F. SOGLIANI, La cultura materiale e S. Vincenzo al Volturno
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F. SOGLIANI, La cultura materiale e S. Vincenzo al Volturno
LA CULTURA MATERIALE A S. VINCENZO AL VOLTURNO PRIMI DATI PER UN REPERTORIO DEI MANUFATTI METALLICI di FRANCESCA SOGLIANI * La grande quantità di oggetti in metallo proveniente da scavi di età post-classica ha suscitato di recente un’attenzione sempre maggiore, rivolta soprattutto alla loro fisionomia di indicatori archeologici e cronologici, strettamente legati ad attività di tipo economico-produttivo. Il valore intrinseco dei manufatti metallici, piuttosto significativo in età altomedievale e medievale, risiede appunto nella lunga ed articolata catena di produzione che andava dall’estrazione della materia prima, alle diverse fasi di lavorazione artigianale del metallo, infine alla distribuzione e commercializzazione dei manufatti. Tale sistema, complesso e costoso per quelle epoche, faceva sì che gli utensili in metallo fossero tenuti in gran conto, in particolare in alcuni ambiti d’uso, come ad esempio nell’economia rurale (BARUZZI 1978); in tal senso un indizio di vera e propria “tesaurizzazione” di utensili in metallo (attrezzi agricoli e armi) è costituito dai “pozzi-deposito” rinvenuti nell’area emiliana, datati, in base agli strumenti recuperati al loro interno, tra il V e il VII secolo (GELICHI-GIORDANI 1994). Il nuovo incremento dato poi alle indagini relative alle attività minerarie in età altomedievale e medievale, ha ampliato le conoscenze in questo ambito. Ad un interesse scientifico abbastanza recente, per lo meno nei metodi e nelle finalità, vanno ricondotte alcune ricerche su contesti archeologici medievali che hanno rivelato attività sia estrattive che produttive dei metalli, soprattutto in Italia settentrionale (DI GANGI 1997; DI GANGI 1999a e 1999b; DI GANGI 2000; DI GANGI c.s.) e in Toscana (FARINELLI-FRANCOVICH 1994; CORTESE-FRANCOVICH 1995); inoltre un ulteriore e proficuo campo di ricerca si è rivelato quello relativo allo studio delle tecnologie metallurgiche pre-industriali e all’archeologia mineraria (Archeologia delle attività estrattive 1993). In particolare lo studio degli aspetti più strettamente tecnologici delle attività metallurgiche ha consentito di evidenziare importanti cambiamenti nell’organizzazione produttiva del ferro, mi riferisco ad esempio alle indagini in area toscana sulle tecnologie idrauliche applicate alla siderurgia (CORTESE 1997), che hanno sottolineato come lo sviluppo degli impianti siderurgico-idraulici nel XIII e soprattutto nel XIV secolo abbia avuto notevoli ripercussioni nell’assetto economico delle aree in cui si andavano diffondendo ed abbia inoltre dato l’avvio alla realizzazione di centri metallurgici specializzati che andarono via via sostituendo i contesti produttivi minori, funzionali prevalentemente ad una produzione di autoconsumo. Ancora, le indagini sulle diverse fasi del processo produttivo che giustifica l’oggetto di consumo, nel nostro caso i manufatti metallici, hanno permesso in più casi la comprensione delle dinamiche socio-economiche sottese alle attività metallurgiche, attraverso lo studio delle realtà insediative, dei dati demografici ed inoltre delle caratteristiche gestionali delle autorità laiche ed ecclesiastiche interessate allo sfruttamento delle risorse minerarie (FARINELLI-FRANCOVICH 1994). In buona sostanza, l’oggetto metallico si è rivelato, ben oltre la sua ormai desueta collocazione tra gli “small finds” alla fine delle relazioni di scavo, un impor* Desidero ringraziare il Dott. Federico Marazzi per avermi invitato ad occuparmi dei reperti metallici provenienti dagli scavi di S. Vincenzo al Volturno. Questo contributo preliminare è parte di un più vasto impegno di studio riguardante la costruzione di un repertorio dei manufatti metallici altomedievali e medievali provenienti da scavi italiani. tantissimo “contenitore” di dati, in grado di offrire soluzioni a quesiti di ampio respiro. Si è visto come il criterio di valutazione strettamente tipologico per i metalli non possa produrre risultati conoscitivi soddisfacenti, proprio per il carattere intrinseco di sostanziale continuità formale e funzionale della maggior parte degli oggetti, più raramente condizionati da variazioni di mode e di gusti, anche se la ricerca su scala diacronica del livello ottimale raggiunto dalla morfologia di alcuni manufatti, in considerazione della loro funzione, può portare a dei risultati interessanti. Ma, per certi aspetti, direi soprattutto economici, l’analisi dei manufatti metallici intesi come oggetto finito di un processo produttivo lungo ed articolato, consente di affrontare nuove interpretazioni di fenomeni economici, storici, sociali, demografici e tecnologici, grazie anche ad una rilettura dei dati incrociati di fonti materiali e documentarie. A monte quindi della commercializzazione, settore peraltro da approfondire ulteriormente, e dell’utilizzo dei prodotti finiti, un elemento di comprensione storica fondamentale è costituito dal coinvolgimento dei rappresentanti del “potere”, sia esso laico, religioso, politico o militare, della società altomedievale e medievale nella conduzione di attività legate alla metallurgia. La necessità di investire capitali nello sfruttamento di risorse minerarie, di gestire il lavoro di persone specializzate e di controllare i territori interessati, innescava delle dinamiche complesse tra potere e società che in particolare il settore dell’archeologia mineraria sta contribuendo a chiarire o quantomeno ad approfondire. Il panorama produttivo che è possibile delineare alla luce degli studi condotti finora, sia su base archeologica che documentaria, e circoscritti purtuttavia all’area centrosettentrionale della penisola, mostra alcune sostanziali differenze tra il periodo altomedievale ed i secoli del pieno medioevo. Fino al IX-X secolo sembra prevalere un modello relativamente semplificato, rappresentato da realtà produttive, dipendenti dai luoghi di estrazione, legate a tecnologie poco sviluppate e funzionali a parametri economici caratteristici dell’autoconsumo; in particolare la produzione del ferro, la cui disponibilità era attestata in numerosi distretti minerari diffusi nel territorio, era particolarmente parcellizzata, sia per quanto riguarda l’aspetto estrattivo che per quello siderurgico (CIMA 1986; CIMA 1988; BARUZZI 1987; CORRETTI 1991; CUCINI 1989; CUCINI-TIZZONI 1992; ZIFFERERO 1989; FRANCOVICH 1991, pp. 84-86; DI GANGI 1997). Già nel IX secolo, tuttavia, centri monastici come S. Colombano a Bobbio (BARUZZI 1987, p. 159), S. Giulia a Brescia (MANNONI-CUCCHIARA-RABBI 1992) e lo stesso S. Vincenzo al Volturno (DEL TREPPO 1968; MITCHELL 1994) nonché alcuni centri di signorie fondiarie toscane, furono interessati ad attività produttive metallurgiche. In ogni caso la produzione di manufatti metallici avveniva principalmente attraverso due canali: artigianato rurale e contadino alle dipendenze di centri dominici e monastici, e artigiani specializzati che lavoravano nelle campagne o in città (DEGRASSI 1996), la cui menzione nelle fonti documentarie aumenta considerevolmente dal X secolo in poi, fino ad inquadrarsi come realtà socio-economica ben definita, legata anche a possessi fondiari, nell’XI, XII e XIII secolo, come attestano le presenze a Imola tra X e XII secolo (BARUZZI 1987), a Modena (LEICHT 1966, pp. 332-340) e a Pisa (HERLIHY 1973). Le trasformazioni della compagine socio economica nei secoli centrali del Medioevo, ma si sottolinea ancora una volta come il fenomeno sia stato indagato con precisione soprattutto per l’area toscana, nel senso di un accentramento dei poteri di controllo territoriale nelle mani delle autorità laiche ed ecclesiastiche, furono in parte anche legate all’interesse economico che lo sfruttamento delle risorse minerarie andava prospettando. Il controllo dei giacimenti del sottosuolo, in seguito alla crescita della domanda e del valore intrinseco dei metalli era diventato quindi uno strumento di potere economico da utilizzare al meglio all’inter- ©2001 Edizioni all’Insegna del Giglio - vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale – 1 no delle politiche patrimoniali sia delle signorie fondiarie che degli enti monastici (FARINELLI-FRANCOVICH 1994). L’esito di questo processo sembra identificarsi in una maggiore definizione organizzativa del sistema produttivo che, ad esempio nella realtà toscana, viene a coincidere con il definitivo sviluppo del fenomeno dell’incastellamento nelle aree minerarie, e più in generale conduce di pari passo ad una razionalizzazione delle attività siderurgiche e allo sviluppo di nuove tecnologie, affermatesi soprattutto nel XIII-XIV secolo (FRANCOVICH-WICKHAM 1994). Tornando ora al prodotto finale, cioè all’oggetto d’uso, l’incidenza dei reperti in metallo, sia di ferro che di metalli più nobili come il rame e l’argento, all’interno del materiale archeologico proveniente dagli scavi di S. Vincenzo al Volturno ha suggerito di affrontarne lo studio in maniera sistematica e globale, al fine di produrre un repertorio di oggetti in metallo basato su materiali provenienti da contesto, nel quale debbano confluire inoltre le indagini sugli aspetti della produzione, dell’uso e della circolazione di tali manufatti su scala diacronica e sincronica, nonché i dati scaturiti dalle analisi archeometriche e dagli interventi di restauro in programma. Il presente contributo vuole servire sostanzialmente da presentazione del programma di ricerca in atto, offrendo a tale proposito alcuni dati preliminari, desunti da una prima schedatura di alcuni reperti, funzionale a stabilire i criteri di metodo da impiegare nello studio di questa categoria di oggetti. Il sistema di classificazione che si è ritenuto più utile adottare consiste in una prima suddivisione degli oggetti sulla base della materia prima utilizzata; all’interno di questi gruppi (oggetti in ferro; in bronzo; in argento) sono state identificate le diverse categorie funzionali ulteriormente definite, ove il numero di oggetti lo ha consentito, da seriazioni tipologiche agganciate alla stratigrafia archeologica di provenienza. L’approccio logico utilizzato, che dovrà essere necessariamente corredato dalle analisi quantitative da applicare ai diversi parametri relativi agli oggetti metallici, è sembrato il più snello ed in particolare il più aperto alle successive e continue integrazioni di dati, ineludibili in un intervento di indagine archeologica in progress come quello attivo nel sito in questione. L’elaborazione di una suddivisione strettamente tipologica del materiale si sarebbe rivelata troppo rigida, data l’assenza di alcune classi di oggetti o ancora la disparità numerica di gruppi di manufatti rispetto ad altri, così come una ripartizione su base esclusivamente funzionale avrebbe incontrato difficoltà di tipo esegetico, data “plurifunzionalità” ricorrente per alcuni degli oggetti in metallo. La maggior parte degli oggetti è in ferro e presenta delle caratteristiche tipologiche che ne sottolineano la funzionalità d’uso piuttosto che un’attenzione specifica verso aspetti di tipo ornamentale, se si escludono gli eccezionali elementi appartenenti ad una cintura per spada e a finimenti equini lavorati in agemina d’argento, databili ad età carolingia e con confronti in area germanica e ad oggetti simili, probabilmente imitanti i precedenti, rinvenuti nell’area artigianale del monastero (room B), relativi a contesti di IX secolo (MITCHELL 1994). Le categorie funzionali che è stato possibile al momento individuare sono piuttosto numerose e quantitativamente ben testimoniate: 1) chiodi; 2) materiale da carpenteria; 3) materiale per l’arredamento interno degli ambienti; 4) utensili domestici; 5) utensili artigianali e attrezzi agricoli; 6) equipaggiamento e ornamenti personali; 6) armi; 7) ferri da cavallo e chiodi da ferratura; 8) varia. In linea generale, una percentuale inferiore di manufatti proviene dai livelli delle fasi 1 e 2, relative ad età tardoantica e comunque al periodo precedente la costruzione del primo monastero, databile agli inizi dell’VIII secolo; mentre la maggior parte degli oggetti proviene dai depositi medievali (fasi 3-7: sec. VIII-XI). In particolare alcuni conte- sti relativi alle fasi 5c (livelli di distruzione connessi al sacco arabo del 10 ottobre 881), 6 (metà X- metà XI sec.) e 6b (demolizioni e rifacimenti nell’area di S. Vincenzo Maggiore; attività collegate alle ricostruzioni dell’abate Giovanni V: metà XI secolo) si sono rivelati soprattutto significativi per quanto riguarda gli aspetti quantitativi e qualitativi degli oggetti in metallo. Un numero considerevole di chiodi proviene principalmente da contesti della fase 6, databile tra la metà del X e la metà dell’XI secolo. Le caratteristiche formali e dimensionali sono state alla base di un tentativo di distinzione funzionale di questi oggetti in chiodi da mobilio, chiodi da carpenteria e chiodi da muratura. È stata più volte sottolineata la difficoltà di indagini analitiche su questo tipo di manufatti, spesso semplicemente solo elencati nei repertori di oggetti metallici, difficoltà determinata da caratteristiche formali e funzionali sostanzialmente omogenee per periodi cronologici anche molto estesi (si può ricordare l’analisi dettagliata condotta sui materiali provenienti dalla villa di Settefinestre che, grazie anche alle conoscenze approfondite sulle tecniche edilizie romane ha consentito l’individuazione di tipi morfologici di chiodi, legati a funzionalità specifiche: Settefinestre, 1985, III, pp. 39-49). Tuttavia la notevole quantità di chiodi rinvenuti in alcuni scavi – e l’esempio di S. Vincenzo può essere emblematico a questo proposito – ha permesso di proporre considerazioni di qualche rilievo. Si vuole ricordare qui il rinvenimento di un consistente numero di chiodi nelle stratigrafie medievali del castello di Montaldo di Mondovì (TO); si tratta di ben 801 chiodi, di cui 328 integri e 473 frammentari, per i quali è stata operata una suddivisione per fasi cronologiche, che ha consentito di notare un incremento del numero totale di oggetti nelle ultime fasi di occupazione del castello (XVI secolo), tanto da far pensare ad una precisa evoluzione delle tecniche costruttive, tra XIII e XVI secolo, nel senso della affermazione delle tecniche dell’inchiodatura a discapito di quelle ad incastro, attestate precedentemente (CHAPELOTFOSSIER 1980, pp. 267-280, 292-313). Inoltre, le osservazioni sui parametri dimensionali dei chiodi hanno fatto ipotizzare specificità di utilizzo diversificate; in particolare, i chiodi caratterizzati da una lunghezza tra i 6,5 e i 7,5 cm., i più numerosi, sono stati messi in relazione con il fissaggio delle travature lignee di solai e pavimenti (CORTELAZZOLEBOLE DI GANGI 1991, pp. 217-219). Altri rinvenimenti abbastanza consistenti di chiodi in scavi medievali italiani, utili per istituire dei confronti, sono S. Salvatore a Vaiano (FI) (FRANCOVICH -VANNINI 1976), Roma, Crypta Balbi (D’ERCOLE 1985; SFLIGIOTTI 1990), Brucato (PIPONNIER 1984), Otranto (HIKS-HIKS 1992), mentre un caso francese sicuramente da menzionare è lo scavo di Rougiers, in cui i chiodi provenienti dai contesti di XIII-XIV secolo sono stati suddivisi in quattro gruppi e precisamente: 1) chiodi da ferratura; 2) chiodi a testa piatta e sottile, con gambo quadrato, lungo e sottile, molto numerosi e di piccole dimensioni; 3) chiodi da carpenteria, di notevoli dimensioni, a testa piramidale o piatta, ritrovati in grande quantità negli alloggi signorili; 4) chiodi di forma inusuale, a testa piatta o bombata, approssimativamente circolare (DEMIANS D’ARCHIMBAUD 1980, pp. 480-481). Ad attività connesse alla carpenteria e alle costruzioni in muratura sono da riferire una serie di oggetti rinvenuti prevalentemente nei livelli della fase 5c e soprattutto 6; si tratta di ganci, cardini, cerniere anelli e coppiglie che venivano utilizzati in massima parte per essere conficcati nel legno o negli elementi di murature o per fungere da collegamento tra diversi elementi. Anche per questi oggetti, forse ancor più che per i chiodi, precise distinzioni cronologiche ancorché funzionali sono molto difficili, nonostante la frequenza di attestazioni nei contesti di scavo di età medievale. Ai manufatti metallici utilizzati nell’arredamento interno degli ambienti sono da porre in relazione anche gli elemen- ©2001 Edizioni all’Insegna del Giglio - vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale – 2 Figg. 1-2 – S. Vincenzo al Volturno. 1.Utensili artigianali; chiave. 2. Orecchino a cestello (retro). ti di serratura tra i quali ben attestate sono le chiavi in ferro, provenienti sia dalle fasi pre-monastiche che da quelle successive. Tra i diversi esemplari sono presenti alcune chiavi riconducibili a tipologie ben attestate in epoca romana, con presa piena ed appiattita, cannello pieno a sezione quadrata e ingegno a due denti rivolti verso l’alto, funzionale all’apertura di una serratura di piccole e del tipo a “T”, con presa ad anello circolare, lungo fusto pieno e ingegno a due denti ricurvi verso la presa. Più numerosi sono gli esemplari di età altomedievale e medievale, tra cui sono presenti sia le chiavi “forate”, con cannello cilindrico cavo internamente, formato dalla lamina di metallo ribattuta e arrotolata che prosegue nella parte terminale con l’ingegno, sagomato in diverse fogge che le chiavi “maschie”, con cannello pieno, forgiato e battuto su una barra di ferro, con prese circolari o a losanga e ingegni piuttosto semplici (SOGLIANI 1995). Alla stessa categoria appartengono altri elementi: alcuni chiavistelli funzionali alla chiusura di porte e una piastra di serratura di forma circolare costituita da una lamina molto sottile con foro ovale per l’inserimento della chiave, rinvenuta in un contesto di IX secolo. Particolarmente interessante si presenta l’analisi di questo tipo di manufatti per la ricostruzione sia degli elementi strutturali in legno delle case medievali (porte ed infissi), che dell’arredamento interno delle abitazioni (bauli, cassette, scrigni, armadi), altrimenti poco documentata a causa della deperibilità stessa del materiale. Un esempio in questa direzione possono essere gli studi sull’arredamento medievale della Provenza (citati in DEMIANS D’ARCHIMBAUD 1980, p. 656, nota 274) basati sui documenti degli archivi notarili, dai quali si evince l’arricchimento quantitativo degli elementi di mobilia all’interno della casa nel XIV e XV secolo, rispetto all’arredamento scarno ed essenziale del XIII secolo, riscontrato con le stesse caratteristiche anche in regioni del Mediterraneo, come ad esempio la Sicilia (BRESC-BAUTIER 1976). All’interno degli ambienti l’illuminazione doveva essere assicurata anche da lucerne in vetro sospese da catenelle in bronzo (HODGES 1993), come attesta la presenza di tali elementi, finemente lavorati, in contesti altomedievali dello scavo. Un altro gruppo di manufatti comprende gli utensili d’uso domestico tra i quali sono ben attestati in diversi contesti i coltelli del tipo whittle-tang, cioè caratterizzati da un codolo sottile, solidale con la lama, originariamente inserito in un manico di osso o di legno; un solo esemplare, rinvenuto nell’area delle officine, appartiene al tipo scaletang, cioè con il codolo piatto, attraversato da rivettini funzionali al fissaggio del rivestimento del codolo stesso. I coltelli rappresentano una delle categorie di manufatti metallici meglio rappresentate negli scavi di abitati (SOGLIANI 1995), caratterizzata tuttavia da una non facile classificazione d’uso, data la molteplicità funzionale dei coltelli, adoperati oltre che per la cucina e la tavola, anche per la caccia, per il combattimento e per alcune attività artigianali. Risulta inoltre piuttosto difficile stabilire un’evoluzione cronologica per i coltelli, poiché sia le forme che le dimensioni non subiscono delle trasformazioni significative attraverso i secoli, tuttavia, in base all’analisi di alcune seriazioni tipologiche datate archeologicamente, non solo italiane (M AURER -B AUER 1961; D EMIANS D’A RCHIMBAUD 1980; C OWGILL -N EERGAARD -G RIFFITHS 1987; CORTELAZZO-LEBOLE DI GANGI 1991), sembrerebbe possibile attribuire il tipo whittle-tang al primo periodo medievale (XII-prima metà XIV secolo), sottolineando però come esso risulti anche il tipo più comune fino all’inizio del XV secolo, mentre il tipo scale-tang sembra fare la sua comparsa nella prima metà del XIV secolo, affermandosi molto rapidamente. Il motivo di questo cambiamento, o se si vuole di questa innovazione, è probabilmente da ricercare in un’evoluzione qualitativa nel tipo di rivestimento dei manici. Tra gli utensili d’uso sono anche presenti un paio di cesoie, provenienti da un contesto altomedievale, conformi agli esemplari più antichi relativi a tale manufatto, costituiti appunto da due lame appuntite, più o meno lunghe e generalmente abbastanza larghe, che proseguono con due bracci a sezione rettangolare o quadrata, collegati fra loro da una molla circolare, che doveva garantire la flessibilità degli stessi e, di conseguenza, delle lame. Questa conformazione, presente su manufatti di età altomedievale e medievale, sembra perdurare fino al tardo medioevo (Roma, ©2001 Edizioni all’Insegna del Giglio - vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale – 3 Crypta Balbi: secolo XVII, D’ERCOLE 1985), probabilmente per la facilità di realizzazione e l’immediatezza d’uso, sebbene, dal XIV secolo in poi, risultino maggiormente attestate le forbici vere e proprie, formate da due lame distinte, unite da un perno a vite centrale e con prese ad anello, anche se tale dato non sembra però essere confermato dai rinvenimenti del villaggio abbandonato di Rougiers, dove appare insolita la totale assenza di cesoie nei primi livelli d’occupazione, nei quali sono invece testimoniate 33 paia di forbici, in uso quindi già dall’inizio del XIII secolo (DEMIANS D’ARCHIMBAUD 1980, pp. 461-464). Per quanto riguarda la funzionalità delle cesoie, va rilevato che una maggiore azione di leva e quindi una pressione più forte era proporzionale alla lunghezza dei bracci, mentre la continuità e la precisione dell’azione di taglio era assicurata da una maggiore lunghezza delle lame. Tali caratteristiche formali permettono, anche se in maniera a volte approssimativa, di stabilire funzionalità differenziate per questi strumenti: in effetti, se cesoie di dimensioni ridotte, che consentono quindi un tipo di taglio breve e discontinuo, possono essere usate per tagliare fili o per rifiniture, cesoie di più grandi dimensioni, sono da porre in relazione con attività artigianali collegate all’industria tessile (cesoie da sartoria) o laniera (cesoie per tosatura delle pecore) o ancora utilizzate dai barbieri per tagliare i capelli e per la tonsura. Non infrequente doveva essere anche l’uso domestico di tali manufatti. Tra i manufatti collegati ad attività artigianali, alcuni punteruoli sembrano attestare la lavorazione del cuoio (WATERER 1956; WATERER 1968; DEMIANS D’ARCHIMBAUD 1980; ADKINS-ADKINS 1985; HALBOUT-PILET-VAUDOUR 1987; SOGLIANI 1995, p. 43, Cat. 123-137) o di metalli teneri o più semplici attività di riparazione di oggetti d’uso quotidiano; questi oggetti sono evidentemente accomunati da una sostanziale continuità di tipo morfologico, che è propria degli strumenti da lavoro, in quanto espressione di tecniche tramandatesi dall’antichità ai nostri giorni. Più rari nei contesti di scavo relativi al complesso monastico sembrano per ora gli utensili in ferro connessi con le attività agricole. Da una sepoltura della fase 1b (V-VI sec.) nella chiesa sud proviene una scure di piccole dimensioni, caratterizzata da una lama di forma trapezoidale e superficie di taglio arrotondata che trova confronti sia con materiali inglesi di IX-X secolo (MORRIS 1983) che con materiali più tardi (secc. XII-XIV) da Zignago (scure con lama triangolare, GAMBARO 1990, p. 395, fig. 49), dalla Crypta Balbi (SFLIGIOTTI 1990, p. 526, n. 662), dal castello di Schiedberg (MEYER 1977, p. 104 E 91-92) e da contesti francesi (HALBOUT-PILET-VAUDOUR 1987, p. 90: epoca gallo-romana, pp. 205-206: età medievale). Le scuri presentano alcuni problemi interpretativi legati ad una certa ambiguità funzionale per cui furono usate sia come armi, e secondariamente come oggetto caratterizzante il corredo funerario maschile, che come attrezzo base dell’attività di carpenteria; tale ambiguità sembra in parte potersi chiarire in base alle diversità tipologiche che contraddistinguono tali manufatti, in parte in base ai contesti di rinvenimento. Sicuramente come armi da lancio e da combattimento vanno interpretate le scuri tipo francisca, con lama stretta e allungata e profilo ricurvo, di tradizione franco-alamanna e le scuri a barba, con lama rettangolare, di tradizione germanica, rinvenute tra gli elementi di corredo delle sepolture altomedievali (PARENTI 1994a; SOGLIANI 1995, p. 45 e n. 19). La scure è però anche lo strumento base nell’attrezzatura del boscaiolo e del carpentiere, usata per abbattere alberi, per tagliare rami e per squadrare tavole (WILSON 1968; WILSON 1976; BINDING 1987; MILNE 1992; PARENTI 1994b). Non casuale, come già notato in BARUZZI 1978, è la costante presenza di attrezzi per il taglio e la lavorazione del legno (asce, accette, scuri, seghe) sia nei documenti scritti che nelle rappresentazioni iconografiche e tra i rinvenimenti archeologici, soprattutto se messa in relazione con la realtà fisica del paesaggio medievale e più propriamente altomedievale, costituita in gran parte da aree non coltivate e da boschi (ANDREOLLI-MONTANARI 1988); occorre ricordare inoltre come l’edilizia abitativa altomedievale sia stata, soprattutto in alcune aree, caratterizzata da materiali da costruzione prevalentemente lignei. Da un livello di età altomedievale proviene poi un’ascia-piccone, con doppia lama a tagli ortogonali, tipo ben testimoniato da confronti databili dall’età imperiale a quella altomedievale (DE MARCHI 1999, p. 327; STAFFA-PELLEGRINI 1993, p. 52) tra gli utensili agricoli impiegati per la potatura delle viti e il dissodamento dei terreni sotto i filari. Anche gli oggetti di ornamento personale sono rappresentati da manufatti in ferro, in particolare da fibbie di cintura di diverse fogge e dimensioni, quadrate, semiovali, ovali, in un caso particolarmente pregiato con decorazioni in agemina d’argento. La creazione di una seriazione tipologica per le fibbie, ancorata a scansioni cronologiche e funzionali, presenta ancora delle difficoltà in parte per l’utilizzo non sempre univoco dei tipi, in parte per l’assenza di analisi specifiche su questa categoria. A tutt’oggi la suddivisione più ricca ed articolata sembra essere quella proposta per le fibbie provenienti dallo scavo di Rougiers (DEMIANS D’ARCHIMBAUD 1980, pp. 481-487), per le quali è stato identificato un modello evolutivo in base allo sviluppo degli aspetti tecnologici della produzione e al cambiamento dei gusti e dei bisogni della società rurale che utilizzava quegli oggetti. A questa seriazione si collegano anche gli studi sui manufatti rinvenuti nel Castello di Montaldo di Mondovì (CORTELAZZO-LEBOLE DI GANGI 1991, pp. 223-225), nei siti di Montale e Gorzano (SOGLIANI 1995, pp. 51-52, Cat. 215165) e a Gerace (LEBOLE DI GANGI 1993). A questa categoria di oggetti sono da riferire anche alcuni monili in argento, nella fattispecie orecchini del tipo a cerchio semplice e con pendaglio a globetto o del tipo a poliedro datati ad età tardoantica e due esemplari di orecchini a cestello con cestello emisferico a giorno con chiusura anteriore a stella, occupata da una semisfera centrale a sbalzo, decorata con un filo godronato e con sferette metalliche disposte a triangolo sul contorno. Il tipo è da porre in relazione ad esemplari dell’ultimo terzo del sec. VI-prima metà sec. VII (POSSENTI 1994, pp. 38-40: gruppo II, tipo 2b, tav. XLI,3), in particolare ad imitazioni argentee diffuse in Italia centrale e meridionale. Le armi rinvenute nello scavo di San Vincenzo sono rappresentate quasi esclusivamente da un consistente numero di cuspidi di freccia, rinvenute prevalentemente dai livelli relativi alle fasi 5c e 6b, in strati di bruciato connessi con l’incendio provocato dall’attacco arabo dell’881. Si tratta di cuspidi di freccia da arco riconducibili sostanzialmente a due uniche tipologie: a forma foliata e a forma bipiramidale allungata. La notevole frequenza nei contesti di scavo medievali, in Italia ed in Europa, di rinvenimenti di cuspidi di freccia, ha reso possibile la costruzione di sequenze tipologiche su base cronologica, che hanno evidenziato il processo evolutivo dei tipi di armamento (arco e balestra) e delle tecniche difensive (SOGLIANI 1995). Alla tipologia più antica, databile al VI-VII secolo, ma con esempi anche di V, appartengono le punte di forma foliata romboidale di San Vincenzo, a profilo appiattito, con bordi taglienti e corta gorbia avvolta; per la loro forma, tali punte rivelano la loro efficacia nella velocità di getto e nella potenza di taglio. Il secondo tipo di cuspide, c.d. di tipo saraceno, presenta una forma bipiramidale, più o meno allungata, a sezione quadrata e si configura con una forza d’impatto molto più significativa rispetto alle cuspidi precedenti, più leggere, ben attestate, anche in contesti funerari, in ambito longobardo. Un solo esemplare di punta di lancia proviene da un recupero fuori contesto nell’area del monastero; si tratta di una punta di grandi dimensioni, lanceolata, con sezione a losanga, provvista di due alettoni triangolari alla base e di un lungo cannone conico. I confronti più significativi sembra- ©2001 Edizioni all’Insegna del Giglio - vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale – 4 no relativi all’area nord europea (Francia, HALBOUT, PILET, VAUDOUR 1986, p, 222; Norvegia) con datazioni tra il VII e l’XI secolo. Un’ultima osservazione sugli elementi di ferratura per sottolineare come, tra i materiali rinvenuti, siano ben attestate le due tipologie ricorrenti nei ferri da cavallo ed i relativi chiodi e cioè i ferri a bordo festonato, associati sempre ai chiodi c.d. “a chiave di violino”, ed i ferri a bordo lineare, associati ai chiodi con testa quadrata. Il primo tipo è frequentemente attestato in contesti medievali fino all’XIXII secolo, con qualche esempio anche nel XIII secolo, per venire poi soppiantato, dal XIII secolo e soprattutto nel XIV sec. dai ferri a profilo lineare. La tecnica della festonatura è stata in parte interpretata con la particolare forma delle accecature, funzionali all’alloggio dei chiodi “a chiave di violino” e in parte associata ad una tecnica di forgiatura ancora rudimentale (HALBOUT-PILET-VAUDOUR 1987, pp. 236238; CORTELAZZO-LEBOLE DI GANGI 1991, pp. 219-221; SOGLIANI 1995, pp. 49-50). Poche ulteriori osservazioni si possono aggiungere a conclusione. Sicuramente la quantità dei reperti che lo scavo ha restituito e continua a restituire testimonia un’uso frequente degli oggetti metallici all’interno del complesso monastico, in particolare degli oggetti in ferro che molto probabilmente dovevano essere prodotti in loco, anche se non è ancora venuta in luce nessuna struttura adibita appositamente alla lavorazione di questo minerale nelle aree produttive del monastero, in cui è invece attestata la lavorazione del bronzo, del vetro e degli smalti per l’età carolingia (HODGES 1991; FRANCIS-MORAN 1997; MORAN 1999). È probabile che la realizzazione degli oggetti in ferro d’uso comune fosse demandata a strutture produttive ubicate in aree esterne al monastero, comunque sempre sotto il suo diretto controllo, mentre alla finitura di oggetti di particolare pregio potrebbe essere stato destinato uno degli ambienti del complesso delle officine (room B), provvisto di un piccolo forno, da cui provengono alcuni elementi relativi all’equipaggiamento del cavaliere e del cavallo in ferro decorato in argento (MITCHELL 1994). In particolare la preponderanza numerica fino ad ora registrata per i reperti metallici di IX secolo rinvenuti nei livelli relativi alla demolizione del monastero pre-carolingio (fase 6) sembrerebbe potersi collegare all’ambizioso programma di ristrutturazione del monastero voluto dall’Abate Giosuè agli inizi del IX secolo e portato avanti dai suoi successori, che prevedeva un ingente numero di nuove costruzioni tra le quali la nuova chiesa abbaziale di San Vincenzo Maggiore. Nuove opere edilizie, nuovi spazi e nuove e più elevate funzioni collettive all’interno della “città monastica” dovevano quindi giustificare un maggiore utilizzo anche degli oggetti in metallo sia a fini utilitaristici (tutto l’insieme di utensili da carpenteria o per le diverse attività artigianali) che d’uso liturgico o ornamentali, questi ultimi destinati a personaggi di rango sia laici che ecclesiastici che dovevano frequentare il monastero. Lo studio in corso sui reperti metallici non consente tuttavia di utilizzare ancora parametri quantitativi validi per una ricostruzione diacronica del quadro produttivo relativo a queste categorie di oggetti, per il quale al momento gli unici dati a disposizione sono quelli delle fasi di VIII-IX secolo. Si sono pertanto presentate in questa sede solo alcune note preliminari per evidenziare il grado di rappresentatività dei manufatti metallici all’interno del ricco panorama consegnato alla conoscenza dalla cultura materiale del monastero di San Vincenzo. APPENDICE Nel presente contributo ho tenuto conto anche del catalogo dei reperti in ferro provenienti dagli scavi 1980-1986, curato da S. Tremlett e pubblicato nel volume a cura di J. Mitchell, C.M. Coutts, I.L. Hansen, San Vincenzo al Volturno 3. The 1980-1986 Excavations. Part 3. The Finds, Spoleto, catalogo per il quale, nella fase iniziale di elaborazione, ho offerto la mia collaborazione. BIBLIOGRAFIA A DKINS L., A DKINS R.A. 1985, The Handbook of British Archaeology, Bath, pp. 253-254. ANDREOLLI B., MONTANARI M. (a cura di) 1988, Il bosco nel Medioevo, Bologna. 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