Intervento Simonetta Tozzi

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Intervento Simonetta Tozzi
“Non si sarà affatto vista Roma se non se ne siano percorse le strade dei quartieri in cui si
mescolano gli spazi vuoti, i giardini pieni di rovine, le recinzioni degli alberi e delle vigne i chiostri
dove salgono i palmeti e i cipressi, gli uni somiglianti a donne dell’Oriente, gli altri a religiose in
lutto. Se ne vedono uscire i resti di auguste romane misere e belle, mentre vanno a comprare la
frutta o ad attingere l’acqua alle cascatelle riversate dagli acquedotti degli imperatori e dei papi”
così René de Chateaubriand esprimeva la sua idea di Roma(1): il filosofo, romantico per eccellenza,
non avrebbe voluto Roma e la sua campagna diverse da così, con le iridescenze, i vapori che
sfumano i contorni dei luoghi. Da questo sentimento nascono le scene di vita quotidiana costruite
con una tecnica fatta di grazia, dove la protagonista è una natura panica e dove , spesso, uomini e
animali ricoprono un ruolo di “figuranti” in un paesaggio incantato, nel quale sembrano dimorare
ancora ninfe ed elfi (2) . Queste considerazioni sono un adatto commento alle immagini che
proponiamo, tutte opere selezionate nell’ambito della raccolta grafica del Museo di Roma.Si tratta
di acquerelli e incisioni realizzati, tra la metà del Settecento e la metà dell’Ottocento, che
riproducono paesaggi e vedute e che nascevano, talvolta, con l’intento di soddisfare la crescente
richiesta a seguito del viaggio “di istruzione e di piacere” in Italia - e quindi a Roma -, secondo
una consuetudine che si andava consolidando e che rappresentava una tappa irrinunciabile nella
formazione intellettuale di ogni giovane europeo di buona famiglia. Non solo costituivano, spesso,
modelli per incisioni e litografie riprodotte in pubblicazioni destinate ai turisti raccolte in
vademecum o in esemplari sciolti e commercializzati, in qualche caso, realizzate da pittori che non
erano mai venuti a Roma.Gli artisti, oltre all’omaggio reso a località del Lazio consacrate dalla
letteratura di Orazio, Virgilio e Ovidio, sono rapiti dal rapporto tra natura e resti dell’antichità, dai
costumi e dalla vita delle persone con le quali entrano in contatto, dalla bellezza delle donne e
quello che sembra attrarli sopra ogni cosa è lo studio della luce, la luminosità mediterranea di
Roma e della sua campagna ,così lontana da quella della loro terra di origine , le variazioni
cromatiche, le albe e i tramonti (3). I pittori sono colpiti dagli antichi borghi , dalla natura
lussureggiante che avvolge i vecchi insediamenti , dalla desolazione dell’agro romano , ma anche
dalla popolazione che vive a Roma e nelle sue campagne e convive con le rovine degli acquedotti e
le imponenti vestigie delle ville. Non c’è luogo della campagna romana che non sia stato dipinto o
fissato con la matita su un foglio.
Si tratta di “visioni” della Roma del tempo, del tutto insolite per il nostro sguardo “imbarbarito” di
oggi : luoghi intatti e bellissimi, icone della romanità, negli anni dell’ultima “attrazione fatale” fra
Roma e gli artisti. Luoghi comuni, appunto, proprio secondo la teoria che il genio di Roma sta
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nell’aver inventato un intero sistema di luoghi (4), frequentati e raffigurati nei secoli in
innumerevoli momenti di pittura, senza che la loro suggestione si esaurisse mai.Punti di
confluenza, molto frequentati, dove nascevano incontri e amicizie fra i pittori. Si alternano il Foro
Romano e il Colosseo , Villa Borghese e Castel Sant’Angelo, San Pietro e il Pincio, Ponte Milvio e il
sepolcro di Cecilia Metella, nè mancano le struggenti, e, in qualche modo, preromantiche visioni
della campagna fuori città, immagini di un’epoca nella quale non era semplice spostarsi in luoghi
ancora selvaggi e poco ospitali, anche a motivo della malaria e dei briganti, eppure, al tempo stesso
simboliche visioni di quel mitizzato paesaggio “eroico”. Dipingere nella natura era la vera novità
per questi artisti che, abbandonati atelier e cavalletti, si dedicavano a “dipingere la natura dal
vero”, in omaggio alla teoria di Rousseau della corrispondenza tra natura e stato d’animo, fra
luoghi incontaminati e solitudine del cuore (5).
Roma presentava molteplici contraddizioni, lo stato pontificio era uno dei più arretrati d’Europa e,
malgrado le presenze cosmopolite, la città appariva una realtà immobile: era insieme capitale
internazionale e piccola città, sede di accademie e crocevia per artisti e intellettuali di fama, ma,
talvolta, girovagare per le sue strade di notte poteva risultare piuttosto pericoloso. I pittori
sembravano ossessionati dalla lotta tra il verde, le rovine, gli alberi e la pietra dove le tracce della
Roma antica faticavano ad emergere; proprio da questo apparente caos, tuttavia, “Robert delle
rovine” - così era soprannominato Hubert Robert dai contemporanei - e Abraham Louis Rodolphe
Ducros traevano ispirazione per le loro creazioni, mentre, François Marius Granet realizzava le
sue emozionanti immagini della Roma moderna e Victor Jean Nicolle e Charles Joseph Natoire
delineavano in nitide vedute o, con sentimento visionario, la loro idea della città. E ancora Philipp
Hackert realizzava le sue incisioni su committenza dei grandi dell’epoca , come Franz Keisermann
e Richard Cooper esprimevano, con le loro opere, l’ammirazione per tanta bellezza.
Un caso emblematico,tra questi pittori, è quello di Abraham-Louis-Rodolphe Ducros che la
decisione di guardare direttamente le cose aveva spinto dal cantone svizzero dove era nato, a
mettersi in viaggio per Roma, consapevole della sua formazione da autodidatta, ma piuttosto
completa, in particolar modo per ciò che concerneva le tecniche. L’artista, escluso dai circuiti della
grandi committenze, si propone come pittore di scenari della città, ritagliandosi una redditizia
fetta di mercato. Nascono così le “moderne” vedute di Roma : spettacolari, costruite su un asse
diagonale, molto amate da aristocratici inglesi, russi, tedeschi, svedesi (6). La sua casa-atelier in via
della Croce diviene anche la sede di una fiorente attività commerciale che lo vede associato con
Giovanni Volpato, Raffaello Morghen e Jacques Sablet . Nascevano così, nell’ambito di una vera e
propria “manifattura”, incisioni acquerellate che, in molti casi, venivano vendute come
acquerelli.(FOTO 1)
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Questi artisti che oggi farebbero reportages fotografici allora utilizzavano svelti carnets, leggeri
quadernetti facili da portare, se ne andavano in giro sempre pronti a cogliere d’après nature
paesaggi, macchiette, figure, al contrario degli accademici che lavoravano al chiuso, al massimo
copiando gessi o modelli, e tornando in studio, ripassavano a penna o acquerello gli appunti.
Dotati di seggiolini pieghevoli, cappello a tesa larga per ripararsi dal sole, scatola dei colori sulle
ginocchia a sostenere il foglio o la tela, ecco la tipologia del pittore che, abbandonato lo studio, va
in cerca di emozioni nuove e crea un nuovo genere.
Le immagini realizzate dai pittori che esaminiamo dovevano conoscere un’ampia circolazione
nell’Europa del nord tanto da costituire una sorta di déja-vu per gli artisti appena giunti in Italia:
“Mi sentivo come se molte cose le avessi già viste in sogno; probabilmente, invece, le conoscevo da
quadri, disegni acqueforti che ora si trasformavano tutti nel più vivido presente, nella più bella
realtà” (7), queste erano le riflessioni di Ludwig Richter, durante il suo viaggio in Italia compiuto
nel 1823 quando, passata la Storta, ultima stazione di posta prima di Roma, la campagna romana
più vicina alla città si dispiegava davanti al suo sguardo. Il sentimento di conoscenza dell’Italia era
molto diffuso al di là delle Alpi e, anche chi non era mai stato da noi, conosceva il paesaggio
italiano a motivo della quantità di incisioni, dipinti e descrizioni che avevano una grande
diffusione in Europa. Conoscere questi luoghi faceva parte di un bagaglio culturale che
prescindeva in qualche modo dalla esperienza diretta. Anche Goethe racconta di una sensazione
molto simile “Tutti i sogni della mia gioventù li vedo ora vivere; le prime incisioni di cui mi
ricordo (mio padre aveva appeso ai muri d’un vestibolo le vedute di Roma)le vedo nella realtà, e
tutto ciò che conoscevo già da lungo tempo, ritratto in quadri e disegni, inciso su rame o su legno,
riprodotto in gesso o in sughero, tutto è ora davanti a me; ovunque vado, scopro in un mondo cose
nuove che mi son note; tutto è come me l’ero figurato, e al tempo stesso tutto nuovo.” (8)
A partire dal Settecento, il viaggio in Italia era divenuto un motivo di riconoscimento fortemente
identitario, in una sorta di continuità ininterrotta con i tempi in cui i pellegrini medievali
giungevano in visita alla tomba dell’apostolo Pietro. I viaggiatori sembrano cercare conferma di un
ruolo sociale dominante e compiono una sorta di moderno “pellegrinaggio” tra antico e pagano,
moderno e papale, religioso e laico, attribuendo un’enorme importanza a questa consuetudine,
vissuta come irrinunciabile completamento di formazione , una sorta di “educazione
sentimentale”. D’altra parte, l’Italia, e Roma, in particolar modo, offrono motivi di attrazione
irresistibili: la suggestione dell’antico, la possibilità di fare incontri con persone straordinarie, un
clima speciale, dunque, un riparo accogliente e sicuro per gli spiriti degli artisti protoromantici,
provenienti dal nord Europa, che, come sosteneva Goethe, sembrano trovare pace e serenità solo a
contatto con “ un cielo e una terra che invitano qui come in nessun altro luogo”.
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Ciò che affascinava di Roma i pittori stranieri di questa generazione non era solo il “paesaggio
antiquario” ma erano, anche, i dintorni della città: i monti Albani, Tivoli, il lago di Nemi, Ariccia,
Olevanoe la Serpentara - quasi un luogo di culto per i pittori tedeschi -, la campagna solitaria e
impervia con i suoi alberi, animata a tratti da pastori con le greggi, e disseminata di rovine antiche
che evocavano malinconicamente un grande passato, nel nostalgico ritorno al paesaggio mitico che
rimase per generazioni il paesaggio ideale, il più amato dagli artisti tedeschi in Italia.(9).
All’epoca del Winckelmann era diffusa la convinzione che per essere artisti, bisognasse aver
visitato Roma che “per le arti figurative era la capitale del mondo”.La vita sociale degli artisti si
svolgeva specialmente nella zona attorno a piazza di Spagna. In pochi metri erano concentrati
infatti i punti più vivaci della cultura dell’epoca, a iniziare dall’Accademia di Francia a Villa
Medici, per passare, a pochi passi, al caffè Greco, punto di ritrovo per gli artisti sin dal 1760,
particolarmente caro agli stranieri, insieme al palazzo Tomati in via Gregoriana (dal 1803 residenza
del prussiano Wilhelm von Humboldt) o la casa Bartholdy in palazzo Zuccari, oggi sede della
biblioteca Hertziana,e, soprattutto Villa Malta che, nel 1827 , era stata acquistata da Ludovico di
Baviera per farne un centro di accoglienza dei pittori tedeschi a Roma. Nè possiamo dimenticare la
residenza romana di Angelica Kauffman e del marito, il pittore Antonio Zucchi, in via Sistina,
riferimento irrinunciabile per artisti e intellettuali in città, o quella di di Franz Ludwig Catel, in
piazza di Spagna, luogo di ritrovo e, in molti casi, di sostegno per giovani artisti.
Le incisioni e gli acquerelli presentati provengono per lo più, ad eccezione di alcune opere (10),
da due collezioni tra le più significative della storia
Lemmerman
del Museo: la raccolta di Basile de
e quella di Anna Laetitia Pecci Blunt. Entrambi raffinati collezionisti avevano
raccolto, con passione e per tutta la vita, opere dedicate a Roma e avevano preso, con grande
lungimiranza, la decisione di donarle, o cederle in vendita, a una istituzione pubblica, in questo
caso l’amministrazione comunale di Roma, scongiurandone la dispersione.
Basile de Lemmerman si era trasferito a Roma nel 1919, dalla città georgiana, Tiflis,oggi Tbilisi,
nella quale era nato nel 1898, quando, giovanissimo fu incaricato di una missione diplomatica e
aveva fatto della nostra città la sua seconda patria, trascorrendovi più di mezzo secolo. La sua
residenza romana era nel palazzetto Rodd, in via Giulia, al numero civico 167.Così Andrea Busiri
Vici raccontava di lui e della sua dimora “ entrare in quelle sale piene fino al soffitto di ritratti e di
altre pitture, e dalle vetrine colme dei cimeli della Santa Russia, che era riuscito a mettere insieme
nei suoi viaggi europei, era come rientrare nel lontano passato e rivivere in quel mondo
scomparso, ove egli, signore d’antico stampo, affabilmente riceveva i suoi ospiti” (11).Grande
conoscitore e colto collezionista aveva messo insieme negli anni un’incredibile raccolta di dipinti,
marmi, porcellane, mobili, e , specialmente, acquerelli e incisioni di Roma acquistati durante i suoi
viaggi nelle città europee, soprattutto Londra e Parigi. Era entrato a far parte del gruppo dei
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Romanisti che per lui era divenuto una sorta di famiglia, proprio come era stato per molti stranieri
che, vivendo lontani dal loro paese natale, avevano fatto di Roma la loro patria, materna e
accogliente. Il Lemmerman fu perfettamente in sintonia con un altro gruppo di appassionati
amatori della storia e della cultura romane, insieme ai quali contribuì, nel 1948, alla fondazione
dell’Associazione degli Amici dei Musei di Roma. I membri dell’associazione , sotto la guida
illuminata di Carlo Pietrangeli, diedero vita a una grande stagione culturale nella città,
promuovendo mostre importanti e , soprattutto, rimanendo a fianco dei Musei comunali di Roma
e perseguendo una lucida e mirata politica di acquisizioni di opere per le collezioni, favorendo o
suggerendo ai soci donazioni importanti, sovvenzionando restauri. In linea con tale politica, nel
1960, una parte della raccolta Lemmerman comprendente circa 400 esemplari entrò a far parte
delle collezioni del Museo di Roma. Molte di queste opere erano state esposte nella mostra di
Vedute romane appartenenti alla raccolta del barone Basile de Lemmerman (12), allestita a palazzo Braschi
tra il maggio e il giugno 1955 (FOTO 2). Già dal 1950, il Lemmerman aveva donato alcuni
acquerelli di Bartolomeo Pinelli e quindi altri nel 1954. In seguito, nel 1964, effettuò una donazione
al Museo di Roma di acquerelli e incisioni della campagna romana, altro atto generoso che fu lo
spunto per organizzare, tra il dicembre del 1964 e il gennaio 1965, la mostra Vedute della campagna
romana, incisioni e disegni donati al Museo di Roma dal barone Basile de Lemmerman, anche questa
allestita in Palazzo Braschi (13). Il Lemmermann si spense, improvvisamente, a Divonne le
Bains,nel settembre 1975 (14).
Un altro personaggio di grande importanza nella vita culturale romana della prima metà del XX
secolo è senza dubbio Anna Laetitia Pecci Blunt . Mimì- così era chiamata in famiglia e dagli amiciera nata a Roma nel 1885 dal conte Camillo Pecci e da Silvia Bueno Y Garzon, nobile spagnola, e
aveva sposato un cittadino americano, Cécil Blunt, conosciuto a Parigi, fatto che le consentiva
frequenti soggiorni negli Stati Uniti e nella capitale francese. Colta e piena di interessi,
frequentava, soprattutto durante le sue permanenze parigine, artisti, musicisti e letterati che
amava radunare nella sua casa di Rue de Babylone, divenuta punto di riferimento per la società
cosmopolita . Era facile incontrare nel suo salotto i principali esponenti della vita intellettuale
dell’epoca: André Gide, Malraux, Max Jacob, Salvator Dalì, Jean Cocteau ; anche il palazzo Pecci
Blunt in piazza Aracoeli, in precedenza proprietà dei Ruspoli e dei Malatesta, era divenuto ben
presto a Roma un punto di incontro per artisti e intellettuali romani o stranieri di passaggio in
città. La contessa diede vita ad una serie di interessanti iniziative, che venivano organizzate nella
sua residenza, quali i “Concerti di primavera”, a partire dal 1934, con l’intento di far conoscere alla
città musiche antiche e moderne poco note. Contemporaneamente, si tenevano conferenze e
incontri letterari, in qualche modo legati al mondo della musica. Furono così presentate opere, tra
gli
altri, di Massimo Bontempelli, Paul Valery e Alberto Savinio . L’attività dell’instancabile
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Laetitia Pecci Blunt non si fermò qui, a partire dal 1935 fondò un’importante galleria d’arte, “La
Cometa”,che aveva sede in locali adiacenti al palazzo Pecci in piazza della Tribuna di Tor de’
Specchi, con lo scopo di rendere accessibile al pubblico italiano quanto di più interessante andava
producendo l’arte contemporanea. Lucido ispiratore di questa straordinaria operazione fu Libero
De Libero, grande amico di Mimì Pecci (15).(FOTO 3)
Nella galleria si susseguirono una serie di mostre dedicate di volta, in volta, tra gli altri, a
Guglielmo Janni, Alberto Ziveri, Giacomo Manzù, Mirko, Corrado Cagli, Fausto Pirandello, Afro,
Giorgio De Chirico; con l’apertura di una sede a New York, l’attività proseguì fino allo scoppiare
della guerra. Il conflitto interruppe questa straordinaria stagione della vita culturale romana e
Mimì Pecci, con la sua famiglia, si trasferì a New York, da dove sostenne vari comitati per aiuti
umanitari in favore dell’Italia. All’indomani della devastante catastrofe,quando iniziava la
ricostruzione, un’altra avventura attendeva la contessa: la fondazione del “Teatro della Cometa”,
un’intensa esperienza che presentò ai Romani opere classiche e composizioni contemporanee poco
note (16).
Ma il rapporto tutto speciale che legava la contessa a Roma si concretizzò nella formazione della
raccolta “Roma sparita” .Da appassionata collezionista quale era, aveva messo insieme, nel corso
della sua vita, una notevole collezione di opere di artisti italiani e stranieri dedicata alla città e ai
mutamenti che andava subendo e che , con grande generosità, decise di donare ai cittadini romani
. Qualche tempo prima della sua morte, la contessa aveva manifestato a Carlo Pietrangeli questa
sua intenzione. La raccolta fu deposita, un po’clandestinamente, a palazzo Braschi dal momento
che non erano ancora state attivate le procedure per l’accettazione della donazione, perché entrasse
a far parte delle collezioni del Museo di Roma. Si trattava di 1266 opere, un patrimonio di altissimo
valore per la storia del collezionismo romano, per il Museo e per le sue raccolte.
La morte colse la contessa (17) nel 1971, in Toscana, nella Villa Reale di Marlia, prestigiosa
residenza nei pressi di Lucca che era appartenuta, tra gli altri, prima che ai Pecci Blunt, alla sorella
di Napoleone, Elisa Baciocchi.
Il Museo di Roma, entrato in possesso di questo importante nucleo, fu in grado di organizzare, con
l’apporto dell’Associazione degli Amici dei Musei di Roma, varie esposizioni a iniziare da quella,
del 1976, intitolata “Roma sparita” (18) che si tenne a palazzo Braschi , due allestimenti, curati nel
1981 e nel 1985, in una sala del Museo, sino alla più recente “Una collezionista e mecenate romana
Anna Laetitia Pecci Blunt 1885-1971” che risale al 1991(19).
PITTORI FRANCESI
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“Come entrate a Roma, salite su una carrozza e, secondo che vi sentiate disposti a gustare il bello
incolto e terribile, o il bello grazioso e artefatto, fatevi condurre al Colosseo o a San Pietro. Se ci
vorreste andare a piedi, non ci arriverete mai: troppe cose meravigliose vi fermeranno lungo la
strada ..” (Stendhal, Passeggiate romane ed. 1991 p.10)
Alcuni degli acquerelli e incisioni proposti, sono stati realizzati da artisti francesi attivi a Roma tra
la metà del Settecento e i primi anni dell’Ottocento: per lo più pittori che gravitavano nella cerchia
dell’Accademia di Francia , prestigiosa istituzione fondata nel 1666 per volere di Luigi XIV , che
aveva accolto l’illuminato consiglio di Colbert e di Le Brun , con l’intento di consentire ai giovani
artisti francesi di perfezionarsi a Roma. Si trattava di pittori e scultori ai quali era offerta la
possibilità di fare apprendistato grazie a una borsa di studio. Così l’Accademia di Francia, in
parallelo con quella di San Luca e quella dei Lincei, ospitava dodici pensionnaires du roi vincitori
del prestigioso Prix de Rome: un soggiorno, organizzato istituzionalmente, offerto loro ”pour s’y
perfectionnair dans leur art” che forniva un modello che sarà seguito anche da altre nazioni. Un
ferreo regolamento sanciva la vita all’interno dell’accademia: sveglia con tamburo, pasti in
comune, che si consumavano nella sala da pranzo tappezzata dai ritratti di coloro che li avevano
preceduti, coprifuoco alle ventidue . Il soggiorno durava, in media, cinque anni, durante i quali
non era consentito il ritorno in Francia. Durante questo periodo di vita in comune e a così stretto
contatto nascevano delle grandi amicizie tra i pensionnaires , che si consolidavano durante le
escursioni ai Castelli e nella campagna romana fatte insieme, o, grazie ai viaggi compiuti in località
più lontane come Napoli, la Sicilia, Firenze.
La prima sede dell’Accademia fu Palazzo Mancini in via del Corso, quindi, per volere di
Napoleone che la acquistò, nel 1803 dal granduca di Toscana, se ne decise il trasferimento nella
prestigiosa Villa Medici dove ancora oggi è ospitata. Da allora furono ammessi anche i musicisti
(20) . Si trattò di una vera e propria “ambasciata artistica” che contribuì alla gloria della Francia e
di Roma, i cui membri ricevevano committenze da parte di papi, cardinali e di una clientela
internazionale, entravano a far parte dell’Accademia di San Luca e partecipavano attivamente alla
vita culturale romana.
Questi pittori, come molti degli artisti stranieri presenti nella “città eterna”, sembrano soggiogati
da quella idea del paesaggio “eroico”, genere che vide in Claude Lorrain il suo maestro(21). Il
Lorenese, come era chiamato quasi a sottolineare la sua “italianità”, visse a Roma tra il 1627 e
l’anno della morte, avvenuta nel 1682. L’artista amava ambientare scene bibliche o mitologiche in
un paesaggio che era definito classico, anche a motivo della presenza di architetture, templi, rovine
situate , talvolta, sul mare , quasi a ricordare la localizzazione geografica dell’Italia nel cuore del
Mediterraneo. Si trattava di paesaggi idealizzati, immaginari, che traevano vita non dalla realtà ma
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dall’armonia dell’intera composizione. E’ da ricordare anche l’influsso che Nicolas Poussin esercitò
su questi artisti. Il grande pittore francese, che trascorse a Roma gran parte della sua esistenza, era
giunto nella città nel 1624 e deve gran parte della sua fama alla produzione di soggetto storicomitologico; ma fu anche un grande interprete della pittura di paesaggio, genere che muovendo
dall’atmosfera classica divenne la raffigurazione dell’atteggiamento aulico e bucolico che era stato
tipico degli intellettuali secenteschi nei confronti della natura.
Nessun popolo sembra avere intrattenuto con lo Stato pontificio maggiori rapporti di quanto ne
abbiano avuti i francesi. Si tratta di contatti politici - si pensi solamente alle occupazioni
napoleoniche -, intellettuali , attraverso artisti e studiosi, mondani, visto il grande affluire dei
viaggiatori che, soprattutto nel periodo dell’anno compreso tra febbraio e maggio, avevano la
consuetudine di trascorrere un periodo a Roma . Gogol così ci introduce nelle mode della Roma
del tempo affidando a “Roma”, racconto nel quale il grande scrittore esprime tutto il suo amore
per la città, le sue riflessioni. Si tratta di brevi, lucide annotazioni grazie alle quali viene descritto il
clima cosmopolita che si respirava nella città
“…infine, il popolo dei pittori, riunitisi da tutte le
parti del mondo, che qui si erano liberati degli attillati cencetti dell’abito all’europea per riapparire
in ampie e pittoresche vesti, le loro barbe imponenti e vigorose, prese dai ritratti di Leonardo e di
Tiziano, che avevano così poco in comune con quelle barbette mostruose e striminzite che i
francesi ritoccavano e tagliavano cinque volte al mese. Qui i pittori lasciavano i capelli liberi di
spargersi in riccioli poiché comprendevano appieno la bellezza di una chioma lunga e ondulata.
Qui anche i tedeschi, malgrado le gambe storte e le loro pance, avevano assunto un’aria più
significativa: si erano sciolti sulle spalle i loro boccoli dorati drappeggiandosi nelle leggere pieghe
della blusa greca o nell’abito di velluto noto con il nome di cinquecento, che a Roma solo i pittori
avevano l’abitudine di indossare” (22) .I luoghi di ritrovo nella città per queste diverse comunità di
artisti stranieri erano numerosi: dalle semplici osterie che ispirarono dipinti secondo una
tradizione che affondava le sue radici nella produzione seicentesca dei Bamboccianti, fino al
notissimo Caffè Greco in via Condotti, da sempre a Roma luogo-simbolo di vita cosmopolita e di
scambio culturale per pittori stranieri. In proposito è emblematico il quadro di Franz Catel,
eseguito nel 1824, che mostra Ludwig I di Baviera nella taverna spagnola di Roma , proponendo
una fusione tra il genere della scena popolare romana e l’elemento del ritratto. Il dipinto oggi è
conservato a Monaco, al Bayerische Staatgemaldesammlungen (22)( FOTO 4).
Gli spazi dell’Italia offrono molteplici suggestioni per gli artisti francesi e a Roma , in particolare,
questi ultimi hanno la possibilità di unire esperienze teoriche, come lo studio sull’antichità, al
lavoro sulle copie dei maestri, all’attività della pittura en plain air.
A dirigere l’Accademia di Francia tra il 1751 e il 1775 troviamo Charles-Joseph Natoire che era
arrivato nella città come pensionnaire nel 1721 e, all’inizio del suo soggiorno romano, aveva
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ottenuto il primo premio dell’Accademia di San Luca ed era divenuto membro dell’Accademia
dell’Arcadia con il nome di Protogene Palladiaco. Il Natoire fu pittore di affreschi in alcune chiese
della città. In particolare è ricordato per l’attività svolta in San Luigi , chiesa della nazione francese,
dove realizzò nella volta la Morte e la Gloria del Santo. E’ anche ricordato per essere autore di un
gran numero di disegni e acquerelli che hanno per soggetto la campagna romana. Rimosso dalla
carica di direttore dell’Accademia di Francia si ritirò a vivere a Castel Gandolfo dove morì nel 1777
(23 ).
Anche il ritrovarsi a dipingere nelle stesse località contribuì a unire queste diverse comunità di
pittori e certamente uno dei luoghi delle immediate vicinanze di Roma che sembrò “stregare”
questi artisti fu certamente Tivoli. La città si mostrava in tutto il suo fascino con le sue ville , con i
templi antichi e con la sua cascata che, incorniciata da una natura rigogliosa e selvaggia, divenne
un vero e proprio topos della pittura di paesaggio a partire dal secolo XVII e fu protagonista
assoluta di un’infinità di dipinti, acquerelli e stampe ad opera di artisti stranieri. Così
Chateauriand la descriveva nel suo Voyage en Italie “Mon déjeuner fini, on m’a amené un guide,
et je suis allé me placer avec lui sur le pont de la cascade: j’avais vu la cataracte du Niagara. Du
pont de la cascade nous sommes descendus à la grotte de Neptune, ainsi nommée, je crois, par
Vernet. L’Anio, après sa première chute sous le pont, s’engouffre parmi des roche set reparait dans
cette grotte de Neptune, pour aller faire une seconde chute sous le pont, s’engouffre parmi les
roche set reparait dan cette grote de Neptune, pour aller faire une seconde chute à la grotte des
Sirènes..” (24) in questo brano lo scrittore sembra paragonare questo grandioso spettacolo alle
Cascate del Niagara. Siamo di fronte ad una sorta di globalizzazione ante-litteram in un mondo
dove viaggiare e spostarsi era molto più consueto , sia pure tra notevoli disagi, di quanto noi
possiamo immaginare oggi.
Nicolas-Didier Boguet è tra i pittori che giunti a Roma, come era nella consuetudine, per un
periodo di studio e di approfondimento, finirono per trascorrervi tutta la vita. L’artista infatti morì
a Roma, dove è sepolto nella chiesa di San Luigi dei Francesi. Era nella città nel 1783 e subito si era
dedicato allo studio del paesaggio classico come era stato inteso da Claude Lorrain e Nicolas
Poussin. Dipinse e disegnò in modo infaticabile , trasformando Roma e la sua campagna nei suoi
ateliers en plein air (25). Le sue opere erano molto richieste dai viaggiatore del Grand Tour , anche se
aveva ricevuto committenze per grandi decorazioni come quella delle sale destinate ad accogliere
Napoleone al Quirinale-oggi non più esistente-. Lasciò una grande corpus di disegni che oggi, in
gran parte, sono conservati a Roma presso l’Istituto Nazionale per la Grafica. Nella città, negli anni
settanta del XVIII secolo, era entrato in contatto con altri artisti stranieri Charles François Percier e
Léonard Fontaine e con la cerchia dei paesaggisti tedeschi ai quali dovette molto, in special modo
per quanto concerneva l’interesse per la rappresentazione degli elementi della natura e, degli
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alberi, in modo particolare. Con Johan Christian Reinhart stabilì un legame molto stretto, proprio
in quanto esponente di quel paesaggio ideale che poneva il rigore di Poussin al di sopra della luce
di Claude Lorrain (26) . Il Boguet era anche vicino di casa di Goethe, in via del Corso, e amava
compiere con lui passeggiate sui colli Parioli fino all’Acqua Acetosa, altro luogo mitico della
pittura di paesaggio del XVII secolo, reso immortale dal Poussin.
Franz Catel , una delle figure di spicco nell’ambito di questo cenacolo di pittori, era nato a
Berlino, ma è assimilabile a questi artisti per scelte e frequentazioni. In qualche caso è citato come
“Francesco” Catel, a simboleggiare una totale identità con il nostro paese e con Roma, in modo
particolare; qui aveva sposato un’italiana, Margherita Prunetti, e aveva condotto una vita brillante
, frequentando le personalità artistiche più in vista , partecipando a feste e dando lui stesso
ricevimenti nella sua casa di piazza di Spagna, presto assurta a centro di aggregazione e punto di
incontro per intellettuali che vivevano e operavano nella città. Infatti, Catel , nonostante le simpatie
e le affinità con il gruppo dei Nazareni, non vorrà vivere insieme a questi artisti nel convento di
sant’Isidoro sul Pincio. Non si può parlare di lui come di un grandissimo pittore che mostrò di
avere intuizioni geniali ma di certo non raggiunse vette eccelse, visse agli inizi della polemica tra
neoclassici e romantici, accordando le sue preferenze agli ideali romantici (FOTO 5).Tuttavia fu
essenziale il suo ruolo di aggregazione e di promozione di relazioni umane e sociali che sfociò
nella decisione di fondare il Pio Istituto Catel, con l’intento di sostenere gli artisti in difficoltà.
All’istituzione andarono tutte le risorse dei coniugi Catel, che comprendevano denaro, opere del
pittore e di altri artisti, sia prima della morte di Franz , sia in seguito, per volontà della vedova
(27).
François Marius Granet era arrivato a Roma nel 1802 per ripartirne solamente nel 1824. La
peculiarità della sua produzione è quella di ignorare gli aspetti aulici che coltivavano di solito gli
artisti stranieri in Italia e si dedicò a descrivere, con una nuova sensibilità, una Roma “minore”,
quella dei chiostri e delle catacombe,evocata,con grande emozione, nei numerosi dipinti, acquerelli
e disegni , nei quali riesce a rendere , magistralmente, una poesia intima e semplice con efficaci
effetti di chiaroscuro. Amava infatti particolarmente le “gallerie buie con delle luci così ben
combinate che qualsiasi pittore con un po’ di gusto per il colore e per gli effetti non può resistere
dalla voglia di dipingere (28).
Un sentimento di grande curiosità per Roma e per le sue tradizioni traspare dall’attività di Antoine
Louis Jean Baptiste Thomas. Il pittore trascorse a Roma due anni, tra il 1821 e il 1823, disegnando
infaticabilmente e realizzò una serie di tempere e di acquerelli, in seguito tradotti in litografie,
pubblicate a Parigi dall’editore Firmin Didot, una prima volta, nel 1823 e , poi, nel 1830, a seguito
del successo riportato. Il titolo dell’opera è “Un an à Rome et dans ses environs”. Si tratta di una
serie di piacevoli immagini ispirate dalla vita a Roma dell’epoca: aspetti e curiosità che dovevano
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colpire la fantasia dell’artista, tanto da poter affermare che il Thomas sia molto più conosciuto in
Italia che nella sua patria. Nella raccolta, ad ogni mese dell’anno è legata l’immagine di una
ricorrenza che in qualche modo identifica il mese, così si passa dall’Epifania per gennaio, al
Carnevale romano che, a partire da pittori quali David e Gericault aveva colpito la fantasia degli
stranieri a Roma, a giugno con la festa del Corpus Domini e con le sue “infiorate”, sino al lago in
piazza Navona che si teneva nell’agosto, per concludersi con il Natale nella chiesa dell’Aracoeli e
del Bambino miracoloso all’epoca lì custodito. Le tempere e gli acquerelli del Thomas sono coevi
all’attività di Bartolomeo e di Achille Pinelli, impegnati a definire quella sorta di epopea del
popolo romano che tante tracce lascerà nella pittura successiva. Nell’opera del pittore, solo
all’apparenza macchiettistica, si rintracciano contatti e legami con la grande arte dell’Ottocento. E’
proprio nel soffermarsi sull’attenzione ai particolari e ai dettagli raffigurati che si indovina lo
stupore che dovevano provare coloro che, giunti da lontano, assistevano a queste “messe in scena”
che la vita a Roma offriva quotidianamente (29).
PITTORI INGLESI
“La vista della desolata Campagna romana dal lato più pianeggiante mi richiamava alla mente una
prateria americana. Ma che cos’è la solitudine di una regione in cui l’uomo non ha mai abitato
rispetto a quella di un deserto in cui una razza possente ha lasciato le proprie impronte, di un
deserto in cui perfino le tombe sono cadute come caddero gli uomini e l’infranta clessidra del
tempo non è che un cumulo di inutile polvere!”(Visioni d’Italia, ed.1971,p.172)
Charles Dickens
I viaggiatori inglesi diretti in Italia aumentano di anno in anno a partire dal 1700 secolo, per
antonomasia, espressione di una cultura legata ai parametri di una ragione ottimistica e
cosmopolita, e sembrano rinnovare i fasti di un’antica e grandiosa tradizione. Le motivazioni sono
anzitutto storiche: con la fine della guerra dei Sette Anni, nel 1763, migliorano i rapporti tra
l’Inghilterra e le corti cattoliche del continente e si assiste a un incremento demografico ed
economico della popolazione. Questi flussi si interromperanno con le campagne napoleoniche dei
primi anni dell’Ottocento, per riprendere dopo il Congresso di Vienna. Per un paese come
l’Inghilterra il Grand Tour è l’ occasione per effettuare un viaggio dalla periferia al centro del
mondo civile, un centro il cui cuore è l’Italia quale sorgente di quella civiltà umanistico-cristiana su
cui si basa l’intera civiltà europea (30).
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Molti pittori inglesi alla metà del secolo XVIII giungevano a Roma anche attratti dalle potenzialità
di un mercato in espansione che tentava di soddisfare la crescente richiesta, a seguito
dell’incremento che il turismo di borghesi colti, nobili e studiosi si andava conoscendo in Italia.
Alla bottega romana di Charles-Joseph Vernet si formarono molti dei pittori britannici: tra loro la
figura di spicco è quella di Richard Wilson che, scozzese di nascita, era giunto a Roma nel 1750 con
una borsa di studio e con la convinzione di essere un ritrattista, ma ben prestò si specializzò nella
pittura di paesaggio, proseguendo la collaborazione con Vernet e convertendosi a questo genere
nella tradizione di Claude Lorrain. Realizzò una serie di gradevoli vedute che riscossero grande
successo tra i contemporanei, ma il concetto wilsoniano di paesaggio superò le aspettative dei suoi
committenti. Nei suoi dipinti compaiono affrontate costruzioni in realtà molto distanti tra loro
come il ponte di Augusto a Narni, la Torre delle Milizie, il Tempio della Sibilla a Tivoli. Si trattava
di un approccio intellettuale alla pittura di paesaggio e il mercato dell’epoca non riuscì più a
seguirlo, la sua fortuna andò riducendosi e subentrò un declino artistico, sociale e di
“status”.L’artista fece rientro in patria e qui cercò di trasferire le esperienze fatte in Italia sui motivi
locali tant’è che nelle sue vedute riprese nei pressi di Kew Gardens sembra di scorgere paesaggi
italiani (31).
Molti pittori inglesi erano giunti in Italia al seguito dei viaggiatori , infatti si era aperta un’altra
grande porzione di mercato a motivo del fatto che i cavalieri in viaggio desideravano farsi ritrarre,
a testimoniare il loro tour.Nelle botteghe di Pompeo Batoni (FOTO 6) e di Raffaello Mengs un gran
numero di artisti stranieri ritraeva i compatrioti accanto ai monumenti romani più celebri. Nacque
una vera e propria moda che produsse ritratti dove il protagonista era raffigurato accanto ad un
capitello, a una trabeazione o comunque ad un elemento architettonico o decorativo che evocasse il
mondo classico.
Una “seconda ondata” di viaggiatori inglesi si registrò a partire dalla Restaurazione avviata a
seguito dell’avventura napoleonica. Un sonetto del Belli del 1836 “Er Miserere della Sittimana
Santa” iniziava così “Tutti gli ingresi de piazza de Spagna nun hanno antro che ddì ssi cche
ppiascere E’ de sentì a ssan Pietro er miserere che ggnisurn’ istrumento l’accompagna”(32).In
effetti nel periodo compreso tra il Congresso di Vienna e il 1870-col tramonto del potere pontificio
a Roma- la pacifica invasione dei turisti inglesi nella città si concentrò nella zona di piazza di
Spagna, nelle strade tra via del Babuino, il Corso e Ripetta dove persino le insegne dei negozi
erano in inglese. Di gran lunga più numerosi tra gli ospiti stranieri, come riportano le cronache,
alquanto prevenuti e piuttosto altezzosi , ma curiosissimi e , soprattutto, onnipresenti.
Anche Charles Dickens, a Roma nel 1845, impegnato “a girare senza posa tutto il giorno”(FOTO 7)
per visitare “ogni angolo più riposto della città e della campagna circostante”racconta “Spesso,
durante queste nostre spedizioni, incontravamo una comitiva di turisti inglesi coi quali avevo un
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ardente inappagato desiderio di attaccar discorso e di far conoscenza.Si trattava di un certo Mr.
Davis e di un ristretto gruppo di suoi amici. Il nome della moglie, di Mrs. Davis, fu impossibile
ignorarlo, dal momento che tutti se la contendevano e che la compagnia ce la ritrovammo davanti
dappertutto.Nel corso della settimana santa, costoro furono immancabilmente presenti a tutte le
cerimonie, delle quali sembravano popolare ogni scena.Già prima, per una ventina di giorni di
seguito, avevano fatto la lori comparsa in tutti i sepolcreti, in tutte le chiese, tra le antiche rovine,
nei musei; e quasi mai avevo potuto vedere Mrs. Davis tenere il becco chiuso un sol momento.
Nelle profondità dei sotterranei, nella cupola di San Pietro, in aperta Campagna romana o nel
soffocante ghetto degli Ebrei, Mrs. Davis riappariva sempre….”(33).
Nella zona intorno a piazza di Spagna moltissime erano le botteghe e gli ateliers degli artisti, tra gli
altri, quelli di Antonio Canova, Adamo Tadolini, John Gibson, allievo di Canova a Roma, e qui si
incontravano sovrani, scrittori, diplomatici, principi della Chiesa, e per gli inglesi visitare le
botteghe degli scultori era quasi un obbligo sociale (34).In questi anni la politica illuminata di Pio
VII dal ritorno dall’esilio nel 1814, con l’intento di riscattare il prestigio papale dopo le umiliazioni
subite durante l’epopea napoleonica, fece sì che Roma tornasse agli splendori del Settecento,
quando era stata centro dell’arte europea..
Dello scozzese Richard Cooper, appassionato cantore delle bellezze della città eterna e della sua
campagna, sappiamo che fu in Italia dagli anni Settanta del ‘700 legandosi di amicizia con il
connazionale Jacob More e restando, come era per la maggior parte degli artisti stranieri a Roma,
impressionato dalle maestose rovine della città. L’interesse “tonale” si ritrova in tutta la sua
attività di incisore (35) , principalmente grazie all’uso sapiente dell’acquatinta, genere che lo vide
tra i primi inglesi protagonisti in questa tecnica.Il risultato è quello di un magistrale senso
pittorico, soprattutto nelle grandi e ariose vedute della campagna intorno a Roma , dove la
minuzia della resa dei diversi alberi e della vegetazione mostra un impianto tutto hackertiano che
cresce con grande libertà di resa del paesaggio.
La tecnica di lavoro di Edward Lear è nota: disegnava i soggetti che gli interessavano a matita e
aggiungeva, al lato, annotazioni relative alla vegetazione con i dettagli e i colori che intendeva
riprodurre. Le tavole che formeranno le Illustrated excursions in Italy saranno pubblicate a Londra
nel 1846. Il volume fu donato dall’artista alla regina Vittoria che apprezzò talmente tanto l’opera
da invitare il pittore a tenerle lezioni di disegno e a convincere suo figlio, il principe di Galles, ad
acquistare molti dei suoi acquerelli . Fedele alla lezione di Nicolas Poussin , Lear organizzava con
attenzione e precisione topografica gli elementi del paesaggio, dedicando grande attenzione agli
aspetti naturali, soprattutto nello studio della vegetazione. Non descrisse luoghi o monumenti ma
propose la meta raffigurata come una visione e dalle sue stampe traspare un’immagine serena ed
immobile. Tornato in Inghilterra, per tradurre in incisione i suoi lavori, il Lear si affidò a
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Hullmandell, personaggio di spicco nel campo degli stampatori inglesi e quasi unico punto di
riferimento per la litografia a Londra. Ebbe vivaci contatti con esponenti di nuove idee:conobbe
William Turner, fu amico del pittore preraffaellita William Holman Hunt e fu al corrente delle
teorie di John Ruskin. Desiderò quindi tornare a Roma, dove giunse di nuovo nel 1858, ma qui
orami tutto era mutato: le comunità artistiche erano dissolte, gli affitti delle case erano divenuti
altissimi, il mondo dei suoi ricordi non c’era più, ma ormai non poteva vivere lontano dall’Italia,
nel 1871 si stabilì a San Remo e vi rimase fino alla morte (36).
Il pittore paesaggista , acquarellista, litografo Samuel Prout, nato nel Norfolk nel 1783, come molti
dei suoi connazionali, amò particolarmente la tecnica dell’acquerello che permette una rapidità di
realizzazione e una grande precisione nel tratto. Ricoprì incarichi presso prestigiose istituzioni
quali la Water Colour Society ed espose le sue opere presso la Royal Academy di Londra . La vera
passione della sua vita furono i viaggi e le molte località europee visitate gli suggerirono spunti di
grande suggestione che si ritrovano nei suoi fogli e che ritraggono note città o piccoli villaggi,
scene di mercato animate, piazze , cattedrali, campagne solitarie. . Pittore instancabile, pubblicò
gran parte dei suoi schizzi, appunti e ricordi di viaggio nella raccolta, pubblicata nel 1839, Sketches
in France, Switzerland and Italy. Per la realizzazione di queste opere, certamente gli fu utile un altro
dei suoi interessi, la topografia, mentre la passione per l’arte del paesaggio è testimoniata nel suo
libro del 1813 Rudiments of landscape in progressive studies. Trascorse un lungo periodo in
Normandia e questa regione dalle magiche e rarefatte atmosfere gli suggerì gradevolissime
composizioni che gli procurarono la iniziale notorietà.
In questo vagare , il Prout giunse a Roma nel 1824 a quell’anno risalgono gli acquerelli presentati
che raffigurano, con stile lucido e innovativo, luoghi tipici della città, quali il Quirinale o il Foro
Romano(37).
A Roma esiste un luogo che è una tangibile testimonianza del rapporto che legò gli inglesi alla
città: è il cimitero degli inglesi, noto anche come acattolico, sorge nei pressi della Piramide di Caio
Cestio. E’ disseminato di monumenti dedicati ad anglosassoni molto noti quali John Keats e Percy
Bysshe Shelley , o meno noti, o, in qualche caso, sconosciuti (38) . Probabilmente, la tomba che
suscita maggiore commozione è quella che custodisce i resti di Rose Bathurst, una giovane inglese
che era morta a Roma nel 1824 in modo tragico:cavalcava lungo il Tevere, fuori della porta del
Popolo, lungo un terreno reso fragile dalla pioggia, quando precipitò nelle acque del fiume. Il suo
cadavere fu rinvenuto tempo dopo , nei pressi di Ponte Milvio. La vicenda, come comprensibile,
aveva suscitato grandissima commozione nella città e più di un artista aveva dedicato le sue opere
al ricordo del tragico episodio. (FOTO 8)
Un paese incantato 2001 Anna Ottani Cavina p. XXVI
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PITTORI TEDESCHI
“…la mia principale occupazione è il disegnar paesaggi; a questo il cielo e la terra invitano qui
come in nessun altro luogo…lo vedo bene, noi altri dobbiamo aver sempre qualche cosa di nuovo
intorno a noi e allora soltanto possiamo vivere” (p.49, ed.1948)
Goethe
“Nessun altro popolo conobbe, come il tedesco, l’appassionata, spesso demoniaca nostalgia di
Roma. I tedeschi, affratellati con il popolo di Roma attraverso innumerevoli forme di ideali d’arte e
di scienza nonché di temperamento - a malgrado della differenza di razza- legati a esso col legame
del sangue, essendosi moltissimi fra i tedeschi , massimi artisti, uniti in matrimonio con figlie di
Roma forti e graziose in un tempo, spesso chiusero la loro esistenza terrena nei due cimiteri al
campo Santo Teutonico od alla Piramide del Cestio, ove le tombe di ospiti tedeschi testimoniano il
loro amore per l’alma Roma” così inizia il capitolo dedicato agli artisti tedeschi nel catalogo della
“Mostra dell’Ottocento a Roma” curata nel 1932 dall’Istituto di Studi Romani ed allestita a Roma
nel Palazzo delle Esposizioni (39) (FOTO 9). Questo rapporto di amore tra gli artisti tedeschi e
Roma faceva sì che coloro che risiedevano in città da qualche tempo, sentendosi già romani,
andassero ad accogliere i conterranei che arrivavano in città a ponte Molle , quasi considerato lo
spartiacque tra il mondo barbarico e il classico. Ancora oggi il diario del viaggio che Goethe
intraprese in Italia tra il 1786 e il 1788 è un testo utilissimo per ben comprendere l’attività del
gruppo di pittori e incisori tedeschi operanti a Roma allo scorcio del XVIII secolo che gravitavano
nella cerchia di Angelica Kauffmann.La pittrice risiedeva a Roma dal 1782 nella casa di via Sistina,
già abitata da Raffaello Mengs, e aveva creato un vero e proprio cenacolo all’avanguardia, sempre
attento a cogliere spunti nuovi del mondo dell’arte e della cultura e punto di riferimento per tutti
gli intellettuali stranieri di passaggio nella città.La personalità maggiormente carismatica del
gruppo era senza ombra di dubbio quella di Jacob Philipp Hackert, il pittore di paesaggio più noto
e più pagato del tempo, che imponeva le sue condizioni alla zarina Caterina II di Russia e a
Ferdinando IV di Napoli, dai quali ottenne prestigiose committenze ; fu ,inoltre, amico e maestro
di disegno di Goethe.I due si erano conosciuti a Caserta , nel 1787, quando il pittore era al servizio
di Ferdinando IV e da subito aveva insistito con lo scrittore nel tentativo di convincerlo a seguire le
sue lezioni “…..Lei è dotato, però non è in grado di far nulla di preciso. Se rimarrà con me un
anno e mezzo, riuscirà a produrre qualcosa che possa dar gioia a lei stesso ed ai suoi amici”(40) .
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Nel dicembre 1786 Hackert era arrivato a Roma con il fratello Johann che sarà presto sostituito dal
fratello Georg, entrambi pittori. L’artista stabilì subito rapporti con l’Accademia di Francia e, come
tutti gli stranieri che giungevano a Roma, subì il fascino prepotente, oltre che dell’antico , della
campagna intorno alla città. In particolare Frascati, Nemi, Albano, Marino e ancora Tivoli, Subiaco,
Palestrina. Iniziarono per lui anni di febbrile ricerca dal vero, durante i quali, Hackert inaugura un
genere nuovo . Dipingeva en plein air e così Goethe annotava nel suo diario “ I Pittori attivi a Roma
che ricevevano una pensione dalla Francia avevano fatto degli schizzi dal vero solo di singole parti
di un tema gradevole nel suo insieme, ma si trattava di un lavoro incompleto e limitato a un
piccolo foglio. Perciò si meravigliavano “di vedere i due Hackert aggirarsi per la campagna con
grandi cartelle e eseguire a penna interi schizzi con tutti i contorni o terminare disegni ad
acquerello dipinti interamente dal vero, spesso adornati con splendidi capi di bestiame” (41).
(FOTO 10)
Secondo il modello di riferimento offerto dall’Accademia di Francia, anche i principati tedeschi
avevano iniziato a concedere ai giovani artisti borse di studio per soggiorni romani, ma la
permanenza a Roma di Hackert non ha nulla a che fare con periodi di formazione, o Prix de Rome ,
la caratteristica che lo distingue è l’indipendenza con cui intraprese il viaggio. Arrivò in Italia da
Parigi trentunenne , da artista maturo che si era già fatto un nome. I suoi paesaggi erano modelli
molto richiesti per l’arte grafica, e a Parigi aveva lavorato molto“godendo di gran fama”. A Roma
Hackert, stabilì contatti con Giovanni Volpato che, dal 1778, alla morte di Piranesi era il grafico
romano più rinomato (molto richieste e famose erano le sue riproduzioni delle Logge di Raffaello
realizzate lavorando con Ducros) . Il Volpato era riuscito ad organizzare una sorta di manifattura
della pittura di paesaggio, destinata soprattutto alla produzione di opere richieste da un pubblico
di viaggiatori stranieri.
Philipp Hackert, entrò anche nella coterie di Johann Friedrich Reiffenstein, consigliere di corte e
direttore dell’Accademia di Belle Arti della corte Imperiale di Russia a Roma, oltre che studioso di
archeologia, il quale , alla morte di Winckelmann, era divenuto il punto di riferimento essenziale
per gli artisti presenti nella città. L’incisore tedesco divenne ben presto il paesaggista più celebre
della sua epoca : aveva progettato un soggiorno-studio di tre anni che estese ai dintorni di Roma e
Napoli, non potendo prevedere che sarebbe rimasto tutta la vita in Italia.Grazie alla mediazione di
Reiffenstein ricevette importanti commissioni, fino a che, nel 1786, re Ferdinando lo nominò
pittore di corte e poi seguirono per lui una serie di prestigiosi incarichi provenienti da tutta
Europa.
I rapporti tra Philipp Hackert e Angelica Kauffmann((1741-1807) non erano solamente di tipo
intellettuale, erano accomunati da un’organizzazione del lavoro, mediante vendita autonoma a
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gestione familiare e le loro opere si rivolgevano, in parte, alla stessa clientela . L’affidamento della
gestione al marito Antonio Zucchi da parte di Angelica ricorda il coinvolgimento dei fratelli
Hackert , e sia Angelica che Philipp avevano in comune lo sforzo di mantenere indipendenza e
libertà imprenditoriale, cosmopolitismo , conoscenze internazionali. Dopo la morte di
Winckelmann nel 1768 e quella di Mengs nel 1779, le abitazioni degli Hackert in piazza di
Spagna, di Angelica a via Sistina e di Reiffenstein, a piano terra di palazzo Zuccari, divennero i
centri della vita sociale romana .
Il viaggio a Roma per gli artisti tedeschi sembra essere stata un’ovvietà all’epoca di Goethe e si
differenziava dalla tradizione che vedeva protagonisti i pittori francesi la cui carriera accademica
si concludeva con il Prix de Rome, consuetudine, secondo la quale, i vincitori del concorso
ricevevano una borsa di studio quadriennale presso l’Ecole de France . “I pittori francesi, con le loro
enormi cassette da viaggio, avevano bisogno d’incredibili quantità di colore, steso con grossi
pennelli di setola per lo spessore di quasi un dito. Consumavano molta tela e molta carta, poiché
dipingevano quasi sempre e raramente disegnavano. Noi facevamo il contrario:disegnavamo più
che dipingere. La matita non era mai abbastanza appuntita per definire i contorni fino al minimo
dettaglio. Ognuno se ne stava curvo sulla propria cassetta dei colori, non più grande di un foglio di
carta, cercando di riprodurre in modo diligente e minuzioso quello che vedeva davanti a sé. Ci
innamoravamo di ogni filo d’erba, di ogni ramoscello, e non volevamo lasciarci sfuggire nessun
dettaglio espressivo. Non cercavamo gli effetti luminosi e d’atmosfera; ognuno si sforzava di
riprodurre l’oggetto nel modo più obiettivo,come in uno specchio” (42).
Wilhelm Friedrich Gmelin, giunto a Roma nel 1787, rimarrà nella città fino alla morte -avvenuta
nel 1820- ad eccezione di un breve periodo trascorso a Napoli, per collaborare con Hackert, e negli
anni compresi tra il 1798 e il 1800, in cui farà ritorno a Dresda per sfuggire alla rivoluzione romana.
La sua formazione è tutta concentrata sullo studio delle opere dei sommi maestri del paesaggio
classico Nicolas Poussin, Claude Lorrain e Gaspard Dughet dai quali trarrà splendide stampe di
traduzione , né questa impostazione verrà meno nelle semplici vedute dedicate in modo speciale ai
dintorni di Roma.Anche Gmelin, difatti, come molti dei pittori tedeschi , allo scorcio del Settecento,
sembra soggiogato dalla magia preromantica dei luoghi che fanno parte degli immediati dintorni
della città. Nel 1814 Gmelin (43) fu nominato membro all’Accademia di San Luca ed entrò in
contatto con studiosi e critici quali Karl Ludwig Fernow e Wilhelm von Humboldt, anche Goethe
mostrò di apprezzare moltissimo le sue incisioni. Un altro aspetto importante nell’ambito della sua
produzione è costituito dalle opere che illustrano i solitari paesaggi della campagna romana o delle
marine laziali realizzate seguendo la moda del tempo, nel tentativo di cantare i luoghi divenuti
celebri per essere citati nei testi di Virgilio e di Orazio.
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Un altro grande artista da annoverare tra questi paesaggisti, anche se svizzero di nascita, è
François Keiserman, noto anche come Franz Keisermann che giunse a Roma nel 1789,
giovanissimo, come assistente del paesaggista Louis Rodolphe Ducros (44)e subito si propose, in
questa nuova “Capitale delle arti”, come esponente di quella nuova sensibilità romantica. Il pittore
rimase nella città fino alla morte e si convertì al cattolicesimo. Lavorò per prestigiosi committenti
quali il principe Wolkonsky, la duchessa di Devonshire e ottenne la protezione di due personaggi
di primo piano nella Roma del tempo: Paolina Borghese e il marito, il principe Camillo Borghese. Il
Keiserman stabilì anche un sodalizio artistico con Bartolomeo Pinelli, tra il 1803 e il 1809, come ci
ricorda Oreste Raggi “Tornato in Roma continuò a fare varie sorti di lavoro fra quali alcuni
disegni, che venduti la sera per le pubbliche vie e veduti da certo tedesco Keiserman che a quei dì
avea alzato alcun grido di valente nel colorire paesi ad acquarello, furono cagione che questi,
innamoratosi della maniera che vi ritrovava segnatamente nel ritrarre i costumi, richiedesse il
giovane artefice se voleva con esso lui accomodarsi ed egli vi assentì per lo stipendio di soli cinque
paoli il giorno”
(45).Dipinse quasi esclusivamente acquerelli con soggetti romani o della
campagna circostante. Al suo seguito, giunse a Roma, nel 1822, il nipote Charles-François Knébel
“bramoso altresì di rinascere perfezionato nell’Arte liberale di Pittura” e che l’anno successivo è
legalmente adottato dal Keiserman del quale alla morte eredita i beni, consistenti nella casa, in
dipinti e disegni dello studio, nonostante che il sodalizio familiare e artistico fra i due si fosse
interrotto nel 1830, a causa del matrimonio dello Knébel con una popolana, avvenuto, nonostante i
divieti paterni.
Dalla fine del primo decennio del secolo XIX , era presente a Roma un gruppo di artisti tedeschi
che, in dissidio con l’Accademia di Vienna, si era stabilito nella città sotto la guida di Friedrich
Overbeck e di Franz Pforr, radunandosi in una confraternita che intendeva ripristinare i valori
della purezza dell’arte basata su principi religiosi e patriottici. Questi pittori, in polemica con
l’imperante classicismo, rivalutavano l’arte sacra del Medioevo, esprimendo una vera e propria
venerazione per Beato Angelico, professavano un grande amore per il sud, l’Italia e Roma ed
enfatizzavano la natura mistica dell’arte, scegliendo prevalentemente soggetti religiosi. Erano
ferventi cristiani e alcuni di loro, Overbeck, Pforr, i fratelli Veit, Schadow, Vogel si erano
convertiti al cattolicesimo. Avevano come abitudine quella di lavorare ciascuno nella propria
cella nel convento abbandonato di Sant’Isidoro sul Pincio e la sera si riunivano nel refettorio per
confrontare il lavoro, rifuggendo qualsiasi divertimento mondano. Dopo il congresso di Vienna
del 1815, Franz Pforr diffuse tra loro la moda di indossare il costume tedesco: mantello nero di
velluto, colletto e polsini di merletto. Sull’esempio di Overbeck, che si ispirava a Raffaello,
avevano i capelli lunghi “alla nazarena” cioè come Gesù Nazareno e presero il nome di
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Nazareni, anche dal nomignolo che i romani scelsero per loro, a motivo della scelta di vita
semplice e appartata che conducevano (46).
Un legame molto stretto unì questa comunità di artisti a Joseph Anton Koch che, a Roma dal
1795, assunse insieme al Reinhart il ruolo dominante che era in precedenza appartenuto a
Philipp Hackert. Koch dedicò la maggior parte delle sue opere alla remota regione dei monti
Sabini , principalmente alle località di Olevano e di Civitella. Era lì che, tra boschi solitari, si era
preservata una natura incontaminata che avrebbe affascinato i maestri del paesaggio eroico. Per
Koch e per molti dei pittori tedeschi a Roma la zona attorno ad Olevano e la Serpentara
divennero le mitiche metafore di un mondo arcaico dove era ancora intatto un “paesaggio
prima di ogni altro paesaggio, preservato per chi sapeva leggerlo”(47)
Dalla collaborazione tra Christoph Albert Dies, Johann Christian Reinhart e Jacob Wilhelm
Mechau nacque una serie di acqueforti realizzate a Roma tra il 1792 e il 1795 e pubblicate nella
serie Malerisch radierte Prospekte aus Italien, Collection ou Suite de vues pittoresques de l’Italie
dessinées d’apres nature et gravées au l’eau forte à Rome par trois peintres allemands A.Dies,Charles
Reinhart, Jacques Mechau, edita a Norimberga nel 1799 (48). Ciò che accomuna queste 72 tavole è
ancora una volta la riflessione sul paesaggio come l’aveva intesa la grande pittura del secolo
XVII - soprattutto quella di Poussin e di Lorrain – filtrata attraverso l’esperienza di Philipp
Hackert. Le acqueforti mostrano essenzialmente le consuete località della campagna intorno a
Roma e i luoghi raffigurati sono spesso “nobilitati” dalla presenza di figure abbigliate alla
maniera degli antichi che coabitano con villici e pastori desunti dalla quotidianità .
1) F.R Chateaubriand, Viaggio in Italia (1803-1804) Carabba editore, Lanciano, senza data, p.103
2) Renato Mammucari,Il nostro buon Volkmann nel catalogo della mostra Oltre Roma. Nei colli
Albani e Prenestini al tempo del Grand Tour, a cura di Isabella Salvagni e Margherita
Fratarcangeli,Mostra diffusa della Comunità Montana dei Castelli Romani e Prenestini (21
gennaio-25 marzo 2012), Roma, De Luca, 2012, p. 81, dello stesso autore , relativo all’argomento
che trattiamo, si veda anche Roma, città dell’anima. Viaggiatori,accademie, letterati, artisti , Città di
Castello, Edimond, 2008.
3) Francesco Petrucci “Scuola dei Castelli romani”;un’accademia di pittura en plain air tra la locanda
Martorelli e i colli Albani e Tuscolani nel catalogo della mostra Oltre Roma 2012, cit. p. 55 e segg.
4) Marc Fumaroli, Roma nell’immaginario e nella memoria dell’Europa, nel catalogo della mostra
Imago Urbis Romae.L’immagine di Roma in età moderna, a cura di Cesare de Seta, Roma, Musei
Capitolini (11 febbraio -15 marzo 2005) Milano, Electa Mondadori, 2005, p. 76
5) Anna Ottani Cavina, in Un paese incantato, Italia dipinta da Thomas Jones a Corot catalogo della
mostra a cura di Anna Ottani Cavina , Parigi, Galeries nationales du Grand Palais, 3 aprile-9
19
luglio 2001, Mantova, Palazzo Te( 3 settembre – 9 dicembre 2001) Milano, Electa, 2001, p.XXXII.
Anna Ottani Cavina è autrice di opere importantissime relative all’argomento, tra l’altro, si
rimanda a I paesaggi della ragione:la città neoclassica da David a Humbert de Superville, Torino,
Einaudi, 1994 e a La pittura di paesaggio in Italia: il Settecento, Milano, electa 2005
6) Anna Ottani Cavina in Un paese incantato… 2001, cit. p.76
7) In Dieter Richter, Pittori, paesaggi, in I tedeschi e l’Italia, a cura di Giorgio Cusatelli, Milano,
Banco Ambrosiano Veneto, 1996, p.29
8) Johann W.Goethe,Viaggio in Italia, edizione Milano 1993, p.138
9) Dieter Richter 1996 cit, p. 29 e segg.
10) Si tratta delle
donazioni di Guglielmo De Sanctis, di Benito Mussolini, di Clemente
Theodoli Braschi, di Giuseppe Talamo Adenolfi, di Plinio Nardecchia , dell’Associazione degli
Amici dei Musei di Roma, e di acquisti effettuati da Maria Luisa Munoz, dalla libreria parigina
De Nobèle, da Carlo Jemeurat, dalla Libreria Antiquaria Luzzietti, da Walter Apolloni.
11)Andrea Busiri Vici, “Strenna dei Romanisti” Natale di Roma, 21 aprile 1976, p. 491
12) La mostra era corredata da un catalogo curato da Giovanni Incisa della Rocchetta per conto
dell’Associazione degli Amici dei Musei di Roma contenente una prefazione di Urbano
Barberini , all’epoca presidente dell’Associazione, e un’introduzione di Ceccarius, pubblicato,
per conto dell’Ente Provinciale per il Turismo di Roma, nel 1955.
13) Vedute della campagna romana, incisioni e disegni donati al Museo di Roma dal barone Basile de
Lemmerman, catalogo a cura di Fiorella Pansecchi , con prefazione di Urbano Barberini, che fu
edito a Roma dall’Istituto Grafico Tiberino di Stefano De Luca nel 1964.
14) Per le notizie sul Lemmerman si rimanda a Ceccarius (Giuseppe Ceccarelli) Trentotto opere di
Bartolomeo Pinelli donate al Comune dal Barone de lemmerman, in “Il Tempo”, 23/7/1949 , Andrea
Busiri-Vici, 1976 cit. e Simonetta Tozzi , Tre acquerelli di Samuel Prout della collezione Lemmerman
in “Bollettino dei Musei Comunali di Roma”,XXII,n.s.,2008,pp.47-56.
15) Sull’attività della “Cometa” si veda il recente contributo di Domenico Cantatore, Ungaretti e
la Scuola romana nel catalogo della mostra Legami e corrispondenze immagini e parole attraverso il
900 romano, a cura di Federica Pirani, Gloria Raimondi, Roma Galleria d’Arte Moderna di Roma
Capitale(28 febbraio-29 settembre 2013), Roma Palombi editori, 2013, pp. 35-51.
16) Per una puntuale ricostruzione delle vicende umane e artistiche della straordinaria
personalità di Anna Laetitia Pecci Blunt si rimanda a Mario Quesada nel catalogo della mostra
Una collezionista e mecenate romana. Anna Laetitia Pecci Blunt 1885-1971, Roma, Edizioni Carte
Segrete, 1991,pp.143-167 e allo stesso autore nel catalogo della mostra citata “E nel cielo di
Roma apparve la cometa”,pp.83-87.
20
17) Urbano Barberini, Anna Laetitia Pecci Blunt, in “Bollettino dei Musei comunali”1971, anno
XVIII, n.1-4, pp.42-44.
18)Roma sparita. Mostra di disegni e acquerelli dal sec.XVI al XX dalla donazione della contessa Anna
Leatitia Pecci Blunt al Museo di Roma, allestita a Roma, in Palazzo Braschi dal marzo all’aprile 1976.
Il catalogo fu curato da Giovanni Incisa della Rocchetta, Lucia Cavazzi Palladini, Elisa Tittoni
Monti,Rosalia Varoli-Piazza e stampato a Roma dai Fratelli Palombi nel marzo 1976
19) La mostra fu allestita dal 26 novembre 1991 al 6 gennaio 1992, sempre a Palazzo Braschi. Il
catalogo, ricco di vari contributi, tra cui il racconto di Carlo Pietrangeli sulla consegna a palazzo
Braschi della ricca raccolta effettuata dalla contessa qualche tempo prima di morire, fu curato da
Lucia Cavazzi e pubblicato a Roma nel 1991.I due allestimenti precedenti erano stati dedicati alla
Vita e al Costume romano nella grafica del primo Ottocento, nel 1981, e al Paesaggio dal ‘600
all’800, nel 1985.
(20) Per le notizie sull’Accademia di Francia si rimanda a Olivier Bonfait e Antoinette Le
Normand-Romain, L’Ecole de Rome, nel catalogo della mostra Maestà di Roma. D’Ingres à Degas.Les
artistes Français à Rome, a cura di Olivier Bonfait, Roma, Villa Medici (7 marzo-29 giugno 2003)
Milano, Electa 2003, pp.51-59.
21) Simonetta Prosperi Valenti Rodinò, Claude Lorrain 1671: due studi di paesaggio pastorale in “Studi
sul baraocco romano:scritti in onore di Maurizio Fagiolo dell’Arco”,2004, pp.309-312.
22) Nikolaj Gogol’, Roma, edizione consultata, Sellerio editore, Palermo 2005, pp. 60-61.
Roma è la singolare opera di Nikolaj Gogol , unica nell’ambito della sua produzione letteraria con
un’ambientazione e personaggi non russi: si tratta di un romanzo breve sui generis la cui trama
offre pretesto all’autore per contrapporre Roma – identificata come l’Italia intera – a Parigi : un
racconto-saggio al quale l’autore pensava già dal 1838 in cui il letterato esprime tutto il suo amore
per la “città eterna”.
23) Per le notizie su Claude-Joseph Natoire si rimanda a Pierre Rosenberg, A propos de Natoire, in
Dessins français aux XVII et XVIII siècles, 2003, pp. 345-350 e al catalogo della mostra, Natoire. Le
dessin à l’origine de la creation, Musée des Beaux-Arts de Niˆmes, Dijon 2012( 8 giugno-16 settembre
2012)
24) René de Chateaubriand, Voyage en Italie, Grenoble 1921, p. 79
25) Margherita Fratarcangeli, Dimore d’artista Hackert, Boguet,Keiserman-Knébel, Strutt nei colli albani,
nel catalogo della mostra Oltre Roma… 2012 cit., pp. 233-234
26) Su Nicolas Didier Boguet si veda Clare Hornsby, Nicolas Didier Boguet. Landscapes of suburban
Rome. Disegni dei contorni di Roma, Roma, Artemide Edizioni, 2002, p.20, Giulia Fusconi, Nicolas-
21
Didier Boguet:”le doyen des peintres français à Rome”in Corot, un artiste et son temps, cat. della mostra
pp. 499-525
27) L’intenzione di Franz Catel di lasciare gran parte delle sue sostanze ad artisti in difficoltà è
contenuta anche nella lapide del suo monumento funebre edificato nella chiesa di Santa Maria del
Popolo .Così l’ iscrizione :
“ FRANCISCO CATEL FRIDER. F.BEROLINEN/PICTORI EGREGIO EQUITI AQUILA
BORUSSIACA/IN PRAECIPUA PER EUROPAM ARTIFICUM COLLEGIA COOPTATO/ET IN
BEROLINENSI PICTURAE TRADENDAE.DOCTORI/QUI/UT INDIGENTIB.GERMANIS ET
INGENUARUM ARTIUM.CULTORIS ITALIS/SUBSIDIA PARARET/PECUNIAM EIS MUTUAM
GRATUITAM EX SUBSTANTIA SUA /DARI TESTAMENTO IUSSIT/ MARGARITA UXOR CUM
LACRYMIS/ PIUS VIXIT AN.P.MLXXVIII DECESSIT XIV.CALEN.IANUAR.AN MDCCCLVII”
28) Questo il commento dello stesso Granet nelle sue “Memoires” riportato nel catalogo della
mostra Paesaggi perduti,Granet a Roma 1802-1824, a cura di Maureen B.Fant e Sara Hartman, Roma,
American Academy (30 ottobre 1996-12 gennaio 1997) Milano,Electa, 1996, p.26. Per un
approfondimento della personalità e dell’opera di di François Marius Granet si veda Maureen
B.Fant, nel catalogo della mostra Paesaggi perduti… cit. Milano, Electa, 1996, pp.
,Denis
Coutagne, François Marius Granet, 1775-1849: une vie pour la peinture, Paris 2008 e Anna Ottani
Cavina, Granet:Roma e Parigi, la natura romantica, Milano,Electa, 2009, e il catalogo della mostra
Granet a Frascati a cura di Morena Costantini e Andreina Fasano, Frascati, Scuderia Aldobrandini
(16 maggio-11 luglio 2004) Roma, Campisano editore 2004, p. 13
29) Nelle raccolte del Museo di Roma sono conservate le tempere, le litografie e la pubblicazione
dell’opera di Thomas.
Per le notizie sul pittore si rimanda al catalogo della mostra Giuseppe
Gioacchino Belli e la Roma del suo tempo, Roma, Palazzo Braschi (dicembre 1963-febbraio 1964) Roma
, De Luca editore 1963, al catalogo della mostra Leopardi a Roma a cura di Novella Bellucci e Luigi
Trenti, Roma, Museo Napoleonico(10 settembre-10 dicembre 1998), Milano, Electa,1998, pp. 388389 e al contributo di Giovanna Capitelli nel catalogo della mostra “ Le peuple de Rome:
Représentations et imaginaire de Napoléon à l’Unité italienne, catalogo della mostra, Ajaccio,
Musée Fesch( 27 giugno-30 settembre 2013) in corso di pubblicazione.
30) Attilio Brilli, Viaggiatori inglesi in Italia tra il Settecento e l’Ottocento in “Gli inglesi e l’Italia”,
Banco Ambrosiano Veneto, Milano, 1998, pp.101-110
31) Thomas Weidner, La carriera romana di Philipp Hackert, nel catalogo della mostra Il paesaggio
secondo natura, a cura di Poalo Chiarini, Roma Palazzo delle Esposizioni,
luglio-settembre 1994, p.
47,David Brown, Richard Wilson: the landscape of reaction, in “Master Drawing”, 21, 1983, pp.289202, Simon Morissey, Richard Wilson, London, Tate Publishing 2005
22
32) Luigi Morandi, I sonetti romaneschi di G.G.Belli pubblicati dal nipote Giacomo, vol.V, Città di
Castello, S.Lapi tipografo-editore, 1896 p.1
33) Charles Dickens, Visioni d’Italia, edizione Milano 1971, p. 152
34) Bianca Riccio, Omaggi inglesi, nel catalogo della mostra Maestà di Roma da Napoleone all’Unità
d’Italia. Universale ed eterna Capitale delle arti , Roma, Galleria Nazionale d’arte moderna( 7 marzo29 giugno 2003) a cura di Sandra Pinto con Liliana Barroero e Fernando Mazzocca, Milano,Electa,
2003, pp. 193-197
35) Barbara Jatta, Le incisioni di Richard Cooper nella collezione Ashby della Biblioteca Apostolica
Vaticana , in “Grafica d’arte” , 15, 2004, 58, p. 6
36) Per le notizie su Edward Lear si rimanda a Carla Masetti, La lettura del paesaggio laziale attraverso
il resoconto di un viaggiatore inglese Edward Lear,in “I paesaggi del Lazio”, 1993, pp. 149-161, a Silvia
Manuguerra, Lear in Italia, in “Bollettino del CIRVI, Centro Interuniversitario di Ricerche sul
Viaggio in Italia”, 32-2011, 64, pp. 331-365, a Angela Gallottini, Raccolta di vedute dell’ottocento nelle
stampe della Biblioteca della Provincia di Roma, Roma 2005 e Richard Green, Edward Lear, Oxford, in
“The Burlington Magazine”, 154.2012, 1317, pp. 868-869
37) Sull’attività di Samuel Prout si vedano Richard Lockett, Samuel Prout 1783-1852,London 1985 e
Simonetta Tozzi, Tre acquerelli di Samuel Prout della collezione Lemmerman al Museo di Roma, in
Bollettino dei musei Comunali di Roma, XII, N.S. 2008(2009), pp.47-56
38)Per le notizie sul Cimitero acattolico di Roma sono riconoscente a Nicholas Stanley-Price per
alcune preziose informazioni. Per approfondimenti su questo complesso monumentale si veda
Chiara Di Meo, La piramide di Caio Cestio e il cimitero acattolico di Testaccio: trasformazione di
un’immagine tra vedutismo e genius loci: storia e interpretazione del cimitero acattolico di Roma, Roma
1995
39) Catalogo della Mostra dell’Ottocento a Roma, Roma, Palazzo delle Esposizioni, Roma 1932
40) J.W.Goethe, Viaggio in Italia, ed. Milano 1993, p. 229
41)Su Jacob Philipp Hackert esiste una vasta bibliografia, si rimanda al catalogo della mostra Il
paesaggio…1994 cit., a Anna Ottani Cavina, L’Italia dipinta…, 2001,cit., p.XXIII, a Cesare de Seta,
Hackert, Napoli, Electa Napoli 2005 , ancora a C.de Seta, Jackob Philipp Hackert. La linea analitica della
pittura di paesaggio in Europa,Napoli, Electa Napoli 2007
42) Queste osservazioni di Ludwig Richter sono riportate nel catalogo della mostra Un paese
incantato …2001 cit., p.XXX
43) Per le notizie su Gmelin si rimanda a Lucia Cavazzi Palladini, Disegni e incisioni di G.F.Gmelin
nel Gabinetto comunale delle stampe, in “Bollettino dei Musei comunali di Roma”, XIII(1976), 14,pp.45-52, Simonetta Tozzi , Wihelm Friedrich Gmelin, nel cat. Il paesaggio…1994 cit, 1994,p.253, a
23
Giorgio Marini, ad vocem, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 57, Roma 2001,pp.427-429 e a
Carlo F. Schimd, Wihelm Friedrich Gmelin, in “Print Quarterly”, 28,2011,2, pp.203-205
44) Pier Andrea De Rosa ci informa che il parroco addetto al censimento pasquale del 1791 registra
il Keiserman in casa Ducros in “Strada della Croce verso il Corso”, in Pier Andrea De Rosa, Pittori
svizzeri a Roma nel Sette-Ottocento:François Keiserman, in “Strenna dei Romanisti” , Natale di Roma,
2007, p. 237.
45)In Pier Andrea De Rosa, Pittori… 2007 cit., pp. 237-238.
Per ciò che riguarda le notizie sul pittore e sul sodalizio Keiserman- Knébel si rimanda, oltre che
allo stesso De Rosa 2007 cit., a Fabio Benzi, Franz Keiserman. Un paesaggista neoclassico a Roma e la
sua bottega, Roma 2007
46) Per le notizie sui Nazareni si veda il catalogo della mostra I Nazareni a Roma, Galleria Nazionale
d’arte moderna, Roma (22 gennaio-22 marzo 1981), Roma 1981,
e ai più recenti contributi
contenuti nel catalogo della mostra Maestà di Roma , 2003 cit.
47) Norbert Miller, Paesaggio romano con artisti tedeschi(1780-1830) in Paesaggi italiani all’epoca di
Goethe.Disegni e serie di acqueforti della Casa di Goethe, a cura di Ursula Bongaerts, Roma 2007, p.12
48) Simonetta Tozzi, “Prospekte aus Italien” nel cat. Il paesaggio…1994 cit., Roma 1994 , p. 273-292,
Claudia Nordoff, Catalogo della serie di acqueforti, in Paesaggi italiani all’epoca di Goethe,catalogo della
mostra , Casa di Goethe, Roma 2007 cit., pp. 182-192
Simonetta Tozzi
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