I draghi nel mondo antico

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I draghi nel mondo antico
La figura del drago nel mondo antico. Immagine e mito.
Andrea Del Duca
L’immagine del drago
Come è fatto un drago? La rappresentazione
odierna più diffusa, sviluppatasi nell’iconografia
medievale e rilanciata dalle illustrazioni e dal
cinema fantasy, è quella del rettile coperto di
scaglie, con lungo collo, coda potente, ali di
pipistrello, zampe munite di artigli e possenti
fauci dalle quali la bestia è in grado di sputare
getti di fuoco.
La parola drago deriva dal latino draco, a sua
volta un’importazione arcaica dal greco drákōn,
termine che deriva dal verbo dérkomai
(“guardare, fissare lo sguardo”) con il
significato di “dall’acuta vista”. Ciò non indica
solo che la vista di questi animali era acutissima,
ma vi è un riferimento alla sapienza, considerata
capacità di penetrare con lo sguardo i misteri
della natura, che il drago possedeva.
Il temine latino draco indica però sia il drago
vero e proprio (un rettile dalla lunga coda
munito di zampe, con una o più teste) che il
serpente, anche se si tratta sempre di un
serpente eccezionale, se non altro per le
dimensioni. Da Plinio ai bestiari medievali si
osserva una certa incertezza e confusione fra i
termini draco, anguis, coluber, serpens. Gli antichi
commentatori di Virgilio tentarono di
distinguere tra anguis che vive nel mare, serpens
che striscia sulla terra e draco che vola nell’aria:
ma Isidoro di Siviglia, (VI - VII secolo)
constatando la molteplicità di aspetti simbolici e
mitici del drago, fu costretto a denunziare il
semplicismo di questa suddivisione e a parlare,
ad esempio, di un draco marinus.
Noto per inciso che la parziale sovrapponibilità
della coppia drago/serpente precede la
diffusione del cristianesimo e può aver
contribuito all’accostamento del Dragone
dell’Apocalisse e del Serpente del Giardino
dell’Eden.
La forma del drago nel mondo antico, ancora
indefinita, poteva essere delle più varie. Se
alcuni draghi, come quelli aggiogati al carro
della dea greca Demetra, erano alati altri,
sprovvisti della capacità di volare, strisciavano
nelle cavità della terra. Un dragone immenso
come Tifone era in grado di eruttare fuoco, ma
altri vivevano stabilmente nel mare, da cui
uscivano per divorare i marinai, come Scilla.
La varietà delle forme e degli ambienti in cui il
drago poteva essere presente si può ricondurre
ad una caratteristica. I draghi, dagli immensi
Dragoni presenti nelle leggende cosmogoniche
sull’origine del mondo, ai relativamente piccoli
esemplari di molte leggende, sono creature
espressione del Caos primordiale, quando i
Quattro Elementi costituenti il mondo (Aria,
Acqua, Fuoco e Terra) non erano stati ancora
separati. Per questo motivo il drago, che
riassume in se il Caos, può adattarsi a
qualunque ambiente, controllando ogni
elemento, anche se nelle leggende si riscontra
una sorta di specializzazione e adattamento di
ciascun individuo.
Da quanto detto sopra risulta chiaro che è
impossibile tentare di catalogare i draghi antichi
o ricostruirne l’immagine precisa, in quanto la
loro natura caotica sfugge per definizione a
qualunque tentativo di riduzione all’ordine
logico. Possiamo anzi dire che poiché ogni
sforzo di classificazione tende a ridurre il
disordine
all’ordine,
esso
si
traduce
inevitabilmente in una “lotta col drago” che
termina con la classificazione di un cadavere
privato della sua essenza vitale.
Il drago: animale fantastico o mostro reale?
I primi tentativi di classificazione del mondo
animale posero agli antichi il problema dei
draghi e delle altre bestie favolose di cui erano
pieni i miti e le leggende.
Aristotele fu ispiratore di un approccio
scientifico e razionalizzante nello studio della
natura che consisteva nell’ordinare gli animali
per categorie, studiarli osservandone le
abitudini e sezionandone i corpi, spogliando la
ricerca da qualunque aspetto magico o mitico.
Approccio diverso ebbe Plinio il Vecchio
poligrafo e naturalista del I secolo d.C., autore
della Naturalis Historia.
Pur ispirandosi all’aristotelica Storia degli animali,
Plinio dedicò al mondo della zoologia i libri
VIII-XI del suo trattato, ma al contrario di
Aristotele (che aveva scartato o confutato le
leggende riguardanti gli animali fantastici
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stimandole frutto di pura fantasia), egli diede
loro spazio, attingendo a una serie di fonti
anche orientali. La sua opera è alla base di molti
bestiari fantastici redatti nel medioevo e dei
numerosi trattati sui mostri, rimasti in auge fino
alla nascita della moderna zoologia scientifica.
L’affidabilità dei racconti di Plinio dipende
quindi dalle sue fonti: per gli animali esotici, che
egli non conosce o conosce poco, si affida ora
al razionalista Aristotele, ora a viaggiatori e
mitografi che invece abbondano di descrizioni
di mostri e di meraviglie. Plinio è quindi una
preziosa fonte d’informazione sui miti e le
leggende che circolavano sui draghi e su altri
animali fantastici, come la Chimera o il
Basilisco.
Ed esempio egli assicura che d’estate il drago
appetisce il sangue d’elefante, che è molto
freddo.
Pertanto
attacca
l’elefante
all’improvviso, gli s’arrotola intorno, e lo
trafigge coi denti. Il pachiderma, dissanguato,
stramazza per terra e muore, ma nella lotta
rimane ucciso lo stesso drago, sfracellato dal
peso del suo avversario. Leggiamo pure che i
draghi d’Etiopia, in cerca di miglior cibo,
sogliono traversare il Mar Rosso ed emigrare in
Arabia. Per riuscire in quest’impresa, quattro o
cinque draghi s’abbracciano e formano una
specie di imbarcazione, tenendo le teste fuori
dell’acqua.
Le scoperte della paleontologia moderna, che
hanno messo in luce resti fossili riferibili a
grandi rettili vissuti tra 200 e 70 milioni di anni
fa e noti complessivamente come dinosauri
(lett. “terribili lucertole”), nonché di altri
animali vissuti in epoche più vicine all’uomo ma
oggi estinti (come l’orso delle caverne e il
mammut), hanno indotto alcuni studiosi a
ritenere che alla base della credenze sui draghi
vi sia la scoperta, effettuata dall’uomo in epoche
remote, di resti di questi animali.
Questa spiegazione razionalista del mito trova
un singolare riscontro in Cina, dove i fossili
vengono venduti ad uso terapeutico come “ossa
di drago” nei mercati.
Un altro esempio, stavolta occidentale, è
rappresentato dai resti fossili di denti di squalo,
che venivano denominati Glossopetre (il
termine è di Plinio il Vecchio) e che erano
ritenuti lingue pietrificate di serpente cadute dal
cielo durante le eclissi di Luna.
Se è vero che casuali scoperte di fossili possono
aver dato origine ad alcune leggende, il mito del
drago sembra però affondare più nell’inconscio
dell’animo umano e negli aspetti oscuri e
incontrollabili della natura, che in tentativi di
interpretazione razionale di resti di difficile
classificazione, sulla cui origine gli studiosi
antichi erano tra l’altro divisi.
Il drago nel mito
Nei miti cosmogonici – che dovevano spiegare
l’origine del mondo o i fenomeni naturali che
impressionavano gli uomini – si trovano vari
dragoni in lotta contro gli dei.
Nell’Epopea della Creazione (un poema
mesopotamico che si occupa di eventi
cosmologici) si parla di Tiamat, il più antico
dragone conosciuto. Tiamat, di sesso
femminile, era la personificazione delle acque
stagnanti e del mare, Apsu, suo marito, delle
acque sotterranee. Dalla loro unione nacquero
quattro generazioni di dei. Quando il chiasso di
questi divenne insopportabile Apsu si lamentò
con Tiamat, minacciando di cacciare e
disperdere gli dei. Il dio Ea “che tutto vede”
scoprì il pericolo e con l’inganno uccise Apsu.
Quindi con la sposa Damkina concepì Marduk,
il campione degli dei. Tiamat, furibonda, meditò
vendetta. Generò un esercito di terribili mostri.
Recita il poema:
“Denti aguzzi e zanne spietate.
Tiamat ne ha riempiti i corpi di veleno
anziché di sangue.
Ha avvolto di terribili raggi feroci draghi
E ha dato loro mantelli di luce…”
Marduk, il possente dio della tempesta e del
tuono,
affrontò
e
sconfisse
Tiamat,
precipitandone la progenie agli inferi. Col corpo
smembrato di Tiamat, Marduk creò l’universo,
con il sangue e le ossa l’uomo, nato per servire
gli dei. Infine divenne re degli dei di Babilonia.
Dragoni, serpenti cosmici e mostruosi giganti
serpentiformi compaiono anche nei miti di
molti altri popoli del mondo mediterraneo ed
europeo.
In Egitto Apep/Apophis era raffigurato come
un serpente gigantesco o un drago (le cui spire
circondavano il mondo come le dune di sabbia
del deserto circondavano l’Egitto) che ogni
notte tentava di contrastare il cammino del dio
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Sole (Ra). Erano necessarie le arti magiche di
Iside per evitare che Apep prevalesse e ogni
giorno, per oltre tremila anni, nel momento in
cui il sole sorgeva sull’Egitto, i sacerdoti
pronunciarono formule magiche e bruciarono il
simulacro di cera del serpente per propiziare la
vittoria delle forze del bene. Alcuni sovrani
Hyksos, i cosiddetti “Re Pastori” di stirpe
semitica che invasero l’Egitto, assunsero, in
odio agli Egiziani, proprio il nome di Apophis.
Tifone o Tifeo, figlio di Gea, aveva cento teste,
di cui una umana, le altre di toro, serpente,
asino, leone e leopardo. Inoltre aveva due
serpenti al posto delle gambe e duecento mani,
ciascuna con 50 serpenti come dita. Dalla bocca
vomitava fuoco e fiamme. Solo Zeus ebbe il
coraggio di affrontarlo. Lo condusse oltre il mar
Ionio ed infine ebbe la meglio sul mostro
scagliandogli contro un enorme macigno. Ma la
leggenda vuole che Tifone non sia morto:
ancora oggi continuerebbe a vomitare fuoco e
fiamme da sotto il macigno, divenuto isola.
Questa secondo i miti greci sarebbe la causa
delle eruzioni dell’Etna.
Uno degli attributi di Jormungand – il
mostruoso figlio del germanico dio del male
Loki – è quello di “Gran Verme”. Esso riposa
sul fondo dell’oceano e il suo corpo costituisce
le terre ferme. Nel sonno rode incessantemente
le radici dell’Albero del Mondo, il frassino
Yggdrasill e sussultando e muovendosi provoca
i terremoti. Eppure il possente albero resterà
saldo sulle sue radici, delle quali nessuno
conosce l’origine, e «produrrà frutti salutari e
medicamentosi e non temerà né ferro né
fuoco». Almeno sino al gran giorno del
Ragnarok, la Battaglia Finale tra il Bene e il
Male: allora Jormungand si ridesterà e verrà
affrontato dal dio del tuono Thor, che ucciderà
venendone a sua volta ucciso.
Il mito conosce anche una seconda generazione
di mostri, posti in discendenza più o meno
diretta dai Dragoni del Caos i cui avversari
furono gli Eroi, non più gli Dei. Si tratta di
draghi dalle dimensioni certamente più ridotte,
ma anch’essi estremamente esiziali.
L’Idra, figlia di Tifone e di Echidna (una
mostruosa donna drago), fu uccisa da Eracle
nella palude di Lerna. Era un velenosissimo
drago delle paludi le cui numerose teste
ricrescevano appena tagliate e potevano essere
vinte solo con il fuoco. Dietro questo mostro si
nasconde la straordinaria vitalità della natura
selvaggia che l’uomo antico faticava a dominare;
il suo veleno che ammorba l’aria è il simbolo
delle malattie tipiche delle aree paludose.
I dissodamenti e le bonifiche mediante la
costruzione di opere idrauliche, attribuite anche
in altre leggende ad Eracle, hanno assunto
sovente l’aspetto della lotta contro un drago.
Questo rappresenta il caos informe dal quale
nasce la vita e che occorre domare, ordinare,
razionalizzare, cioè “uccidere”, affinché la vita
si sviluppi articolatamente. L’uccisore del drago
è, da questo punto di vista, un eroe vincitore del
caos; trionfando sulla palude, predisponendo un
habitat più adatto all’uomo, si manifesta come
un fondatore.
I terribili e saggi custodi
Alcuni draghi svolgevano però delicati incarichi
di sorveglianza al servizio degli dei, talora in
relazione a sorgenti o, e il parallelo col racconto
biblico è suggestivo, a giardini ed alberi sacri.
In questi casi il drago custodisce un “tesoro”,
sia fisico, magico o religioso che può essere
conquistato solo con la vittoria sul mostro.
Questi draghi non sono quindi solo espressioni
del caos da organizzare, ma creature intelligenti,
in possesso di segreti più antichi dell’uomo. La
lotta col drago assume quindi anche un valore
iniziatico: uccidendo, e quindi superando, il
maestro il discepolo si appropria delle sue
conoscenze. Questa verità è talora espressa con
la conservazione o l’utilizzo delle spoglie del
drago o di una loro parte.
La dragonessa Pitone, figlia della dea madre
Gea, sorvegliava una grotta sacra a Delfi. Il dio
Apollo la uccise (anche per vendicare la
persecuzione che sua madre, incinta di Zeus,
aveva dovuto subire da parte del drago per
ordine della gelosissima Era) e istituì l’oracolo
di Delfi, dove in onore del drago erano svolti i
giochi Pitici e la Pizia profetava sedendo su di
un trono ricoperto dalla pelle di Pitone.
Un drago compare anche nella fondazione di
Tebe. Cadmo uccise il drago figlio di Ares che
custodiva una fonte sacra e ne seminò i denti
per consiglio di Atena. Allora vide sorgere dal
terreno centinaia di guerrieri che iniziarono a
combattere tra loro per conquistare la pietra
che la dea gli aveva suggerito di gettare in
mezzo agli armati. I cinque superstiti furono i
primi abitanti della città.
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Due draghi erano collocati a guardia di due
importanti alberi sacri del mito greco. Il Drago
Ladone, che aveva cento teste e parlava tutte le
lingue del mondo, custodiva nel Giardino delle
Esperidi, ai confini occidentali del mondo,
l’Albero dei Pomi d’Oro sacro ad Era.
Nella Colchide, ai confini orientali, un drago,
nato dal sangue del mostro Tifone, vigilava
l’albero a cui era appeso il Vello d’Oro che fu
rubato dagli Argonauti con l’aiuto di Medea.
Draghi si ritrovano anche nelle leggende
nordiche come custodi di tesori sacri agli dei.
Beowulf, eroe del primo poema anglosassone,
sconfisse vari draghi fino alla lotta fatale con un
grande drago che aveva cominciato a devastare
il paese dei Geati, suo regno. Il risveglio del
drago in questo caso era stato provocato dal
furto perpetrato al suo tesoro da uno schiavo
fuggiasco. Per inciso, Tolkien, appassionato
studioso del Beowulf, trasse da questo episodio
della saga i caratteri del drago Smaug ne Lo
Hobbit.
Il nano Fafnir uccise suo padre Hreidhmar
custode del tesoro degli dei e si trasformò in
drago per difenderlo. Fu ucciso da Sigfrido che
grazie al suo sangue divenne invulnerabile e
apprese il linguaggio degli uccelli.
Due serpenti d’oro, questa volta incisi sull’elsa
di una spada, compaiono in un mito gallese
composto circa mille anni dopo questi eventi.
In questo caso essi hanno il potere di rendere
invisibile la magica Excalibur posseduta da
Artù, figlio di Uther Pendragon (Uther “Cinque
Draghi”?).
I popoli dei cavalieri delle steppe, come gli Sciti,
ma anche i Persiani utilizzavano l’insegna del
drago come vessillo.
Esso fu ripreso anche dai Romani, che accanto
all’aquilifero, che portava l’insegna della legione,
istituirono i draconarii, che reggevano il draco
stendardo della coorte. Il draco era costituito da
una testa in metallo dorato con denti e cresta
argentati a cui era collegato un cilindro di stoffa
multicolore.
I vichinghi adornavano con una testa di drago
la prua di una loro agile e velocissima
imbarcazione, denominata drakkar, che poteva
ricordare nel suo complesso un mostro. Per
secoli l’apparire di queste navi seminò il terrore
lungo le coste europee.
Ben oltre la fine del medioevo il corpo dei
Dragoni o la bandiera del Galles hanno
perpetuato il ricordo del valore guerriero di
queste creature.
Sotto l’insegna del drago
La forza e la sapienza del drago erano virtù così
note da spingere i guerrieri ad utilizzare
l’emblema del drago sulle proprie armi come
insegna o motivo decorativo per atterrire il
nemico e motivare fortemente i soldati. Mi
limito a citare alcuni esempi.
Sullo scudo di Agamennone, descritto
nell’Iliade da Omero, campeggiava un drago
azzurro a tre teste.
Sui foderi di alcune spade celtiche diffuse verso
il IV e III secolo a.C. sono incisi due mostri
serpentiformi o draghi. L’area di diffusione di
questi oggetti parte dalla Francia centrale e si
espande in mezza Europa, seguendo i
movimenti di gruppi di guerrieri uniti non da
vincoli tribali, ma piuttosto da legami di
affiliazione a consorterie guerriere extratribali.
Recentemente si è ipotizzato un rapporto con i
Gesati. Questi mercenari, reclutati dagli Insubri
e dai Boii nel 225 a.C. per la guerra contro
Roma, provenivano dalla vallata del Rodano,
area in cui questo motivo iconografico è
frequente.
Il caso più sorprendente di vitalità del mito
viene però dai Balcani. Verso il 1418
l’imperatore Sigismondo fondò l’Ordine del
Drago. Nato come ordine cavalleresco per
contrastare l’Islam e le eresie, si distinse
tragicamente soprattutto per le feroci
repressioni ai danni degli eretici ussiti. Tra i
cavalieri che ne fecero parte vi fu il principe
Vlad II di Valacchia che dall’Ordine trasse il
cognome Dracul.
Suo figlio Vlad III Tepes (“Vlad l’Impalatore”)
passò alla leggenda con il nome di Dracula.
Appare coincidenza singolare che nel mito del
vampiro (rilanciato proprio dal successo del
libro di Bram Stocker nel 1874) riemergano
molti di quegli elementi (lunghissima vita – che
in questo caso diventa non-morte – sapienza,
forza, seduzione, ma anche malvagità, potere di
infettare e diffondere le epidemie) che
caratterizzano il drago.
Nella figura di Dracula del resto si vede in
azione la triade drago, vampiro e demonio, in
quanto nelle lingue slave il termine drac indica il
diavolo.
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Il custode del tempio
Il serpente era attributo di numerose divinità
del mondo antico. La simbologia del serpente è
troppo ricca e diffusa perché se ne possa dar
conto in questa sede. In certi casi però il
serpente assume sembianze “mostruose” e
viene a confondersi con il drago.
Degno di nota, per restare nell’ambito europeo
occidentale, è il serpente con la testa di ariete
attributo del dio Lugos/Lugh, dio supremo dei
Galli, che Cesare paragona al Mercurio romano.
A Mediolanum (Milano), che è una città di
fondazione celtica, è stata trovata un’iscrizione
che cita dei dragoni d’oro di cinque libbre dati
in dono a Mercurio. In questo caso non è
peraltro possibile chiarire in che misura il dono
sia riconducibile all’origine gallica piuttosto che
al ben noto simbolismo del serpente associato
al dio in ambito greco e romano.
Nei templi pagani erano spesso allevati anche
veri serpenti. In alcuni casi doveva trattarsi di
specie esotiche importate, che contribuivano ad
aumentare lo stupore e la soggezione dei fedeli,
soprattutto quando si trattava di animali
addomesticati dai sacerdoti che li curavano.
Concludiamo il viaggio sul lago d’Orta.
Tenendo conto della missione di San Giulio,
che, stando alla Vita del Santo, era
esplicitamente quella di distruggere i luoghi di
culto pagani per sostituirli con quelli cristiani, è
lecito ipotizzare, supportati anche dalla
tradizionale identificazione del drago e dei
serpenti col diavolo e il paganesimo, che l’isola
fosse sede di un luogo di culto pagano.
Un interessante confronto si ha ad esempio con
l’Isola di Montecristo. I Romani la chiamavano
Insula Jovis o Mons Jovis e vi prelevarono massi di
granito per la costruzione di ville patrizie in
altre isole. La tradizione vuole che nel 455
dell’era cristiana san Mamiliano, vescovo di
Palermo, per sfuggire alle persecuzioni di
Genserico, re dei Vandali, approdasse nell’isola
con alcuni compagni. Secondo la leggenda, Egli
sconfisse il drago che vi abitava e ribattezzò
l’isola col nome attuale di Montecristo. In quel
caso è evidente come il cambiamento di nome
coincida con la sconfitta del paganesimo.
Archeologicamente l’isola di San Giulio appare
frequentata per tutta la preistoria, ma non in età
romana. Non vi sono quindi tracce materiali
riconducibili a edifici di culto di concezione
classica, come templi, altari o altro.
Questo dato è molto interessante e suggerisce
che le origini dei culti precristiani praticati
sull’isola siano da ricercare nelle tradizioni della
popolazione di stirpe celtica che occupava il
territorio fin dall’età preistorica.
La religione celtica vedeva proprio nei boschi,
nelle sorgenti e negli elementi della natura i
luoghi privilegiati di elezione del divino. Un
secondo concetto fondamentale era quello di
centro e l’isola, che fosse l’isola di Mona,
dimora dei Druidi o l’intera Britannia (l’attuale
Gran Bretagna) costituiva il centro per
eccellenza.
Una risposta definitiva a questo quesito storico
probabilmente è impossibile. Tuttavia lo studio
puntuale delle tradizioni, del folclore e della
religiosità popolare potrà forse in futuro far
emergere alcuni indizi importanti per la
ricostruzione della preistoria sacra di un luogo,
l’isola di San Giulio, che sembra possedere una
sua naturale sacralità.
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