Untitled - Barz and Hippo

Transcript

Untitled - Barz and Hippo
Il non cattolico Stephen Frears mette la sua consumata abilità registica al servizio di una storia drammatica, la
vera storia di una madre addolorata, tuttora vivente, il cui cattolicesimo semplice e profondo si pone in contrasto
con quello superficiale e deviato di un'istituzione della Chiesa Cattolica d'Irlanda. Film con cast e sceneggiatura
già pronti, a Frears il compito di tirarne fuori il meglio. Il box office e la critica lo hanno premiato.
scheda tecnica
durata:
nazionalità:
anno:
regia:
soggetto:
sceneggiatura:
fotografia:
montaggio:
musica:
costumi:
scenografia:
distribuzione:
98 MINUTI
GRAN BRETAGNA, USA, FRANCIA
2013
STEPHEN FREARS
MARTIN SIXSMITH
STEVE COOGAN, JEFF POPE
ROBBIE RYAN
VALERIO BONELLI
ALEXANDRE DESPLAT
CONSOLATA BOYLE
ALAN MACDONALD
LUCKY RED
interpreti:
JUDI DENCH (Philomena Lee), STEVE COOGAN (Martin Sixsmith), ANNA
MAXWELL Martin (Jane), MARE WINNINGHAM (Mary), MICHELLE FAIRLEY (Sally Mitchell), RUTH MCCABE
(Madre Barbara), BARBARA JEFFORD (Suor Hildegarde), PETER HERMANN (Pete Olson), SIMONE LAHBIB (Kate
Sixsmith), SOPHIE KENNEDY Clark (Philomena da giovane), AMY MCALLISTER (Suor Anunciata), CATHY BELTON
(Suor Claire), SEAN MAHON (Michael A. Hess).
premi e riconoscimenti:
2014 - Premio Oscar - Nomination Miglior film, Miglior attrice protagonista,
Miglior sceneggiatura non originale e Miglior colonna sonora
2014 - Golden Globes, Nomination Miglior film drammatico, Migliore attrice in
un film drammatico, Migliore sceneggiatura
2014 - BAFTA, Migliore sceneggiatura non originale, Nomination Miglior film,
Miglior film britannico, Migliore attrice protagonista
2013 - Mostra del cinema di Venezia – Premio Osella Migliore sceneggiatura,
Queer Lion
Stephen Frears
Nato a Leicester il 20 giugno 1941, Frears ha iniziato gli studi di Giurisprudenza a Cambridge per poi abbandonarli
e dedicarsi al teatro, collaborando con il Royal Court Theatre di Londra. Dopo numerose esperienze sul
palcoscenico in veste di regista, passa alla direzione di alcuni lavori per la televisione. Nello stesso periodo è
anche assistente del ceco Karol Reisz e di Lindsay Anderson, grazie ai quali impara i trucchi del mestiere di regista
cinematografico. Esordisce sul grande schermo nel 1972 con Sequestro pericoloso, film con Albert Finney ricco di
citazioni del noir classico. Il film ha scarso successo e Frears riprende il suo lavoro di regista televisivo, tornando
al cinema solo nel 1979 con Bloody Kids. La stampa e la critica si accorgono di lui nel 1984 quando realizza
Vendetta, mentre l'anno dopo arriva anche il successo di pubblico internazionale con My Beautiful Laundrette,
storia di una relazione omosessuale e interrazziale sullo sfondo di una lavanderia a gettone della periferia
londinese. Il film, realizzato per Channel 4, è tratto da un romanzo dello scrittore anglo-pakistano Hanif Kureishi.
L'intelligenza registica di Frears mette in luce la bravura degli attori, Daniel Day-Lewis su tutti, e costruisce una
storia apparentemente semplice ma ricca di sfaccettature illuminanti sull'integrazione culturale inglese. Dopo
Prick Up - L'importanza di essere Joe (1987), film biografico sulla vita del commediografo omosessuale Joe Orton,
torna a collaborare con Kureishi nel 1987 per Sammy e Rosie vanno a letto.
A questo punto anche Hollywood si accorge di lui e lo chiama per realizzare la costosa trasposizione in costume
del romanzo Le relazioni pericolose di Choderlos de Laclos. Il suo film si trova involontariamente a dover
competere con Valmont, tratto dallo stesso romanzo e girato nello stesso periodo da Miloš Forman, rispetto al
quale riesce ad attirare maggiore pubblico.
Seguono, sempre negli Stati Uniti, altri successi quali Rischiose abitudini, ottimo film incentrato sulla forza
distruttrice del denaro, su come influenzi il 'sogno americano' e spesso crei conseguenze drammatiche. Per
questo lavoro Frears riceve la nomination all'Oscar come migliore regista nel 1991. Enorme successo di pubblico
ha il successivo Eroe per caso, seguito da The Snapper (1993) e dal più interessante Mary Reilly (1996), con Julia
Roberts e John Malkovich, dove le vicende di dr. Jekyll/mr. Hyde vengono filtrate attraverso gli occhi della
governante.
Dopo il meno fortunato Hi-Lo Country, western anticonvenzionale girato nel 1998, e Due sulla strada, con Alta
fedeltà Stephen Frears ritrova le atmosfere british portando sullo schermo l'omonimo romanzo di Nick Hornby.
Sempre nel Regno Unito realizza i film successivi, tra cui Liam (2000), ambientato durante gli anni Trenta in
Irlanda, sotto la pressione di un cattolicesimo fervente, il delizioso noir arricchito da temi di denuncia sociale
Piccoli affari sporchi (2002), Lady Henderson presenta (2005), commedia che racconta degli impresari che
lanciarono il nudo a teatro nell'Inghilterra bombardata dai nazisti (Golden Globe per il miglior film commedia o
musicale), e il dissacrante The Queen (2006) sulla reazione di Elisabetta II alla morte di Diana Spencer. Helen
Mirren, che interpreta la regina, viene premiata con la coppa Volpi e l'Oscar come migliore attrice.
L'establishment inglese negherà alla produzione il permesso di girare la pellicola nei luoghi reali, mail film è
ugualmente portato a termine. Il risultato è un felice ritratto, sobrio ma disincantato, della regina Elisabetta II e di
tutta la famiglia reale, nelle contraddizioni tra immagine istituzionale e comportamenti privati.
Nel 2009 si dedica al film Chéri, dramma in costume, ambientato nella Parigi cortigiana di inizio Novecento. Per la
parte della protagonista sceglie nuovamente Michelle Pfeiffer. Nel 2010 gira Tamara Drewe - Tradimenti
all'inglese, commedia romantica interpretata dalla splendida Gemma Arterton e nel 2012 la commedia Una
ragazza a Las Vegas. Ma sarà il drammatico Philomena (2013), a regalargli di nuovo riconoscimenti in tutto il
mondo.
La parola ai protagonisti
Intervista a Stephen Frears
Com'è venuto a conoscenza di questa storia?
Non conoscevo la storia quando sono stato chiamato a dirigere il film. Però conoscevo le malefatte dei cattolici e
il luogo in cui la vicenda si è svolta, in Irlanda. Sono arrivato quando la sceneggiatura era già scritta e gli attori
principali già arruolati, ma è stato estremamente interessante poter fare questo film e ne vado molto fiero.
È stato ispirato da «The Magdalene sister», il film di Peter Mullan, che vinse il Leone d'oro nel 2002 e che parlava
della crudeltà delle suore della misericordia irlandesi nei confronti delle ragazze madri che venivano loro
affidate?
Direi di no. È la prima volta che mi affaccio a questo tema. Conoscevo il film naturalmente, ma la mia storia è
focalizzata non tanto sui maltrattamenti, quanto sul fatto che i figli venivano venduti a coppie abbienti, questa la
novità. Un regista decide di girare una pellicola per una complessità di ragioni. In questo caso, mi intrigava la
combinazione tra tragedia e commedia.
Nel film ci sono molti elementi della commedia. Non c’era il rischio di snaturare la storia privandola del suo
carattere drammatico?
Essendo la storia vera molto tragica, l’umorismo era importante per distendere l’atmosfera e mandare giù il
boccone amaro. Non volevamo rendere il racconto triviale, ma più accessibile e toccante grazie ai dialoghi
umoristici. L’abbiamo fatto con molto rispetto, in quanto Philomena è una persona straordinaria che ha sofferto
molto e meritava la massima attenzione. Malgrado l’età, ha anche un senso dell’umorismo abbastanza
sorprendente. Il cinismo e la critica umoristica sono rivolti piuttosto contro la Chiesa. Mi piacerebbe molto che il
Papa potesse vedere il film. Il suo parere mi interessa.
Nel film la sua critica divertita ai romanzi all’acqua di rose trova fondamento nel fatto che, a partire da una
materia analoga, applica alla storia un trattamento melodrammatico …Che cosa l’attira nel melodramma?
Mi piacciono le storie a più strati. Uno strato drammatico come base, uno strato da commedia romantica, poi
uno strato più critico, cinico…è il mio modo personale di raccontare questa storia. Altri adotterebbero un altro
approccio, come quegli autori di romanzi ai quale si allude nel film. C’è un pubblico per loro così come, spero, c’è
un pubblico per il mio film. Sono a favore della soddisfazione universale.
Com’è andato il lavoro con gli attori?
Avevo già lavorato con Judi e conoscevo il suo impegno. Steve (Coogan) era co-autore della sceneggiatura e
coproduttore, il che di fatto mi garantiva un grosso impegno da parte sua. In realtà, Steve mi chiedeva
continuamente di correggerlo. Aveva paura di perdere il controllo e dare troppo spazio alla sua propensione alla
commedia. Mi diceva: «Se esagero e comincio a fare il mattatore, basta che mi fai un gesto verso il basso con la
mano…». È quel che ho fatto, in diverse occasioni, e l’ha molto apprezzato. Avevamo quindi la nostra lingua
privata ed è andato tutto molto bene.
Lei si circonda di figure femminili forti. Michelle Pfeiffer («Le relazioni pericolose», 1988), Helen Mirren («The
queen», 2006) e ora Judi Dench, Oscar alla miglior attrice non protagonista nel 1999, (fu la regina Elisabetta per
Shakespeare in love di John Madden)
Sì, è terribile. È la mia croce. Le donne della mia vita sono tutte donne forti e mi fanno diventare matto. Sono
circondato da grandi donne e grandi attrici, che spesso ricevono premi importanti e la cosa mi rende molto felice.
Judi è una grande attrice e una grande donna. La produzione, come dicevo, aveva già scritturato Steven Coogan e
Judi Dench. La storia di queste donne a cui viene sottratto il figlio è coinvolgente e lavorare con Judi e Steve è
stato facile.
Quale il suo rapporto con la Philomena "vera"?
Buono fin quando apprezza il mio film (ride). Ha visto la pellicola una prima volta ed era nervosa, poi una
seconda e le è piaciuto. Noi camminiamo attraverso la vita delle persone. È una grossa responsabilità. La regina
non ha molto apprezzato il mio film su di lei ("The Queen", 2006).
Philomena ha perdonato la suora che le ha nascosto la nuova identità del figlio e che ha impedito la loro
ricongiunzione. Lei che farebbe?
Non lo so. Rimango nel dubbio. È impressionante la maniera con cui la vera Philomena ha difeso le suore.
Com'è stato l'incontro con le persone reali che si celano dietro i personaggi del film?
Il vero Pete Olsson (ma il nome è fittizio) è stato molto disponibile e ci ha messo a disposizione il girato del
bambino vero, i suoi filmini di famiglia. La vera Philomena è una donna realmente straordinaria. È ingenua e
saggia assieme e non perché ha perdonato il suo carnefice è ingenua. Nella realtà è una persona molto
intelligente. Ha visto il film due volte, perché la prima era troppo nervosa e ha chiesto di rivederlo. Ha detto di
averlo molto apprezzato e per me questa è la cosa importante. È anche venuta sul set, proprio durante la scena
terribile della lavanderia, quando portano via il bambino. Le dicevo: "non dovresti stare qui", ma ha saputo
perdonare, per cui per lei è più facile rispetto a chi non è riuscito a superare la rabbia.
Con chi si riconosce maggiormente all'interno del film: con Philomena, con il giornalista, la editor o il figlio
perduto?
Con il giornalista e il suo ateismo. Lui dice che, a differenza della protagonista, non avrebbe perdonato un torto
tanto grave e io stesso non so davvero dire se ce l'avrei fatta o ce la farei mai. Il modo in cui Philomena continua
nonostante tutto a difendere le suore per me ha davvero dell'incredibile.
È cattolico?
No e non so nulla del cattolicesimo, del suo stato attuale in Gran Bretagna o altrove. Mi pare che questo Papa
non sia male, mi piace, ma non ne so molto di più. Sono stato battezzato, salvo poi scoprire di essere ebreo,
molto tempo dopo. Non so perché la cosa non mi sia stata detta prima. Probabilmente il mio umorismo ha quella
radice lì.
Dopo The Queen, le interesserebbe un giorno raccontare della storia di William e Kate, che recentemente hanno
occupato ogni spazio dell'informazione inglese?
No, non mi sembrano granché interessanti.
Vista la sua performance alle Olimpiadi, crede che la regina sia una persona divertente, con il senso
dell'umorismo?
Probabilmente no.
Cosa pensa di Berlusconi?
Penso che dovrebbe stare in prigione.
A quale nuovo progetto sta lavorando?
Ad un film su Lance Armstrong. La sua vicenda mi affascina perché è una storia moralmente molto complessa.
Recensioni
Marta Traverso. Mentelocale.it
Philomena Lee è un'infermiera in pensione che vive nel Sud dell'Inghilterra con i figli e i nipoti. Ha subito da poco
un intervento all'anca, una protesi al titanio che le permette di muoversi senza dolore. È una cattolica molto
devota ed è appassionata di romanzi rosa, quelli in cui l'erede del granducato si innamora segretamente della
sguattera, che in realtà è figlia illegittima di un nobile ma ancora non lo sa, eccetera. Ha sempre una parola
buona per tutti: come sei gentile, sei unico/a al mondo. Sembra totalmente incapace di arrabbiarsi con qualcuno.
Quest'ultima caratteristica è per Martin Sixsmith un vero enigma. Lui, ex giornalista non credente, padre di
quattro figli, allontanato fra molte polemiche dallo staff di spin doctoring di Tony Blair, è più che convinto che
Philomena avrebbe tutte le ragioni per odiare il mondo intero.
La donna, cinquant'anni prima, ha infatti vissuto in quei luoghi noti come «lavanderie irlandesi»: istituti religiosi
che ospitavano soprattutto ragazze madri, alle quali garantivano l'espiazione delle colpe e la redenzione
dell'anima attraverso il duro lavoro. Partorivano sorvegliate dalle suore, senza alcuna assistenza medica, e se
sopravvivevano potevano vedere i loro figli un'ora al giorno, fino a quando non venivano adottati da facoltose e
cattoliche famiglie.
Il regista Stephen Frears racconta in questo film il viaggio che Philomena e Martin hanno realmente compiuto
alla ricerca del figlio di lei, dall'Inghilterra all'Irlanda fino a Washington. Prima tappa, l'istituto (…).
Un viaggio divenuto un libro, che Philomena ha chiesto a Martin di scrivere perché tutti sapessero cosa accadeva
in quei luoghi (l'ultima "lavanderia" ha chiuso nel 1996) e per dare speranza a tutte le donne che ancora oggi
continuano a cercare i loro figli.
Un tema che abbiamo conosciuto attraverso il cinema ancor prima che Philomena e Martin si incontrassero:
Magdalene di Peter Mullan ha vinto il Festival di Venezia nel 2002 sconvolgendo e indignando il pubblico sulle
colpe di queste istituzioni cattoliche, che solo nel febbraio 2013 hanno visto le pubbliche scuse da parte del
governo irlandese.
Una condanna alla religione che non trova spazio, se non appena sussurrato, in Philomena (…).
Antonello Catacchio. Il Manifesto
Nel 2002 Peter Mullan vinse il Leone d'oro della Mostra veneziana con 'Magdalene', il film che raccontava le
angherie che le suore cattoliche infliggevano alle giovani «peccatrici» irlandesi recluse nei loro conventi.
Quest'anno Stephen Frears è andato a Venezia per raccontare la storia, vera, di una di quelle ragazze: Philomena
(tornando ingiustamente senza un premio, se non quello a Steve Coogan per la sceneggiatura). (...) Ci sono film
che non hanno alcuna intenzione di essere innovativi in termini di linguaggio. Non hanno bisogno di
sperimentazioni, si basano su fatti concreti: una storia talmente ricca da sembrare inventata, due attori in stato di
grazia (Judi Dench e Steve Coogan, anche sceneggiatore con Jeff Pope, nomen omen, e produttore) una
sceneggiatura che bilancia magnificamente la drammaticità del racconto con dialoghi cesellati (l'ingenua Phil
scopre che il figlio era gay quando in una foto lo vede con indosso una salopette) e un ritmo da azione filmica,
molto più dirompente di tanti film d'azione. Così succede che 'Philomena' si riveli un autentico trionfo, facendo
più di un pensierino agli Oscar. Sarebbe un buon riscatto per Stephen Frears, geniaccio troppo spesso snobbato
dalla critica più spocchiosa e da giurie distratte. Anche perché 'Philomena' non è solo un fantastico racconto di
vita vissuta che vede coinvolti Jane Russell, Ronald Reagan il dio dei cattolici, ma un confronto intenso e ricco di
implicazioni tra un intellettuale abituato a muoversi nei piani alti della vita senza davvero accorgersi di quel che
succede là sotto e una persona vera capace di telefonare al suo «socio» per chiedergli se ha bisogno di un
accappatoio perché nel lussuoso albergo dove la rivista li ha alloggiati gliene hanno messi due. Stephen Frears si
è augurato che il papa possa vedere il suo film, ecco, sarebbe bello che succedesse e senza voler dare la croce
addosso a nessuno, facesse qualche riflessione su quanta cattiveria inutilmente punitiva sia stata messa in atto
da rappresentanti del mondo cattolico, in epoche non poi così remote.
Giancarlo Zappoli. Mymovies.it
Irlanda, 1952. Philomena resta incinta da adolescente. La famiglia la ripudia e la chiude in un convento di suore a
Roscrea. La ragazza partorirà un bambino che, dopo pochi anni, le verrà sottratto e dato in adozione.
2002. Philomena non ha ancora rinunciato all'idea di ritrovare il figlio per sapere almeno che ne è stato di lui.
Troverà aiuto in un giornalista che è stato silurato dall'establishment di Blair e che accetta, seppur inizialmente
controvoglia, di aiutarla nella ricerca. Gli ostacoli frapposti dall'istituzione religiosa saranno tanto cortesi quanto
depistanti ma i due non si perdono d'animo.
Stephen Frears racconta in questo suo riuscitissimo film la storia vera di una madre alla ricerca del figlio perduto
che Martin Sixsmith ha reso nota con il libro "The lost Child of Philomena Lee" che, pubblicato nel 2009, ha
consentito a molte donne di sentirsi sostenute nel raccontare il loro 'vergognoso' passato. (...)
Frears però ci fa sapere che Philomena non ha perso la fede (quella vera) e costruisce il suo film (grazie a due
formidabili interpreti come Judi Dench e Steve Coogan) proprio sul confronto tra due persone che partono da
punti di vista in materia estremamente distanti. Martin giornalista e studioso della storia della Russia non crede
in Dio ed ha scarsa fiducia anche negli esseri umani di cui ha assaggiato sulla propria pelle la feroce doppiezza.
Philomena non è una donna colta (legge romanzetti d'amore di cui ricorda ogni dettaglio) e avrebbe mille ragioni
per essere divenuta una delle atee più rigorose ma non è così. Perché è riuscita, anche nella sofferenza più
profonda, a non confondere Dio con coloro che hanno talvolta la pretesa (trasformata in potere prevaricatore e
assoluto) di rappresentarlo.
Philomena e Martin si confrontano e anche si scontrano in materia (anche perché il giornalista non le risparmia
mai il proprio scetticismo) ma non si tratta qui di chi abbia ragione o abbia torto. Si tratta piuttosto di un incontro
che è sempre possibile quando si è capaci di andare al di là delle barriere che il pregiudizio erige tra le persone.
Frears riesce a raccontarlo grazie all'umanità che ha pervaso i suoi film migliori e alle doti di narratore di grande
spessore.
Natalia Aspesi. La Repubblica
Pure i cinefili più incalliti si commuovono a una storia che sarebbe soap se nel suo accumularsi di sviste,
coincidenze, cocciutaggine e destino, non fosse vera: e se la protagonista non fosse quella ottantenne Judi Dench
(commossa pure lei alla proiezione del film che vedeva per la prima volta), che nel fiorire del suo sguardo azzurro
tra le rughe del suo bellissimo autentico viso, ridà fascino, sapienza e meraviglia ai suoi anni e a una vicenda
straordinaria, raccontata nel libro-inchiesta “The lost child of Philomena Lee” del giornalista Martin Sixsmith. In
Irlanda, agli inizi degli anni ’50, la giovanissima Philomena, sedotta e abbandonata, cacciata di casa come si usava
allora, partorisce il suo piccino in una delle case Magdalena, famose per la cattolica crudeltà e rapacità delle pie
suore. A tre anni il bimbo Anthony Lee viene venduto dalla Chiesa a una coppia agiata, e cattolica, di St. Louis nel
Missouri. Per tutta la vita la mamma cercherà il figlio, il figlio cercherà la mamma, senza riuscire a incontrarsi mai.
Un film non può essere scarno come un’inchiesta, e infatti Stephen Frears, pur rispettando il senso della storia e
la verità dei personaggi, manda Philomena accompagnata dal giornalista (Steve Coogan) che deve scrivere un
articolo strappalacrime per un tabloid, negli Stati Uniti, alla ricerca di questo figlio ignoto che dovrebbe orma
essere cinquantenne: «E se fosse obeso, fosse in prigione, fosse drogato, fosse senzatetto?» lei si chiede ansiosa.
La donnetta irlandese, lettrice accanita di romanzi rosa, ingenua, intelligente e spiritosa, scopre le meraviglie del
mondo, il volo in business, il cioccolatino sul cuscino in albergo, e a Washington, la statua di Lincoln. Il giornalista
e lei, così diversi, si rispettano, stanno bene insieme, solo la fede li divide. Lui non è credente, lei sì, prega in
ginocchio, il cuore intatto, nessun rancore per le suore che l’hanno spezzata, ancora certa di dover espiare per
sempre il suo fuggevole peccato carnale.
Finalmente si scopre (…).
Se Philomena è la meravigliosa Judi Dench, Anthony-Michael è se stesso, e rivive nelle vecchie fotografie in
convento, imbronciato, e poi nei filmini con i nuovi genitori, all’università, con Reagan e Bush, e felice con gli
amanti delle sue burrascose relazioni (uno lasciato da lui, si diede fuoco, ma il film non lo dice). Nel 2002 Peter
Mullan aveva vinto il Leone d’Oro per “Maddalena” da lui diretto, che raccontava dei soprusi insopportabili cui in
questi conventi-case di lavoro erano sottoposte le cosiddette peccatrici, per espiare le loro colpe. Il film
“Philomena” svela una realtà anche più fosca, il commercio di bambini strappati dalla chiesa cattolica irlandese di
allora alle loro madri, venduti a centinaia e a caro prezzo agli americani (anche all’attrice Jane Russell) senza che
per anni il governo, che rilasciava i passaporti intervenisse, se non richiedendo a un certo punto l’assenso scritto
della madre, che naturalmente veniva costretta a firmare. Molte risate commosse alla proiezione, scrosciare di
applausi a non finire, perché al cuor non si comanda: chissà a quello di Bernardo Bertolucci e di tutta la giuria.
Auspicio di Frears: «Spero che lo veda il Papa e che gli piaccia».
Alberto Crespi. L'Unità
Le sceneggiature cinematografiche sono testi tecnici, difficili da leggere. Ciò nondimeno quella di Philomena, il
nuovo film di Stephen Frears passato in concorso a Venezia, andrebbe pubblicata e assegnata come lettura
obbligatoria in tutte le scuole di cinema. Frears è ovviamente un bravissimo regista, ma i sostenitori (ce ne sono
ancora?) della «politica degli autori» dovrebbero dargli retta quando egli stesso dà gran parte del merito per i
suoi film agli scrittori e agli attori. The Queen, ad esempio, non sarebbe mai esistito senza il copione di Peter
Morgan e il talento di un'attrice fantastica come Helen Mirren; Philomena è una combinazione fra la scrittura di
Steve Coogan, anche attore protagonista, e il genio di Judi Dench, formidabile interprete shakespeariana che di
tanto in tanto onora anche il cinema con la sua presenza. Sia The Queen che Philomena sono ritratti di donne, ma
quanto distanti: fra la regina Elisabetta II del primo e la madre sconsolata del secondo c'è una distanza abissale,
ma la forza con cui affrontano le prove della vita è la medesima. Philomena Lee era un'adolescente nell'Irlanda
degli anni '50: rimasta incinta, era stata rinchiusa in un convento e le suore avevano dato il bimbo in adozione.
Sessant'anni dopo la sua storia incrocia quella di Martin Sixsmith, anchorman televisivo caduto in disgrazia.
Martin «annusa» la storia che potrebbe riportarlo in prima pagina, e propone a Philomena di andare alla ricerca
del bimbo perduto. (...) Nella seconda metà del film non sappiamo se la donna ritroverà il figlio, ma capiamo che
Martin sta trovando una mamma: un po' come Tony Blair che, in The Queen, finiva per affezionarsi alla regina
perché aveva la stessa età di sua madre. È encomiabile la capacità di auto-rappresentazione che il cinema
britannico dimostra con film come questo, o con tutta l'opera di Ken Loach. Philomena è anche lo spietato
ritratto dell'Irlanda bigotta, l'altra faccia dello specchio rispetto a Magdalene di Peter Mullan. Film tenero, forte e
divertente. Judi Dench da Nobel (l'Oscar è troppo poco, e comunque l'ha già vinto).
Fabio Ferzetti. Il Messaggero
Una storia così bella che sembra finta, invece è tutto vero. Due protagonisti che non si capiscono per l'intero film,
ma alla fine imparano qualcosa di fondamentale l'uno dall'altra. Un trionfo di sentimenti universali proiettati
contro un doppio sfondo storico: l'Irlanda povera dei primi anni 50, un paese in cui «qualsiasi cattolico con 1000
sterline in tasca poteva comprarsi un bambino». E l'Inghilterra incattivita del 2003, segnata dall'appoggio di Blair
alla guerra in Iraq, che scorre in filigrana dietro un film ambientato per metà proprio a Washington. Può suonare
paradossale ma è difficile immaginare qualcosa di più natalizio di 'Philomena', premiato per la miglior
sceneggiatura a Venezia e dominato dai fenomenali Judi Dench e Steve Coogan, che si rimpallano finezze e
sottotesti di uno script calibrato alla perfezione (Coogan ha anche scritto il film con Jeff Pope, dunque conosce
'da dentro' il suo personaggio). La storia, toccante quanto esemplare, è stata raccontata dal vero protagonista
Martin Sixsmith in un libro (in uscita da Piemme). Stephen Frears ne ha tratto un film ovattato e irresistibile,
lontano dai toni taglienti di lavori come 'Rischiose abitudini', 'The Queen', 'Tamara Drewe', ma capace forse di
raggiungere un pubblico molto più vasto. Come quello rappresentato dalla protagonista: un'anziana irlandese
decisa a ritrovare il figlio che mise al mondo da ragazza madre nel 1952 per poi vederselo strappare, bambino,
dalle suore del convento presso cui lavorava. (...) Dove sarà quell'innocente, venduto a qualche riccone (nel
convento c'è ancora una foto di Jane Russell, la diva di Hollywood, che venne lì come tanti americani per portarsi
via un bambino: e chissà se un giorno qualcuno farà un film sulle dive che oggi procreano salvandosi il girovita
grazie al sistema non proprio democratico degli uteri in affitto). (...) Naturalmente non sveleremo le tappe della
loro ricerca, con crescendo di rivelazioni a orologeria. Ma ancor più che per la storia, 'Philomena' vale per la
sottigliezza con cui dettaglia l'incontro fra questi due personaggi così diversi per censo e educazione. Lui tutto
ironia, cultura, razionalità. Lei imbevuta di fede e schiettezza, ma capace di vedere anche più lontano del
giornalista («Non voglio abbandonarmi all'odio come lei: dev'essere sfibrante»). Il tutto servito da un regista che
riflette sul proprio lavoro attraverso i suoi stessi personaggi. L'ingenua Judy Dench andrà in estasi per i
romanzetti stile harmony. Ma conosce sentimenti e generosità ignoti al suo colto, sarcastico, infelice
accompagnatore.
Alessandra Levantesi Kezich. La Stampa
La Cate Blanchett di Blue Jasmine è davvero straordinaria, ma per il Golden Globe (e probabilmente per l’Oscar)
la diva australiana dovrà vedersela con la Philomena di Judy Dench, fantastica attrice che riesce ogni volta a
sorprendere per intensità, autorevolezza e tempi perfetti. Alla base del bel film di Stephen Frears c’è una vicenda
vera, raccontata da Martin Sixsmith in un libro del 2009, The Lost Child of Philomena Lee, ora in uscita da noi
(Piemme).
Rimasta incinta a diciotto anni nella cattolicissima Irlanda del 1952 e bandita dalla famiglia, Philomena aveva
partorito in un convento un bimbo che le pie suore, compiuti 3 anni, le avevano sottratto dandolo in adozione.
Per mezzo secolo, nonostante un matrimonio e due figli, la donna si porta dentro il dolore di quel figlio
strappatole, finché Sixsmith (il bravo Steve Coogan, autore anche dell’ottima sceneggiatura), giornalista bruciato
dalla politica, non si appassiona al caso intraprendendo una ricerca durata un lustro.
La sua inchiesta rivela una brutta pagina della storia cattolica (…).
Tanto materiale poteva produrre un film pasticciato e sempre a rischio di scivolare nel patetico: invece la lacrima
arriva, ma resta sul ciglio, rattenuta con britannico senso del controllo; e semmai a scattare più spesso è la risata
per il gioco a contrasto della strana coppia. L’intellettuale snob uscito da Oxford e l’ex-infermiera piccolo
borghese, l’ateo e la credente, il giornalista che cerca di rimontare la china con una storia di vita vissuta; e
un’anziana signora che, a dispetto delle sue dickensiane vicissitudini, si diletta della lettura di romanzi rosa a lieto
fine. E’ anche un gioco su ciò che potrebbe essere Philomena, una storia d’appendice, se non fosse per un regista
tanto abile a giostrarla in un calibrato dosaggio di pathos e commedia.