Ultracinquantenni e discriminazione sociale e organizzativa

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Ultracinquantenni e discriminazione sociale e organizzativa
Simona Cuomo
Adele Mapelli
Ultracinquantenni
e discriminazione sociale
e organizzativa
Le cause e i pregiudizi alla base delle discriminazioni dei lavoratori in base all’età, gli impatti
organizzativi-produttivi e le implicazioni gestionali
“Il cambiamento demografico
senza precedenti - che
comprende sia l’invecchiamento
sia la crescita della
popolazione - è un tema
chiave per il mondo di
oggi, proprio come lo sono
la globalizzazione e i
cambiamenti climatici”
(Uno Report, 2002).
Negli ultimi anni anche
in Italia, come in tutte le
più importanti nazioni
industrializzate, stiamo
vivendo fenomeni sociali
e organizzativi che incidono
profondamente sui nostri
sentimenti e sulle nostre
concrete opportunità di vita.
Ci troviamo ad affrontare
situazioni paradossali
che ci sorprendono e alle
quali siamo assolutamente
impreparati. Una delle più
rilevanti si presenta come
ageism o discriminazione
in base all’età, un fenomeno
tutt’altro che nuovo o recente.
Questo contributo si pone
l’obiettivo di descrivere le
cause e gli impatti
dell’ageism nella cultura
sociale e organizzativa,
sottolineando due aspetti:
innanzitutto, l’ageism è
fonte di pregiudizio sociale
e organizzativo con
implicazioni piuttosto
rilevanti per il futuro del
nostro mondo occidentale,
il cui quadro demografico
presenta problematiche
e anomalie importanti
e urgenti; inoltre, esso
costituisce una variabile
meno nota e conosciuta nel
campo della gestione della
diversità, soprattutto in
ambito organizzativo, dove
l’introduzione di politiche
e strategie di diversity
management non tiene
sempre in debito conto i
problemi legati al fattore
“età”. Entrambi gli aspetti
sono stati avvalorati
da una ricerca condotta
nel 2005 dal Laboratorio
Armonia dello Sda
Bocconi, che ha riscontrato
e documentato una
diffusa percezione, da
parte dei soggetti implicati,
di un clima perdurante
di latente ma potenziale
discriminazione nelle
culture organizzative e
una parallela assenza,
da questo punto di
vista, di strategie e
progettualità che
possano invece promuovere
un’integrazione tra
giovane e anziano
più ricca e composita
valorizzando le diversità
di cui ciascuno è portatore
(Bombelli, Finzi, 2006).
Sviluppo & Organizzazione N.220 Marzo/Aprile 2007
1 - L’ageism
1.1. - L’ageism esiste?
Ageism è il neologismo (Butler,1976) che indica l’età
“avanzata” come fattore discriminante, in chiave sociale
e di occupazione, culturalmente diffuso e operante nelle società industriali avanzate.
Mentre sugli altri temi della discriminazione (etnie e
genere in primis), esistono da tempo una consapevolezza e un’azione, culturale e istituzionale, finalizzate ad attenuarne le ricadute, sull’ageism sembra prevalere un sentimento comune e diffuso come “sindrome
di soprautilizzo dell’età per discriminare e sottoutilizzo di risorse di valore solo perché residenti in persone oltre i 50 anni” (Gilmozzi, 2004).
Questo approccio culturale “negativo” si è rafforzato
nel tempo anche perché, grazie ai progressi della tecnologia e della medicina, gli eredi del baby boom del
dopoguerra sono oggi decisamente numerosi, trasformandosi così da “risorsa” a “peso”, a causa della crescita vuoi dei costi legati al trattamento di quiescenza, vuoi dei carichi di assistenza sociale. Si genera quindi un sistema, sociale e organizzativo, che tende al “rifiuto” e all’emarginazione degli over 50 come non adatti alle logiche imperanti dello short time e della rapidità di “azione-reazione” che caratterizzano il focus del
mondo produttivo che conta e l’icona del successo professionale individuale.
Nasce così lo stereotipo del giovane “dinamico” contrapposto a quello del meno giovane “seduto” a tutto
svantaggio, ovviamente, di quest’ultimo al quale ven-
Sugli Autori. Simona Cuomo ([email protected]) e Adele
Mapelli ([email protected]) svolgono attività di ricerca e
di formazione presso il Laboratorio Armonia della Sda-Bocconi e sono coautrici del volume “Diversity management” (Guerini, 2007).
1
gono compressi gli spazi sociali e, soprattutto, sbarrati quelli lavorativi.
Qualcuno ha detto “meno lavoro, più vita” ma la verità
è “meno lavoro, meno vita” perché “il pensiero, il progetto,
il dolore, la speranza, la preoccupazione, le attese dell’escluso ruotano necessariamente attorno a questo chiodo fisso” perché “non puoi fare altro che pensare a come trovarlo (il lavoro), poi a non perderlo, poi la fatica infinita a ritrovarlo
e via così in una escalation di ansia, impossibilità di vivere
il presente e paura del futuro” (Mori, 2001).
Questa stortura si presenta ormai non solo come emergenza sociale ma anche come dramma psicologico: chi
non ha, o ha perso, il lavoro vive, infatti, con crescente
angoscia e disagio la propria condizione di “escluso”
sia sul piano materiale sia sul versante emotivo. E ciò
aggrava la tendenza, già in atto dal secolo scorso, a definire la nostra identità fondandola sul “cosa facciamo”
anziché sul “ciò che siamo”.
Siamo quindi in presenza di un vero e proprio pregiudizio sociale: “tendiamo a considerare riprovevole l’età
avanzata, in genere connotata come situazione di impotenza, incompetenza e inutilità” (Varanini, 2000).
La cultura della maturità come sinonimo di esperienza
e saggezza che si poteva leggere nel contesto sociale
e organizzativo sino agli anni ‘70, derivava da un mondo dove invecchiare era quasi un’eccezione: ma oggi
non è più così. Si è andata via via consolidando la cultura dell’ageism che, come ogni forma di pregiudizio,
si basa su forti generalizzazioni e semplificazioni della realtà.
1. 2 - Il paradosso dell’ageism: la variabile
demografica
Nei paesi ricchi, i figli scarseggiano e la scienza medica
ha prolungato la vita. I baby-boomer hanno i capelli brizzolati, ma hanno in precedenza occupato prima gli asili nido e le scuole poi il mercato del lavoro sino ad accingersi, oggi, a entrare nella “terza età” contribuendo all’inversione della “piramide dell’età”, al rovesciamento cioè della proporzione tra giovani e anziani.
In questi contesti, il pregiudizio dell’ageism appare tanto più significativo quanto più incomprensibile se si osserva che il presente (e futuro) invecchiamento collettivo deriva dal mix di tre fenomeni:
L’allungamento della vita media, in progressivo aumento ormai da secoli;
Il propagamento dell’onda demografica, derivante
dal boom del dopoguerra anni ‘40-’50;
Il calo della natalità cui si assomma il freno all’immigrazione di popolazioni più giovani e prolifiche in
grado di riequilibrare la dissestata “piramide dell’età”.
Il quadro attuale fa però sorgere qualche dubbio in me2
IL CONTESTO ITALIANO
SI CARATTERIZZA PER:
Un
forte calo della natalità;
più alta presenza di anziani nel panorama
dell’Unio-ne europea;
Il più alto indice di vecchiaia del mondo
Un tasso molto sfavorevole di occupazione della popolazione 15-65 anni;
Una bassa percentuale di occupati rispetto alla popolazione e di lavoratori con età 55-64;
Una massiccia presenza dei “grandi vecchi” (persone
con più di 80 anni).
La
Figura 1 - Il contesto italiano e l’ageism.
rito all’assunzione di una visione strategica da parte delle istituzioni responsabili: chi ha previsto, quarant’anni fa, l’incombente pericolo demografico di oggi e chi ha diagnosticato come il “modernismo” e il “giovanilismo” di allora dovesse produrre inevitabilmente l’attuale situazione, contrassegnata dall’ageism e dall’improvvisa, e stravolgente per certi versi, esigenza di
rielaborare strumenti demografici, economici, finanziari, organizzativi per affrontare un problema ormai
di cruciale importanza?
“Il progressivo invecchiamento della popolazione in Europa
(e non solo) è foriero di gravi conseguenze negli anni a venire: crisi nei sistemi previdenziali pubblici e shotage cronico di forza lavoro” (Contini, 2003).
Tutti i dati demografici disponibili stanno indicando
che il dibattito internazionale su questo tema è entrato
da poco in una fase cruciale, finalizzata a potenziare
le competenze professionali dei lavoratori senior per
rafforzarne l’occupabilità (Rapporto Ocse, 1998), a sviluppare misure per una politica dell’invecchiamento
attivo e sostenere la necessità di interventi forti per contrastare la discriminazione in base all’età (European
Foundation, 1994).
Anche a livello italiano, il tema sta diventando oggetto di studio e di riflessione, a partire dalle istituzioni:
dal Nap (Piano nazionale per l’occupazione), ad esempio, emerge che molte delle attività in tema di politiche per l’occupazione dovranno concentrarsi sugli
“anziani”.
Questo perchè, nel panorama di riferimento Ue, l’Italia
è il paese con la situazione più complicata per almeno quattro motivi (Istat, 2006):
La più alta presenza di anziani: nel panorama dell’Unione europea l’Italia è il paese con la popolazione più
anziana. Al 1° gennaio 2006, la popolazione con più
di 65 anni ammontava al 19,5% del totale, dunque un
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155
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87,6
55
1980
1990
1999
2000
italiano su 5; il medesimo dato era pari al 13,1% agli
inizi degli anni ‘80;
Il più alto indice di vecchiaia del mondo: siamo passati dal 38,9% del 1961, al 96,6% del 1991, fino al
116,5% del 1997 per arrivare al 137,8% del 2005. In
altri termini oggi si contano 137 anziani ogni 100 giovani, a fronte dei 39 nel 1961;
Il tasso più sfavorevole di occupazione della popolazione
15-65 anni (54,8% contro il 64,3 medio dell’Europa);
La più bassa percentuale di occupati rispetto alla popolazione (29%) e di lavoratori con età 55-64 (28,9%
contro il 40% medio dell’Europa).
Un record di invecchiamento che si deve essenzialmente alla riduzione del livello di fecondità (i giovani sino a 14 anni sono appena il 14,1% della popolazione contro il 22,6% nel 1980) e all’aumento della speranza di vita: nel periodo 1961/2004 questa è aumentata da 67,2 anni a 77,6 per gli uomini e da 72,3
a 83,2 anni per le donne. A livello internazionale, l’Italia
si colloca come uno dei paesi più longevi: la popolazione dei “grandi vecchi”, ovvero di quella popolazione
con più di 80 anni, ha ormai superato il 5% della popolazione totale.
Se dunque invecchia la popolazione, invecchia automaticamente la forza lavoro.
Le politiche degli ultimi quindici anni in Italia, come
in Europa, hanno incoraggiato il pre-pensionamento
dei lavoratori più anziani per favorire l’ingresso delle
fasce più giovani. Questa scelta politico-sociale ha ridotto il peso percentuale delle fasce di età più avanzate nel mercato del lavoro con significative ripercussioni sul tasso di dipendenza vale a dire sulla percentuale tra gli inattivi (popolazione di età 0-14 e 65 ed
oltre) e gli occupati (la popolazione in età lavorativa
15-64 anni) che nel 1980 era pari al 55,4%, nel 2004
supera il 50%.
Concludiamo questa carrellata di numeri, con il dato
più significativo rispetto al tema che stiamo trattando:
Sviluppo & Organizzazione N.220 Marzo/Aprile 2007
2001
2002
2003
2004
2005
Figura 2 - Indice di vecchiaia, 1980, 1990, 1999-2005
(Fonte Istat).
dall’indagine condotta da Confindustria (Corriere Lavoro, venerdì 2 aprile 2004) emerge che negli ultimi anni 600mila italiani over 45 sono stati espulsi dal mercato del lavoro.
Il perché di questa realtà si spiega soprattutto con il filone tematico dell’ipercompetitività dei mercati che porta le aziende a ricercare sempre più efficienza nei collaboratori, nella logica “giovanilista” delle carriere up
or out o di quella della war for talent. Tale approccio induce le imprese a ridurre le carriere in tempi sempre
più brevi, formando una nuova classe dirigente cui è stato negato il tempo necessario per apprendere e per far
sedimentare ciò che ha appreso. Va da sé che queste politiche di gestione provocano forti ripercussioni su quattro fondamentali aree del mercato del lavoro:
La perdita prematura dell’occupazione in conseguenza
dei rapidi e radicali processi di downsizing da parte delle imprese;
I problemi di reclutamento e di reinserimento nella forza lavoro di cui lo specchio più eclatante sono gli annunci
di ricerca lavoro nei quali la ricerca di over 50 è pressoché nulla;
L’esclusione dalla formazione quasi priva di iniziative per
i lavoratori più anziani;
Il pensionamento oggetto di infinite e continue diatribe
sull’obbligo di andare in pensione o sull’essere liberi
di poter continuare a lavorare.
1.3 - Capire l’ageism
Gli studi in materia fanno risalire l’origine dell’ageism
alla fine del XIX secolo, come fenomeno sponsorizzato dall’economia capitalista (Graebner,1980). L’avvento
dell’economia capitalista esacerbò la spinta competitiva nel mercato del lavoro anche attraverso la crescente
3
popolarità dell’accorciamento della giornata lavorativa.
Si puntava a ottenere una maggiore produttività in minor tempo da parte di ogni singolo lavoratore, cosa che
penalizzava i ritmi più lenti dei lavoratori anziani rispetto
a quelli giovani. “Economisti e medici elaborarono un’ideologia che rinforzava e razionalizzava questa discriminazione e i
tecnici di direzione aziendale la misero in atto nelle fabbriche,
nei negozi e negli uffici” (Graebner, 1980).
Un ulteriore elemento che sfavoriva i lavoratori anziani
era l’insistente progresso della tecnologia, che portava
a cambiamenti continui. Nei decenni successivi al 1915
la discriminazione dei lavoratori in base all’età subì un
timido cambiamento, poiché ci si accorse che i lavoratori anziani erano più affidabili per quanto riguarda stabilità e commitment: accadeva che i lavoratori con anni di
esperienza dimostrassero un forte attaccamento all’impresa, ai suoi valori e alle sue tradizioni, oltre che un’approfondita conoscenza delle tecniche del mestiere, patrimonio che riuscivano a trasmettere agli apprendisti,
lavorandoci fianco a fianco. Di conseguenza vennero presi nuovamente in considerazione da una minoranza imprenditoriale per combattere il selvaggio turnover che
caratterizzava le aziende di quel periodo. Questa ripresa però non fu sufficiente a dissolvere i radicati pregiudizi sulle capacità e potenzialità lavorative degli anziani.
La maggior parte degli imprenditori continuò a preferire i lavoratori giovani a quelli anziani. La scienza e, in
particolare, la medicina di fine secolo con gli studi sul
lavoro e sulla fatica avvalorò tali pregiudizi, contribuendo
al rafforzamento della discriminazione in base all’età, che
portava le aziende a fissare dei limiti precisi per l’assunzione del personale e il suo allontanamento dal posto di lavoro.
La discriminazione in base all’età, infine, fu sostenuta
dal culto della giovinezza proprio del XX secolo. Altri
studi in campo sia sociologico sia manageriale (Marshall,
2001; Mazzara, 1997; Schirrmacher, 2004) hanno successivamente confermato tale prospettiva evidenziando
come:
1 - Sul piano sociale, la modalità di relazione “vecchiaia sinonimo di incompetenza sociale” sia frutto di stereotipi e
pregiudizi, condivisi e quindi integrati nella cultura comune, che tratteggiano l’anziano caratterizzato da rigidità mentale, orientamento al passato, mancanza di progettualità, chiusura al cambiamento. Da qui il giudizio
diffuso di incompetenza e il coseguente atteggiamento
di discriminazione verso chi è portatore di età. Da questo punto di vista il paradosso che si rileva è che, rispetto agli altri pregiudizi (genere, razzismo, ecc.) di cui ci
è preclusa l’esperienza, la vecchiaia sia una condizione
che prima o poi apparterrà a tutti ma ciò nonostante si
finga che non ci riguardi;
2 - Sul piano psicologico, l’essere oggetto di esclusione sociale e organizzativa produce disorientamento e alie4
nazione, come testimoniano le numerose storie di coloro che sono usciti precocemente dal mercato del lavoro, in seguito a fusioni e tagli organizzativi di vario genere. Gli individui soggettivamente affrontano il tema
dell’età in chiave di emarginazione con una potenza d’urto devastante, poiché il periodo che precede l’esclusione è spesso ignaro e inconsapevole del fenomeno. Se
la convivenza con le altre diversità, (il genere, la razza)
ci accompagna fin dalla nascita, l’età sopraggiunge inaspettatamente come elemento di rottura e di ripensamento profondo del proprio sé;
3 - Sul piano organizzativo, l’ageism si concretizza in prassi non scritte di gestione del personale, che tendono a
disinvestire sullo sviluppo dei lavoratori senior escludendoli dal sistema premiante (formazione, sviluppo carriera, ecc.). Si tende generalmente a ridurre il periodo
entro il quale si sviluppa la carriera dei dipendenti. Nelle
organizzazioni, infatti, a 45 anni in genere il periodo delle promozioni è finito e, da lì in poi, le possibilità di ulteriore carriera si affievoliscono sempre più. Si entra nelle organizzazioni a 27 anni e a 40 i giochi sono terminati: quel che è fatto è fatto, il tempo per la carriera è
finito. L’enfasi posta sull’attuazione di programmi volti
alla ricerca di giovani talenti, applicate massicciamente
anche dalle aziende italiane, ha come limite il fatto di
sostenere carriere troppo precoci a scapito della valorizzazione dell’intero corpus aziendale.
Vale la pena però ricordare che, per l’aumento straordinario della durata della vita (a 60 anni restano in media ancora da vivere 20-25 anni), dal punto di vista fisico e psicologico, il lavoratore anziano è più disponibile
a proseguire con la propria attività lavorativa, poiché da
un lato gli consente di far conto su un ammontare di reddito “conosciuto” e “sicuro”, e dall’altro di allontanare
psicologicamente la vecchiaia socialmente “inutile”.
Un’azione organizzativa orientata in questo senso contribuirebbe a rompere l’imperante cultura della vecchiaia
come momento (conclusivo) di segregazione, nel percorso della vita. Il lavoratore senior acquisterebbe la dignità di “risorsa da sviluppare e non male necessario da eliminare” (Bombelli, 2002).
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2 - Una validazione delle ipotesi sull’ageism
Le considerazioni sopra riportate trovano una conferma nei risultati della ricerca realizzata nel contesto
italiano dal Laboratorio Armonia della Sda Bocconi e
da Astra Demoskopea, con il supporto rispettivamente di Boehringer Ingheleim e della Fondazione
Adecco per le Pari Opportunità. L’obiettivo principale
della ricerca era quello di verificare l’esistenza dell’ageism e indagare come il fenomeno si presenti nei diversi ambiti lavorativi che lo compongono.
Di seguito vengono riportati i principali risultati emersi su tre diversi piani: sociale, psicologico e organizzativo/aziendale.
2.1 - Il piano sociale: il punto di vista degli italiani
La percezione collettiva dell’esistenza di fenomeni di
discriminazione e di licenziamento precoce degli
over45 è avvalorata dal sondaggio condotto da Astra
Ricerche con oltre mille interviste telefoniche, realizzate su un campione rappresentativo della popolazione italiana 14-79enne. Il 53% del campione indica
negli over45 il gruppo sociale più a rischio rispetto a
tutte le altre categorie di diversity (genere, ruolo socio-professionale, condizioni di salute, confessione religiosa, opinioni politiche). La grande maggioranza
inoltre si mostra preoccupata per i licenziamenti degli ultra44enni, anche perché spessissimo questi risultano “senza ritorno”. Diversi sono i fattori denunciati: innanzitutto, l’“inumanità” dei licenziamenti precoci di soggetti ancora nel pieno della vita e generalmente con elevate responsabilità familiari (l’educazione
dei figli, il mutuo da pagare, ecc.); l’“insensatezza” delle aziende che rinunciano a risorse mature ed esperte solo per contenere il costo del lavoro e per incrementare la flessibilità senza investire in formazione; la
“follia” di trasformare lavoratori piuttosto giovani in
disoccupati a vita, con impatto negativo pure sul sistema
pensionistico; dell’immenso “spreco” umano e professionale derivante da tali licenziamenti precoci, oltre che dalle numerose forme di devalorizzazione, sottoutilizzo, discriminazione e mobbing in azienda.
La ricerca demoscopica mette anche in luce il dominante rifiuto di ogni forma di gestione delle risorse
umane che non si basi solo ed esclusivamente sulle capacità e sui meriti dei singoli lavoratori (dirigenti inclusi) ma si fondi su discriminazioni, frequentemente fondate su stereotipi: queste ultime - sostiene la maggioranza dei 14-79enni - dovrebbero essere verificate
e sanzionate pesantemente “per legge”, anche perché
altrimenti (è opinione del 54%) esse tenderanno ad
aumentare nei prossimi anni.
Infine, sono 11,2 milioni coloro che affermano di conoscere personalmente persone penalizzate o licenziate
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PIANO
PSICOLOGICO:
il punto di vista
degli over 45enni
esclusi dal mercato
del lavoro
PIANO
SOCIALE:
il punto di vista
degli italiani
PIANO
ORGANIZZATIVO:
il punto di vista
degli head hunters
e dei selezionatori
aziendali
Figura 3 - I piani della ricerca.
a causa dell’età. E tra i soli lavoratori o ex-lavoratori
dipendenti ultra44enni circa 600mila denunciano di
essere o esser stati penalizzati, discriminati o allontanati dal lavoro sempre per aver passato i 40-45 anni,
mentre 3,3 milioni soffrono di ansia crescente per la
possibilità di vivere tali esperienze in futuro.
In definitiva, emerge che la società italiana risulta
informata e angosciata al tempo stesso. La conclusione è che il tema della marginalizzazione senza ritorno degli over45 non può essere mantenuto riservato
o limitato ai soli interessati, ma è già entrato nell’agenda
sociale della collettività: una collettività per il 67% sensibile e ostile alla crescente precarizzazione del lavoro e dei lavoratori (siano essi giovani o di mezz’età).
2.2 - Il piano psicologico: il punto di vista
degli esclusi
Delle molte persone oggetto di espulsione dal mercato
del lavoro nella fascia di età considerata che potevano raccontarci la loro storia, ne sono state selezionate una decina professionalmente molto reputate dalla loro organizzazione e con posizioni elevate. I racconti
hanno reso possibile sia la ricostruzione di un quadro
generale che, proprio perché derivato da esperienze
soggettive, è possibile proporre solo in termini ipotetici, sia l’esplorazione di una dimensione personale che
è vera in quanto tale.
Dal punto di vista generale, non è difficile affermare
che molte sono state le “uscite” dalle organizzazioni,
uscite che hanno percorso due grandi filoni.
Il primo è quello delle dimissioni incentivate conse5
guenze di processi espliciti quali fusioni, acquisizioni
e riorganizzazioni; il secondo, che potremmo definire implicito, in quanto rivolto alle persone singolarmente con motivazioni diverse.
In entrambi i percorsi, le persone sono di un’età che
parte dai 45 anni circa, che hanno iniziato a lavorare, siano essi diplomati o laureati, in anni in cui era
tutto sommato facile trovare un posto fisso e ben retribuito. Queste persone, nel momento di crisi, accettano senza porre particolari resistenze il licenziamento concordato, perché fiduciosi in un’esperienza pregressa, sia di ingresso nel mercato del lavoro,
che spesso di cambiamento di azienda, sempre piuttosto facile.
Le persone si trovano, di fatto, fuori dall’azienda, escluse dalla posizione professionale che aveva contribuito, spesso in modo preponderante, a definire la soggettiva identità personale. Sono persone che hanno dedicato al lavoro la maggior parte del loro tempo, spesso in viaggio, quasi sempre trascurando la famiglia e
gli affetti relativi, magari con rimpianto, ma sempre
squilibrando la bilancia del lavoro/famiglia a favore
del primo.
Forti di una sostanziosa buona uscita e della convinzione per lavorare basti averne la disponibilità, i
45/50enni iniziano a battere le strade della ricollocazione: si inizia generalmente dal network personale,
si telefona a vecchi colleghi, a capi del personale conosciuti, si raccolgono indirizzi di head hunter.
I colloqui che si riescono ad ottenere sono scarsi, e anche questi sono spesso molto brevi e orientati a posizioni specifiche. Nessuno dei selezionatori o head hunter propone cambiamenti. In breve tempo ci si rende
conto di alcuni problemi, alcuni di tipo specifico ed
altri più generali.
La posizione e la retribuzione precedenti diventano vincolo a qualsiasi ricollocazione laterale o con salario minore. In questo problema si riscontrano due dimensioni interessanti, supposto che l’esperienza degli intervistati possa ritenersi almeno in parte generalizzabile. La prima riguarda il ruolo degli head hunter.
Sembra che essi siano molto proni alle richieste dei
clienti e alla loro cultura organizzativa e che in questa subalternità non osino proporre persone non perfettamente coerenti con il profilo richiesto da punto
di vista dell’esperienza passata, ma con un potenziale
possibile. In altre parole, sembra che non ci sia una ricognizione del potenziale esistente, cosa che, in un
mondo aziendale sempre meno schematico e preciso,
potrebbe portare alla perdita secca di competenze implicite.
Molti degli intervistati, durante i colloqui, si rendono
conto che retribuzione percepita precedentemente diventa vincolo all’assunzione. Nessuno lo dice esplici6
tamente, ma si coglie un codice non scritto e tuttavia
vincolante: non si possono offrire salari inferiori!
Poco importa se la persona che sta facendo il colloquio
è disponibile a questo, non si può fare. Coloro che ricercano il lavoro imparano a tacere sulla retribuzione
precedente o addirittura a mentire, in modo che questo scoglio possa essere superato.
È in questo momento che si inizia lentamente e dolorosamente ad acquisire la consapevolezza di essere
“disoccupati”; in questa lenta acquisizione di un nuovo status, di una nuova etichetta che non può definire se stessi, spesso si cade nella disperazione.
Si vede andare in pezzi la propria identità: il lavoro,
di medio-alto livello, era la ragione di vita: tutti descrivono una situazione estremamente dolorosa, in cui
bisogna ripensarsi integralmente, modificare le proprie
convinzioni e misurare in modo completamente nuovo la propria autostima. La preoccupazione più grande sono soprattutto gli altri, coloro che rispecchiano
la nuova condizione (la moglie, i figli e i familiari diretti in primo luogo).
Il lavoro quasi sempre si ritrova, ma dopo uno, anche
due anni. In molti casi si tratta di consulenza o di vendita, due ambiti che necessitano di una proattività imprenditoriale, in cui bisogna portare i clienti; oppure
in imprese più piccole, italiane che iniziano la strada
dell’internazionalizzazione, che stanno attraversando
un processo di crescita.
Dalle informazioni raccolte nelle interviste è anche possibile arguire che le persone costrette con più frequenza
a lasciare sono quelle appartenenti a funzioni a basso
contenuto specialistico e ad altro contenuto relazionale.
È una sorta di nemesi: le funzioni a carriera precoce,
ad esempio marketing, strategia, dove era stato possibile raggiungere in giovane età posizioni rilevanti, sono le prime a mandare via persone, probabilmente perché l’alto costo non viene ritenuto giustificabile in relazione al valore aggiunto fornito.
Viceversa i tecnici, quelli spesso snobbati nella implicita gerarchia di status delle tribù aziendali, vengono
meno toccati, forse perché meno sostituibili, oppure
perché costano meno dei loro omologhi delle funzioni
altolocate.
Diversi sono i dubbi che emergono dalle interviste condotte.
Innanzitutto, viene da chiedersi se è vero che viene fatta una riflessione seria e puntuale su quali competenze
le aziende perdono, oppure, come appare in alcuni casi, i tagli che vengono fatti sono solo legati ai costi, senza nessun discrimine di qualità e, quindi, di un’ottica
di lungo periodo.
Inoltre, ci si chiede se il messaggio che si lancia alle
persone viene in qualche modo pensato e ragionato,
oppure se l’implicita esortazione a mantenere le proSviluppo & Organizzazione N.220 Marzo/Aprile 2007
prie competenze e a non condividerle con altri, sia valutato nella sua importanza.
Infine, ma forse più importante, rimane il dubbio che
questa operazione soggiaccia a stereotipi secondo cui
i giovani sono sempre meglio dei meno giovani e che
la loro motivazione, voglia di agire, flessibilità e prestazione sia sempre e comunque più alta.
In realtà, come dimostra le letteratura che si è cimentata in questo campo, ciò non è sempre vero: la
variabile età non è predittiva di nessuna delle caratteristiche elencate.
2.3 - Il piano organizzativo: il punto di vista
degli head hunter e dei selezionatori
Per indagare il piano organizzativo sono state intervistate persone che professionalmente si occupano di
ricerca e di selezione delle persone per le aziende (direzioni risorse umane e head hunter). Dalle interviste
emerge un dato lampante: l’età, nella loro opinione,
non è un elemento di discriminazione; quello che conta è la coerenza tra la posizione ricercata e le competenze del soggetto.
A partire da questo assunto generale secondo cui l’età
non è di per sé un problema, gli head hunter rintracciano alcune differenze significative circa il significato
dell’età nei diversi segmenti del mercato del lavoro.
Infatti, l’età sembra acquisire un valore e un significato diverso in funzione della tipologia del mercato/prodotto di riferimento, delle funzioni organizzative di appartenenza e della tipologia dei ruoli.
Per quanto riguarda la tipologia del mercato/prodotto di
riferimento, nei settori tradizionali (banche, farmaceutico, assicurazioni) il limite d’età è 50-55 anni. La
cultura organizzativa di queste tipologie di mercato
valorizza generalmente la seniority e l’esperienza a essa associata; la carriera si fa dall’interno, l’età media
è piuttosto elevata (maggiore di 40 anni), i dirigenti
sono per lo più over 45; anche negli inserimenti dal
mercato esterno. In generale nella banca tradizionaSviluppo & Organizzazione N.220 Marzo/Aprile 2007
le non capita quasi mai che una persona sotto i 45 anni vada a ricoprire ruoli di alto livello; solo in casi rarissimi.
Anche nel farmaceutico dove si privilegia la sostanza
nella ricerca di nuovi farmaci e lo sviluppo di nuove
molecole l’età è irrilevante: si ricerca quindi solidità
e maturità professionale più che velocità e rapidità del
decidere e dell’agire.
Negli altri settori, ad esempio il manifatturiero, ingressi
sopra i 45-50 vengono presi in considerazione con minor frequenza e spesso sono “rientri”, persone conosciute dalla struttura o che vengono presentate personalmente da qualche interno.
Nei settori emergenti (investment banking, consulenza, telecomunicazioni, moda lusso) il limite d’età è 35 anni circa. In questi settori i ritmi di lavoro sono molto
impegnativi, gli orari si dilatano sempre più erodendo spazio alla vita privata, i processi decisionali sono
iper-efficienti e improntati alla velocità: forse per questo motivo si privilegiano persone più giovani.
Come caso limite viene citato il mercato dell’investment banking: è un mercato dalle caratteristiche particolari dove il massimo della seniority è di 35 anni; è
opinione condivisa che i giovani si adattino più facilmente, siano disponibili a lavorare fino all’estremo
accettando orari impossibili, reggano lo stress e le notti al lavoro.
Poiché i ritmi sono particolarmente faticosi, sono gli
stessi attori organizzativi che dopo i trent’anni cercano
soluzioni alternative; è infatti frequente che dopo i
trent’anni l’identificazione con la sfera lavorativa diventi meno totalizzante, poiché inizia un ciclo di vita
più orientato a un equo bilanciamento tra la sfera privata e lavorativa.
Nelle funzioni ad alto contenuto specialistico (amministrazione, finanza, supply chain, controllo di gestione,
operation) l’età è anche un valore aggiunto. L’incertezza organizzativa richiede sempre più che i problemi
vengano risolti non con automatismi ripetitivi, ma facendo appello a esperienze simili precedenti o a modelli scientifico/disciplinari che aiutano a elaborare
la soluzione più opportuna o quella meno svantaggiosa. Questo tipo di know-how risulta più distintivo
delle funzioni sopra menzionate, poiché queste basano maggiormente la loro performance su conoscenze teoriche i piuttosto che su abilità relazionali
e negoziali.
L’elevata conoscenza specialistica richiesta si associa
facilmente a un pari livello di esperienza e a una certa maturità professionale: in questo senso l’età non costituisce stereotipicamente una barriera, ma può diventare anche un valore aggiunto in quanto certifica
il processo di acquisizione delle conoscenze. L’età garantisce da un certo punto di vista che le conoscen7
ze non siano solo teoriche, mnemoniche o poco applicate.
Nelle funzioni a contenuto più relazionale e sistemico
(marketing, strategia, sviluppo, commerciale) l’età è
prevalentemente un limite. Nelle funzioni in cui le
competenze richieste dal ruolo sono maggiormente
connesse ad aspetti emotivi e relazionali, cioè alla
capacità di cogliere simultaneamente i segnali deboli del mercato interno ed esterno, di costruire rapporti
di partnership e di fiducia con il cliente, di negoziare risorse per sviluppare progetti, non si guarda tanto il grado di specializzazione e di esperienza, ma il
potenziale della persona. In questo senso l’età è un
aspetto che può giocare negativamente: sia perché l’età
è associata a un’idea di maggiore rigidità relazionale, sia perché non sempre garantisce il physique du rôle socialmente richiesto, sia perché la quantità di energia e grinta attesa è più rintracciabile nella way of life
giovanile.
Nelle posizioni di natura impiegatizia e nel middle management l’età è un fattore di criticità. Tutto il mercato
del lavoro dagli impiegati, ai quadri, ai dirigenti di primo livello si rivolge a persone con una seniority che
cresce proporzionalmente alla discrezionalità richiesta, ma che si attesta complessivamente intorno ai 4042 anni.
Dalle interviste emerge una segmentazione puntuale delle richieste di assunzione per fasce di età così riassumibile: impiegati, 28-32/33 anni; quadri, 30-35 anni; dirigenti, 35-42 anni.
Per i ruoli molto elevati e gli executive (amministratori
delegati, direttori generali, top management) l’età non
viene presa in considerazione e diviene spesso un valore aggiunto perché sinonimo di esperienza. Il problema dell’età si riduce all’aumentare della complessità
gestionale della posizione: per queste posizioni si prendono in considerazione la qualità complessiva del curriculum, i risultati portati, gli obiettivi raggiunti; si privilegiano i candidati che abbiano gestito situazioni
complesse.
Il candidato ideale però è colui che non è alla ricerca di un posto di lavoro. Da questo punto di vista emerge una barriera implicita e più sottile nei confronti dell’età anche per le posizioni di top management: sembra strutturarsi in modo embrionale un’associazione
negativa tra valore delle capacità e competenze e le
candidature spontanee. Sicuramente questo è solo il
primo frame di osservazione dei candidati in quanto,
come prima esposto, si guarda nei fatti la qualità complessiva del curriculum, ma non è possibile quantificare quanto il primo impatto vincoli le conclusioni successive.
Di fatto, se così fosse, si penalizzerebbero i candidati che sono stati espulsi dal mercato del lavoro in se8
guito a fusioni, ristrutturazioni, acquisizioni organizzative e che di solito rappresentano la fascia di età degli over 45.
Secondo gli head hunter intervistati, inoltre, al di là del
settore, del ruolo e della funzione di appartenenza,
esistono alcune difficoltà soggettive delle persone over
45 a trovare lavoro.
Due fenomeni concomitanti contribuiscono a creare
questa percezione di discriminazione: da un lato, i processi di ristrutturazione aziendale, che hanno sempre
più confinato alcune funzioni aziendali un tempo molto ampie, quali la produzione e l’amministrazione, dall’altro l’esponenziale crescita di conoscenze di base
necessarie per muoversi nel mondo del lavoro attuale. In particolare la crescente internazionalizzazione
delle imprese comporta spesso il cambiamento della
lingua utilizzata, anche nella quotidianità, e sempre
più frequenti sono le aziende dove l’inglese non è richiesto solo per le posizioni dei manager viaggiatori,
ma diventa la lingua prevalente nelle comunicazioni
interne e nelle riunioni, spesso collegate ad altri paesi. In questo caso, gli over 45 pagano un atavico distacco
della scuola italiana nel fornire le competenze linguistiche di base di lingue straniere, su cui poi costruire
l’eccellenza, problema che non è superato neanche
nelle più giovani generazioni.
In questo caso la formazione diventa, obtorto collo, delle aziende che evidentemente reputano inutile investire su persone a età elevata.
L’altro grande gap formativo è quello relativo all’informatica. In molte situazioni il mantenimento della posizione garantisce l’aggiornamento delle soggettive competenze informatiche. Ma quando, per
qualsiasi ragione, la posizione viene lasciata, il gap si
allarga irrimediabilmente.
Anche le direzioni del personale si allineano alle considerazioni fatte dagli head hunter: l’età non viene esplicitata come una categoria euristica di osservazione e
di rappresentazione delle problematiche organizzative.
A questa scarsa consapevolezza, al limite di una quasi totale negazione emotiva dell’esistenza del problema età, fa da contraltare un quadro più oggettivo per
nulla favorevole per gli over 45enni.
Ad esempio, accade spesso che il curriculum di un over
45, che perviene all’azienda in modo spontaneo, venga automaticamente scartato a priori e cestinato. Il curriculum di un senior viene considerato solo se supportato da referenze interne fornite dal personale stesso dell’organizzazione o da meccanismi di “cooptazione” che garantiscono all’azienda di ottenere un prescreening compiuto da chi già conosce sia il contesto
organizzativo, sia le caratteristiche del candidato (reputazione, affidabilità…).
Anche nel momento della selezione vera e propria del
Sviluppo & Organizzazione N.220 Marzo/Aprile 2007
candidato sembra esistere una correlazione forte tra
tipologia di posizione ed età: il giovane viene per lo
più selezionato per ruoli di front office, back office,
a basso contenuto specialistico, che non richiedono
una forte esperienza, ma skill prettamente tecniche
(sistemista, help desk, ruoli amministrativi). Si opta invece per la persona più senior per ruoli che richiedono
maggiore competenza e gestionalità, caratteristiche indispensabili per coordinare gruppi di progetto interni
alla azienda e per rapportarsi in modo vincente con
il cliente esterno.
In generale, poi, non emerge una precisa strategia di
mantenimento e manutenzione delle competenze in
essere da parte delle aziende. A un discreto investimento nella formazione di competenze tecnico-specialistiche, si contrappone un minor investimento nella formazione di competenze manageriali e gestionali.
Competenze queste ultime, che vengono però richieste
come requisiti indispensabili per lo sviluppo di carriera
delle persone senior: è come se le aziende, partendo
dall’idea che l’età sia sinonimo di managerialità, non
ritenessero utile fornire questo strumento fondamentale alle proprie risorse. Il risultato di ciò è che
da un lato i senior che non sono in possesso delle competenze manageriali rimangono plafonati nel proprio
ruolo; dall’altro lato le aziende ricorrono al mercato
esterno per ricercare la persona in possesso delle competenze necessarie a ricoprire il eventuali posizioni vacanti.
Un ultimo dato merita di essere menzionato ed è quello relativo all’outplacement: in nessuna delle aziende oggetto della ricerca esistono programmi formalizzati di
accompagnamento all’uscita. Anzi, nei processi di ristrutturazione, acquisizione o fusione, le persone invitate a uscire sono prevalentemente i senior, sia perché costano di più rispetto a risorse più junior, sia perché più vicini al prepensionamento, sia perché considerati più scomodi e meno inclini al cambiamento.
A fronte di ciò, a maggior ragione l’outplacement potrebbe essere uno strumento dedicato alle risorse senior che desiderano un ricollocamento sul mercato
del lavoro.
In conclusione, sia dalle considerazioni fatte dagli head
hunter che dalle direzioni del personale appare chiaro che il tempo per affrontare il tema degli over 45enni, in termini di comprensione e di valorizzazione della diversità è, nella maggior parte dei casi analizzati,
ancora lontano. A oggi il tema dell’età viene osservato
prevalentemente con categorie stereotipiche (ageism)
che frequentemente sfociano in comportamenti pregiudiziali e discriminatori; non si assumono persone
oltre i 45 anni di età, e si smette di investire in termini
di sviluppo professionale su di esse non solo per motivi di cost cutting, ma anche perché all’età si associa
Sviluppo & Organizzazione N.220 Marzo/Aprile 2007
età richiesta
42,4%
età NON
richiesta
57,6%
Figura 4 - Quanti annunci chiedono l’età?
45 anni o più
13,1%
<44 anni
86,9%
Figura 5 - Quale età viene richiesta?
l’idea della lentezza, della non disponibilità al cambiamento, della rigidità mentale.
Basta leggere le inserzioni di offerta di lavoro per capire quanto sia reale la discriminazione verso le persone più senior. Dei 5.189 annunci analizzati dalla ricerca della Sda Bocconi (pubblicati sulle pagine di un
quotidiano nazionale nei venerdì del mese di settembre del 1993, 1998, 2003 e di aprile 2004), risulta un primo dato aggregato di estremo interesse: il
42,4% del totale delle inserzioni analizzate riporta il
dato relativo all’età, una percentuale molto elevata se
si pensa che esiste una normativa che considera l’esposizione dell’età una violazione del principio delle pari opportunità.
Un secondo dato probabilmente scontato, ma pur sempre eclatante, è che tra i 2.202 annunci che richiedono
l’età, la fascia più richiesta è quella sotto i 44 anni, con
una percentuale vicina all’87% e, più precisamente,
in 636 annunci viene indicata la fascia compresa tra
i 35 e 39 anni; già dopo i 40 anni il numero delle proposte comincia a decrescere, fino ad arrivare ai 41 annunci per la fascia 50/54 anni e ai 17 per gli over 55.
Il database creato ci ha consentito poi di fare analisi
incrociate su due variabili: l’età e la posizione organizzativa che deve essere ricoperta. L’evidenza che
emerge è che tra le offerte di lavoro per ricoprire ruoli all’interno di imprese, quelle che si rivolgono a persone con un’età superiore ai 45 anni sono solamente
9
650
600
550
500
450
400
350
300
250
200
150
100
50
0
636
413
443
349
230
67
40
17
meno di
24 anni
25/29
30/34
35/39
40/44
45/49
50/54
sopra i
55 anni
Figura 6 - Quale età viene richiesta?
2.4 - I diversi punti di vista in sintesi
l’11,5% dei casi; questa percentuale raddoppia per quelle offerte che propongono un ruolo di agente o di consulente. È ipotizzabile dunque che per quest’ultima tipologia di ruolo l’età sia una variabile meno discriminante: anzi, probabilmente, in questi casi la seniority viene maggiormente premiata in quanto può rappresentare un valore aggiunto, sinonimo di saggezza ed esperienza acquisite nel tempo.
Infine, tra le inserzioni che propongono posizioni all’interno di aziende, emerge che più il ruolo richiede
una certa responsabilità nella gestione di risorse umane (ad esempio: capi reparto, dirigenti, responsabili di
settore….), minori sembrano essere le discriminazioni
per gli over 45. Per contro, chi cerca periti, tecnici, contabili, operai si rivolge a un target di persone giovani.
In conclusione, il quadro che appare dalla analisi è tutto sommato chiaro: le richieste di lavoro fatte attraverso le inserzioni sui quotidiani prediligono mediamente
un pubblico giovane di età. Gli over 45 che vogliono trovare lavoro non possono ricorrere esclusivamente a questo strumento. È vero anche che la discriminazione diminuisce all’aumentare della complessità gestionale o della esperienza professionale più o meno implicitamente
richieste dalla posizione da ricoprire: ma siamo pur sempre su numeri molto piccoli.
Rimane da chiedersi se sia lo strumento “inserzioni” a
non essere adatto, e se quindi ne esista uno più favorevole alle persone senior o se, invece, al di là dello strumento usato per ricercare personale, siano le aziende a
non volere intenzionalmente rivolgersi per le assunzioni a questo target di lavoratori.
Il quadro di sintesi che si può cercare di trarre è legato
ai diversi piani e punti di vista descritti che pongono, come è naturale che sia, alcune contraddizioni.
Il primo è il punto di vista degli italiani che rivelano una
certa sagacia di comprensione del problema. Non è una
preoccupazione generica, ma diventa, dai dati descritti, una precisa consapevolezza che nel mondo del lavoro sta montando un problema età, spesso misconosciuto dagli stessi protagonisti.
Il secondo è quello soggettivo delle persone escluse dal
mercato del lavoro. Un punto di vista che può essere sicuramente deformato dalla particolare situazione in cui
si sono trovate queste persone. La densità emotiva delle interviste raccolte può far supporre un’enfasi più legata alla drammaticità del percorso soggettivo che a una
reale pratica organizzativa di espulsione degli over 45 dal
mercato del lavoro.
Questa potenziale deformazione, come abbiamo visto,
è molto mitigata dagli altri punti di osservazione che in
qualche modo sostanziano l’impressione che non si tratti di “manie di persecuzione” da persone di una certa età.
Inoltre, il dettaglio delle interviste mette in luce un comune sentire spesso riscontrabile nelle organizzazioni
lavorative, una sorta di frattura tra quello che il lavoro
chiede e che il lavoro dà. Essere licenziati o estromessi
con pressioni diverse non è mai un’esperienza piacevole.
Colpisce soprattutto la rottura del contratto psicologico.
Non si tratta di lavativi, poco impegnati perché prossimi alla pensione, poco dediti o disponibili all’apprendimento. Nessuno degli intervistati era stanco di lavorare,
anelava alla pensione. Anzi: la maggior parte di loro aveva avuto brillanti valutazioni di prestazione, alte grada-
10
Sviluppo & Organizzazione N.220 Marzo/Aprile 2007
zioni nelle passate valutazioni di potenziale. Non è solo
la perdita del lavoro, che molti di loro nel momento in
cui avviene, non sanno essere l’inizio di un calvario personale.
A questo punto di vista, simmetricamente se ne contrappone un altro, quello degli head hunter e dei selezionatori aziendali, fiduciosi nella prima affermazione
che dichiarano: “Uno bravo trova comunque lavoro….”. Ma
uno bravo per cosa è giudicato da chi?
Se anche in questo caso il punto di vista soggettivo risulta
estremamente comprensibile, i fatti poi assumono un colore diverso se analizzati nel dettaglio.
Come spesso accade la discriminazione non è palese.
Pochi vogliono ammettere, anche a se stessi, che l’età è
un problema. Ci si appella ad altri aspetti, alle competenze, alla motivazione.
L’ultimo punto di vista, ma sicuramente importante, è
quello offerto dalla analisi quantitativa della ricerca e che
rivela nella sua interezza la discriminazione di età: è l’analisi delle inserzioni di ricerca del personale, dove si evince che nessuna ratio viene utilizzata nel assegnare una
età ad una richiesta.
Al di là dei singoli dati, quello che appare è una sovrautilizzo del dato età nelle richieste di lavoro, con un
legame tra età e prestazione che nulla ha mai dimostrato:
qui la deformazione cognitiva, il bias, di chi seleziona si
staglia netto tra le possibili opinioni.
strategico finalizzato al miglioramento delle condizioni
di lavoro e del clima organizzativo, attraverso politiche
di gestione del personale tese a valorizzare il capitale
intelletivo ed emotivo che risiede in ciascun attore organizzativo, a prescindere dalle diversità (sesso, religione, cultura) di cui ciascuno è portatore. E come strumento di responsabilità e sostenibiltà sociale rientrando in questo senso nelle politiche di corporate social responsability. La finalità di entrambi gli approcci
è quella di generare valore aggiunto attraverso l’aumento di efficacia ed efficienza dell’impresa.
Il primo passo di ogni introduzione di politiche e strumenti di diversity management è sicuramente di natura
culturale e comporta due dimensioni. Da un lato la diagnosi di quali sono le principali forme di diversità assenti dal contesto e di quali siano le reazioni individuali
prevalenti: in questo modo si cerca di cogliere le proprie debolezze e di definire gli obiettivi che sarebbe
più opportuno perseguire. La seconda dimensione è
relativa alla costruzione di una cultura inclusiva in cui
la diversità possa avere cittadinanza. Quindi “il concetto base del diversity management è che la la forza-lavoro è formata da individui diversi. La loro diversità è data da fattori, visibili e non, come sesso, background, razza, personalità, stile di lavoro, età. Valorizzare tali differenze permette di
creare un ambiente produttivo in cui ciascun lavoratore si sente apprezzato, un ambiente di lavoro dove i talenti sono pienamente espressi permettendo all’impresa di raggiungere i propri obiettivi” (Kandola, Fullerton, 1994).
A differenza delle iniziative istituzionali, che si pongono
l’obiettivo di superare ogni forma di discriminazione
sociale nei diritti civili e costituzionali e che ne sono
i naturali predecessori (Bombelli, 2003), il diversity management, si pone invece il problema di cambiare la visione dell’impresa come melting pot ovvero di superare, all’interno delle organizzazioni, la cultura dell’assimilazione, cioè che i diversi e le minoranze debbano adottare norme e modi di agire del gruppo di
maggioranza.
3 - Diversity management: un possibile approccio
strategico alla gestione dell’ageism
3.2 - Diversity management ed ageism
3.1 - Il diversity management
La gestione delle discriminazioni di razza, di genere
e di etnia hanno, a livello sociale e organizzativo, ha
alle spalle una storia contrastata ma sufficientemente
lunga per sancire il raggiungimento di risultati concreti
apprezzabili, mediante il varo prima di iniziative promosse a livello istituzionale (pari opportunità, azioni
positive, ecc.) e successivamente di iniziative organizzative, come quelle che rientrano nelle politiche di diversity management.
Il diversity management si è consolidato nel corso degli
anni secondo due diverse modalità: come approccio
Sviluppo & Organizzazione N.220 Marzo/Aprile 2007
In Italia, il diversity management ha iniziato a operare e
produrre stimabili risultati nel fornire risposte nella gestione
delle diversità di genere e di etnia, più cogenti sotto il profilo etico e sociale, contribuendo a dare soluzione alle istanze di cui queste diversità sono portatrici e riducendo, in
qualche modo, la distanza tra valore sociale e valore organizzativo, spesso tra loro divergenti.
Sotto il profilo dell’ageism, invece, la cultura aziendale preminente non si è ancora mossa con sufficiente decisione
al fine di rimuovere gli ostacoli che ne determinano la consistenza.
Il motivo più probabile è che, mentre per le già citate al11
tre diversità esiste una consapevolezza storice e sociale da
decenni, l’ageism, paradossalmente, è il riflesso “condizionato” di un problema che investe tutti (tutti, indipendentemente da altre forme di diversità), ma posto in evidenza da troppo poco tempo per essere accreditato nell’ambito delle “diversità” da metabolizzare e affrontare prima che possa esercitare il suo “peso” negativo in tutto il mondo industrializzato.
Siamo ancora ancorati troppo spesso alla convinzione che
il lavoratore anziano sia più cagionevole di salute e assenteista, meno flessibile nell’apprendimento e più problematico nelle performance.
È opnione di chi scrive che il diversity management possa costituire, a tal proposito, un approccio facilmente praticabile per affrontare il tema dell’età in un’ottica costruttiva
e di integrazione, avendo ottenuto risultati apprezzabili negli altri aspetti di gestione della diversità. Le imprese hanno infatti sempre più bisogno dell’esperienza e delle capacità di tutti i professionisti, indipendentemente dalla loro età, dal genere o cultura di appartenenza. La struttura
dei costi delle nostre organizzazioni non può infatti permettersi il lusso di perdere capitale intellettuale sui cui oggi si costruisce il vantaggio competitivo d’impresa.
È necessario quindi che le imprese rivedano i loro criteri
di selezione abbandonando un’ecessiva focalizzazione solo sui giovani talenti, e favoriscano parallelamente la crescita della popolazione matura in termini di aggiornamento,
crescita professionale, e quindi di motivazione. Occorre ripensare i percorsi di mobilità e di carriera, abbandonado
l’unicità del modello up or out, forse troppo costrittivo.
In tutto questo, l’approccio culturale del diversity management, può contribuire a modificare una cultura d’impresa in cui si annidano stereotipi e pregiudizi, privi spesso di
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