005-008 Editoriale n. 33

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“Quando un giornale comincerà a sopprimere le notizie, che sia a richiesta dei suoi inserzionisti pubblicitari o per non dispiacere un particolare segmento del mondo degli affari, cesserà presto di essere utile sia agli inserzionisti sia alle imprese, perché presto
smetterà di avere lettori”. Questo pezzo è tratto da un editoriale pubblicato dal Wall
Street Journal nel 1954. Era la risposta del più autorevole quotidiano finanziario americano al ritiro di tutte le inserzioni pubblicitarie da parte del gruppo General Motors, a
causa di un servizio che non era piaciuto. Il quotidiano tenne duro, la pubblicità riprese pochi mesi dopo e il Wall Street Journal ne guadagnò enormemente in credibilità.
Un editoriale di più di mezzo secolo fa resta valido oggi e contiene due lezioni importanti. La prima è la delicatezza del rapporto fra l’indipendenza dei giornali – che ne
fa l’autorevolezza – e la loro linfa vitale dal punto di vista economico, la pubblicità.
L’equilibrio fra il primo requisito e il secondo non sembra facile da tenere; come dimostra il forum sul futuro dei giornali che pubblichiamo nella prima parte, il rischio di
trasformare i quotidiani in veicoli per vendere “altro” è sempre più forte. La seconda
lezione è ancora più secca: per questa ma anche per altre ragioni – a cominciare dalla competizione di fonti molto più rapide di accesso alle informazioni – il rischio costante dei giornali è di perdere lettori. Nel caso italiano, più che di un rischio si tratta di una realtà.
Andiamo davvero verso la fine dei giornali? La risposta del forum è un no abbastanza
netto. I giornali cambieranno ma sopravvivranno e non sempre per buone ragioni: più
che rivolti ai lettori, i quotidiani – italiani in particolare – fanno parte integrante del
sistema politico. Nell’approccio un po’ cinico di Giuliano Ferrara – secondo cui la perdita di lettori è dovuta al semplice fatto che “li facciamo male, i giornali” – questa
contiguità fra informazione e politica è nell’ordine naturale delle cose: giornalismo e
politica, anzi, sono la stessa cosa. Per Ezio Mauro, al contrario, la contiguità è da evitare: è vero che i giornali lavorano a fianco dei politici ma in nome e per conto dell’opinione pubblica.
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Se invece che al caso italiano guardiamo al caso globale, il rapporto fra informazione
e politica appare decisivo per un’altra ragione: è parte integrante dei conflitti identitari figli della fine della guerra fredda. Non è chiaro se stiamo andando davvero verso
uno scontro di civiltà; ma è già sicuramente in corso una “guerra delle idee”, un conflitto aperto per il monopolio dell’informazione. Che la BBC apra un canale in arabo e
Al Jazeera decida di trasmettere in inglese è solo il segno dei tempi: tempi di “glocalismo”, di proiezione globale delle identità locali e di influenza crescente del soft power.
La novità, meglio essere chiari, non sta nel rapporto fra media e identità locali. Come
scriveva già Walter Lippmann nel suo classico Public Opinion: “Nella grande, rumorosa e crescente confusione del mondo esterno cogliamo solo ciò che la nostra cultura ha
già definito per noi”. È il fatto che il localismo delle identità diventi politica globale,
ed è la rapidità con cui questo avviene, a segnare una svolta.
Caso solo apparentemente minore, ma esemplare è quello del Qatar. Uno Stato inesistente nella politica del Golfo, per non parlare di quella internazionale, è diventato
centrale grazie a un’unica mossa: il lancio di Al Jazeera.
Il Qatar è la prova che i media sono ben più della comunicazione: sono ormai l’elemento industriale equivalente all’acciaio negli anni a cavallo fra i due secoli scorsi.
Parlare di media, insomma, significa ormai parlare direttamente di potere internazionale. Il fatto è che si tratta di una relazione a rischio: non solo per le società autoritarie, come vedremo subito, ma anche per le società occidentali, dove una delle conseguenze dell’11 settembre è di avere complicato la relazione fra sicurezza e libertà, inclusa la libertà di informazione. Il caso di Judith Miller, a cui dedichiamo uno degli
articoli, non resterà solo nella storia del New York Times.
Media e potere si incontrano nelle tre dimensioni che contano. Primo, il potere economico legato alla diffusione delle nuove tecnologie dell’informazione, con la spinta che
generano alla convergenza fra vecchi e nuovi media. Le conseguenze non sono certo limitate alla comunicazione: come spiega Alvin Toffler nell’intervista che apre la sezione Scenario – dedicata alle implicazioni industriali, regolatorie, sociali delle nuove
tecnologie – la società dell’informazione è un nuovo modo di produrre e di consumare.
Ciò che si sta costruendo è una “ricchezza non monetaria”, che modificherà sensibilmente le società postindustriali. Tesi ottimistica ma affascinante. A cui si contrappone
la tesi – affascinante anch’essa ma quanto mai pessimistica – di Robert Kaplan: sia-
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attori dell’informazione.
Secondo, media e potere statale, come effetto di una doppia spinta. Una spinta difensiva accentratrice post 11 settembre, legata allo scontro fra quelli che potremmo in fondo definire due network globali; e una spinta all’atomizzazione sociale di cui fa parte
il nuovo modo – individuale – di accedere all’informazione e insieme di produrla. La
proliferazione dei blog è solo il segnale di questo fenomeno più profondo, che di per sé
riduce i monopoli dell’informazione.
E che quindi influisce sul terzo potere: il potere politico, la capacità di formare, guidare, generalmente influenzare la pubblica opinione.
Aumentando il suo peso in ognuna di queste tre relazioni, il mondo dell’informazione
ha intanto perso il suo vecchio potere: il “quarto potere”, come si diceva una volta, sembra relegato al passato.
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La nostra mappa dei media, vecchi e nuovi, segue linee e logiche diverse da quelle geografiche; ma solo in parte. Il caso Cina dimostra come anche le autocrazie “sostenibili” non possano che coltivare una relazione pericolosa con internet. Il che d’altra parte impone una serie di dilemmi – quanto a capacità di combinare scelte di sviluppo industriale e principi etici – alle società mediatiche occidentali. In modo meno netto,
questa argomentazione vale anche per la Russia, dove la stretta di Putin è graficamente illustrata da un assetto del mondo dei media che d’altra parte produce forti ritorni di mercato. Il business “neoautoritario” dei media, a cavallo della lunga frontiera asiatica.
Il luogo che l’Italia occupa in questa mappa media-geografica è apparentemente marginale. Almeno per ora, dimensioni del mercato e monopoli televisivi, che continuano
ad assorbire buona parte della pubblicità, agiscono da freno: il ritardo del digitale è
l’esempio più chiaro di questa difficoltà. Ma come argomentano alcuni degli articoli
che pubblichiamo, parlare di arretratezza tecnologica, nel caso italiano, è eccessivo: il
catching up è possibile, ammesso che vengano attuate le decisioni regolatorie anticipate nell’intervista a Corrado Calabrò.
Tuttavia, è dalla parte dei fruitori, degli utenti, dei lettori che arrivano segnali non incoraggianti per il nostro futuro. Secondo le stime pubblicate in Italy Watch, fra il 2001
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e il 2005 la televisione si conferma come lo strumento in grado di raggiungere la totalità degli italiani (il 97%) insieme al cellulare, il cui utilizzo è in aumento costante. Sulla penetrazione di questi due strumenti si basa il futuro della convergenza, è vero. Ma resta il dato di fatto: i gruppi sociali che in Italia organizzano la propria visione del mondo attraverso un solo media – la tv in particolare – non aumenta con il crescere degli strumenti di comunicazione. Che poi la teledipendenza si trasferisca immediatamente nelle scelte politiche è dubbio: le lezioni dell’ultima campagna elettorale
non vanno in questo senso. Resta il dominio della televisione: tra il 2001 e il 2005, il
gruppo degli italiani che utilizzano regolarmente altri media è limitato, perfino fra i
giovani. Non è minimo (si tratta pur sempre di 10 milioni di persone), ma sembra lontano da potere diventare in tempi rapidi una spina dorsale dell’utenza.
Se il panorama sociale è questo, il futuro appare poco rassicurante. La stampa scritta
esercita ancora uno straordinario potere, anche indiretto. Ma al momento è una influenza che deriva soprattutto dai legami con l’establishment del paese, più che da solidi progetti industriali proiettati nel futuro. La televisione resta dominata da due attori,
uno pubblico e uno privato, entrambi con le loro debolezze. Per fare una comparazione,
in Germania la televisione pubblica – che ha pochissime risorse dalla pubblicità – è più
grande di quella italiana, mentre non esiste un unico concorrente privato grande quanto Mediaset. La rete, infine, non assicura niente, se non l’esplosione dell’informazione
individuale. È uno scenario da una parte troppo vincolato; dall’altra estremamente
frammentato. Può darsi, se Alvin Toffler avrà avuto ragione, che questa atomizzazione
si dimostri un vincolo virtuoso: che sia il mercato degli “utenti renitenti” a generare la
spinta alla nuova competizione, con regole, di cui abbiamo bisogno.
Lucia Annunziata
Marta Dassù