Genere letterario Parabola - Diocesi di Concordia
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Genere letterario Parabola - Diocesi di Concordia
DIOCESI DI CONCORDIA-PORDENONE Ufficio Catechistico CORSO DI FORMAZIONE PERMANENTE Primo incontro con Don Federico Genere letterario Parabola Quando ci affacciamo al mondo delle parabole di Gesù ci accorgiamo che si tratta di un parlare molto efficace, facile da ascoltare e popolare. Quando però si tratta di rileggere, interpretare, capire più in profondità, le operazioni si fanno più complesse del previsto. Se qualcuno poi ha provato ad attualizzare una parabola, a ri-raccontarla in termini attuali, ha provato anche la difficoltà di ricostruire un messaggio e un impatto che supera il livello semplice della comunicazione. La Parabola è un genere letterario, un modo di parlare che fa parte del mondo della metafora. La letteratura semitica in particolare, ama parlare per immagini, metafore, allegorie… Gli ebrei chiamano tutto questo MASHAL = parabola o racconto simbolico fatti per insegnare e comprendere cose difficili. All’interno di questo linguaggio metaforico, il sistema parabola è il preferito da Gesù: abbiamo più parabole nei Vangeli che non in tutto l’AT o in tutta la letteratura rabbinica. Se ne conosciamo i meccanismi, quindi, siamo in grado di entrare nel modo di pensare di Gesù, nel suo modo di vedere e di capire. Cominciamo quindi con il tenere presente tre punti di definizione per la parabola: 1. è un racconto figurato della famiglia delle similitudini: non si tratta di un racconto storico, non è una riflessione. 2. solitamente è costruita con scene tratte dalla vita quotidiana. Non ci sono le personificazioni degli animali come nella favola greca, dove troviamo protagonisti una volpe o un corvo che mostrano vizi e virtù degli uomini. La parabola viene raccontata attraverso la vita vera o almeno verosimile. 3. Lo scopo della parabola è dare un messaggio concreto e incisivo su chi ascolta: quando parla in parabole desidera che le persone vadano a casa diverse da come sono arrivate. Il genere letterario Parabola ha la forza di generare questo cambiamento. Carattere dialogico Non si tratta quindi di un esercizio estetico, frutto del gusto di comporre un racconto molto intelligente che sottenda una serie di cose che uno potrebbe non capire. Lo scopo della parabola è sempre entrare in dialogo con chi ascolta. Ecco un esempio di funzionamento dialogico nella parabola. In 2 Sam 12,1-14 il profeta Natan si rivolge a Davide dopo che egli ha fatto uccidere Uria per coprire il suo adulterio e sposarla. Natan inizia raccontando la storia di un ricco allevatore e di un pover’uomo che aveva una sola capretta. Attraverso un racconto finto, Natan cattura l’attenzione di Davide che si lascia condurre dalla narrazione. Attraverso il racconto egli spinge Davide ad emettere un giudizio partecipato e appassionato. A quel punto il profeta toglie il velo e riporta Davide alla realtà: “Tu sei quell’uomo”. Proprio questo passaggio tra realtà e finzione è il cuore della parabola. Il termine stesso, parabola, in greco indica il gesto di spingere vicino due cose: in questo caso finzione e realtà. E’ come se si prendesse l’ascoltatore dalla realtà, lo si portasse fuori, in alto, per giudicare liberamente e per poi ridiscendere cambiati nello stesso punto di partenza. Lo scopo del racconto parabolico è, 1 quindi, quello di coinvolgere, anche usando la forza, per cercare un dialogo e cambiare il modo di vedere o di comportarsi dell’ascoltatore. Rimanendo nel nostro esempio, Davide sa di avere sbagliato: andare con la moglie di Uria, uno dei suoi più fedeli generali e poi ucciderlo non è un peccato da poco. Vi si aggiunge tra l’altro l’abuso di un potere che viene da Dio! Se Natan fosse andato da Davide e gli avesse detto: “Così non si fa!” forse avrebbe trovato una forte chiusura da parte del re, avrebbe scatenato l’atteggiamento di prepotenza che assumono i potenti quando si vedono posti davanti alle loro malefatte. Supponendo anche che Davide avesse ammesso il suo grande errore, ne sarebbe uscita un’accusa forte e non un dialogo. Sarebbe stata una denuncia da parte di Dio e un silenzio pieno di vergogna da parte di Davide… ma non un dialogo. Attraverso la parabola, invece, Naatan è riuscito a coinvolgere Davide, a suscitarne lo sdegno per poi rivolgerlo contro di se. A quel punto infatti il re non può più tornare indietro: egli stesso ha varcato la soglia del non ritorno. Il profeta non ha bisogno di accusare, constata semplicemente la somiglianza: “sei tu quell’uomo!”. In definitiva Davide si accusa da solo. Quando Natan lo riporta alla realtà concreta, Davide dovrà rispondere o abbandonando il Signore o cambiando atteggiamento. È quasi un gioco. Il movimento della parabola richiede un temporaneo mascheramento, un nascondimento; c’è qualcosa che Davide non sa di questo racconto e Natan lo sta conducendo, quasi con inganno. Un inganno che deve smascherare un altro autoinganno di Davide che ha fatto tacere la sua coscienza. Ci sono altre parabole dell’AT dove si nota molto bene questo mascheramento, le citiamo a titolo di esempio: - 1Re 20,35-43: Acab non doveva scendere a patti con il nemico e invece lo fa per motivi economici; il profeta si maschera e agisce come ha fatto il re Acab che, giudicandolo, emette da solo fa la sentenza contro di se; - 2Sam 14,1-24: Davide è arrabbiato con suo figlio Assalonne che ha tentato di usurpargli il trono; Ioab, amico di Assalonne, chiama una donna saggia che fa un discorso a Davide; ella, attraverso un trucco, fa capire a Davide che deve perdonare suo figlio primogenito perché dovrà diventare il futuro re d’Israele. Vediamo ora il Nuovo Testamento e in particolare cosa fa Gesù in Lc 7,36-50 quando racconta la parabola dei due servi debitori. Si parte da una situazione concreta: Gesù è a mangiare in casa del fariseo Simone; una donna, prostituta, lava i suoi piedi e li asciuga con i suoi capelli; al vedere ciò il fariseo pensa male di Gesù. Attraverso un “trucco”, Gesù coinvolge Simone in una disputa e lo aiuta a capire perché questa donna, nonostante sia una grande peccatrice, è meritevole di fiducia, di attenzione, di perdono. Gesù mette in crisi Simone il fariseo facendogli capire che a lui è stato condonato poco, cioè che proprio il suo essere pio gli impedisce di capire il cuore del messaggio del perdono. Per metterlo in crisi, Gesù non lo accusa apertamente, non gli fa una disquisizione teologica sul perdono, ma fa entrare Simone dentro una “storia” verosimile e, dopo che egli stesso, nella “storia” ha capito il cuore del problema, ha instaurato un dialogo con Gesù, lo richiama alla realtà concreta. I passaggi sono questi: l’ha coinvolto, l’ha aiutato a esporsi in un terreno neutro, creando un dialogo, infine l’ha riportato alla sua situazione reale. Punto di contatto tra storia e realtà: tertium comparationis Tutte le parabole di Gesù sono costruite con un dialogo. La parabola serve per far ripartire un dialogo anche se qualche volta con durezza. Vediamo la parabola dei vignaioli omicidi, Mt 21,3345. Gesù sta discutendo con i farisei che si ostinano a ostacolarlo a tutti i costi. Così egli racconta la storia “finta” del ricco possidente, della vigna piantata con cura e degli operai assoldati per coltivarla e trarne frutto. Il racconto cresce fino ad arrivare al un punto che l’arroganza e la violenza dei vignaioli diventa insopportabile. Colpiscono i servi... Se il possidente è buono si può anche perdonare. Ma il figlio? Come perdonare tanta crudeltà e ingiustizia? Quindi Gesù li invita a parlare, ad esprimere un loro giudizio su questa storia: essi naturalmente condannano, con trasporto, il comportamento dei vignaioli della “storia”. Solo a questo punto Gesù lancia la sua provocazione: i vignaioli sono loro. La realtà è che loro, i farisei, hanno ricevuto in dono l’alleanza e la religiosità del popolo d’Israele e che si stanno 2 comportando allo stesso modo dei vignaioli cattivi. All’inizio del racconto non l’avevano capito: pensavano di essere bravi e giusti. La “storia” fittizia, dopo averli coinvolti, li porta su un punto in cui avviene il passaggio alla loro realtà e solo lì si accorgono che sta parlando di loro. Questo punto in cui dalla “storia” si ricade nella vita reale si riconosce come il tertium comparationis. E’ il passaggio che collega le due storie, la finzione con la realtà. E’ il momento chiave per capire veramente il percorso di una parabola. L’obiettivo di Gesù con la parabola è di creare coinvolgimento, dialogo: il mezzo per farlo è fatto da una storia fittizia, una storia reale e questo punto centrale che le collega. Il punto centrale (tertium comparationis) è un principio che si raccoglie con estrema chiarezza e convinzione dalla “storia” e che si applica immediatamente e con effetto dirompente alla realtà dell’ascoltatore. Nella parabola dei vignaioli omicidi, quando si arriva all’uccisione del figlio del possidente (punto di rottura) non si può che confermare un principio del tipo: “se qualcuno ha ricevuto qualcosa di non suo da gestire – es. la vigna – deve renderne conto e non può sperare di tenersi i proventi di un terreno non suo, tantomeno può essere così arrogante di uccidere né i servi né il figlio del padrone!”. Questo è il tertium comparationis che l’ascoltatore afferma convinto, prima di accorgersi che si applica perfettamente alla sua stessa situazione. A questo punto non può che riflettere sul suo operato e decidere se essere coerente oppure no. Nelle parabole non si esprime il principio, ma solo la situazione che lo dimostra chiaramente. Il principio, la verità grande che viene annunciata, si capisce da sola senza doverla dire. Non viene esplicitata con discorsi o riflessioni, ma proprio per questo ha la forza di ricadere immediatamente sulla situazione concreta dell’ascoltatore. Questo è il meccanismo della parabola. Cosa si ottiene? Che colui che sta ascoltando non apprende qualcosa. Lo scopo della parabola non è informarti su un principio di una legge di Dio o altro: Davide sa già che non si deve fare adulterio, i farisei sanno già che con Gesù stanno calcando la mano, che i segni che lui faceva andavano presi in considerazione. Non è il sapere che manca, ma la convinzione e la spinta alla conversione. Durante il racconto della parabola succede qualcosa, ha luogo un evento: la persona si muove. Se Gesù racconta una parabola non è perché ha bisogno di insegnare qualcosa, ma di convincere, di spingere a conversione. il meccanismo che crea questa dinamica dialogica è appunto il tertium comparationis. Unicità del messaggio della parabola Per riconoscere e interpretare una parabola bisogna tener presente almeno due caratteristiche del meccanismo tertium comparationis. La prima è l’unicità: il punto di passaggio dalla fiction alla realtà e uno solo. Esempio. Nella parabola del Figliol prodigo ci pare che Gesù voglia rappresentare Dio padre attraverso gli atteggiamenti del padre della “storia” narrata. In realtà non può essere proprio così, perché il padre dei due figli aspetta il prodigo in casa, mentre sappiamo che Dio va in cerca dei peccatori (Lc 15,4-6). In realtà il padre della parabola assomiglia a Dio Padre solo nel momento in cui il suo perdono diventa scandaloso e mette in agitazione l’ascoltatore. Ancora. Nella parabola in cui Gesù paragona la venuta finale del Messia alla visita di un ladro (“Se il padrone di casa sapesse in quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Vegliate perché non sapete nell’ora che non immaginate il Figlio dell’Uomo verrà”, Mt 24,43-44) non possiamo immaginare che Gesù intenda dire che egli è un ladro che viene a rubare anime o chissà cosa. In questo detto parabolico, il tertium comparationis è il momento in cui il racconto fa una svolta, coinvolge e cioè l’ansia che la venuta del ladro mi genera. La difficoltà nelle parabole è raggiungere questo punto di svolta, per capire bene il cuore del messaggio che Gesù sta consegnando. Certamente, poi, la parabola si presta ad altre riflessioni, ma devo sapere il meglio possibile qual è il punto in cui Gesù mi chiede di giocarmi. Nella parabola ci saranno delle eccedenze, cioè delle caratteristiche o dei personaggi che non si possono rileggere nella realtà concreta (l’attesa in casa del padre, il fatto che quello che viene all’improvviso sia un 3 ladro…): esse sembrano devianti, ma servono a orientare e rendere più chiaro il tertium comparationis. In questo senso, il tertium comparationis, è unico ma nello stesso tempo è anche unificante. Il punto centrale della parabola tiene in sé tutti gli altri elementi e tutti gli altri elementi della parabola servono a evidenziare lui e a capire dove e quando avviene il passaggio. Quando si legge una parabola si deve quindi fare attenzione a questa dinamica. Sarà necessario ricostruire il meglio possibile il contesto: a chi sta parlando Gesù, come sono gli stati d’animo… in modo da capire la realtà concreta a cui Gesù si rivolge. Poi si deve ricostruire con molta attenzione la storia che Gesù ci inventa sopra, per cogliere l’unico punto di passaggio che conta. Si dovrà porre attenzione a non leggere la parabola come un racconto simbolico dove ogni elemento corrisponde alla realtà ma come un racconto che viaggia in una direzione sola fino ad un punto in cui io sarà chiamato a rispondere personalmente. In molte parabole Gesù questo punto viene anche sottolineato da una domanda esplicita di Gesù: che ne dite, cosa pensate, ecc. In altre non vi sono domande dirette, ma chi ascolta capisce subito che sotto c’è una domanda e viene da essa catturato: questa è la ricchezza della parabola. Punti conclusivi Per concludere, possiamo tener presenti tre considerazioni che ci permettono di sintetizzare il percorso fatto. 1. La parabola è insurrogabile: non si può sostituire con una spiegazione o descrizione. La spiegazione può aiutare a vivere l’evento della parabola ma non sostituirlo poiché la parabola è un evento. Per questo Gesù parla del Regno di Dio in parabola e non con spiegazioni: il Regno di Dio è una realtà non da comprendere ma da seguire. Quindi o c’è la parabola o non c’è nessuna altra spiegazione dottrinale e teologica che valga altrettanto. 2. La parabola chiama in gioco la nostra coscienza. Tutte le volte che ci mettiamo davanti a una parabola (per pregarla o per viverla) sappiamo che ci sarà un passaggio in cui la coscienza delle persone che ascoltano sarà chiamata a esprimersi. 3. Inesauribilità. Una parabola non sarà mai spiegata fino in fondo. È un momento in cui capita qualcosa. Potrò spiegarla o comprenderla ma ogni volta che la incontro succede... È un genere letterario che muove anche oggi le persone che ascoltano ed è il genere letterario preferito da Gesù. Chi parla in parabole ci ha pensato molto, si è concentrato, ha studiato i particolari. La parabola ci aiuta quindi a capire la sua sapienza e cosa c’è dentro al suo cuore: Gesù che legge il cuore di un pastore, il cuore di un padre, le agitazioni di un figlio, le tensioni di una donna che ha perso una moneta, le fa sue e le interpreta. La parabola è una finestra che ci permette di comprendere, oltre al mistero del Regno e della volontà di Dio, anche le grandi capacità umane di comprensione e di creatività di Gesù. 4 DIOCESI DI CONCORDIA-PORDENONE Ufficio Catechistico CORSO DI FORMAZIONE PERMANENTE per i catechisti Secondo incontro con Don Federico Parole di Cristo, Parole per la Chiesa?? Le parabole di Gesù ci sono giunte nei Vangeli, attraverso la mediazione della comunità dei suoi discepoli. Da una parte alcune di esse hanno interpretazioni che superano il meccanismo semplice della parabola, dall’altra ci accorgiamo che alcuni particolari sembrano essere stati ritoccati (anche a partire solo dal confronto con gli altri Vangeli sinottici). Inoltre si vede che spesso, nei Vangeli, il contesto in cui vengono riferite le parabole di Gesù è ricostruito dagli evangelisti. Le parabole, e quindi i Vangeli, sono allora Parola di Gesù oppure c’è di mezzo qualche interpretazione , qualche manipolazione che dobbiamo eliminare? È uno dei grossi punti di forza di una certa propaganda anti-cristiana: nei vangeli ci sarebbero le parole di Gesù già interpretate con intenti di oppressione delle coscienze da parte delle autorità della Chiesa antica. Come difendere la Parola di Dio? Come parlare di ispirazione senza tradire la natura di questo dono che Dio ha dato agli uomini? Raccogliamo alcuni punti di riferimento. I DUE PRINCIPI Il primo di essi è INCARNAZIONE. Quello che sappiamo di Dio non lo abbiamo inventato, ci è stato rivelato da Gesù, suo Figlio. Se avessimo dovuto inventarlo, avremmo usato schemi molto più facili da comprendere e da credere per la ragione umana. Avremmo costruito un Dio che punisce i cattivi e premia i buoni, un Dio che difende il suo nome con ira, che protegge i suoi eletti dai nemici con prodigi, che vendica il male commesso, che viene dal cielo con le potenze tutte e convince gli uomini a credergli. Mai avremmo immaginato un Dio che cerca la vita dei peccatori e manda il suo Figlio a perdere la battaglia con il male inchiodato a una croce! Così è per la Parola di Dio. Se dovessimo immaginare noi la Parola di Dio, la vorremmo dettata da Dio, senza ombra di dubbio e senza nessunissima interferenza da parte di uomini, neppure di santi. La vorremmo chiara, scandita, comprensibile alla lettera senza nessun sospetto di intervento umano. Un po’ in questo modo funziona il concetto di rivelazione da parte dell’Islam (se non fossimo così ostili all’Islam per ragioni etniche, saremmo affascinati dalla sua visione di Scrittura). Le parole che noi troviamo sul Corano sono da imparare in arabo perché Dio le ha pronunciate in arabo a Maometto. Se ci sono incongruenze all’interno del Corano non c’è niente da discutere: Dio le ha dette così, noi non le capiamo. La Parola di Dio dei cristiani invece segue il metodo di Dio che Gesù Cristo ci ha mostrato. Egli è il Figlio incarnato, si è fatto, cioè, uomo in mezzo a noi. Ci ha salvato tramite la nostra natura umana, non superandola, non chiedendoci di abbandonarla. Così è la sua Parola: essa viene in mezzo a noi incarnandosi, passando attraverso la piena partecipazione degli uomini che l’hanno tramandata. Non possiamo immaginare che un Dio che ci ha salvato nascendo in una grotta tra due genitori poveri e immigrati, scendendo nel Giordano con i peccatori, avvicinandosi a toccare i malati, morendo per noi sulla croce… abbia poi deciso di donarci la sua Parola calandola dall’alto, gettandola dal cielo così com’è, ferma e immobile. Il secondo principio da tenere presente ISPIRAZIONE. Viene dalla percezione inequivocabile che lo Spirito agisce tra i credenti e costruisce, attraverso la loro disponibilità, il Regno di Dio. Così ha agito in qualche modo anche quando veniva scritta la Parola di Dio. 1 Incarnazione e ispirazione: parola veramente umana e parola veramente divina per azione dello Spirito Santo. Questi sono i due limiti che non possiamo travalicare, se vogliamo parlare di Parola del Dio che ci ha rivelato Gesù Cristo. FORMAZIONE DEI VANGELI Su questi due principi si muove il complesso processo di formazione dei Vangeli. Essi si sono formati secondo procedimenti umani sostenuti dallo Spirito Santo. Lo abbiamo sempre visto fare dal nostro Dio: prendere per mano gli uomini, portarli avanti e siglare, completare con la sua potenza quello che essi sono riusciti a fare. Per esempio, San Francesco era un uomo che ascoltava Dio e si sforzava di seguirlo con tutte le forze, non era un manichino guidato inesorabilmente dallo Spirito Santo a cui non riusciva a scappare. Passiamo in rassegna quindi le fasi della formazione dei Vangeli per vedere come si esprimono i due principi dell’incarnazione e dell’ispirazione. STORIA Spesso consideriamo Vangelo un libro scritto su Gesù. Ci pare che con “ispirazione” si intenda l’opera dello Spirito Santo nel momento in cui l’autore scrive. Ma cos’è Vangelo? Qual è la vera buona notizia? Il primo Vangelo è Gesù, la persona di Gesù, quello che ha fatto e che ha detto. Se non ci fosse stato Lui, nessun Vangelo scritto avrebbe senso. Quello che Gesù ha fatto e detto lo chiamiamo storia. Quando Gesù è all’opera lo Spirito Santo vive e lavora con Lui. Anche per i discepoli, il buon annuncio da dare è che c’è stato tra noi Gesù, Verbo di Dio venuto nel mondo, morto e risorto secondo la volontà del Padre. TRADIZIONE Quando Gesù si allontana dalla storia, i discepoli cominciano a girare per annunciarlo. Chi sono di discepoli? Persone semplici: un pescatore, un ex pubblicano, un pastore… Essi, ispirati dallo Spirito Santo annunciano la persona di Gesù. Non scrivono: erano un gruppo semplice, non una scuola, non erano copisti o scribi. Molto semplicemente giravano dove potevano e parlavano. Mentre compiono questa missione, si rendono conto che non sono loro ad agire, ma lo Spirtio Santo attraverso il loro modesto contributo. Per esempio, Pietro, semplice e umile pescatore, che non ha mai parlato in pubblico, improvvisamente lo fa e vede che la gente gli crede. Inoltre. compie miracoli: guarisce il paralitico al tempio (At 3,1-10) rendendosi ben conto e dicendolo solennemente che non è lui l’artefice del prodigio (At 3,12), ma è nel nome di Gesù quell’uomo ora cammina (At 4,8-12). Il vangelo dei primi discepoli è Gesù e con questo vangelo i discepoli cominciano a girare e ad annunciarlo. Passano prima nelle città sulle grandi vie di comunicazione e nascono così le prime comunità, fondate sulla predicazione dei discepoli. Cosa dicevano? Annunciavano che c’era un uomo che è morto ma che è risorto e i segni che aveva fatto (primo annuncio). Teniamo presente che a quei tempi non si potevano prendere appunti: la carta era preziosa e pochi sapevano scrivere. Quindi l’ascolto era molto attento e gli appunti si prendevano nella memoria. In un certo senso queste comunità cominciano a raccogliere nella memoria l’insegnamento, per esempio, di Matteo su Gesù, il Vangelo di Gesù secondo il discepolo Matteo. Nasce la TRADIZIONE ORALE. Una comunità di credenti cittadina, ascolta quindi la predicazione e l’annuncio dell’apostolo Matteo (continuiamo con l’esempio, ma vale anche per Marco, Luca e Giovanni), crede e comincia a trovarsi con lui tutte le domeniche. Matteo parla e racconta. Per il momento non c’è bisogno di scrivere e la comunità è semplice, non ha istituzioni o archivi dove porre scritture proprie. L’apostolo basta: è lui che ha vissuto con Gesù, che lo ha visto e sentito parlare. Ha visto molto di più di quello che si può scrivere, ha visto come Gesù si rapportava con la gente, se sorrideva o no, che cosa gli piaceva mangiare. Il racconto non è sistematico, pensato a tavolino. Nasce a seconda dei bisogni della comunità, a partire dai quali gli apostoli ricordano le cose che Gesù diceva su determinati argomenti. Per esempio: in vista di una persecuzione, Matteo ricordava quello che Gesù aveva detto sull’argomento per incoraggiare i credenti a non ritenere la persecuzione una sconfitta del Cristo. 2 Altro punto da tener presente è che Matteo parla a una comunità concreta, inserita in un contesto preciso, a volte molto lontano da quello in cui Gesù aveva parlato. I discepoli sono molto attenti a fare in modo che la parola e i gesti di Ges vengano compresi bene, nonostante la differenza culturale. Quindi, quando parlano di Gesù ritoccano alcune parole, aggiungono alcuni commenti per facilitare e assicurarsi la corretta comprensione di ciò che narrano. Un bell’esempio lo si trova confrontando Mt 19,9 con Mc 10,11-12: Gesù esclude la possibilità di ripudiare la moglie, perché nella Genesi Dio aveva suggellato solennemente l’unione degli sposi. Non passa per la testa di Gesù di ammonire le mogli dal ripudiare i mariti, perché nella società giudaica di Gerusalemme non era neppure immaginabile che succedesse. Marco invece aggiunge sulla bocca di Gesù anche un avviso alle donne, che non ripudino i mariti, perché egli scrive per cristiani di Roma, dove una parte della società, quella più ricca, aveva già consentito alla donna un certo grado di emancipazione. In tutto questo lavoro di rilettura e di incoraggiamento i discepoli sono seguiti dallo Spirito Santo. Si accorgono che il loro modo di parlare di Gesù, di ricordare la sua storia adattandola al contesto dei loro tempi ha un tale successo che non può essere frutto della loro abilità, ma viene dallo Spirito Santo. Come nasce la TRADIZIONE SCRITTA? Man mano che il cristianesimo si diffonde, non bastano più gli apostoli per andare ad annunciarlo o per guidare le comunità. Così i cristiani scelgono alcuni con il compito di evangelizzatori, di annunciatori. Non trattandosi più di testimoni oculari di Gesù (anche se sono testimoni oculari di come il Signore risorto è presente nelle loro comunità) Matteo o i responsabili delle comunità cristiane devono scegliere con attenzione chi andrà a fare il missionario e devono capire insieme cosa insegnare alla gente che si converte, come riferirgli i contenuti centrali dell’annuncio e dell’opera di Gesù. I Dodici si ritrovano a Gerusalemme per capire insieme cosa è necessario annunciare. E prima di tutto capiscono che il centro dell’annuncio è la morte e la risurrezione di Gesù. Decidono cosa raccontare della sua passione, creando uno schema fisso in modo da non sbagliarsi e non dimenticarsi. Sempre per aiutare le comunità a non perdere la memoria, cominciano a raccogliere alcuni fogli con una serie di parabole di Gesù per ricordarsele, alcuni fogli con raccolte di miracoli, di detti, di insegnamenti. Questi fogli girano per le comunità cristiane e vengono accolti come punti di riferimento in quanto corrispondono alla predicazione del loro apostolo. REDAZIONE Ad un certo punto i discepoli, testimoni oculari cominciano a morire, anche a causa delle persecuzioni. Solo lì nasce l’idea di scrivere con sistematicità, per non perdere ciò che era stato detto, il messaggio consegnato dal Maestro. Gli anziani e i membri eminenti della comunità per carità e santità mettono insieme la loro memoria (costruita in anni di ascolto dell’apostolo) e raccolgono tutti i foglietti della tradizione scritta e incaricano uno di loro, il migliore, di scrivere con ordine e con fedeltà. Questi è l’evangelista, che non compone un testo con la sua sensibilità, ma raccoglie una testimonianza. Per questo non si firma: ritiene che il contenuto della sua opera si dell’apostolo fondatore. Inoltre, il suo testo non si diffonde per la sua bellezza, ma perché viene accettato dalla comunità che lo riceve e lo adotta per la sua assemblea domenicale solo quando è sicura che l’opera corrisponda alla predicazione dell’apostolo. Con questo percorso noi siamo al sicuro da una parte dei sospetti di manipolazione che oggi tornano alla ribalta. Infatti l’autore dei nostri Vangeli non è una persona che si mette a tavolino e crea un romanzo su Gesù in base alle sue passioni, al suo modo personale di vedere Gesù. Qui c’è un tale che ha ricevuto il compito di riportare per iscritto la testimonianza su Gesù che una comunità intera ha non solo ascoltato dall’apostolo, ma anche vissuto. Le prime comunità cristiane non potevano credere per abitudine, per usanza. Essi sentivano la presenza del Signore attraverso i miracoli, la forza che avevano durante le persecuzioni, lo slancio missionario, le conversioni. Questa comunità prende l’opera dell’evangelista e la valuta positivamente: si tratta comunque sempre del Vangelo (Gesù) secondo il discepolo Matteo. Siamo sicuri che nel 130 d.C. questi quattro vangeli, non altri, erano ritenuti Parola seria su Gesù e venivano usati nelle assemblee per ascoltare Gesù presente in mezzo ai suoi. Ne abbiamo testimonianza da scrittori nell’Egitto ellenistico, in Africa, in Asia e nel mondo occidentale. 3 Infine, ispirazione significa che lo Spirito Santo è riconosciuto all’opera sempre durante tutto questo percorso. Quando oggi io ascolto con fede la Parola di Dio, è presente lo stesso Spirito che guidava la comunità credente che l’ha composta. PAROLA E PARABOLA Ecco la natura della Parola del nostro Dio: non può che nascere dal suo modo di procedere, fatto di incarnazione e ispirazione, anche se alla nostra ragionevolezza richiede uno sforzo. Non possiamo chiedere a Dio altra Parola. Sarebbe sciocco che noi chiedessimo a questa Parola, a questo Vangelo, di non essere fatto così ma di essere fatto solo con parole che vengono dall’alto, direttamente da Dio, per essere sicuri. Così Dio ha voluto mostrarsi in Gesù e noi cristiani non possiamo chiedere a Dio di fare diversamente. Se quindi dobbiamo sforzarci di interpretare la Parola di Dio anche attraverso l’opera di revisione e comprensione dei discepoli, per le parabole la questione è ancora più seria. La parabola infatti non è un insegnamento secco, una verità assoluta, chiara e indiscutibile. La parabola è piuttosto un’intuizione, una spinta, un passo in una direzione. Le prime comunità cristiane vivevano un coinvolgimento pieno nella Parola di Gesù. Il coinvolgimento di una comunità che vive la fede, che sente lo Spirito Santo agire e muovere. La parabola chiede il coinvolgimento e la comunità lo vive con pienezza, lanciandosi nel messaggio e assumendolo con coraggio. Le parabole che abbiamo ricevuto sono molto vissute. In realtà si è d’accordo nel riconoscere che nei Vangeli il nucleo fondamentale della parabola raccontata da Gesù rimane riconoscibile, all’interno del testo. Ma sono ben riconoscibili anche alcuni passi che la Chiesa come comunità ha fatto in queste parabole. Per esempio la comunità ha dovuto reindirizzare le parabole che Gesù diceva ai farisei: non esistevano più farisei nella comunità cristiana e i cristiani le hanno rilette come rivolte a se stessi, per non imboccare vie sbagliate. Chi le racconta e le scrive ci aiuta o modificando il contesto o aggiungendo un pezzetto, o mettendo insieme un’altra parola di Gesù, per capire il significato finale della parabola. Le parabole non possono che essere vive, a questo mirano, chiedono un dialogo con chi le ascolta. E se le comunità cristiane ci avessero consegnato Chiesa le parabole asettiche, ovvero semplicemente ricordate così come le aveva dette Gesù, per noi sarebbero parabole false, surrogati, perché non vissute. La nostra chiesa è cattolica e apostolica. Se non ci fidiamo degli apostoli che ci hanno riportato così la sua Parola dovremo smettere di credere. Se noi volessimo dire: Io voglio incontrare Gesù attraverso la sua Parola e basta, non voglio altro non voglio mediazioni, niente altro che la sua parola, dovremo arrenderci nei confronti del vangelo se non in alcuni passaggi che si possano riconoscere come suoi e basta. I LIVELLI NELLE PARABOLE Si può ritrovare sempre nelle parabole: a.) la testimonianza di Gesù, (nucleo centrale della parabola); b.) la testimonianza della chiesa che si muoveva con lo Spirito Santo e insieme al discepolo cercava la parola di Dio viva. In questo senso la Parola di Dio non è “manipolata” ma è vita vissuta dalla Chiesa. Qualcuno potrebbe criticarci ma la cosa fondamentale è che non possiamo ritenerci credenti se non ci fidiamo della Chiesa apostolica. Vediamo alcuni esempi di come si può riconoscere la mano di una comunità credente che riadatta una parabola. Leggiamo da Mt 20,1-16 la parabola dei lavoratori della vigna. La parabola ci viene proposta dopo una domanda accorata di Pietro che chiede quale ricompensa c’è per loro che hanno lasciato tutto (Mt 19,27-30). Gesù risponde il detto: “Gli ultimi saranno i primi e i primi ultimi” (19,30), poi ci narra la parabola e ripete alla fine la stessa frase (20,16). L’apostolo Marco ricorda la stessa domanda di Pietro e la stessa frase come risposta di Gesù, senza ricordare la parabola (Mc 10,28-31). Sembra quindi che Matteo abbia aggiunto la parabola dei lavoratori della vigna per rinforzare il concetto della precedenza degli ultimi legandolo agli operai della vigna del Signore. In questo modo Matteo ci spinge al confronto tra i primi e gli ultimi e ci invita a non fare queste differenze nella comunità dei credenti. Certamente questo è un messaggio di Gesù, da lui 4 messo in pratica soprattutto nel momento in cui chiamava i peccatori: ricordiamo che Levi passa da pubblicano a discepolo senza nessuna preoccupazione. Dobbiamo però riconoscere che, nella parabola, il fatto che il padrone paghi prima gli ultimi non è centrale, non può costituire il tertium comparationis dal momento che sembra solo un espediente perché i primi assunti vedano e si indignino, suscitando quindi la risposta del padrone: il problema non è chi viene pagato prima, ma quanto vengono pagati rispettivamente i primi e gli ultimi. Se togliamo il v 16, il movimento della parabola è più chiaro. C’è una prima svolta nella parabola seguita da un’altra, che è il punto chiave di comprensione. La prima svolta avviene al momento della paga: quando i primi assunti vedono che gli ultimi sono stati pagati allo stesso modo, si ha chiara una sensazione di ingiustizia. In realtà il padrone è ineccepibile: aveva promesso del denaro giusto per la giornata, non ne priva i primi e ne dà anche agli altri. In effetti si tratta di benevolenza. Ma il meccanismo della parabola ce la fa percepire come ingiustizia, così da rendere molto più efficace il v 13, che è il vero punto di tensione della parabola: il padrone spiega che egli è buono e vuole dare anche agli ultimi il necessario per sopravvivere questa giornata. Con questa parabola Gesù cerca lo scandalo degli uditori, simile a quello degli operai della prima ora, per poi dire, con forza dirompente, che Dio è proprio come questo padrone, da a tutti il necessario per salvarsi, anche a quelli che non se lo meritano. È il Dio della benevolenza. In questo modo Gesù legittima il proprio atteggiamento verso i peccatori: la parabola è una parabola di giustificazione, rivolta ai farisei. Matteo aggiunge il proverbio degli ultimi che saranno i primi per aiutare la comunità dei credenti a rileggere la parabola con un criterio diverso in una società in cui non ci sono i farisei ma una certa gerarchia della comunità cristiana. Alla gerarchia della comunità Matteo manda un avvertimento, perché non credano che essere eminenti nella comunità comporti qualche vantaggio sugli altri nel Regno di Dio. In questa parabola abbiamo quindi sia il messaggio di Gesù (Dio è buono e non si può pretendere di avere di più degli altri per la fedeltà – messaggio per i farisei) sia un secondo messaggio che nasce dalla riflessione della comunità dei credenti su questa parabola (gli ultimi saranno i primi – fra voi non fatevi chiamare maestro…). Gesù ha concentrato il messaggio sulla bontà di Dio; Matteo sull’uguale trattamento degli operai. Era parola viva quando Gesù la raccontava per i farisei, era viva anche quando Matteo la raccontava alla sua chiesa per crescere. Quindi nel Vangelo ci sono due messaggi dello Spirito Santo, se uno viene dalla Chiesa e non direttamente dalle labbra di Gesù. Altro esempio di rilettura ecclesiale della parabola si trova nel contesto della parabola del seminatore. Tenendo presente il meccanismo parabolico, si deve individuare un solo punto di congiunzione tra la storia narrata, che riprende l’atteggiamento abituale del seminatore, e la realtà, che è la diffusione della Parola di Dio. Infatti, il punto di congiunzione è uno solo: il frutto esagerato del seme caduto su terreno buono, nonostante tutto quello che è stato perso. La Parola di Dio porta frutto, non importa anche se molto va perduto. Quando però Matteo narra di Gesù che rientra in casa e spiega la parabola ai suoi discepoli, la spiegazione non segue il meccanismo della parabola, ma si trasforma in allegoria, un linguaggio metaforico che costruisce immagini in cui ogni particolare si riferisce a un aspetto specifico della realtà sottintesa (“Il seme caduto… è… quello caduto sulle spine… è…). La parabola è un sistema diverso, non arguto gioco intellettuale di riferimenti ma forte slancio in avanti. Questa allegoria descrive gli atteggiamenti corretti per essere terreno buono. E’ evidente che anche Gesù sperava che i discepoli fossero terreno buono, Gesù avrà ben spiegato nella sua vita come fare a ritenere la Parola di Dio, ma dobbiamo per forza immaginare qui un intervento di Matteo o della comunità cristiana. Tutto viene da Gesù, ma quella ulteriore spiegazione viene dalla comunità dei credenti sostenuta dallo Spirito Santo. Così noi abbiamo la parabola di Gesù, e anche già una interpretazione della prima chiesa quella che lottava per sopravvivere e per stare fedele al Signore, non per gestire il potere. Questa interpretazione della chiesa ci indica una direzione in cui muoverci per interpretare nuovamente la parola perché noi dovremmo dare una terza interpretazione della parabola, perché noi non potremmo rimanere lisci sulle parabole, dovremmo viverle anche noi. 5 DIOCESI DI CONCORDIA-PORDENONE Ufficio Catechistico CORSO DI FORMAZIONE PERMANENTE per i catechisti Terzo incontro con Don Federico Parole di Cristo, Parole per la Chiesa?? Negli incontri scorsi abbiamo esplorato i territori della parabola, come genere letterario, come strumento di comunicazione in mano a Gesù per chiedere non solo ascolto ma anche coinvolgimento. Questo modo di fare ha avuto un tale impatto nella comunità dei credenti che quando ce le riporta, non riesce più a legarle ad un momento preciso della predicazione di Gesù, ma le lega alla attualizzazione che ne fa la comunità stessa. Vediamo questa volta alcune parabole e ne leggeremo lo scopo e il contenuto a partire da tre nuclei fondamentali del messaggio di Gesù che egli solitamente esprime in parabole. MISERICORDIA DI DIO Il primo contenuto per il quale Gesù si esprime in parabole, è la grandezza della misericordia di Dio. E’ uno dei volti fondamentali di Dio che Gesù è venuto ad annunciare, una delle novità più grandi di tutto il suo messaggio. Gesù ama esprimerla in parabole per la loro forza di coinvolgimento: non si possono ascoltare e basta, non si può rimanere neutri. Vediamo questo contenuto della misericordia di Dio nella parabola del figliol prodigo (Lc 15,11-32). È una parabola complessa, molto lunga rispetto al solito e ha richiesto a Gesù un ragionamento molto complesso. Nota di originalità. In genere le parabole hanno un solo punto di attenzione; la parabola del buon samaritano ne ha due: il primo cattura l’attenzione e fa da lancio per il secondo che è il centro dell’evento che Gesù intende costruire. Per capire meglio è indispensabile seguire bene i cambiamenti delle persone a partire soprattutto da quello che c’è scritto e da quello che si può intuire. I vv 11-13 fanno da introduzione. Assume importanza qui quello che non viene detto, perché verrà fuori poi nel proseguo. Il centro di questi versetti è il figlio minore: sappiamo che è il più giovane, che ha un padre, che il patrimonio deve essere abbondante, che è partito, vive da dissoluto. Viene da chiedersi se all’interno della parabola il figlio minore resterà sempre così in primo piano o se il ruolo del protagonista passerà ad altri. Le cose importanti non appunto quelle non dette: siamo invitati a seguire nell’ascolto. Teniamo però presenti le domande insolute che questo inizio genera: il secondo dei due figli (il maggiore) chi è e cosa pensa di questa situazione? Ma soprattutto il padre, che finora non ha neanche parlato. C’è già qui un primo moto di coinvolgimento degli ascoltatori: che padre è questo, che dà subito le sostanze al figlio, come se fosse già morto. Nei versetti successivi (13-16) resta sempre protagonista il figlio minore, ma è cambiato qualcosa. La descrizione della disgrazia del figlio minore, a dispetto della usuale sobrietà dei racconti evangelici, è un diffuso elenco di situazioni che danno la sensazione di una insistenza simile a quella della sfortuna che si abbatte ripetutamente su una persona sola. Questa descrizione è molto forte: chi ascolta la parabola raccontata da Gesù la vive con intensità. Se fossimo stati ebrei al tempo di Gesù ci saremmo molto indignati con questo ragazzo che ha chiesto tutto al padre, quasi dichiarandolo morto, per vivere da dissoluto. Quando si apprende che da ricco è rimasto senza soldi ed è dovuto andare a lavorare, a pascolare i porci, sembra una rivalsa, un respiro di sollievo: la giustizia di Dio ha risistemato tutto. Questo giovane incauto e superbo non è più nemmeno in grado di rubare carrube ai 1 porci. In questo senso la carestia sembra quasi la mano giusta di Dio che manda la carestia per punire il ragazzo. Gesù fin qui ha costruito un intreccio narrativo che da soddisfazione all’ascoltatore giudeo medio, mettendolo con i fatti dalla parte della ragione. Inoltre, se ci fermiamo a pensare, tutto questo inseguire la giusta punizione del ragazzo, ci ha fatto completamente dimenticare il Padre. Siamo quasi come lui. Al v 17 incomincia qualcosa di imprevedibile, di meno scontato per chi ascolta. Il figlio rientra in se stesso, ci ripensa, si pente. Fa un ragionamento saggio a questo punto: tornare dal padre per farsi assumere come salariato. Notiamo che prevede di dire tre cose: ho peccato, non sono degno di essere chiamato tuo figlio, prendimi come salariato. Un po’ come questo figlio, anche noi a questo punto rivolgiamo l’attenzione al padre. Gli ascoltatori di Gesù possono ora prevedere, forse assaporare la vittoria del padre. I farisei potevano immaginare un padre duro, silenzioso, impegnato almeno in un lungo rimprovero al ragazzo per richiamarlo alle sue responsabilità, per concludere con una bella, inesorabile punizione. Invece, il v 20b stravolge tutto. Il padre corre incontro al figlio, senza paura di mostrare tutta la sua gioia e superando ogni convenienza con quella corsa scomposta incontro a suo figlio. Il figlio doveva dirgli le tre cose, ma al v 21-22 viene quasi fermato dal padre, deve tralasciare la proposta del salariato. La gioia diventa subito urgenza, desiderio di riabilitare. I gesti dela vestizione sono chiari: vestito, anello, calzari sono tutti gesti di riammissione alla sia piena dignità di figlio. Si fa festa con il vitello grasso che veniva tenuto pronto per le grandi occasioni. E qui rientra in gioco l’ascoltatore che si innervosisce: Dio l’aveva punito con la carestia e aveva fatto bene, ma questo padre è troppo buono. Questo è il primo apice della parabola, un tertium comparationis che è la bontà del padre, persino esagerata per il modo di pensare comune. Questa bontà imbarazzante, per alcuni occasione di disagio, rende molto felici i peccatori: per loro qui c’è la congiunzione tra la realtà della vita e la realtà del racconto: come il padre accoglie il figlio prodigo così Dio accoglie te il peccatore. Attenzione la parabola è detta per i pubblicani e peccatori, ma ci sono lì anche i farisei e scribi. E qui torna utile ripescare una delle domande: Chi è il fratello? Che intenzioni ha? Perché fin dall’inizio sapevamo che i figli erano due, uno minore e uno maggiore. Se alla festa ci sono tutti tranne il figlio maggiore, di cui non sappiamo cosa sta facendo e dov’è, ma sappiamo che c’era. Questo primo punto di tensione è un messaggio della parabola ma non è il messaggio centrale, perché il racconto continua. Fa da lancio per il vero messaggio centrale. Dal vv 25 inizia la seconda parte e, facendo attenzione si vede come ci siano degli indizi che ci fanno capire che il figlio maggiore non è diverso dal minore. Al momento della festa, vv 25-28, il figlio maggiore probabilmente arriva dai campi, segno di cura e dedizione alla terra. Appena capisce cosa sta succedendo, questi si arrabbia e non vuole entrare. (Almeno figlio minore almeno è rientrato in se stesso e si era pentito). Il padre allora esce a pregarlo come ha fatto per il figlio minore. Nei vv.29-31 vediamo il figlio maggiore fare un confronto tra sé e il fratello: egli è sempre stato fedele, il minore se n’era andato; al minore si fa festa con il vitello, al maggiore neanche un capretto in regalo (il vitello grasso si ammazzava solo per le grandi occasioni). Con queste parole il fratello maggiore crea un abisso fra i due e con il padre. Ed è questo secondo passaggio il cuore della parabola: il “giusto” si rifiuta di chiamare fratello il peccatore e lo chiama tuo figlio quando persino il servo lo riconoscono “tuo fratello”. Questo è il cuore della parabola. Gesù mostra come è il padre esca a pregare tutti e due i suoi figli. Uno dei due non ne vuole sapere proprio perché non vuole il fratello, e quindi misconosce il padre e lo scambia per despota che nega anche un capretto al figlio che lo serve da molto. E’ questo ultimo il cuore della parabola perché Luca ci ricorda che Gesù l’ha inventata per scribi e farisei e per coloro che ritengono di essere giusti e disprezzano gli altri: non riusciranno ad accettare il Padre e la sua misericordia. La misericordia di Dio è uno dei centri di gravità del messaggio di Gesù. La parabola serve a Gesù per descrivere gli atteggiamenti del Padre per entrambi i figli. 2 LA CERTEZZA DELL’AZIONE DI DIO Un secondo contenuto che Gesù esprime facilmente con le parabole è la certezza, la certezza che il regno di Dio è all’opera. Abbiamo già detto qualcosa sulla parabola del Seminatore. Interpretata come parabola e non come allegoria, aiuta a gustare lo stupore per la grandezza del seme e del frutto, nonostante molto sia andato perso. Vediamo meglio questa certezza dell’opera di Dio per il suo Regno, in un’altra parabola: il granello di Senape al capitolo 13 del Vangelo di Matteo. Un'altra parabola espose loro “Il regno dei cieli si può paragonare a un granellino di senapa, che un uomo prende e semina nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande degli altri legumi e diventa un albero, tanto che vengono gli uccelli del cielo e si annidano fra i suoi rami”. In questo caso la parabola è più corta non ci sono prolungamenti o insistenze. Il momento fondamentale è segnato dal contrasto fra cosa c’è prima e cosa c’è dopo. Non viene sottolineato in nessun modo il percorso di crescita del seme, anzi viene attraversato il più velocemente possibile. Quindi da considerare il contrasto tra un seme piccolissimo che muore sotto terra e l’albero che esso diventa, arbusto fiorente tanto che gli uccelli del cielo vanno ad annidarsi. Questa immagine dell’albero che da protezione agli uccelli del cielo era un’immagine molto utilizzata: era normale sentirla per indicare un regno saggio di un re. Probabilmente Gesù ha raccontato queste parabole in un momento in cui c’era un po’ di difficoltà, in cui alcuni nutrivano dubbio sulla missione di Gesù. Predicava il Regno ma era seguito per lo più da poveracci, prostitute e pubblicani ecc… Rispetto al Messia che aspettavano allora i giudei, Gesù corrispondeva molto poco: seguito per la maggior parte da gente semplice e, se ci sono giusti farisei, scribi o altre autorità, sono lì per disturbarlo per coglierlo in fallo. Gesù racconta questa parabola sottolineando proprio questo salto stupefacente tra il nulla, un granellino di senapa, e quello che viene dopo. E’ certo che sta arrivando il regno dei cieli, ineluttabile come è ineluttabile il fatto che se tu metti per terra un granello di senape cresce un albero enorme. C’è da aggiungere che a questa certezza i discepoli hanno dato ancora maggior risalto perché sia in questa parabola della senape che in quella che la segue immediatamente, quella del lievito, hanno ritoccato lievemente qualche parola. Di per sé, la parabola di Gesù riprende immagini dalla vita quotidiana. La senape è un grosso arbusto: chiamarla albero sarebbe esagerato per Gesù che sta raccontando cose verosimili. I discepoli l’hanno chiamato albero per ribattere ciò che Gesù intendeva dire con la parabola. Così per il lievito: ci si aspetta una donna normale, semplice che impasta. I discepoli, per sottolineare la grandezza dell’opera del Regno riportano che la donna impasta un po’ di lievito in una massa di farina che corrisponde a circa 40 kg! Gesù non può avere raccontato una parabola quotidiana con una donna che produce centinaia di pani, ma gli evangelisti e i discepoli quando raccontano caricano di più. Perché? Ma perché essi vedono con i loro occhi la forza del lievito e della senape nella loro comunità. URGENZA DELLA CONVERSIONE Ci sono quindi parabole che Gesù narra per dire la misericordia di Dio e parabole per dire la certezza del regno. Il terzo contenuto che Gesù solitamente esprime in parabole è l’urgenza, la serietà con cui è necessario prendere l’annuncio del Regno vicino. Su questo argomento suona bene la parabola della gran cena a cui gli invitati non vogliono andare. Non sappiamo bene quando Gesù l’ha raccontata, perché Luca al capitolo 14 la mette durante un banchetto in casa di uno dei capi dei farisei mentre Matteo capitolo 22 ricorda che Gesù l’ha detta nel tempio: in entrambi i casi si tratta di un momento di grave dibattito con i farisei. Un uomo doveva fare una gran cena e fece molti inviti. All’ora di cena mandò il servo a confermare l’invito a dire agli invitati venite è pronto. Ma tutti all’unanimità, cominciarono a scusarsi. Il primo disse: Ho comprato un campo e devo andare a vederlo; ti prego, considerami giustificato. La parola un “campo” qui indica una vasta estensione di terreno. Se il campo è grande la questione è seria: quest’uomo deve andare a vederlo, a verificare forse anche a contrattare sul prezzo. 3 Il secondo disse: “Ho comprato cinque paia di buoi e vado a provarli, ti prego di considerami giustificato”. Comprare cinque paia di buoi era come se oggi uno comprasse quattro trattori in una volta. Si tratta di gente molto ricca. Tutti questi ricchi rifiutano l’invito. Nel Talmud si ricorda un aneddoto analogo (mashal) riguardo a un uomo che si era arricchito e aveva dato una cena per suggellare il suo ingresso nell’alta società. Ma i suoi ricchi invitati lo hanno snobbato. Così che, egli, arrabbiato, ha chiamato i più poveri che c’erano, ha esaurito i posti per il suo banchetto e ha chiuso i rapporti con la casta dei nobili. La parabola potrebbe muoversi sulla stessa linea. Se così è, al sentir raccontare questa vicenda, i farisei in ascolto sono molto divertiti dal sentir raccontare di questo personaggio che spera di acquistare stima con i soldi. Godono nel sentire come piano piano la sua cena sia disertata e ridono apertamente quando Gesù descrive la processione di poveracci che vanno a riempire la sala apparecchiata. Forse si aspettavano che Gesù dicesse: “Vedete non sono i soldi che fanno la grandezza di un uomo”. E invece Gesù conclude, ed è lì il punto, dicendo: “Spingili ad entrare, perchè la mia casa si riempia. Perché vi dico: Nessuno di quegli uomini che erano stati invitati assaggerà la mia cena”. Qui quando le porte si chiudono i farisei si sentono fra i perbenisti esclusi al banchetto… e si trattava del banchetto celeste, come aveva apertamente segnalato uno di loro al v. 15. Altra parabola del genere, ancora più scandalosa è quella dell’amministratore infedele, al capitolo 16 di Luca. È un uomo che ha imbrogliato il suo padrone nell’amministrazione dei suoi beni. Al momento di renderne conto egli ammette di non poter fare nessun altro lavoro, allora, preso dall’urgenza di salvarsi, escogita un piano. Fa chiamare i debitori e con un volgarissimo trucco falsifica le ricevute, per procacciarsi un po’ di gratitudine da parte delle persone che ha aiutato. È una parabola che ci da fastidio perché Gesù loda uno che è stato disonesto. Ma disonesto forte, perché le quantità di olio e grano che vengono defalcate cono ingenti. Probabilmente si sta parlando di un grossista. Ma dove sta il cuore del messaggio della parabola? Supponiamo che siano venuti a raccontare a Gesù il fatto di questo amministratore disonesto, magari con l’idea che il maestro avrebbe riprovato con sdegno un comportamento tale. E Gesù lo avrebbe anche fatto se non avesse intuito la possibilità di far passare con il meccanismo della parabola un altro importantissimo messaggio per i suoi discepoli. Così diventa due volte provocatorio: non denuncia la disonestà economica, loda l’amministratore disonesto perché lui, con l’acqua alla gola, ha saputo dare il giusto valore alle ricchezze altrui, ha saputo stabilire una gerarchia per salvarsi, mentre coloro che lo ascoltano sanno di essere in una situazione limite, sanno di dover convertirsi perché il Regno dei cieli è vicino ma non fanno assolutamente nulla, non si muovono per paura di toccare chissà quali ricchezze o patrimoni. L’uomo della parabola si accorge del pericolo, i suoi uditori no; l’amministratore infedele si da da fare in tutte le direzioni per provvedere ciò che conta, coloro che ascoltano Gesù non si spostano di un millimetro. Gesù quindi non sta dicendo che si deve rubare, ma il tertium comparationis sta proprio su questa sorta di “saggezza” del servo infedele: è ingiusto, ma almeno è stato saggio. Non è un messaggio morale su come fare gli amministratori ma è un messaggio sull’urgenza di salvarsi di muoversi verso la conversione con ogni mezzo possibile. Molte altre parabole sono intonate da Gesù su questo appello: “È urgente che vi muoviate. Fate dei passi”. In questo caso, la parabola è il modo più efficace di comunicare urgenza, di coinvolgere in un grido di allarme. Avrebbe potuto predicare, fare discorsi escatologici. Ma è la parabola che impedisce di rimanere impassibili e Gesù, astutamente, provoca risposte e suscita convinzione. Abbiamo così passato in rassegna tre contenuti fondamentali del messaggio di Gesù nei Vangeli che il maestro amava esprimere in parabole. Abbiamo toccato con mano la sua abilità nel comunicare e nel coinvolgere e abbiamo anche scoperto che, in questi casi come in altri, per Gesù non è importante solo comunicare un contenuto ma anche creare un coinvolgimento efficace delle persone che non permetta di rimanere passivi, assopiti. Con questo scopo Gesù ha esercitato la sua creatività, donandoci preziosi frutti letterari come le parabole, che la comunità dei credenti ha poi saputo apprezzare e ci ha trasmesso nella loro vitalità. 4