Il Gene Lineare , in una grande libreria del centro, mentre getta

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Il Gene Lineare , in una grande libreria del centro, mentre getta
Il Gene Lineare
Lorenzo Moneta
RITROVO GABRIELA DOPO ANNI, in una grande libreria del centro, mentre getta
scompiglio alla presentazione di un libro.
Lo scrittore è francese, simpatico, barba lunga e giacca con le toppe ai gomiti.
Nella stessa sala è appena finita la presentazione di un saggista inglese e tra pochi minuti
inizierà quella di un romanzo di una dodicenne che è già famoso per le anticipazioni sui
suoi contenuti piccanti. Da alcuni minuti la sala ha cominciato a riempirsi di persone
con una piccante copia in mano.
L’aria non è stata cambiata e qualcosa mi dice che non la cambieranno
nemmeno ora. L’interprete è una signora magra e nervosa che tamburella con le dita
ogni volta che lo scrittore parla. Traduce da ore, e anche se non conosco la lingua, mi
rendo conto che riassume all’osso domande e risposte.
Una ragazza bionda nelle prime file si alza e rivolge una domanda in francese
allo scrittore, e questo sbotta a ridere e risponde qualcosa. L’interprete sembra
svegliarsi dal torpore, capisce di essere al centro della presa per il culo e si arrabbia.
Il pubblico ridacchia. L’interprete lancia un’occhiata al conduttore dell’incontro - un
libraio demotivato e approssimativo - che legge l’ora, si alza, ringrazia lo scrittore e
dice al microfono che il tempo a disposizione purtroppo è terminato e ci suggerisce
di acquistare una copia del libro a prezzo di favore presso il bancone alle nostre spalle.
Poi annuncia la presentazione successiva. Quella piccante. Una dodicenne accanto a me
aspetta con ansia che liberi il posto.
La ragazza bionda raccoglie un cappotto blu e si incammina tra la gente in
piedi, a passi molli e lenti, da persona che si è messa al centro dell’attenzione e ora ne
è pentita. Forse è questo che riconosco subito: l’equivocità dei suoi atteggiamenti, la
loro capacità genetica d’essere fraintesi.
Quando mi passa accanto la prendo per un braccio: dico «Gabriela». Lei si
gira con un lampo sorpreso degli occhi e io non ho più dubbi, è lei. Sono occhi strani.
Sembrano scuri, da lontano, ma poi ti accorgi che il nero della pupilla è ampio e ruba
quasi tutto lo spazio al celeste intorno.
«Luca», dice con tono basso e ironico, come fosse stata una mia simpatica
idea, farle una sorpresa così.
Ci baciamo sulle guance e poi parliamo molto vicini, e io mi imbarazzo a
stare lì in mezzo a tutta la gente che sciama scuotendo gli ombrelli, a parlare con la
bella bionda che pochi istanti fa ha finalmente interrotto un evento così umiliante e
meccanico. Mi sembra di percepire sguardi alternati di risentimento e simpatia, e anche
di curiosità per la domanda rimasta intradotta. Lei avverte questo mio imbarazzo con
istinto quasi felino; dice: «Ehi, ascolta, cosa devi fare, cioè, cosa fai ora?», e già mi sta
trascinando fuori dalla sala riunioni e poi dalla libreria sotto la pioggia di novembre fitta
e insopportabile, e infine in un bar di lusso poco lontano, dove, tra un convenevole e
l’altro - se con Gabriela si può parlare di convenevoli - ci sediamo a un tavolino libero,
piccolissimo e dal piano di legno. Siamo circondati da altri tavoli così, sembriamo elfi
in una serra di funghi porcini, e a ogni tavolo c’è una coppia o un trio di professionisti
vestiti di impermeabili costosi e zuppi che sorseggiano martini e spiluccano noccioline
e fanno battute pesanti e ridono forte; che si zittiscono solo per osservare con occhi
volgari Gabriela che si è tolta il cappotto ed è rimasta con un maglione aderente a
collo alto.
Una volta seduti lei rimbocca le maniche perché il locale è caldo; mi scruta
dritto negli occhi e dice «Ehi» come fa sempre lei. Io sono sempre più imbarazzato
per il locale affollato di gente che non mi piace, per i prezzi altissimi e per la quantità
inadeguata di soldi nel mio portafoglio; poi mi accorgo che è solo per aver incontrato
lei così all’improvviso che sono teso e sbilanciato, mi aggrappo alle mie idee come se
potessero scapparmi da un momento all’altro. Riesco solo a chiederle: «Ma cosa hai
chiesto allo scrittore? Hai fatto casino come sempre.»
Lei scoppia a ridere e dice: «Gli ho solo chiesto chi fosse il traduttore del suo
libro in Italia. Giuro che era per interesse professionale. Lui però deve avermi letta più
a fondo.»
Si avvicina al mio viso, sento il suo alito caldo mentre dice: «Mi ha risposto ‘Per
fortuna, non è la signora accanto a me’».
Rido anch’io ma di nervoso: non ricordavo questo suo modo di essere erotica
nei momenti più insospettabili, nei gesti più comuni; mi accorgo che dietro la sua aria
sicura e cosciente c’è una zona buia in cui nascono le incontrollabili potenzialità dei
suoi gesti.
Parliamo e intanto la osservo scoprendo dettagli nuovi e riconoscendo quelli
che amavo. La sua aria è ancora quella della bambina saggia e diligente dei tempi della
scuola media, però lo sguardo attento si è trasformato in qualcosa di diverso; in uno
stare sempre sul chi vive, direi, pronta a non farsi fregare. Non ha tante piccole rughe
in più, né un disegno diverso dei lineamenti; non è come mi aspettavo che sarebbe
invecchiata, forse. È adulta negli occhi, questo sì, ma li ha sempre avuti così. Forse ha
solo imparato a circoscrivere le ombre tristi che li appannano.