vetro che
nella sua banalità ricorda una stazione di servizio stradale, e che invece, restando sull'argomento, doveva ispirarsi agli Autogrill che consci del loro ruolo non sono mai banali.
Si è volutamente rinunciato in questo progetto alla creazione di un “opera minore” di qualità che poteva
diventare essenziale invece per arricchire la scena urbana della zona
pedonalizzata. Non si capisce anche la posizione della tradizionale
pescheria, mantenuta indipendente
quando invece poteva far parte del
mercato, ma anche qui, nella scelta
di restare da sola, manca la ricerca
di nobiltà architettonica delle “opere
minori”. Mentre appare funzionale
invece il corpo negozi su via D'Annunzio con il suo doppio uso, da
una parte barriera al viale D'annunzio e dall'altra come mercato coperto ma aperto dove come tradizione
dei mercati milanesi si ospiteranno
le funzioni collaterali alla attività
principale come i riparatori di biciclette, fiorai e altre funzioni utili alla
vita di tutti i giorni. In questo caso la
semplice costruzione in mattoni a
vista segue la continuità di funzione
e di materiali sul viale D'Annunzio.
Del tutto inaccettabili e spero provvisori, invece il cubo nero e i due
padiglioni bianchi in ferro e vetro
posati su piattaforme galleggianti e
attraccate alla banchina nord. Il cubo è solo pubblicità urbana, (quella
che a Grenoble è stata bandita dalla
città mentre a Milano dilaga), ma
per raggiungere il suo scopo è purtroppo visibilissimo da lontano, da
qualsiasi lato ci si avvicini alla Darsena e la domina in modo volgare e
inopportuno.
Assieme alle due strutture bianche
in ferro e vetro galleggianti, su una
delle quali spicca il nome della Regione Lombardia, e sull'altra per adesso fanno solo pubblicità, questi
tre inserimenti sullo specchio d'acqua sono una inaccettabile occupazione di un'area che invece dovrebbe rispettare la memoria storica del
Porto di Milano e quindi continuare
a essere utilizzato con funzioni di
competenza portuale e non sottrarre
superficie d'acqua per sfruttamenti
pubblicitari o di presenzialismo.
Nel complesso, davanti al successo
dell'intervento, che ricordo è dovuto
essenzialmente alla disponibilità di
un area per il tempo libero che prima non c'era, il progetto tra la creazione di una zona archeologica o
una di straniante modernità ritengo
possa essere accettabile e assimilabile al concetto di Continuità che
ci ha insegnato Rogers a proposito
del rinnovamento delle città.
Resta solo il rammarico per come
avrebbe potuto essere ancora meglio con una maggiore attenzione
verso i particolari costruttivi, una
continuità più rigorosa delle pavimentazioni, una migliore qualità nella progettazione dei mercati e senza
la invadente presenza pubblicitaria.
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RISPETTARE IL MONTE STELLA MEMORIALE DI MILANO
Graziella Tonon e Giancarlo Consonni
Mettiamola così: se la più prestigiosa e la più apprezzata delle Associazioni chiedesse di disporre di una
balza del Giardino di Boboli per collocarvi muri, muretti, totem e un teatro all’aperto per rendere visibile il
proprio messaggio, cosa pensereste? Il Monte Stella di Milano non è
il Giardino di Boboli, ma quanto ad
architettura del paesaggio è un gioiello della contemporaneità: in Italia
ha inaugurato una nuova sintesi tra
disegno urbano e progetto del paesaggio che ha fatto scuola.
In più quello è il memoriale di Milano. Là sotto ci sono membra e ossa
della città ambrosiana. È infatti costruito con le macerie prodotte dal
secondo conflitto mondiale che ha
distrutto il 13% del patrimonio edilizio della città: Nel definirne configurazione e carattere, Piero Bottoni ha
voluto farne un messaggio di pace
contro tutte le guerre. Percorrendone le balze, si può apprezzare la
sapiente composizione in cui gli elementi naturali sono stati chiamati
a giocare la loro parte, in
un’ascensione che porta, al culmine, a spaziare con lo sguardo sulla
città in continua trasformazione.
Su una di queste balze dal 2002 si è
innestata l’iniziativa bellissima del
Giardino dei Giusti. Ne è venuta
un’integrazione, anche simbolica,
che fin qui ha funzionato bene. Ora
però l’associazione Gariwo, non
contenta della modalità fin qui seguita, ha chiesto di seguire un’altra
linea: più incentrata sulla comunicazione, sul segnare il territorio con
muri, muretti, totem e un teatro
all’aperto. Una pesante manomissione che snaturerebbe l’unitarietà
dell’organismo
Monte
Stella.
L’operazione, che ha trovato pieno
sostegno nell’Amministrazione comunale, ha incontrato la forte opposizione degli abitanti (più di mille
firme) e di intellettuali ed esperti (oltre 230 firme).
Purtroppo il confronto non è mantenuto nel merito. Un rappresentante
di Gariwo per primo ha assunto la
grave responsabilità di evocare fantasmi, scrivendo su Facebook: «La
verità […] è che gratta gratta troveremo oscuri interessi dietro il Comitato per i no». E ancora: «sotto sotto
il giudeo massonico ritorna anche
se mascherato dalle migliori intenzioni». Di fronte a queste uscite,
abbiamo cercato di mettere in guardia alcuni illustri sottoscrittori di un
appello lanciato da Gariwo dalla
scelta irresponsabile di mettere fuori
gioco dissenso e proteste bollandoli
come inquinati da antisemitismo.
Apriti cielo! Lo stesso esponente di
Gariwo va sostenendo che i promo-
tori dell'appello avrebbero ingannato
i sottoscrittori, non mostrando loro la
delicatezza (!) delle trasformazioni
proposte. No: i firmatari hanno sottoscritto dopo aver visto il confronto
tra lo stato attuale e i rendering del
progetto. È una verifica che chi legge, se vuole, può fare di persona sul
sito dedicato.
Molti sono i nomi prestigiosi (e tra
questi diversi di appartenenza ebraica) che chiedono di rispettare
l’architettura del Monte Stella, salvaguardando nel contempo il Giardino dei Giusti, meravigliosa iniziativa, così com'è. È questa adesione
ampia e qualificata che si cerca di
demolire ricorrendo a travisamenti e
insinuazioni. Gariwo dovrebbe invece meditare se, con il progetto che
umilia il Monte Stella, non abbia imboccato una strada sbagliata. Si
vuole sgombrare il campo da strumentalizzazioni ed equivoci? Si faccia una grande festa popolare dove
insieme Gariwo, i Comitati dei cittadini e la città tutta celebrano il Giardino dei Giusti e il Monte Stella: due
memoriali che finora hanno ben
convissuto.
Ma questo comporta che vengano
abbandonati progetti che devastano
un parco tra i più belli di Milano.
Scrive Valeria Corbella a favore della riapertura dei Navigli
Gentile e stimato Direttore, sono
cittadina qualunque, ma attenta al
sentire della città. E vorrei dire qualcosa che forse nel suo pragmatismo
razionalista le sfugge. Milano ha
una tremenda nostalgia dell'acqua
perduta. Tutte le capitali piccole o
grandi sono aiutate a vivere dall'acqua, tranne la nostra che chiudendo
i suoi canali ha perduto l'anima. Si è
mai chiesto perché dal bar di Affori
a quello di Brera così in tanti espongono le malinconiche "vedute
navigliesche del secolo scorso"?
Come mai tra gli oscuri referendum
del 2011, negletti e osteggiati dalla
politica, tra i più votati c'era proprio
questo?
È stato a passeggiare in quel luogo
-architettonicamente mediocre- che
è la nuova Darsena? Io non ho mai
visto un uso così massiccio e soddisfatto di uno spazio pubblico. È per-
n. 23 VII - 17 giugno 2015
ché è tornata l'acqua. È perché puoi
dimenticarti una giornata faticosa
socchiudendo gli occhi, coi piedi a
penzolo sulle papere e sulle ondine.
I milanesi che hanno subìto e causato ben più di un "sacco", evidentemente oggi sono avidi di un bello
che stentano a trovare e lo riconoscono nel fluire dell'acqua. Dentro
città l'acqua porta energia, toglie lo
stress, l'acqua ci manca da morire.
Lei sa meglio di me che Milano rappresenta nella mappa dell'acqua di
Lombardia una strozzatura, un nodo, un tombino chiuso.
Con soli otto km di canali e una cifra
contenuta (e i ritorni ci sono, ho letto) si potrebbe ricollegare una rete
idrica meravigliosamente vasta, anche solo simbolicamente. Il progetto
è moderno e ben fatto pare, tiene in
considerazione tutti i temi, dalla
mobilità ai servizi. E non si tratta di
una ricostruzione fanè o biecamente
nostalgica, con ponti e lavandaie
"finto vecchio".Questo progetto sì
che sarebbe un super rammendo
sociale dalla Martesana al Ticino,
passando per il centro della città,
davvero riunificante in spirito e materia. Anche i cantieri avrebbero un
senso: i bisnonni hanno guardato
interrare i canali, i pronipoti li guarderanno riaprire Dobbiamo rassegnarci a subire - perché "consolidati
e metabolizzati" - solo i cantieri dei
padroni della città, la tirannia omnipervasiva delle auto, le speculazioni
private sui beni comuni (come l'imminente spartizione degli ex scali
ferroviari o dei terreni ex militari, di
cui nessuno dice)?
Quanto alla sua visione di un centro
città roccaforte di riccastri che si
scavano il fossato difensivo: Veramente io dentro la prima cerchia più
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che sedi di banche e uffici frequentati da cittadini periferici non vedo.
Se poi vi risiedono le famiglie altolocate meno male, sono loro i custodi
del bello che è poi fruito dagli occhi
di tutti noi. I centri storici come scrigni preziosi di tutti, vigiliamo che
restino di libero accesso, facciamoli
pedonali (magari …), impediamo
che si chiudano cortili e pàssages.
Occasione di passeggio e ... sciabordìo per tutti nella storia alta della
città, al posto di stare in coda la
domenica all'ingresso del Fiordaliso.
A me pare che qui lei cada addirittura nell'Errore Ideologico: allertandoci su un pericolo (il creare confini
territoriali di classe), lei lo sostanzia
e lo invera … . Insomma, per me è
un coraggioso progetto simbolo, di
lunga vita, con radici storiche, concreto e fruibile per tutti, dal costo
contenuto, di cui abbiamo davvero
bisogno. Un po' come Expo … no?
Scrive Marco Vitale contrario alla riapertura dei Navigli
Caro direttore, sottoscrivo totalmente il tuo giudizio sulla ipotesi di riapertura della fossa interna dei Navigli “è un’idea vecchia, assolutamen-
te sbagliata, disallineata rispetto ai
problemi milanesi, il relativo referendum è ipocrita e per finire è
un’idea classista”. Meglio non si po-
teva dire. È demoralizzante doversi
sempre battere contro queste autentiche follie.
Scrive Walter Monici contrario alla riapertura dei Navigli
Caro Direttore, sostanzialmente
d'accordo con l'inopportunità di riaprire i Navigli senza una considerazione sui costi e sulle priorità. E sulla incongruenza rispetto al panorama attuale. A maggior ragione vendendo i gioielli di famiglia come propongono i referendum. Forse, se
una amministrazione sparagnina,
dopo aver ridotto al minimo le tasse
sugli immobili si ritrovasse a fine
anno con qualche decina di milioni
che avanzano, bene, forse solo a
quel punto, si potrebbe ipotizzare di
riaprire le due conche superstiti e il
tratto fino alla chiesa di San Marco,
e collegandole con un tubo sotterraneo si avrebbe un piccolo scolmatore delle piene. Oltre che un ambiente quasi simile ai quadri dell'ottocento se non fosse per la sagoma
del grattacielo Unicredit sullo sfondo. Peccato che gli architetti abbiano dimenticato nei rendering di mettere una curva sotto i ponti e di rialzarli un poco. Quei ponti a raso sono veramente brutti e non dialogano
con il canale sotto. Ma si sa che la
sensibilità degli architetti di regime,
e dei cosiddetti archistar è sensibile
solo alla valorizzazione del proprio
ego smisurato. Ho letto di una cosa
che non avrei mai voluto leggere:
intendono costruire grattacieli anche
a Roma, Tor vergata, e così ci giochiamo 2000 anni di storia e di paesaggio col beneplacito di tutti gli architetti distruttori e sovrintendenti
che non proteggono le belle arti che
popolano il nostro disastrato paese.
MUSICA
questa rubrica è a cura di Paolo Viola
[email protected]
Il privilegio dei milanesi
“Ciò che è curioso, e che vorremmo
porre come “questione musicale” ai
nostri lettori, è la totale incomunicabilità fra le diverse istituzioni ...”.
Così scriveva il curatore di questa
rubrica nel suo primo articolo, il 12
febbraio del 2009. Allora si riferiva
alla assenza di coordinamento fra le
diverse istituzioni musicali milanesi.
Si riferiva anche alla ricchezza di
offerta musicale di Milano, ricchezza
che la mette in linea con le grandi
capitali europee. Ma nello stesso
tempo si augurava una programmazione “intelligente”, un “sistema” milanese volto a promuovere una stagione nella quale le varie istituzioni,
autonome nel costruire i loro programmi, si mettessero in sintonia tra
di loro, per dar vita a proposte musicali ricche di alternative e finalizzate a rispondere alle esigenze di
un pubblico curioso e desideroso di
una completa esperienza musicale.
n. 23 VII - 17 giugno 2015
In riferimento a quella sua iniziale
riflessione, un' idea forse un po'
stravagante può fare capolino e
presentarsi ai famosi quattro lettori
di questa rubrica. A Milano ci sono
tre Orchestre stabili: Scala, Pomeriggi Musicali e Orchestra Verdi. Vi
sono anche altre Istituzioni, certo
importanti, ma non così stabili. Se
tra i musicisti di queste orchestre ci
fosse uno scambio che potesse
permettere a un musicista della
Verdi di sperimentare - per una stagione? - l'opera lirica, o a un musicista dei Pomeriggi Musicali di immergersi nell'esperienza sinfonica
della Verdi o a uno Scaligero di mettersi in sintonia con l'orchestra da
camera dei Pomeriggi? Forse ne
trarrebbero vantaggio i musicisti,
che arricchirebbero non solo il loro
bagaglio cultural - musicale ma anche la loro esperienza professionale.
Può accadere, infatti, che restare
per anni nello stesso posto, con lo
stesso ruolo, provochi assuefazione, forse anche pigrizia intellettuale
... . Mentre con uno scambio tra orchestre forse ne trarrebbe vantaggio
anche l'istituzione di cui i musicisti
sono dipendenti. D'accordo sulla
singolarità di questa riflessione e
soprattutto sulla sua difficile messa
in atto. E tuttavia quel “sistema” milanese di cui si parlava in quel primo
articolo, potrebbe riguardare non
solo la costruzione delle stagioni
musicali ma anche gli stessi musicisti, coinvolti in una sinergia che
romperebbe l'incomunicabilità tra le
diverse istituzioni.
Il 21 giugno, Festa della Musica. E
Milano, città dalle mille, sorprendenti, iniziative non si fa trovare impreparata. Molti i luoghi coinvolti, dal
Parco Forlanini al Parco Sempione,
dal Cortile delle Armi del Castello
Sforzesco al Museo del Novecento;
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diversi i generi musicali, dalla musica barocca per finire al tango e al
reggae. Diventa una Festa della
Collettività.
Al Museo del Novecento, musica
barocca! Un concerto così intitolato
“Du grand Siècle à la première
guerre mondiale”. Abbiamo ascoltato musiche di Francois Couperin,
Marin Marais, Jacques Duphly, Jean Baptiste Antoine Forqueray e
Jean Baptiste Barrière - e siamo nel
Settecento - per finire con Claude
Debussy, Gabriel Fauré, Francis
Poulenc, con il quale arriviamo al
1919!
Concerto singolarissimo! Percorrere
le sale del Museo del Novecento,
adocchiando le meraviglie - anche
disturbanti - dell'arte del secolo
scorso e arrivare alla Sala dell'Arte
Povera, dove da un clavecin uscivano suoni d'altri tempi, un hautbois
diffondeva altri suoni deliziosamente
nasali, e violon e basse de viole accarezzavano non solo l'orecchio ma
anche l'anima, è stata un'esperienza straniante e affascinante insieme.
Il concerto era dedicato a Laura Alvini, nel decennale della morte, ed è
stato promosso dagli “Amici di Laura” in collaborazione con gli “Amici
della GAM” e l'associazione OttavaNota. Diviso in tre diverse parti
del giorno: ore 11.00, ore 15.30,
musica barocca; ore 17.00 Debussy, Fauré, Poulenc.
Laura Alvini è stata docente di clavicembalo, clavicordo e basso continuo alla Scuola Civica di Musica di
Milano. Ha avuto il merito di far conoscere e diffondere, a partire dagli
anni '70, la musica barocca e soprattutto di favorire un uso consapevole degli strumenti musicali antichi, di far crescere una pratica interpretativa tesa a fondere sensibili-
tà musicale e precisione filologica.
“... il fine che l'interprete si pone non
è né semplice né delimitato e soprattutto evolve continuamente, poiché un buon interprete si pone delle
domande sul passato in connessione a problemi e a contesti sempre
nuovi”, così scriveva Laura Alvini
nel gennaio del 1976 nella presentazione di un concerto dedicato a
“L'interpretazione della musica francese dal Re Sole alla rivoluzione”.
E così possiamo ritornare a quel
primo articolo del febbraio 2009: “...
ci rendiamo facilmente conto che la
fortuna di poter ascoltare tanta musica di così grande livello artistico e
professionale arride ad una sparuta
minoranza di esseri umani; e noi
abbiamo questo privilegio “in casa”!"
Maria Matarrese Righetti
ARTE
questa rubrica è a cura di Benedetta Marchesi
[email protected]
L’età dorata di Milano
Un’immersione in una Milano sfarzosa e lucente, questo è quello che
consente di vivere quel periodo storico che fu la vera e propria “età
dell’oro” milanese. La mostra Arte
lombarda dai Visconti agli Sforza (a
Palazzo reale fino al 27 giugno), allestita nel 1958 nelle stesse sale, fu
per l’epoca un progetto che contribuì all’affermazione dell’identità culturale milanese e lombarda e della
grandezza della sua tradizione artistica.
Le circa duecentocinquanta opere in
mostra sono state selezionate per
consentire al visitatore non solo di
apprezzare la preziosità dei materiali e la bellezza dei singoli oggetti,
ma anche di riconoscerne i legami
formali e il linguaggio comune. In
mostra sono i secoli dal primo Trecento al primo Cinquecento: tutta la
signoria dei Visconti, poi degli Sforza, fino alla frattura costituita
dall’arrivo dei Francesi.
Il percorso della mostra si svolge
attraverso una serie di tappe in ordine cronologico, che costituiscono
altrettante sezioni e sottosezioni,
che illustrano la progressione degli
eventi e la densità della produzione
artistica: pittura, scultura, oreficeria,
miniatura, vetrate, con una vitalità
figurativa che soddisfa le esigenze
della civiltà cortese e conquista notorietà internazionale al punto da
n. 23 VII - 17 giugno 2015
divenire sigla d’eccellenza riconosciuta: l’“ouvraige de Lombardie”.
Cinque tappe che ripercorrono cinque fasi della storia delle due famiglie: i decenni centrali del Trecento
costituiscono la prima sezione espositiva, dedicata a illustrare come
i Visconti abbiano impresso una
svolta fondamentale alla cultura
lombarda, dapprima importando a
Milano e in Lombardia artisti “stranieri” - i toscani Giotto e Giovanni di
Balduccio - poi aprendo cantieri nelle capitali del ducato, nelle città satelliti, nelle campagne, occupando
gli spazi urbani e rinnovando quelli
ecclesiastici; seconda tappa è quella degli anni attorno al 1400, dove
domina Gian Galeazzo Visconti,
personaggio chiave del tardo gotico
lombardo: sono gli anni del grande
cantiere del Duomo di Milano (al
quale si deve un grosso contributo
in quanto la stessa istituzione milanese ha generosamente accettato
di smontare dalle guglie ed esporre
in mostra alcune statue della Cattedrale e alcune vetrate, altrimenti difficilmente visibili).
Nella terza sezione si passa al lungo regno di Filippo Maria Visconti,
molto diverso da Gian Galeazzo e
non adatta a riunire una vita di corte
di qualità. Comincia la crisi del ducato e molti degli artisti coinvolti lasciano la Lombardia. La quarta sezione, mette a fuoco l’importanza
dello snodo che corrisponde alla
fine dinastica dei Visconti e alla presa di potere di Francesco Sforza (gli
anni intorno al 1450) fino a tutto il
periodo di governo di Galeazzo Maria Sforza: i nomi degli artisti sono
straordinari da Vincenzo Foppa a
Bembo, da Zanetto Bugatto a Bergognone. La quinta e ultima tappa è
dedicata agli anni di Ludovico il Moro e alla spaccatura provocata alla
sua caduta e dall’arrivo dei Francesi: sono anni di cambiamenti radicali
nell’urbanistica, nell’architettura e in
generale nella produzione artistica
grazie alla presenza a Milano di
personalità eccezionali come Bramante, Leonardo e Bramantino.
A rendere ancora più magico il percorso di mostra sono le musiche
dell’epoca che diffuse nelle sale
creano un’atmosfera unica e fuori
dal tempo. Purtroppo l’esposizione
è prossima alla chiusura, sarebbe
stato bello mostrare a chi viene in
città in occasione di Expo gli splendori di una Milano che fu.
Arte lombarda dai Visconti agli
Sforza fino al 27 giugno Palazzo
Reale piazza del Duomo Milano orari lun: 14:30 - 19:30 mar - mer ven - dom: 09:30 - 19:30 gio - sab:
09:30 - 22:30 Ultimo ingresso un
ora e mezza prima della chiusura;
Intero € 12,00 Ridotto € 10,00
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Alla Gam non si spara sul pittore (e neanche sul pianista)
È una mostra che sorprende Don’t
Shoot the Painter. Dipinti dalla UBS
Art Collection, curata da Francesco
Bonami e ospitata alla GAM dal 17
giugno al 4 ottobre, non solo per
l’altissimo livello qualitativo delle
opere esposte ma anche, e forse
soprattutto,
per
l’innovazione
dell’allestimento. Le pareti delle sale
al piano terra sono coperte da gigantografie che riproducono le sale
della GAM come sono quando ospitano la collezione permanente del
museo e su di esse, come in una
quadreria ottocentesca, i dipinti della collezione UBS. Un dialogo generazionale dove le collezioni ottocentesche accolgono e danno risalto al
contemporaneo, attribuendo ad esso un valore ancora nuovo.
L’esposizione è un omaggio alla pittura contemporanea e riunisce per
la prima volta alla GAM di Milano
oltre cento tra i maggiori capolavori
della UBS Art Collection di novantu-
no artisti internazionali, dallo sguardo fotografico di Thomas Struth
all’arte neo espressionista di JeanMichel Basquiat. In mostra, visibili
per la prima volta al pubblico italiano, oltre 100 tra le maggiori opere
della UBS Art Collection dagli anni
‘60 ad oggi di 91 artisti internazionali fra cui John Armleder, John Baldessari, Jean-Michel Basquiat, Max
Bill, Michaël Borremans, Alice
Channer, Sandro Chia, Francesco
Clemente, Enzo Cucchi, Günther
Förg, Gilbert & George, Katharina
Grosse, Andreas Gursky, Damien
Hirst, Alex Katz, Bharti Kher, Gerhard Richter, Thomas Struth, Hiroshi Sugimoto, per citare alcuni nomi.
Il titolo, Don’t Shoot the Painter, è
un riferimento ironico alla frase
“don’t shoot the pianist” che spesso
compare nei saloon dei film western: ogni volta che le idee e i linguaggi dell’arte si confondono e
rendendo difficile decifrare il signifi-
cato degli elementi in gioco, la pittura torna sulla scena per riportare
l’attenzione su ciò che è facilmente
riconoscibile e interpretabile da tutti,
esattamente come la musica del
pianista nei film western riporta
l’ordine nel caos del saloon.
La mostra durerà fino alla fine
dell’estate, in questi mesi di caldo
cogliete l’occasione, andate a fare
una passeggiata al parco di Palestro ed entrate a sbirciare la mostra
(acquistando il biglietto per il museo
l’ingresso è gratuito): non ne rimarrete delusi!
Don’t Shoot the Painter. Dipinti
dalla UBS Art Collection GAM Galleria d’Arte Moderna di Milano
via Palestro 1 martedì – domenica
9:00 - 19.30 giovedì apertura straordinaria mostra fino alle 22.30 biglietto intero € 5,00 biglietto ridotto
€ 3,00 Ingresso gratuito ogni giorno
dalle ore 16.30 e tutti i martedì dalle
ore 14.00
Wave: Milano riscopre l’ingegnosità collettiva
Quando si parla di mostra
l’immaginario collettivo associa la
parola a quadri, sculture, immagini o
prodotti, trascurando spesso che si
possano esporre e mettere all’attenzione dei visitatori anche idee e
buone pratiche. WAVE - Come
l’ingegnosità collettiva sta cambiando il mondo è l’esposizione voluta
da BNP Paribas che si basa sul
principio per cui l’ingegnosità collettiva sia da sempre il principale motore dell’evoluzione umana, e che
negli ultimi anni alcune tra le correnti più interessanti dell’economia
stiano servendosi dell’ingegnosità
collettiva per rendere il mondo un
posto migliore.
L’ingegnosità collettiva è parte di un
fondamentale cambiamento di mentalità: passare dal pensiero individuale a quello collettivo e allo stesso tempo riconoscere che tutti siamo destinati a entrare in relazione
gli uni con gli altri. In un sistema che
è sempre più connesso e interdi-
pendente, interessi personali e interessi collettivi convergono: il benessere di ogni persona dipende da
quello di tutti gli altri.
Dopo essere stata a Parigi, Marsiglia, Lille, WAVE approda a Milano
(dal 4 giugno al 3 luglio 2015), prima di raggiungere Dakar, Mumbai e
Hong Kong. La mostra racconta le
storie di alcuni innovatori, che hanno saputo interpretare le correnti più
interessanti dell’economia contemporanea: co-creazione, condivisione, inclusione, circolarità, movimento dei maker. Immagini, testi, video
raccontano esempi virtuosi del passaggio dal pensiero individuale a
quello collettivo: la homepage di ipaidabribe.com mostra una mappa
dell'India, aggiornata in base ad anonime segnalazioni di corruzione;
la storia di Salvatore Iaconesi, il
quale dopo aver scoperto di avere
un tumore al cervello, hackerò il sistema ospedaliero e caricò i propri
dati su internet invitando tutti ad a-
nalizzare il suo caso; o ancora: Protei, un drone capace di risucchiare
due tonnellate di petrolio e altre inquinanti, Blablacar, il sistema di
carpooling o Beacon Food Forest,
che è molto più di un orto collettivo.
“L’onda di cui racconta WAVE è
molto più articolata di quanto non
appaia a coloro che considerano
l’economia campo esclusivo degli
economisti, e l’ingegnosità dominio
privato di pochi talentuosi creativi.
Al contrario, Wave Milano indica la
forza che l’ingegnosità collettiva può
generare, e il promettente valore
economico che si ottiene non appena si offre alle persone l’opportunità
d’ingegnarsi.” Leonardo Previ, Presidente di Trivioquadrivio e curatore
di Wave Milano.
Wave Milano Galleria San Fedele.
Piazza San Fedele fino al 3 luglio
2015 Orario: da lunedì a venerdì 7 –
19 Ingresso gratuito
Il principe dei sogni
Defilata rispetto alla grande retrospettiva dedicata a Leonardo e meno “milanese” rispetto alla mostra
dedicata all’Arte lombarda dai Visconti agli Sforza, nella Sala delle
Cariatidi al Palazzo Reale di Milano
è racchiusa una mostra gioiello:
quella da titolo “Il Principe dei sogni.
Giuseppe negli arazzi medicei di
n. 23 VII - 17 giugno 2015
Pontormo e Bronzino”. Nella grande
sala monumentale sono radunati,
dopo centocinquanta anni, i 20 arazzi cinquecenteschi commissionati da Cosimo de' Medici per raccontare la storia del personaggio biblico
di Giuseppe, le cui vicende sono
narrate nella Genesi.
L’esposizione è curata da Louis
Godart e riunisce l'intero ciclo di arazzi che i Savoia avevano diviso
nel 1882 tra Firenze e il Palazzo del
Quirinale; grazie all’impegno della
Presidenza della Repubblica Italiana e del Comune di Firenze, i grandi
panneggi tornano a essere esposti
insieme in una mostra unica. Dopo
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la tappa di Roma, nel Salone dei
Corazzieri del Palazzo del Quirinale,
sono a Milano e successivamente a
Firenze nella Sala dei Duecento di
Palazzo Vecchio dal 15 settembre
2015 fino al 15 febbraio 2016.
Nella grande sala decorata gli imponenti arazzi riempiono le pareti e
nella semioscurità i colori dei tessuti
risplendono. Questa serie di panni
monumentali, oggetto di un complesso e pluridecennale restauro
presso l’Opificio delle Pietre Dure di
Firenze e il Laboratorio Arazzi del
Quirinale, rappresenta una delle più
alte testimonianze dell’artigianato e
dell’arte rinascimentale. Gli arazzi
con le Storie di Giuseppe vennero
commissionati da Cosimo I de’ Medici tra il 1545 e il 1553 per la Sala
dei Duecento di Palazzo Vecchio a
Firenze. I disegni preparatori furono
affidati ai maggiori artisti del tempo,
primo fra tutti il Pontormo. Ma le
prove predisposte da quest’ultimo
non piacquero a Cosimo I, che decise di rivolgersi ad Agnolo Bronzino, allievo del Pontormo e già pittore di corte, e a cui si deve parte
dell’impianto narrativo della serie.
Tessuti alla metà del XVI secolo
nella manifattura granducale, tra le
prime istituite in Italia, furono realizzati dai maestri arazzieri fiamminghi
Jan Rost e Nicolas Karcher sui cartoni forniti da Agnolo Bronzino, Jacopo Pontormo e Francesco Salviati.
Un'occasione per immergersi nella
bellezza, intensa e rara, di opere
che oltre che di arte parlano anche
di maestria artigiana e soprattutto
della storia d'Italia, attraverso la vicenda esemplare di Giuseppe, degli
artisti che lo hanno immaginato e
dei committenti che hanno finanziato il lavoro.
Audioguide e didascalie guidano il
visitatore in un percorso alla scoperta della bellezza e della maestria
artigiana del cinquecento fiorentino,
senza perdersi in dettagli specialistici o ad appannaggio esclusivo
degli addetti ai lavori.
Il principe dei sogni Giuseppe
negli arazzi medicei di Pontormo
e Bronzino fino al 23.08.15 Palazzo
Reale Lunedì 14.30 -19.30 Martedì
mercoledì, venerdì e domenica 9.30
– 19.30 Giovedì e sabato 9.30 –
22.30
La Fondazione Prada e la rigenerazione culturale di Milano
Il 9 maggio il sempre più vasto mosaico culturale di Milano si è arricchito di un importantissimo e preziosissimo tassello: la Fondazione
Prada. La celebre stilista Miuccia
Prada e il marito Patrizio Bertelli
hanno regalato al capoluogo lombardo uno dei più interessanti interventi culturali visti in Italia in materia
di arte, ma anche di architettura e,
soprattutto, di rigenerazione urbana.
Le vecchie distillerie di inizio Novecento sono state restaurate, ristrutturate, trasformate e integrate per
offrire ai visitatori una superficie di
19.000 mq dove trovano posto non
soltanto spazi espositivi per le varie
mostre temporanee, ma anche un
cinema, un’area didattica dedicata
ai bambini, una biblioteca e il Bar
Luce concepito dal regista Wes Anderson che si ispira ai celebri caffè
meneghini e già diventato “cult” nel
giro di pochi giorni.
La molteplicità e la versatilità degli
spazi della Fondazione consentono
un’offerta culturale estremamente
variegata. Sono attualmente aperte
al pubblico le mostre “An Introduction”, nata da un dialogo fra Miuccia
Prada e Germano Celant, “In Part” a
cura di Nicholas Cullinan e le installazioni permanenti di Robert Gober
e di Louise Bourgeois presso la
“Haunted House”, una struttura preesistente che, rivestita di uno strato
di foglia d’oro, acquista un’aura altamente immaginifica e imprime un
segno forte ed evidente nel paesaggio urbano di Milano. Ma è
“Serial Classic” la mostra più sorprendente: Miuccia Prada abbandona momentaneamente la passione
per il contemporaneo per rivolgersi
al passato, all’arte antica dove sono
scolpite le origini della nostra cultura. Salvatore Settis e Anna Anguissola curano magistralmente una
mostra che presenta l’ambiguo rapporto fra l’originale e la copia
nell’arte greca e romana.
Un allestimento geniale presenta
più di sessanta opere che dialogano
fra di loro e con lo spazio esterno
circostante attraverso ampie vetrate. Il modello perduto, giustamente
sfocato, giunge ai nostri giorni attraverso le innumerevoli imitazioni,
emulazioni o interpretazioni commissionate dalla ricca aristocrazia
romana. Ed ecco che il solido blocco di marmo prende vita e si circonda di un’aura di sacralità ancora oggi percettibile. Gli spazi rivisti da
Rem Koolhaas e dal suo studio
OMA consentono a una vecchia
fabbrica di trovare nuova vita in un
tempio che ospita personaggi della
mitologia, guerrieri e divinità quali
Venere e Apollo con opere provenienti dai più importanti musei del
mondo, dai Vaticani al Louvre. La
Fondazione Prada diventa oggi il
modello di quella inevitabile e illuminata collaborazione che deve esserci fra pubblico e privato per il beneficio dei cittadini milanesi, italiani
e di tutti i visitatori stranieri che iniziano a intravedere nel laboratorio
creativo di Milano la nuova Capitale
Europea.
Giordano Conticelli
Fondazione Prada - Largo Isarco 2
Milano (M3 Lodi T.I.B.B.) orari: tutti i
giorni h10-21 biglietti: 10€ ridotto 8€
gratuito minori 18 anni e maggiori di
65
Parigi è a Milano grazie agli scatti di Brassaï
In tempo di Expo Palazzo Morando
porta Brassaï a Milano: dal 20 marzo al 28 giugno 2015 sono esposte
al piano terra del palazzo di via S.
Andrea 260 immagini di una Parigi
onirica e poetica attraverso lo
sguardo innamorato dell’artista ungherese che fece sua la capitale
francese.
Nato nel 1899 a Brasso (l’attuale
Braşov) in Transilvania, Gyula Halász - che prenderà il nome di Brassaï quando inizierà a fotografare,
n. 23 VII - 17 giugno 2015
nel 1929 - arriva la prima volta a Parigi a soli 4 anni, con il padre, professore di letteratura che vi trascorre un anno sabbatico. I ricordi di
quegli anni, come "petites madeleines" di proustiana memoria, rimarranno in lui riaffiorando talvolta e
lasciandogli perennemente dentro
uno sguardo incantato nei confronti
della città.
Le prime tre sale portano il visitatore
in una Parigi dolce, malinconica:
dove i bambini dai calzini bian-
chi giocano con le barchette al Jardin du Luxembourg o i leoni di pietra
hanno criniere di neve nel parco
delle Tuileries. La Tour Eiffel luccica
nella notte e a Longchamp si pesano i cavalli da corsa. Passano gli
anni e lo sguardo muta, giunge il
disincanto ma rimane l’accuratezza
e le assenza di giudizio nel raccontare la notte e i suoi protagonisti.
Brassaï inizia a inseguire, nella luce
notturna della città, una Parigi insolita, sconosciuta e finora non degna
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di attenzione. Durante le sue lunghe
passeggiate che lo portano solo o in
compagnia di Henry Miller, Blaise
Cendrars e Jacques Prévert, complici nell’alimentare le sue curiosità,
rende visibili le prostitute dei quartieri “caldi” o i lavoratori della notte
alle Halles, o ancora i quarti di animali appesi dai macellai.
Brassaï in quegli anni ricerca gli oggetti più ordinari e ne trasforma il
significato, osa giustapposizioni in-
solite e defamiliarizza la percezione,
togliendo il reale dal suo contesto. Il
suo pensiero si concentra nel trasformare il reale in decoro irreale, è
a partire dal 1929 che nascerà la
sua ostinata ricerca dei graffiti.
Circo, nudi femminili, ancora Parigi,
Picasso e molti altri artisti sono i
soggetti degli scatti del grande fotografo (ma anche scrittore e cineasta) che testimoniano il tanto profondo quanto fecondo rapporto che
per oltre cinquanta anni lo ha legato
alla Ville lumière, fino alla sua
scomparsa nel 1984.
Brassaï. Pour l’amour de Paris
fino al 28 giugno 2015 Palazzo Morando | Costume Moda Immagine
via Sant’Andrea 6, piano terra, spazi
espositivi, mart. – dom., ore 10 - 19
Biglietteria € 10,00 / 8,50 / 5,00
L’Africa si mostra a Milano
L’Africa approda a Milano con una
mostra allestita nel nuovo Mudec, il
Museo delle Culture che ha finalmente aperto i suoi battenti dopo 12
anni di agognati lavori. Il capoluogo
lombardo, a breve al centro del
mondo come sede dell’Esposizione
Universale, afferma la propria identità di città multietnica, bacino delle
tante culture che negli ultimi decenni si sono andate a integrare
nell’antico e complesso tessuto urbano di Milano. “Africa. Terra degli
spiriti” è un interessante progetto
espositivo che raccoglie circa 270
manufatti e che da il via alla vivace
stagione culturale milanese organizzata durante i mesi di EXPO
2015.
La mostra si articola in vari ambienti
presentando le affascinanti sfaccettature della cultura subsahariana
dalle figure reliquiario alle armi, dagli altari vudu alle celeberrime maschere utilizzate durante le danze e
le cerimonie religiose. Sorprendenti
risultano essere alcuni manufatti
come cucchiai e olifanti realizzati
interamente in avorio ed eseguiti
con un altissimo e raffinatissimo livello qualitativo. Interessante è an-
che il progetto d’allestimento che
tenta di creare un’atmosfera intima
e infondere un profondo senso religioso nel visitatore. Convincente è
la soluzione adottata nella prima
sala dove sono esposte figure custodite all’interno di teche cilindriche
sorrette da una struttura che vuole
forse richiamare le affascinanti e
impenetrabili foreste di questo continente. Da notare anche l’utilizzo di
alcuni effetti sonori come il frinire
dei grilli o il penetrante ritmo delle
percussioni, espedienti che aiutano
il visitatore a immergersi nella ancestrale cultura africana. Unica interazione tra opere esposte e pubblico è
la possibilità che ha quest’ultimo di
far rivivere le divinità di un altare
vudu. Come suggerisce Claudia Zevi attraverso l’audio guida distribuita
gratuitamente, il visitatore è invitato
a lasciare un oggetto personale in
segno di devozione per manufatti
che riescono ancora oggi a serbare
in sé un elevato valore sacrale.
La fretta di inaugurare ha, però, determinato la presenza di alcuni errori, minimi dettagli a cui bisognerebbe prestare sempre la massima attenzione. Grazie a una buona e
suggestiva illuminazione, i singoli
reperti sono facilmente fruibili nonostante la presenza, in alcuni casi, di
polvere e di impronte lasciate sulla
superficie delle teche. Di difficile lettura risultano essere, inoltre, alcuni
pannelli, ora velati da un sottile tessuto reticolato, ora posti in una zona
d’ombra, lontano del cono di luce.
Alcune didascalie sono poste al livello della superficie di calpestio,
elemento che porta il visitatore a
doversi sforzare per leggerle. Tutti
questi aspetti di disturbo non vanno,
comunque, a intaccare una mostra
che nel complesso risulta essere un
ottimo progetto curatoriale, di enorme interesse per Milano che si conferma città internazionale e che si
affaccia con prepotenza sulla società globale contemporanea.
Giordano Conticelli
Africa - la terra degli spiriti fino al
30 agosto 2015 MUDEC Museo delle culture via Tortona 56 Milano orari lunedì 14.30-19.30 martedì/mercoledì/venerdì /domenica 9.3019.30 giovedì e sabato 9.30-22.30 biglietti 15/13 euro
Food. Quando il cibo si fa mostra
Food | La scienza dai semi al piatto,
non è solo una mostra dedicata
all’alimentazione: è un percorso di
avvicinamento e scoperta del processo di produzione di ciò che
mangiamo. Anche questa definizione è riduttiva: le quattro sezioni accompagnano il visitatore dalla scoperta dei cibo, dall’origine quando è
seme fino alle reazioni chimiche che
sottendono la cottura, passando attraverso dettagliate spiegazioni su
provenienza
storico-geografica,
suggerimenti sulle modalità di conservazione o exhibit interattivi.
La mostra, in corso fino al 28 giugno
2015 e allestita nelle sale del Museo
di Storia Naturale Milano, rappresenta il più importante evento di divulgazione scientifica promosso dal
Comune di Milano sul tema di Expo
n. 23 VII - 17 giugno 2015
2015. “Nutrire il Pianeta, Energia
per la Vita” e costituisce una delle
più importanti iniziative del programma di “Expo in Città”.
Tutto nasce dai semi è il titolo della
prima sala, nella quale vengono
raccontate le diverse classi e famiglie con caratteristiche, provenienza
e utilizzo. Decine e decine di barattoli mostrano, portando, in alcuni
casi per la prima volta, esemplari
che appartengono alle più importanti banche dei semi italiane. Si prosegue poi con Il viaggio e
l’evoluzione degli alimenti dove mele, agrumi, riso, caffè e cacao non
avranno più segreti: tra giochi interattivi e alberi genealogici, tutto è
facilmente accessibile e non superficiale. Grande elemento positivo
della mostra è infatti la capacità di
rendere fruibili le nozioni più scientifiche a un pubblico differenziato,
senza per questo incorrere nel rischio di semplicismo.
Che la cucina sia un’arte è risaputo
da tempo, ma che alla base di tante
ricette vi siano principi di chimica e
fisica passa spesso inosservato: la
terza sezione della mostra illustra
come funzionano alcuni degli elettrodomestici più comuni, con consigli sulla conservazione degli alimenti (sapevate che i broccoli hanno un
metabolismo più veloce delle cipolle
e che per meglio conservarli andrebbero avvolti in una pellicola di
plastica?!) e soluzioni fisico-chimiche ai problemi di chi cucina (cosa
fare se la maionese impazzisce?).
Quando poi sembra che niente in
materia di cibo possa più sorpren-
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derci si giunge all’ultima sala I sensi. Non solo gusto ovvero niente è
come sembra: vista, olfatto e tatto
anche nel mangiare giocano un ruolo determinante, al punto talvolta di
allontanare il gusto dalla reale percezione.
Il costo del biglietto è medio alto
(12/10 euro), ma la visita merita
davvero il prezzo d’ingresso se non
altro per cominciare ad affacciarsi
nel tema che, grazie ad Expo, ci accompagnerà per tutto il 2015.
Food. La scienza dai semi al piatto fino al 28 giugno 2015 Lunedì
09.30 – 13.30 / Martedì, Mercoledì,
Venerdì, Sabato e Domenica 9.30 –
19.30 / Giovedì 9.30 – 22.30 Biglietto 12/10/6 euro
LIBRI
questa rubrica è a cura di Marilena Poletti Pasero
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Nikola P. Savic
Vita migliore
Bompiani 2014 pp.286 ,euro 12,56
Giurato a Masterpiece,il noto talent
scout televisivo per scrittori esordienti, lo scrittore Andrea De Carlo
dice di Nicola P. Savic "Non imita
nessuno. Ha tutto quello che gli serve: lo sguardo,il cuore, l'istinto, il
senso del ritmo". E ancora: "Un raro
caso di romanzo originale". "Un romanzo forte, autentico. Un mondo
nel quale i sentimenti hanno ancora
un senso" aggiunge Giancarlo De
Cataldo. E Susanna Tamaro: "La
vecchia Europa esiste ancora".
È il contesto che contribuisce a tutto
ciò: la Jugoslavia di Tito, prima della
sua scomparsa. Ne scaturisce un
romanzo di formazione, perché la
storia si sviluppa nel quartiere 62°
nord di Belgrado, costruito da Tito,
enormi casermoni grigi, dove scorre, inconsapevole degli eventi storici, la vita randagia dei ragazzi locali.
Deki è il 12enne che ci racconta le
sue peripezie, sempre sul punto di
piangere, tra amori - amicizie nascenti per Ivana, sua compagna di
scuola, che lo giostra con affetto
sincero ma un po' distaccato e impermeabile alle sue profferte d'amore. Battaglie tra opposte gang di ragazzi più grandi, che sfociano in vere piccole guerre per il dominio del
territorio, pistole sotto i giubbotti per
intimorire chi ha superato il confine
immaginario dei vari quartieri, che si
raggiungono attraverso scorciatoie
in cortili o sui tetti, con ardui passaggi, vere stimolanti sciarade.
E poi c'è l'ingegnere, suo padre, che
sta per partire, per lavoro, per l'Italia, argomento che la madre Sve
ama trattare, non senza vanteria,
con le amiche, alle feste dei figli. E
lui Deki, che fa? È contento della
promessa di una "Vita migliore",
come recita il titolo del libro? Forse
sì, perché questo evento lo fa sentire al centro dei discorsi dei grandi e
perché tante novità lo attendono al
di là del confine. È bravo a scuola,
non teme l'ignoto, anzi si sente attratto da tutto ciò che non conosce
ancora, una promessa di nuovo inizio.
Perciò Savic, il Deki della situazione, ha voluto scrivere questo romanzo direttamente in lingua italiana. Verrà selezionato e poi pubblicato da Bompiani nell'aprile del
2014, con il beneplacito di Elisabetta Sgarbi, ideatrice di Masterpiece.
Il romanzo vincerà anche il primo
premio per il romanzo straniero della Associazione "Amici di Leonardo", conferito come di consueto al
Museo Diocesiano.
Perché la sua lingua personalissima
ti scivola via nella mente veloce,
senza affettazioni. E non ti accorgi
quasi del passaggio del protagonista dalla fanciullezza all'adolescenza, tra una bottiglia di birra che ti
inebria e le "pischelle" che ti scocciano quando tu vorresti startene
solo con gli amici tuoi coetanei a
farti i fatti tuoi, per vivere quei riti di
iniziazione in libertà, antefatto dell'età più adulta..
E mentre Deki, ormai cresciuto, saluta Zerica, prima di partire per l'Italia, in una maniera molto disinibita,
"dentro di lei", che lo ammonisce di
non volere restare incinta, lui divaga
con il pensiero e pensa già al giorno
dopo, quando toccherà a lui caricare tutti i bagagli della sua famiglia in
macchina e la madre Sve, chissà
perché, all'ultimo minuto sarà in ritardo. Per un luogo dove "insieme a
mio fratello faremo finta ... di essere
una famiglia normale, che fa cose
normali".
Lasciandosi alle spalle Tito, nell'ombra di una Jugoslavia che, morto lui,
tornerà nel caos più totale, con il
sogno della Grande Serbia, domato
ma non vinto, la Bosnia con le sue
rivendicazioni inascoltate, l'esercito
di pace dell'Onu impotente per malafede o imperizia.
Marilena Poletti Pasero
SIPARIO
questa rubrica è a cura di E. Aldrovandi e D.Muscianisi
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Il Premio Hystrio a Emanuele Aldrovandi
Siamo lieti di segnalare ai nostri lettori il Premio Hystrio Scritture di Scena 2015 conferito a Emanuele Aldrovandi redattore della nostra rubrica Sipario. Qui per voi le motivazioni.
La giuria del Premio Hystrio-Scritture di Scena - formata da Valerio
Binasco (presidente), Laura Bevione, Fabrizio Caleffi, Claudia Cannella, Roberto Canziani, Sara Chiappo-
n. 23 VII - 17 giugno 2015
ri, Renato Gabrielli, Roberto Rizzente, Massimiliano Speziani e Diego
Vincenti - dopo lunga e meditata
analisi dei 96 copioni in concorso,
ha deciso, all’interno di una rosa di
sei testi finalisti (Dieci milligrammi di
Maria Teresa Berardelli, E allora
cadi di Francesco Marioni, Farfalle
di Emanuele Aldrovandi, Fossili di
Mattia Conti, Gli ultimi giorni di Va-
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lentina Gamna e La zona Cesarini
di Filippo Pozzoli), di assegnare il
Premio Hystrio-Scritture di Scena
2015 a:
Farfalle di Emanuele Aldrovandi,
affascinante e originale partitura
drammaturgica per due personaggi
femminili, sapientemente tratteggiati
con gusto contemporaneo, dove
complicità e distruzione reciproca si
mantengono in sottile equilibrio. Ciclicamente alle prese con l’incombere di una figura paterna di grottesca ed emblematica inaffidabilità, le
due protagoniste attraversano le
loro vite perpetuando il proprio rapporto esclusivo attraverso un gioco
infantile crudele che però, nella sua
coerenza, fa da barriera all’assurdità che le circonda. Un testo capace di mantenere alta l’attenzione,
ma anche di emozionare con barlumi di poesia grazie a un realismo
magico che lo trasforma in una curiosa favola nera intrisa di ambigua
bontà.
La giuria ha poi deciso di segnalare:
Dieci milligrammi di Maria Teresa
Berardelli, per una scrittura che utilizza con abilità le dinamiche sceni-
che grazie a dialoghi secchi, di gran
ritmo e piglio cinematografico, da
cui i personaggi emergono con poche
ma
decise
pennellate.
L’ambizione, in buona parte realizzata, è quella di disegnare una storia di ampio respiro, dove analisi
sociale, familiare e di coppia si mescolano per raccontare le nostre
paure e il nostro senso di inadeguatezza. La sinistra attrazione per
l’additivo chimico come soluzione
provvisoria dell’infelicità viene così
resa senza moralismo, grazie a intense sintesi poetiche e metafore
potenti quanto inattese.
CINEMA
questa rubrica è curata da Anonimi Milanesi
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È arrivata mia figlia
di Anna Muylaert [Brasile, 2015, 114']
con Regina Case, Michel Joelsas, Karine Teles, Lourenço Mutarelli
Val lavora come governante presso
una famiglia ricca di San Paolo
composta da un padre pseudoartista che vive di rendita, una madre
giornalista di moda in carriera e un
ragazzo un po’ perditempo. La donna si prende cura della casa, una
lussuosa villa con piscina, e di Fabinho, il figlio dei padroni che ha
cresciuto come suo. Il ragazzo ha la
stessa età di Jessica, la figlia che
ha affidato a parenti nel nord est del
Brasile e che mantiene con il suo
lavoro.
Entrambi i giovani devono sostenere l’esame per accedere all’università. Jessica vuole diventare architetto e studiare nell’ateneo di San
Paolo. In attesa di trovare una sistemazione starà con la madre che
non vede da più di dieci anni. Giunta a San Paolo, la giovane è meravigliata dal lusso della casa, una
vera villa razionalista, e anche dalla
sistemazione della madre, uno
n. 23 VII - 17 giugno 2015
stanzino stipato in cui lei dovrebbe
dormire su un materasso per terra.
Sfacciatamente chiede ai proprietari
aperti e democratici se può occupare la suite degli ospiti. Il padrone di
casa, colpito dalla ragazza, glielo
concede.
Con naturalità la giovane accede a
spazi e servizi che sono socialmente negati alla madre e che la mettono in imbarazzo: Val si ritrova a servire a tavola la figlia e il suo padrone come se Jessica se membro della famiglia padronale. La donna non
si raccapezza, sa che nei rapporti di
classe ci sono linee che non si possono oltrepassare, lei sa stare al
suo posto ma quella ragazza che
addirittura fa il bagno in piscina con
Fabinho e un suo amico la mette in
cattiva luce presso Donna Barbara.
Su pressioni della padrona urge trovare una sistemazione esterna a
Jessica.
Val si trova tra due fuochi: Donna
Barbara che le ricorda le regole di
comportamento e la figlia che di
queste regole se ne infischia e sollecita la madre a ritrovare una dignità calpestata. L’arrivo di Jessica è
stato uno sconquasso, lei ha superato il test universitario, Fabinho no,
in più ha seminato dubbi con il suo
comportamento “sovversivo”. In Val
comincia una rivoluzione silenziosa
che non può essere fermata.
La regista Anna Muylaert ha saputo,
attraverso una commedia ironica,
occhieggiare a dinamiche complesse e sottrarsi a facili umorismi, stereotipi e cliché. Bravissime le attrici
protagoniste specie Regina Casé
nei panni di Val e Camila Márdila
nel ruolo di Jessica per cui ha ottenuto un premio al Festival di Sundance. Il film ha ricevuto anche
l’audience award a Berlino.
Dorothy Parker
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IL FOTO RACCONTO DI URBAN FILE
PIAZZA MISSORI: LA FANTASIA AL POTERE
http://blog.urbanfile.org/2015/06/22/zona-centro-storico-piazza-missori-ci-siamo/
PROGETTO MILANO È
NELLO PAOLUCCI: RESTAURARE ANTICHI STRUMENTI SCIENTIFICI
https://youtu.be/ejJcNuucW2M
n. 23 VII - 17 giugno 2015
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