Il paradiso perduto, ovvero: “una stagione all`inferno” Il primo canto
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Il paradiso perduto, ovvero: “una stagione all`inferno” Il primo canto
ENRICO SPOSATO Il paradiso perduto, ovvero: “una stagione all’inferno” Il primo canto dell’Inferno di Dante, si apre con la descrizione di un paesaggio fisico ed emotivo, quasi a voler sottolineare che: «nessuna descrizione della natura è priva di un legame con lo stato d’animo dell’uomo»1, tale da contenere riferimenti significativi alla condizione esistentiva, nonché esistenziale dell’essere umano2. Lo smarrimento ontico, che porta l’uomo a vivere una condizione caratterizzata dall’errore intellettuale e da una ininterrotta caduta nel peccato, è strettamente connesso alla perdita della capacità di rapportarsi a quelle strutture ontologiche necessarie al fine di percorrere la via della verità e della virtù “che conduce al cielo”. Dante non sa dire con esattezza in che modo giunge in questo luogo sconosciuto; ne paragona la presa di coscienza a quella di un individuo che riacquista consapevolezza della realtà circostante in seguito al risveglio da un sonno profondo. Istintivamente si dirige verso quella che sembra essere l’unica via di salvezza da quel luogo oscuro, ma ben presto si rende conto dell’impossibilità di procedere semplicemente verso la luce. È a questo punto che egli, in seguito all’incontro con Virgilio, viene a conoscenza della tragica necessità: «A te convien tenere altro viaggio [...] se vuoi campar d’esto loco selvaggio»3. Esiste, dunque, un’unica via da percorrere per uscir da quel posto e 1 Cf. P. EVDOKIMOV, Dostoevskij e il problema del male, tr. it. di E. Confaloni, Città Nuova, Roma 1995, p. 58. 2 Vogliamo usare questi due aggettivi, esistentivo ed esistenziale, nell’accezione ad essi attribuita da Martin Heidegger in Essere e tempo: «L’esserci comprende se stesso in base alla sua esistenza, cioè alla possibilità che gli è propria di essere o non essere se stesso. Queste possibilità l’Esserci o le ha scelte esso stesso, o è incappato in esse o è cresciuto già da sempre in esse. L’esistenza è decisa, nel senso del possesso e dello smarrimento esclusivamente da ogni singolo Esserci. Il problema dell’esistenza, in ogni caso, non può essere posto in chiaro che nell’esistere stesso. La comprensione di se stesso che fa da guida in questo caso noi la chiamiamo esistentiva. Il problema dell’esistenza è un “affare” ontico dell’Esserci. A tal fine non si richiede la trasparenza teoretica della struttura ontologica dell’esistenza. Il problema intorno ad essa mira invece alla discussione di ciò che costituisce l’esistenza. All’insieme di queste strutture diamo il nome di esistenzialità» (M. HEIDEGGER, Essere e tempo, tr. it. a cura di P. Chiodi, UTET, Torino 1969, p. 66). 3 DANTE, Inferno I, 91-93, a cura di S.A. Chimenz, UTET, Torino 1965, p. 118. Bollettino Filosofico 26 (2010): 512-534 ISBN 978-88-548-4673-9 ISSN 1593-7178-00026 DOI 10.4399/978885484673935 512 Il paradiso perduto, ovvero: “una stagione all’inferno” 513 giungere a “riveder le stelle”, ossia quella che attraversa i “luoghi eterni” in cui le anime dei dannati subiscono il castigo per il male da essi compiuto. La consapevolezza del poeta fiorentino è, pertanto, inequivocabilmente chiara: per poter assurgere ad una rinnovata contemplazione del bene, in seguito alla caduta nel peccato, è necessario percorrere fino in fondo l’abisso del negativo. A distanza di circa cinque secoli dal componimento della Divina Commedia, Fedör Michajlovic Dostoevskij impernia gran parte della sua creazione artistica, certamente quella più intensa, sull’importanza che riveste la sperimentazione del male nel tentativo di conseguire, la dove ciò sia possibile, una più profonda coscienza del bene, dando così vita a quella intensa dialettica che rappresenta uno dei tratti caratterizzanti della sua riflessione “filosofica”. È, indubbiamente, doveroso rilevare il fatto che vi siano delle profonde differenze tra quelli che, a nostro avviso, possono essere considerati come due tra i più potenti geni creativi dell’umanità. Una su tutte è rappresentata dall’intento, dalla finalità della loro attività artistica: infatti, se da un lato Dante, con la sua Commedia, vuole condannare le incomprensibili scelleratezze e la malvagità dell’uomo a lui coevo, proclamando se stesso testimone e fautore della giustizia divina, di cui arriva ad esaltarne la magnificenza, dall’altro Dostoevskij indaga questa stessa malvagità e questa identica natura incognita per pervenire ad una più profonda conoscenza dell’individuo e, attraverso questa, di Dio e delle sua creazione, vissuta nella dimensione di una costante messa in discussione. Il viaggio che Dostoevskij intraprende attraverso i misteri dell’animo umano non è molto dissimile, per alcuni versi, da quello compiuto ad opera del poeta fiorentino: è, nondimeno, profondamente differente il rapporto, nonché la reazione emotiva che si sviluppa nel rispettivo vissuto psicologico. È verosimile sostenere che se fosse toccato a Dostoevskij compiere il percorso dantesco attraverso l’inferno, egli si sarebbe arrestato, probabilmente, di fronte all’epigrafe incisa sulla porta, poiché i molteplici e significativi elementi contenuti in essa, risultano essere, per alcuni versi, paralizzanti: infatti, alla certezza dell’esistenza di Dio, si accompagna simultaneamente la consapevolezza dell’insuperabilità del male, nonché l’impossibilità della redenzione e, dunque, dell’armonia eterna, poiché: «che armonia vi è mai, se c’è l’inferno?»4. Al di là di tali riflessioni più o meno plausibili, attraverso la lettura 4 F.M. DOSTOEVSKIJ, I fratelli Karamazov, tr. it. di N. Cicognini e P. Cotta, Mondadori, Milano 1994, p. 341. 514 Enrico Sposato dell’opera dostoevskiana si evince chiaramente l’importanza che ricopre la conoscenza del negativo e della caduta, muovendo dalla convinzione che: «Il vero bene non è l’innocenza, ignara del peccato, bensì la virtù, che è la vittoria sul peccato; ma al passaggio dall’innocenza alla virtù sembra indispensabile e necessaria l’esperienza reale del male»5. È lo stesso Dostoevskij a sottolineare in maniera esplicita l’importanza che riveste l’esercizio del dubbio per giungere ad appropriarsi di una fede che non sia indiscussa e passiva accettazione della tradizione: «Vi dirò che sono figlio del secolo, figlio dell’incredulità e del dubbio: lo sono oggi e lo sarò fino alla tomba. Quanti atroci tormenti mi è costata e mi costa questa sete di credere, tanto più forte nella mia anima quanto più trovo in me argomenti contrari [...]. In fatto di dubbio nessuno mi vince. Non è come un fanciullo ch’io professo il Cristo. Il mio osanna è passato attraverso un crogiolo di dubbio!»6. Affermazioni, queste, che convalidano il giudizio espresso da Sigmund Freud, il quale, basandosi su alcune testimonianze, a suo parere, veridiche sostiene che: «Dostoevskij oscillò tra la fede e l’ateismo fino all’ultimo istante della sua vita. Il suo alto intelletto gli rendeva impossibile non vedere almeno alcune delle difficoltà di pensiero alle quali porta la fede»7. Risulta, pertanto, necessario scandagliare gli abissi del male e giungere nella viscere dell’inferno che ogni essere umano porta nel proprio cuore per riuscire a riconquistare il “paradiso perduto”. Ma ci si chiede se ciò sia realmente possibile. Può davvero l’uomo tornare a contemplare, in piena semplicità ed innocenza, “il volto” divino dopo aver mangiato il frutto proibito? Può quell’innocenza propria dei “fanciulli” tornare a pervadere il cuore degli esseri umani e cancellare ogni traccia, anche la più profonda, in esso prodotta dall’esperienza del male? Per cercare di dare una risposta a questi interrogativi, faremo riferimento ad un breve racconto che Dostoevskij presenta nel 1877 nel suo Diario di uno scrittore, alla cui pubblicazione diede inizio nel 1873 ed in cui si proponeva di sondare i fatti del giorno, monitorare la realtà quotidiana per scoprire, attraverso di essa, quali trasformazioni si andavano producendo negli atteggiamenti mentali e spirituali del popolo e creare, inoltre, un dialogo con il lettori. 5 L. PAREYSON, Dostoevskij. Filosofia, romanzo, ed esperienza religiosa, Einaudi, Torino 1993, p. 108. 6 Ivi, p. 121. 7 S. FREUD, Dostoevskij e il parricidio, in Opere, a cura di C. Musatti, Bollati Boringhieri, Torino 1978, vol. X, p. 531. Il paradiso perduto, ovvero: “una stagione all’inferno” 515 Il “racconto fantastico”, come Dostoevskij stesso lo definisce, a cui si fa riferimento è Il sogno di un uomo ridicolo. A distanza di tredici anni ecco ricomparire l’anonimo eroe delle Memorie dal sottosuolo. La voce che ci giunge nel Sogno conserva la stessa eco delle confessioni che emergevano da quei luoghi sotterranei. Un’identica, nonché paradossale coerenza di pensiero si trasforma, lentamente, in quella profonda capacità di auscultare la propria coscienza che dà vita ad un continuo dialogo con se stesso e che sfocia, a tratti, in uno sdoppiamento dicotomico del pensiero. Persino l’esordio è quasi identico: «Sono un uomo ridicolo. E ora mi danno anche del pazzo»8, si legge nel racconto del 1877. Ecco, a sua volta, come si presenta il “non eroe” del sottosuolo: «Sono un uomo malato... Sono un uomo cattivo. Un uomo sgradevole»9. Leggendo il racconto dell’uomo ridicolo si ha l’impressione che tutto il sapere del sottosuolo, le riflessioni e le idee derivate da un ininterrotto confronto con la propria coscienza ipertrofica, nonché la volontà, per alcuni versi disperata, di reagire ad un contesto che non permette decontestualizzazioni, poiché anche queste ultime risultano farne parte, appaiano in tutto il loro aspetto donchisciottesco, ossia tragicamente goffo. L’uomo ridicolo è dominato dalla convinzione dell’inutilità del tutto; il rivoltarsi, lo sbraitare contro le assurdità dell’esistenza, derivanti da un grottesco malinteso, non hanno altro risultato che presentare, sotto una luce impacciata e risibile coloro che ostinatamente continuano a credere nella possibilità di un’esistenza altra. Come l’uomo del sottosuolo, egli ha acquisito coscienza dell’inautenticità della vita quotidiana e dell’impossibilità di porsi al di là di questo continuo fraintendimento. Considera l’essere umano condannato a vivere nella “medietà”, ossia in una realtà spersonalizzante dominata dal Si vuoto della chiacchiera. Questa sconfortante certezza fa nascere in lui un profondo senso di tristezza: «quel patimento che nasce dall’indifferenza proveniente dall’aver molto sofferto»10. Una tristezza che, lentamente, assume le sembianze di un sentimento, pressoché benevolo, di pietà nei confronti dei propri simili, della loro incapacità di cogliere la realtà nella sua totalità, nella sua verità: «Mi sento triste perché essi non conoscono la verità, mentre io sì. Oh, che 8 F.M. DOSTOEVSKIJ, Il sogno di un uomo ridicolo, in Racconti, a cura di G. Spendel, Mondadori, Milano 1991, p. 807. 9 F.M. DOSTOEVSKIJ, Memorie dal sottosuolo, tr. it. di E. Guercetti, Garzanti, Milano 1996, p. 5. 10 F. PESSOA, Il libro dell’inquietudine, a cura di M.J. de Lancastre, Feltrinelli, Milano 1997, p. 23. 516 Enrico Sposato terribile peso è essere il solo a conoscere la verità! Ma essi non lo capirebbero. No, non lo capirebbero»11. Si avverte qui l’eco delle parole delle Memorie: «Vi giuro, signori, che essere troppo coscienti è una malattia, un’autentica, completa malattia»12. Potremmo affermare che, più che il peso della verità, risulta insopportabilmente frustrante l’impossibilità di comunicarla, di infonderla, renderla attingibile. Vivere in un contesto in cui, non soltanto si è gli unici a “sapere”, ma questo stesso sapere risulta fortemente contrastante con le radicate convinzioni di coloro che ci circondano, conduce allo smarrimento, alla messa in discussione del senso di questa conoscenza. Il limite invalicabile che si interpone tra il dire e l’incapacità, da parte di coloro che ascoltano, di accogliere quanto detto, si traduce in un apatico sopravvivere: «A un tratto ho sentito che per me era lo stesso se il mondo esisteva, o se nulla ci fosse stato in nessun luogo. Ho cominciato a sentire e ad accorgermi con tutto il mio essere che vicino a me non c’era niente [...]. A poco a poco mi sono anche convinto che mai nulla esisterà. Allora ho smesso di arrabbiarmi con la gente e ho cominciato quasi a non considerarla più»13. Questo profondo distacco emotivo rispetto alla realtà circostante si concretizza in un esasperato isolamento, in un distacco dalla totalità universale che trova nel tentativo di negare se stesso la sua espressione definitiva. Questa drammatica indifferenza nei confronti del tutto, che l’uomo ridicolo vive ormai come unica dimensione emotiva possibile, lo spinge a decidere di mettere in atto un proponimento sul quale egli va meditando da alcuni mesi. L’anonimo personaggio, che ritroviamo in tutti i racconti brevi di Dostoevskij, presenta delle caratteristiche costanti: «È un essere disprezzato dalla tuttità e che, a sua volta, non sa che farsene della coscienza comune. Dotato di una lucida percezione, di una sorta di doppia vista egli vive ai margini dell’esistenza e questo fa di lui un “uomo ridicolo”. Il suo “tutto è uguale” è tragico e scaturisce dalla lotta estenuante contro le evidenze»14. Divenire capaci di cogliere l’esistenza a partire dal suo substrato più intimo, consapevoli che la superfice altro non è se non un ingannevole riflesso di questo stesso abisso, rende impossibile la sopravvivenza ad un livello esteriore dominato dal compromesso e da un’avveduta dimenticanza di sé. F.M. DOSTOEVSKIJ, Il sogno di un uomo ridicolo, cit., p. 807. F.M. DOSTOEVSKIJ, Memorie dal sottosuolo, cit., p. 8. 13 F.M. DOSTOEVSKIJ, Il sogno di un uomo ridicolo, cit., p. 808. 14 P. EVDOKIMOV, Dostoevskij e il problema del male, cit., p. 51. 11 12 Il paradiso perduto, ovvero: “una stagione all’inferno” 517 Ciò risulta inaccettabile per l’uomo ridicolo che, per molti versi, si mostra tale agli occhi di coloro che gli stanno intorno a causa della sua ostinazione. Una pervicacia che non gli concede alcuna alternativa: se la verità che si conosce è tale da non poter essere sopportata se non a patto di lasciare che la si consideri alla stregua di una ingenua menzogna, alla “verità” dell’omnitudine è preferibile la morte. Dopo aver trascorso la serata in compagnia di alcuni amici a casa di un “ingegnere” (è un peccato che Dostoevskij non gli abbia dato un nome), decide di far ritorno a casa. Una volta in strada si sofferma un istante a guardare il cielo: «Era terribilmente scuro, ma si potevano anche intravedere chiaramente le nuvole squarciate e, tra loro, chiazze nere senza fine. In una di esse notai una piccola stella e iniziai a fissarla intensamente. Questo perché quella piccola stella mi aveva suscitato un pensiero: decisi di uccidermi quella notte»15. È da notare il fatto che, proprio nell’attimo in cui nella sua mente prende consistenza questa idea, una bambina che si aggirava per le strade ormai deserte, bagnata ed infreddolita gli afferra il braccio, mentre, terrorizzata e disperata continua a gridare: «Mammina! Mammina!»16. Questo episodio, che apparentemente l’autore del racconto richiama in maniera fugace, quasi come se si trattasse di un dovere di cronaca, rappresenta in realtà un momento determinante del racconto. Giunto a casa, si sedette sulla poltrona, dopo aver poggiato la rivoltella carica su un tavolino posto vicino, fermo nella realizzazione del suo intento ed in preda ad una sorta di lucido delirio, che lo porta a riflettere su qualcosa di nuovo che va producendosi in lui: «Mi faceva rabbia pensare che se ormai avevo deciso di suicidarmi quella stessa notte, a questo punto ogni cosa al mondo avrebbe dovuto essere per me priva di importanza, più che in qualsiasi altro momento. Ma perché improvvisamente ho sentito che questo non era per me del tutto vero e che io avevo avuto pietà per quella bambina? Sentivo per lei una grande compassione, ricordo, tanto da provarne uno strano dolore, che era perfino incredibile nella mia situazione»17. In preda a questi pensieri, egli si addormenta senza accorgersene e sogna di puntare la rivoltella dritta al cuore facendo esplodere il proiettile. Stranamente la morte non lo priva della coscienza, della capacità di ragionamento, nonché dei sensi che gli permettono così di rendersi conto di tutF.M. DOSTOEVSKIJ, Il sogno di un uomo ridicolo, cit., pp. 809-810. Ibid. 17 Ivi, p. 813. 15 16 518 Enrico Sposato to quanto accade intorno. La bara, la gente che lo circonda, la tumulazione, la solitudine. Si rende ben presto conto che tutto ciò a cui avrebbe voluto sottrarsi con il suicidio, ossia se stesso, esiste ancora. In un tale stato di cose decide di invocare “colui che aveva fatto si che accadesse tutto”: «Chiunque tu sia, se esisti e se esiste qualcosa che abbia più senso di tutto questo, allora ti prego, fa che avvenga anche qui. Ma se ti stai vendicando su di me per il mio assurdo suicidio facendomi ora vivere questa orribile e insensata situazione, sappi allora che nessun tormento potrà mai eguagliare questo disprezzo che proverò in silenzio, anche se tutto ciò dovesse durare per milioni di anni...»18. È da notare che i termini non sono esattamente quelli di una preghiera, piuttosto quelli di un ricatto, di una provocazione, quasi a voler dire che nessuna punizione può condurlo al pentimento. A questo punto la bara si spalanca e un essere sconosciuto lo afferra trascinandolo con se nell’universo immenso. Compiendo un salto non dominato dai concetti di spazio e tempo e, pertanto, incomprensibile attraverso le leggi della razionalità, il nostro personaggio viene lasciato in un luogo del tutto simile alla terra in precedenza abbandonata, ma immersa in uno splendore nuovo, unico, mai visto in passato: «Oh, ogni cosa era esattamente come sulla nostra Terra, ma tutto sembrava splendere ovunque festoso e di una grande, sacra e finalmente raggiunta solennità»19. Ma ciò che più suscita stupore sono gli abitanti qui incontrati: Finalmente vidi e conobbi la gente che abitava felicemente quella terra. Essi vennero da me, mi circondarono e mi baciarono. I figli del sole, i figli del loro sole – oh, com’erano belli! Non avevo mai visto da noi tanta bellezza in un essere umano. Forse soltanto nei nostri bambini quando sono ancora molto piccoli è possibile trovare un remoto, per quanto debole riflesso di tale bellezza [...]. Oh, subito, fin dalla prima volta che posai lo sguardo sui loro volti, io capii tutto! Questa terra non era stata profanata da alcuna colpa e le persone che ci vivevano non avevano peccato, essi vivevano in un paradiso simile a quello nel quale avevano vissuto, secondo le tradizioni dell’intera umanità, e così anche per i nostri progenitori che però caddero nel peccato, la sola differenza era che qui tutta la Terra era ovunque un unico paradiso [...]. Essi non ambivano a nulla, ma erano sereni, non aspiravano alla conoscenza della vita così come vi aspiriamo noi, perché la loro vita era totale. Il loro sapere era più profondo e più alto della nostra scienza, dal momento che la nostra scienza tenta di spiegare cos’è la vita, fa tutto il possibile per comprenderla, per poi 18 19 Ivi, p. 817. Ivi, p. 820. Il paradiso perduto, ovvero: “una stagione all’inferno” 519 insegnare agli altri a vivere; essi erano in grado di vivere anche senza la scienza, questo lo capii bene, ma non riuscivo ad intuire quali fossero le loro cognizioni [...]. Non riuscivano quasi a capirmi quando chiedevo loro della vita eterna, ma si vedeva che essi erano inconsciamente così certi di essa che per loro non costituiva un problema. Non avevano luoghi di culto, ma in loro c’era un’essenziale, viva e continua armonia con l’Insieme dell’universo; non avevano una fede, ma erano fermamente persuasi che quando la loro felicità terrena fosse terminata, sarebbe iniziata per loro, vivi o morti che fossero, una comunicazione ancora più grande con l’universo intero20. Tutto ciò non rappresenta soltanto un semplice sogno. Nella dimensione onirica l’uomo ridicolo fa esperienza, se non altro emotiva, di ciò che da tempo va acquisendo nella sua mente i connotati di una chiara idea. È si vero, come egli stesso sostiene, che i sogni nascono dal desiderio del cuore, ma è altrettanto innegabile che a volte il desiderio stesso può essere supportato da una intuizione razionale che ne avvalora lo statuto di realtà empiricamente realizzabile. Si può affermare che in ciò Dostoevskij anticipa, per alcuni versi, quella che in seguito sarebbe stata la definizione di sogno elaborata da Freud, il quale, appunto, considera il sogno come «l’appagamento camuffato di un desiderio rimosso», cosicché nel sogno è possibile trovare conferma dell’esattezza della propria percezione: Spesso dicevo loro che tutto questo l’avevo previsto già da molto tempo; che tutta questa felicità e questa gloria le avevo già percepite sulla nostra Terra come una malinconia che qualche volta diventava un’insopportabile pena; che avevo avuto il presentimento di tutti loro e della loro gloria nei sogni del mio cuore e della mia mente, e che spesso sulla nostra Terra non riuscivo a guardare, senza versare delle lacrime, il sole che tramontava21. In ciò, con ogni probabilità, consiste parte del contenuto di quella verità di cui l’uomo ridicolo afferma di essere in possesso, ossia nella certezza che il sogno altro non è se non la conferma della effettiva realizzabilità di ciò che viene vissuta come una “malinconica percezione”, la nostalgia per un passato non ancora vissuto. L’anonimo eroe del racconto appare drammaticamente persuaso del fatto che la vita, così come egli la esperisce nel mondo nuovo, potrebbe, nella maniera più naturale possibile, senza alcun artificio o forzatura, essere vissuta anche sulla Terra dalla quale è stato portato via, l’unica Terra alla quale egli in fondo appartiene. L’uomo potrebbe essere felice se solo volesse esserlo. Più esattamente: l’uomo è felice, solo non sa 20 21 Ivi, pp. 820-824. Ivi, p. 824. 520 Enrico Sposato di esserlo: «L’uomo è infelice perché non sa che è felice; solo per questo. È tutto lì, tutto! Chi lo scopre diventa felice, subito, sul momento»22. Per quanto verosimilmente queste affermazioni possano essere attribuite al nostro anonimo personaggio, il quale, quasi a volerne confermare la validità dichiara che: «ho visto e so che gli uomini possono essere belli e felici senza perdere la capacità di vivere in Terra»23, in realtà esse appartengono ad una delle figure più complesse e significative create dallo scrittore russo, ossia l’ingegnere de I demoni, Kirillov. Ciò che ne Il sogno di un uomo ridicolo viene presentato come una sorta di esperienza surreale che avrà sì, in seguito, dei risvolti pratici con l’assunzione di quella che potrebbe essere considerata una missione, nonché, un’ammissione di fede nei confronti dei propri simili, ne I demoni, opera composta cinque anni prima, a cavallo tra il 1871-1872, acquista i connotati di una vera e propria dottrina, un’esposizione ideologica. Kirillov è profondamente convinto della possibilità, nonché della necessità per l’uomo, di vivere la vita in maniera autentica, terrena, ab-soluta, ossia sciolta da qualsiasi rimando ad una dimensione altra, transmondana. Allo stesso modo degli uomini felici incontrati nel racconto del 1877, l’uomo deve liberarsi da tutte le sovrastrutture sociali, morali e religiose che ne condizionano l’esistenza entro limiti che, sostanzialmente, a questa esistenza non appartengono. Quegli uomini «non avevano luoghi di culto, non avevano una fede», e ciò gli permetteva di vivere in libera armonia con il tutto, di sentire la vita nella sua immanente pienezza. È quanto sostiene Kirillov. Egli afferma l’imprescindibile dovere da parte dell’uomo di vivere l’esistenza a partire dalla totale libertà che gli appartiene in quanto manifestazione di questa stessa esistenza. Bisogna dunque procedere all’eliminazione di quei limiti che si frappongono tra la piena volontà di sé e l’attuazione concreta di questa volontà. Tra questi ostacoli quello che si presenta come il più problematico è rappresentato dall’idea di Dio: «Se Dio c’è, tutta la volontà è sua e dalla sua volontà io non posso uscire. Se non c’è, allora tutta la volontà è mia e io sono obbligato a dichiarare la libertà d’arbitrio»24. Per poter affermare la piena libertà dell’uomo è indispensabile dimostrare l’inesistenza di Dio. Secondo Kirillov, Dio non è altro che la paura che si F.M. DOSTOEVSKIJ, Gli indemoniati, a cura di M. Santi-Farina, L. Reverdito Editore, Varese 1995, p. 219. 23 F.M. DOSTOEVSKIJ, Sogno di un uomo ridicolo, cit., p. 830. 24 F.M. DOSTOEVSKIJ, Gli indemoniati, cit., p. 568. 22 Il paradiso perduto, ovvero: “una stagione all’inferno” 521 ha della morte. L’idea di Dio che avrebbe dovuto proteggere e consolare l’uomo proprio dal terrore derivante dalla consapevolezza della sua caducità, è divenuta il fondamento stesso di questa paura. Appare, pertanto, indispensabile, attribuire alla morte un significato altro rispetto a quello che ne ha sempre caratterizzato il contenuto: «Ci sarà piena libertà soltanto il giorno in cui sarà indifferente vivere o non vivere»25. Bisogna rendersi capaci di attribuire alla vita ed alla morte lo stesso valore. Finché l’uomo avrà paura della morte egli sarà sempre schiavo di questa paura. Se, al contrario, riuscisse a volere allo stesso modo sia la vita che la morte, sarebbe libero dal “timore di Dio”, non sarebbe più sottomesso a Dio, sarebbe egli stesso Dio. Ricordiamo le parole usate dall’uomo ridicolo per descrivere le genti incontrate nel suo sogno: «erano fermamente persuasi che quando la loro felicità terrena fosse terminata, sarebbe iniziata per loro, vivi o morti che fossero, una comunicazione ancora più grande con l’universo intero. Essi aspettavano questo momento con gioia, senza aver fretta, senza angosciarsi per esso, anzi, parlandone tra loro, come se ne avessero già dei presentimenti nel cuore»26. Vi è, dunque, questa sorta di beata serenità che non si lascia perturbare dal naturale passaggio da una condizione ad un’altra. Ma, tornando a Kirillov, in che modo, a suo parere, risulta possibile dimostrare questa forma di divina indifferenza di fronte alla vita ed alla morte? Realizzandola: «Dio si rivela all’uomo come potere sulla vita e sulla morte; così, ottenere questo potere equivale per l’uomo a diventare immortale e divino. Ciò spiega la funzione capitale svolta dal suicidio all’interno dell’atto di deificazione»27. Tra i personaggi creati da Dostoevskij, Kirillov rappresenta colui che dà vita, in maniera inequivocabile, alla rivolta dell’uomo contro Dio. L’idea della divinità, soprattutto nella sua forma veterotestamentaria, è tale da imporsi sull’esistenza attraverso delle leggi che contrastano profondamente con la natura più profonda di questa stessa esistenza, impedendo di vivere in maniera piena ed autentica la vita. Kirillov vuole uccidersi per proclamare la sua insubordinazione, la sua “nuova terribile libertà”: «L’uomo che si uccide immotivatamente, con un atto di pura indifferenza, uccide in sé il proprio sé e si libera, elevandosi appunto alla libertà come alla propria natura redenta, di quel sosia oppressivo che lo rispecchia, lo riproduce a sua immagine e somiglianza, lo incatena a sé e con ciò lo condanna a un’esistenza servile»28. F.M. DOSTOEVSKIJ, Gli indemoniati, cit., p. 107. F.M. DOSTOEVSKIJ, Il sogno di un uomo ridicolo, cit., pp. 823-824. 27 P. EVDOKIMOV, Dostoevskij e il problema del male, cit., p. 226. 28 Cf. S. GIVONE, Dostoevskij e la filosofia, Laterza, Bari 1984, p. 91. 25 26 522 Enrico Sposato È indispensabile liberarsi da tutte le sovrastrutture sociali e metafisiche che deformano la percezione della vita e, conseguentemente, di sé. Solo così sarà possibile contribuire alla comparsa di un uomo nuovo: «la religione fu la sorgente delle maggiori atrocità e [...] il timore insensato delle pene eterne spingeva gli uomini a sacrificare la loro felicità e la loro tranquillità d’anima ai terrori ispirati loro dagli indovini»29, oggi diremo dai preti. L’idea di Dio era necessaria al vecchio uomo: egli trovava consolazione ai propri timori in questa idea alla quale si aggrappava disperatamente per sopportare le proprie debolezze e grazie alla quale riuscì a costruirsi un mondo al di là, inattingibile, in cui riporre le proprie speranze. Non vi è nulla di più comodo e rassicurante che possedere nel cuore la consapevolezza dell’esistenza di una dimensione che trascende ogni possibilità di essere confermata o smentita. La vecchia umanità è condannata alla schiavitù in quanto: «lo sgomento possiede tutti i mortali, perché scorgono in terra e in cielo accadere fenomeni dei cui effetti non possono in alcun modo vedere le cause, e assegnano il loro prodursi al volere divino»30. Al contrario, l’uomo nuovo è colui che sente il bisogno di redimersi da tutto ciò, similmente a colui che: Mentre la vita umana giaceva sulla terra, turpe spettacolo, oppressa dal grave peso della religione, che mostrava il suo capo dalle regioni celesti con orribile aspetto incombendo dall’alto sugli uomini, per primo un uomo di Grecia ardì sollevare gli occhi mortali a sfidarla, e per primo drizzarlesi contro: non lo domarono le leggende degli dei, né i fulmini, né il minaccioso brontolio del cielo; anzi tanto più ne stimolarono il fiero valore dell’animo, così che volle infrangere per primo le porte sbarrate dell’universo. E dunque trionfò la vivida forza del suo animo e si spinse lontano, oltre le mura fiammeggianti del mondo, e percorse con il cuore e la mente l’intero universo, da cui riporta a noi vittorioso quel che può nascere, quel che non può, e infine per quale ragione ogni cosa ha un potere definito e un termine profondamente connaturato. Perciò a sua volta abbattuta sotto i piedi la religione è calpestata, mentre la vittoria ci eguaglia al cielo31. L’uomo nuovo è l’uomo dell’eterno presente, che non avrà più bisogno di credere in un futuro al di là da venire perché avrà compreso che: «Al di là non c’è libertà; qui c’è tutto, e di là non c’è nulla [...]. Quando l’uomo avrà raggiunto la felicità, il tempo non ci sarà più, perché non ce ne più bi29 F.A. LANGE, Storia critica del materialismo, tr. it. di A. Treves, Libreria Editrice Bonanni, Milano 1932, p. 133. 30 LUCREZIO, La natura delle cose, I, 151-154, a cura di I. Dionigi, Rizzoli, Milano 1994, p. 85. 31 Ivi, I, 62-79, p. 77. Il paradiso perduto, ovvero: “una stagione all’inferno” 523 sogno»32. È l’uomo per il quale la realtà consisterà in una percezione immediata di ciò che un qualcosa è di per sé e non di ciò che potrebbe essere in vista-di. Sostanzialmente, quella proposta da Kirillov è una fruizione estetica dell’esistenza, partendo dall’idea che «l’esistenza del mondo non si giustifica altrimenti che come fenomeno estetico»33. Un modo di rapportarsi alle cose che non sia un chiedere, un vivisezionare per conoscere altro rispetto a ciò che ogni cosa dice di sé, poiché la conoscenza è di per sé una implicita ammissione della mancanza di un qualcosa. Ricordiamo cosa si afferma ne Il sogno di un uomo ridicolo: «Essi non ambivano a nulla, ma erano sereni, non aspiravano alla conoscenza della vita così come vi aspiriamo noi, perché la loro vita era totale»34. Il conoscere presuppone sempre l’utilizzo di un linguaggio che, per quanto sofisticato, risulta in definitiva parzialmente soddisfacente: «Tutti i concetti che usiamo per descrivere la natura sono limitati: non sono aspetti della realtà, come tendiamo a credere, ma creazioni della mente; sono parti della mappa non del territorio»35. In ciò consiste, secondo Kirillov, la trasvalutazione del senso del tutto. Egli ha svelato a se stesso il carattere menzognero dell’esistenza e, allo stesso tempo, ha intravisto la possibilità di una vita nuova, improntata ad una totale autonomia della volontà, grazie alla quale l’individuo è messo in condizione di proclamare la propria libertà d’arbitrio nella sua pienezza, dichiarazione che, come abbiamo visto, culmina nel suicidio. Da questo punto di vista Kirillov rappresenta il tipo dell’«uomo in rivolta», nel senso attribuito a questa espressione da Albert Camus. L’uomo in rivolta è colui che ha preso coscienza del fatto che esiste in lui qualcosa che vale la pena salvaguardare, proteggere, far rispettare, ossia qualcosa da porre al di sopra di tutto, persino della vita stessa, qualcosa con cui identificarsi, perché «la vita è superiore alla coscienza della vita»: Per quanto confusamente, dal moto di rivolta nasce una presa di coscienza: la percezione, ad un tratto sfolgorante, che c’è nell’uomo qualche cosa con cui l’uomo può identificarsi, sia pure temporaneamente [...]. L’uomo in rivolta vuole essere tutto, identificarsi totalmente con quel bene di cui a un tratto ha preso coscienza e che vuole sia riconosciuto e salutato nella propria persona – o niente, vale a dire trovarsi definitivamente scaduto per opera della forza che lo domina. Al limite, accetta questa estrema caduta che è la morte, se dev’essere privo di quella consacrazione esclusiva che chiamerà, per esempio, la propria libertà36. F.M. DOSTOEVSKIJ, Gli indemoniati, cit., pp. 208-219. F. NIETZSCHE, La nascita della tragedia, a cura di P. Chiarini, Laterza, Bari 1995, p. 10. 34 Cf. supra, nota 8. 35 F. CAPRA, Il tao della fisica, tr. it. di G. Salio, Adelphi, Milano 2009, p. 186. 36 A. CAMUS, L’uomo in rivolta, tr. it. di L. Magrini, Bompiani, Milano 1994, pp. 18-19. 32 33 524 Enrico Sposato Accettare la morte è, dunque, l’unica alternativa che si offre di fronte al fallimento dell’affermazione di quel bene, sia esso la propria libertà, che ad un tratto si è iniziato a considerare come l’unica cosa per cui valga la pena vivere. È qui interessante sottolineare una differenza peculiare tra il ruolo che l’idea della morte gioca nella riflessione kirilloviana e l’importanza che riveste, invece, nell’economia del significato delle riflessioni dell’uomo ridicolo. Per l’ingegnere de I demoni la morte non rappresenta un’alternativa, ossia un decretare il fallimento del tentativo di salvaguardare e far rispettare quel valore che si è scorto in se stessi e con il quale, in definitiva, si è identificato il contenuto della propria esistenza. No! Nel caso di Kirillov la morte rappresenta il viatico, il mezzo imprescindibile per la realizzazione della propria idea, del proprio bene, della propria libertà. Per quanto concerne l’uomo ridicolo, la morte si mostra, in apparenza, come una dichiarazione di resa, un capitolare di fronte all’insensatezza dell’esistere, l’impossibilità di sopravvivere a se stesso. Questo, almeno, è quanto si legge nella dichiarata decisione di volersi esplodere un colpo al cuore. Ma il contenuto del racconto ci svela altro. Come fenomeno fisico, la morte non ha effettivamente luogo; essa non si realizza che in sogno, fornendoci, cosi, una possibilità di lettura del tutto particolare e diversa. Infatti, mentre per Kirillov il non esistere rappresenta la più forte testimonianza della propria libertà, invero effimera, poiché la libertà di Kirillov è tale da essere dominata dal concetto di necessità, in quanto la liberazione totale a cui si aspira si risolve nella necessità della morte, per quanto riguarda il personaggio de Il sogno, la morte acquista la stessa importanza ma con un segno decisamente positivo. Vivere la propria morte e tutto ciò che ad essa consegue in una dimensione onirica caratterizzata, tuttavia, da un certo grado di lucida consapevolezza, consegna l’uomo ridicolo ad una rinnovata, positiva valutazione della propria esistenza. Sognare di morire e, attraverso la suggestione del sogno in cui si manifesta la voce del desiderio, vivere una vita altra, ma di un’alterità tale da poter essere racchiusa nella dimensione di un Medesimo empirico, offre al soggetto sognante l’indicazione utile per poter assurgere alla sua stessa, quasi abbandonata esistenza, con una energia motivante che sembra rilucere di una luminosità inumana, per quanto in realtà «umana troppo umana». Ma cosa spinge realmente l’anonimo personaggio del racconto ad intraprendere, una volta svegliatosi, una vita diametralmente opposta nell’atteggiamento rispetto a quello che lo aveva condotto sull’orlo del suicidio? Il paradiso perduto, ovvero: “una stagione all’inferno” 525 È solo perché egli in sogno ha visitato un luogo che senza difficoltà identifica con il paradiso che ci mette a conoscenza dei suoi nuovi propositi?: «Ora volevo solo vivere, vivere! Alzai le mani verso il cielo e pregai per la verità eterna; no, non pregai, piansi; l’entusiasmo, un immenso entusiasmo, mi rese forte come un gigante. Decisi che avrei vissuto per predicare. Lo decisi proprio in quel momento, e fu, sicuramente, per tutta la vita! Sarei andato a predicare, volevo predicare – che cosa? La Verità, perché io l’avevo vista, l’avevo vista proprio con i miei occhi, e in tutta la sua gloria!»37. È, dunque, possibile che un semplice sogno, per quanto intenso, possa avere una così forte capacità di determinare delle influenze e suscitare dei sentimenti tanto altruisti, specie in un uomo che era giunto a vivere in uno stato di profonda indifferenza verso ogni cosa? Si! Ciò è ammissibile. Ma quanto accade al soggetto del nostro racconto, si spiega più esaustivamente se si tiene in considerazione ciò che costituisce la parte conclusiva del sogno. Dopo aver incontrato e conosciuto le genti che abitavano questo nuovo mondo che, come abbiamo avuto modo di vedere, sembravano risplendere di una luce e di una bellezza propria di chi vive una condizione di assoluta e perfetta innocenza ecco cosa accade: è finita che li ho corrotti tutti! Come abbia mai potuto farlo, non lo so, anche se lo ricordo chiaramente [...]. So soltanto che sono stato io a causare la loro caduta nel peccato. Come una brutta trichina, come un bacillo di peste che contagia interi stati, così anch’io contagiai quella Terra felice e innocente. Essi impararono a mentire, incominciarono ad amare la menzogna, e a conoscerne la bellezza [...]. Dopo di che nacque la sensualità, la sensualità diede origine alla gelosia, e la gelosia alla crudeltà [...]. Essi conobbero la vergogna e ne fecero una virtù [...]. Conobbero il dolore, che diede loro piacere. Desiderarono soffrire poiché, dicevano, la verità si ottiene solo soffrendo. Allora tra loro comparve la scienza [...]. Ricordavano appena ciò che avevano perso [...], ma, per quanto possa sembrare strano e meraviglioso, dopo aver perduto ogni fede nella loro felicità di un tempo, dopo averla definita una favola, essi desideravano ancora di nuovo essere innocenti e felici, tanto da prostrarsi come bambini davanti al desiderio del proprio cuore; lo divinizzarono, costruirono templi e furono devoti alla loro stessa idea, al loro stesso «desiderio», pur sapendo pienamente quanto fosse irrealizzabile e inattuabile38. Si ripete in maniera inesorabile la storia che ha caratterizzato l’umanità dopo la caduta, una caduta che ha come punto culminante del suo corso l’esaltazione della personalità isolata, dedita esclusivamente al culto di sé che 37 38 F.M. DOSTOEVSKIJ, Il sogno di un uomo ridicolo, cit., p. 830. Ivi, pp. 826-827. 526 Enrico Sposato in tal modo diventa l’unica legge, l’unico presupposto di tutta l’esistenza. Appare qui in tutta l’evidenza possibile come l’origine del male, nonché, la scaturigine del peccato non è da ricercarsi in altro posto diverso dal cuore dell’uomo, il quale similmente ad “una brutta trichina” riesce a portare ovunque il contagio, persino inconsapevolmente, in maniera paradossalmente innocente. È doveroso, pertanto, chiedersi quale sia la vera natura del male, in che cosa consista la sua essenza e se sia realmente possibile passare oltre i segni che, inevitabilmente, testimoniano il suo manifestarsi. In accordo con Luigi Pareyson possiamo affermare che: L’esperienza tragica del male è un’esperienza capace di arricchire l’uomo e d’innalzarlo a un livello superiore. Senza questa esperienza l’uomo resterebbe certamente in un grado inferiore e più elementare di moralità, e rimarrebbe privo di tutta quella ricchezza e complessità spirituale che gli può provenire da una prova come quella. L’esperienza del male è un incremento della vita spirituale, e l’arricchimento interiore che se ne può trarre rende impossibile e indesiderabile il ritorno a uno stadio più elementare meno tragico, ma anche più povero di ricchezza interiore39. Sulla necessità di fare esperienza del male, del negativo, di quel lato oscuro che caratterizza la natura umana, poiché solo immergendosi totalmente nelle situazioni pratiche ed emotive che si discostano in maniera drammatica da quella che viene comunemente e convenientemente riconosciuta come condotta moralmente “esemplare”, solo allora è possibile far emergere aspetti dell’uomo e della sua più profonda essenza che, altrimenti, sarebbero rimasti sconosciuti all’uomo stesso, concordano molti tra gli interpreti dello scrittore russo. In verità, come abbiamo già avuto modo di sottolineare, è lo stesso Dostoevskij che considera indispensabile cogliere quelle sfu-mature dell’animo umano che vengono messe in risalto soltanto dalla cupa luce di sotterranee perversioni del cuore. Non a caso la produzione artistica di Dostoevskij è costellata di personaggi che, volendo essere approssimativi, potremmo definire problematici. L’intento artistico principale della riflessione dostoevskiana è, per sua stessa ammissione, quello di risolvere ciò che considera un mistero, ossia l’uomo. L’obiettivo appare estremamente arduo, persino per un intelligenza creativa come quella dello scrittore russo, in quanto risulta inverosimile riuscire a dare dell’uomo una definizione che ne raccolga in maniera esaustiva la molteplicità degli aspetti che lo rendono unico: tuttavia, per potersi avvicinare il più possibile al suo adempimento è necessario trovare il campo d’azione in cui si concentrano il maggior numero di caratteristiche che concorrono a costituire l’essere umano nella sua complessità. 39 L. PAREYSON, Dostoevskij. Filosofia romanzo ed esperienza religiosa, cit., pp. 107-108. Il paradiso perduto, ovvero: “una stagione all’inferno” 527 Dostoevskij non esamina l’esistenza a partire dalla banale superficialità da cui non si ha il coraggio di mordere la falsità e sputarla via come parte marcia. Egli si muove su questa superfice consapevole dell’abisso che si nasconde sotto di essa. È a partire da questo proposito che Dostoevskij prende in esame figure di per sé già intricate e le pone a contatto o, più esattamente, le immerge in luoghi e situazioni che stanno ai margini di quella che viene comunemente definita normalità. Egli le lascia interagire liberamente con tutto ciò che costituisce la realtà circostante, visibile ed invisibile, ed in ciò consiste una delle peculiarità dello stile dostoevskiano. Non si parte da idee preconcette, da punti di vista precedentemente sviscerati, valutati e creati su misura per dimostrare questa o quella verità. No! I personaggi di Dostoevskij si muovono nel mondo come colui che scopre per la prima volta e valuta queste scoperte a partire da una coscienza che gli è propria e che diviene autocoscienza nel momento in cui si sofferma ad auscultare gli effetti che queste esperienze producono nel suo modo di sentire e pensare. È a partire da ciò che Michail Bachtin riconosce in Dostoevskij il creatore del romanzo polifonico: un particolare modo di intendere il romanzo che rompe con la concezione classica, ossia con l’idea del romanzo ‘monologico’, nel quale i personaggi risultano chiusi all’interno di confini rigorosamente tracciati: «egli non può cessare di essere se stesso, cioè uscire oltre i limiti del suo carattere, della sua tipicità, del suo temperamento, senza violare così il disegno monologico che l’autore ne ha fatto»40. Ecco cosa leggiamo oltre: «Dostoevskij rifugge da tutti questi presupposti monologici. Tutto ciò che l’autore monologista ha riservato per sé, utilizzandolo per la creazione dell’unità ultima dell’opera e del mondo in essa raffigurato, Dostoevskij lo cede al suo personaggio, trasformando tutto questo in momento della sua autocoscienza»41. In ciò consiste quella che lo scrittore stesso definisce proniknovenie che significa precisamente «penetrazione intuitiva», «penetrazione spirituale», ossia quella capacità di autoidentificazione che permette allo scrittore di trascendere i limiti della propria soggettività, per riacquisire e ritrovare questa stessa soggettività nei suoi personaggi. È in virtù di questa peculiare abilità che lo scrittore riesce, di volta in volta, a smettere i suoi panni per vestire quelli del pensatore sotterraneo, quelli dell’assassino, nonché della vittima, del volgare frequentatore di bet40 Cf. M. BACHTIN, Dostoevskij. Poetica e stilistica, tr. it. di G. Garritano, Einaudi, Torino 1968, p. 13. 41 Ivi, p. 71. 528 Enrico Sposato tole, del suicida in nome della libertà e del martire in nome di Cristo, del santo e dell’ateo e di altri ancora. Dall’elenco di questi che altro non sono se non personaggi delle varie opere di Dostoevskij, è facile cogliere come ad essere presi in considerazione sono vite e vicende che stanno ai margini di quel pacato, piatto e sicuro procedere esistenziale che caratterizza l’omnitudine. L’attività di Dostoevskij è intesa a portare nella quotidianità di ogni sedicente uomo giusto la tragicità dell’esistenza che sopravvive non solo in colui che ne fa esperienza diretta, ma riguarda ognuno in quanto uomo. Da ciò, come precedentemente accennato, deriva la necessità di acquisire consapevolezza che solo scrutando l’abisso del negativo possiamo riconoscerne la presenza in ognuno di noi. A questo punto torniamo a riformulare una domanda: se è vero che la sperimentazione del male consegna l’uomo ad una più autentica, ricca e veritiera conoscenza di sé, risulta altrettanto verosimile pensare di poter risorgere in una rinnovata dimensione e concezione del bene in seguito a questa esperienza? In altri termini: una volta scandagliato l’inferno del proprio cuore, è davvero possibile conservare quella purezza necessaria per «comparire al cospetto di Dio»? Saremo ancora animati dal desiderio di soggiornare tra le beate schiere del paradiso, o saremo più propensi a chiederci: «Come può esistere il paradiso se esiste l’inferno»? È possibile che il bene possa convivere accanto al male semplicemente? Esiste davvero una netta distinzione tra le due cose? È tramite la dialettica contraddittoria, infinitamente aperta, che si sviluppa nelle sue opere che Dostoevskij cerca delle risposte a tali domande. Attraverso le parole dei suoi personaggi, egli dà vita ad un chiedere che sopravvive tanto al personaggio quanto all’opera, per divenire inquieta riflessione nel pensiero del lettore. Da questo punto di vista ha ragione Nikolaj Berdjajev quando distingue gli uomini in uomini di Dostoevskij ed in uomini estranei al suo spirito. Spesso i lettori di Dostoevskij sono degli ‘ingegneri’ del pensiero, dei Kirillov, ossia persone per le quali, una volta posti determinati interrogativi, non è più possibile collocarsi al di là di essi senza aver dato una soluzione, poiché ciò rappresenterebbe un rinnegare se stessi, un suicidio del pensiero o, quantomeno, di quel pensiero capace di cogliere la profondità e la complessità di determinate problematiche. Come abbiamo già avuto modo di riferire in precedenza, Dostoevskij consacra la sua intera esistenza speculativa al tentativo di fare luce su questioni, a suo parere, imprescindibili: l’esistenza di Dio e del male, la giusti- Il paradiso perduto, ovvero: “una stagione all’inferno” 529 zia, il delitto e il castigo ad esso legato o contenuto nello stesso delitto, la possibilità di redenzione e l’ingiustizia, per alcuni versi, insita in questa possibilità, l’innocenza violata e l’inevitabile caduta. La riflessione su questi ed altri temi, rappresenta per lo scrittore russo l’unico mezzo per poter dire sull’esistenza. È proprio a partire da tali meditazioni, contenute nei suoi scritti, che possiamo delineare dei sentieri guida affatto non definitivi, poiché, come Dostoevskij stesso indica, tutto ciò che pretende di possedere carattere di assolutezza, mente. Abbiamo visto come molti interpreti, nonché lo stesso Dostoevskij, concordano sull’importanza che riveste per l’uomo l’esperienza del male. Alcuni riconoscono, addirittura, in questa sperimentazione l’unica via attraverso la quale è possibile giungere ad una crescita morale dell’individuo. Ma proprio in questa conoscenza sta l’irrimediabile caduta dell’uomo, irrimediabile e tragica, poiché la sperimentazione di questa realtà non scaturisce e non matura da una libera decisione; per l’uomo percorrere la via del male non è un atto di libera volontà, non è il momento di un percorso che può condurlo all’esaltazione ed alla riconquista del bene. No! Esperire il male è per l’uomo una fatale necessità nel senso che il male non rappresenta qualcosa che gli proviene, gli accade dall’esterno; è, bensì, qualcosa di coessenziale alla sua stessa natura. Il male non si impara, poiché non è possibile insegnarlo. Ricordiamo cosa afferma l’anonimo personaggio de Il sogno di un uomo ridicolo: «Li ho corrotti tutti». Egli non sa ben dire come sia successo, ma ricorda chiaramente che ciò è avvenuto. Paragona la diffusione della corruzione ad una epidemia in grado di contagiare una «terra felice ed innocente». Potremmo dire che il contagio tra due o più esseri può avvenire solo qualora si condivida la stessa natura fisiologica o morale, come in questo caso. Il male appartiene all’uomo ed egli ne è l’unica vera causa, nonché il «coefficiente angolare»42, a partire dal quale è possibile interpretarne, di volta in volta, le caratteristiche e le continue, per alcuni versi indistinguibili, commessure con il bene. Prendere coscienza del male vuol dire, in un certo senso, prendere coscienza di parte di sé, come accadde ad Adamo ed Eva, quando improvvisamente si resero conto della loro nudità: «allora si apersero gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi» (Genesi 3,7), 42 Vogliamo tener conto di questa espressione nell’accezione in cui è stata usata da Max Stirner nell’opera del 1845 dal titolo L’unico e la sua proprietà, opera che Dostoevskij conobbe all’epoca delle sue partecipazioni alle riunioni che si tenevano in casa di ButasevicPetrasevskij, e che designa l’angolo da cui ogni individuo scruta il mondo a partire dagli ideali a cui tende a consacrare la propria esistenza. 530 Enrico Sposato una nudità che pre-esisteva alla loro capacità di coglierla sotto una luce impudica. Non Solo. Il carattere del male è tale che una volta sperimentato non permette più un ritorno al bene e all’incolpevolezza, intesa come condizione che precede la caduta. Quest’ultima sancisce l’assoluta impossibilità di essere riconsegnati ad una condizione di completa innocenza, la quale è appunto data dalla non conoscenza del peccato. L’uomo che ha conosciuto la trasgressione diviene incapace di conservare quella purezza e quella semplicità indispensabili per poter tornare a vivere in una condizione paradisiaca che necessita di una veste mentale, nonché spirituale, simile a quella dei fanciulli, i quali non provano pudore per la propria ‘nudità’. Ma è per l’uomo davvero necessario cercare di riconquistare ciò che sembra irrimediabilmente perduto? Una totale ed assoluta innocenza sarebbe per l’uomo auspicabile qualora ciò risultasse realizzabile? Lasciamo rispondere l’uomo ridicolo: Gridai sconvolto da un’irresistibile, entusiastico amore verso la terra natia che avevo lasciato. L’immagine della povera bambina che avevo offeso mi ritornò alla mente [...]. Ormai ci stavamo avvicinando velocemente al pianeta. Lo vedevo ingrandirsi, sempre di più, e intravvedevo già l’oceano e i contorni dell’Europa. Ma stranamente si accese nel mio cuore un sentimento di grande, sacra gelosia: “Com’è possibile che esista una simile copia perfetta, e perché? Io amo, e posso soltanto amare quella Terra che ho lasciato, sulla quale sono rimasti gli schizzi del mio sangue, quando io, ingrato, sparandomi al cuore, ho distrutto la mia vita [...]. Sulla nostra Terra noi riusciamo ad amare veramente solo soffrendo! Noi non siamo capaci di amare in altro modo e non conosciamo altro amore. Io ho bisogno di soffrire per amare. Io voglio e desidero lasciare, subito, ora, con le lacrime agli occhi, soltanto quell’unica terra che ho abbandonato, e non voglio, non accetto di vivere su nessun’altra!...”43. Si avverte qui, chiaramente, la nostalgia per il mondo perduto, un mondo che altro non è se non il luogo in cui si manifesta l’attività emotiva degli individui. È, dunque, nei riguardi di ciò, ossia di come l’essere umano appare caratterizzato nel suo profondo che l’uomo ridicolo prova un sentimento di ‘sacra gelosia’. L’uomo non può e non vuole porsi al di là di sé, della propria natura, poiché ogni tentativo di oltrepassare i limiti che appartengono ad un individuo, restano inscritti nell’ambito di questa stessa natura. Trasgredire ad essa risulta impossibile, poiché ciò significherebbe divenire altro dall’uomo, ossia divenire un Dio; ma, Kirillov ha ampiamen43 F.M. DOSTOEVSKIJ, Il sogno di un uomo ridicolo, cit., pp. 819-820. Il paradiso perduto, ovvero: “una stagione all’inferno” 531 te dimostrato che lottare contro la divinità vuol dire, in ultima analisi, lottare contro se stessi e, dunque, pervenire all’inevitabile annullamento di sé. L’unica vera lotta che l’individuo può sostenere non è quella che dovrebbe innalzarlo al rango di divinità, bensì quella che dovrebbe esaltarlo in quanto individualità unica ed irripetibile e, dunque, contro tutto ciò che tende a privarlo di sé, siano esse sovrastrutture sociali o religiose. È questo l’insegnamento che emerge dalle riflessioni sotterranee dell’anonimo personaggio delle Memorie dal sottosuolo: «l’uomo, sempre e ovunque, chiunque fosse, ha amato agire così come voleva, e non come gli ordinavano la ragione e il tornaconto; infatti si può volere anche contro il proprio tornaconto, anzi talvolta decisamente si deve»44. Lo dimostra, ulteriormente, il fatto che, anche se egli potesse vivere in una condizione di assoluta serenità e benessere, ricoperto di ogni ricchezza ed immerso nei più desiderabili agi, potrebbe, all’improvviso «dare un calcio a tutto ciò», semplicemente per dare sfogo al suo elemento «distruttivo e fantastico». Vi è, dunque, un elemento negativo che costituisce una parte essenziale dell’essere umano. È a partire da ciò che si comprende il concetto di solidarietà nella colpa più volte espresso da Dostoevskij. Essa non consiste esclusivamente nella consapevolezza che: «ognuno è colpevole dinanzi a tutti, per tutti e di tutto»45, non è solo il risultato di una profonda e compassionevole umanità. Non si tratta della solidarietà, spesso confusa con la pietà, che l’«innocente» può provare nei confronti del «colpevole», ossia di colui che si è macchiato di un delitto. No! La solidarietà è dell’uomo per l’uomo nei confronti della possibilità del delitto. Gli effetti del male sono identici sia per colui che lo compie in maniera diretta che per chi ne fa un’esperienza mediata, in quanto solo possedendo nel proprio animo i fermenti della crudeltà possiamo riconoscerne i segni. Ma si comprende come questa straordinaria capacità dell’uomo, qualora dovesse realizzarsi, necessita di una altrettanto eccezionale passaggio, ossia il superamento dell’egotismo e del culto della propria individualità. Non basta negare l’alterità altrui per poter affermare in maniera autentica il proprio Io. A darci una dimostrazione innegabile di ciò e stato l’eroe di Delitto e castigo. Il tentativo da parte di Raskolnikov di oltrepassare la legge, violandola, e porsi egli stesso come legislatore, non è altro che l’espressione di una volontà latente che agisce in lui, ossia una volontà di libertà. Egli vuole dirsi libero e ritiene che ciò sia possibile attraverso la negazione e la sopraffazione dell’Altro, al cui co44 45 F.M. DOSTOEVSKIJ, Memorie dal sottosuolo, cit., pp. 25-26. F.M. DOSTOEVSKIJ, I fratelli Karamazov, cit., p. 400. 532 Enrico Sposato spetto viene messo in discussione il suo stesso esistere: «come se, in presenza d’Altri, il mio evidente diritto all’essere divenisse problematico e come se il mio essere-al-mondo si rivelasse posizione senza fondamento»46. Ma Altri non è il Medesimo, Altri non è l’altro incontrato empiricamente, non è Aliona Ivanovna, ossia la vecchia usuraia che Raskolnikov uccide. No! Altri è ciò che infinitamente trascende questa empiricità. Un’alterità d’Altri che nonostante tutto irrompe in questa dimensione, mantenendo la distanza da essa, non confondendosi con essa. È a partire da questo rapporto tra l’io, in quanto soggetto, e l’alterità d’Altri intesa come ciò che fonda la stessa soggettività trascendendola, non dissolvendosi in essa, che acquista estrema importanza, per lo scrittore russo, la figura di Cristo. L’individuo è tale che, una volta preso coscienza di sé, della propria unicità ed ‘indivisibilità’, non riesce più a porsi al di là di essa. Abbiamo visto come nel racconto dell’uomo ridicolo, prima della contaminazione dal peccato, gli esseri incontrati nel nuovo mondo non operavano alcuna distinzione tra l’io, inteso come soggetto conoscente, e l’altro, non vissuto come soggettività altra, bensì come oggetto di conoscenza. Essi vivevano in una dimensione di profonda unione con il tutto, senza alcuno sforzo particolare, perché di questo tutto si sentivano parte in maniera spontanea e naturale, tale da non aver necessità di produrre una distinzione tra parte e tutto. La coscienza che possedevano di sé corrispondeva con quella della totalità circostante. La perdita di questo modo di sentire è una conseguenza, ma allo stesso tempo una causa di quel culto esasperato della propria persona, della propria individualità ai danni dell’alterità di cui si diviene consapevoli nel momento in cui ci si isola nel proprio io. In questo senso, secondo Dostoevskij, Cristo rappresenta il più alto ideale dell’umanità, in quanto realizzarlo significherebbe trascendere la propria soggettività senza necessariamente smarrirne i contenuti. Secondo questo ideale: «lo scopo dell’uomo consiste nel distruggere questo stesso io, nel donarlo interamente a tutti e a ciascuno indivisibilmente e senza riserve [...]. «In tal modo la legge dell’io si fonde con la legge dell’umanesimo, e in tale fusione entrambi, sia l’io che il tutti (evidentemente, due contrapposizioni estreme), annullandosi reciprocamente l’una in favore dell’altra, raggiungono al tempo stesso il culmine più alto del loro sviluppo individuale ciascuno per proprio conto». Questo stato nel quale la contraddizione è tolta è considerato come “la felicità più sublime”»47. Si tratta 46 J. ROLLAND, Dostoevskij e la questione dell’Altro, tr. it. di A. Dell’Asta, Jaca Book, Milano 1990, p. 37. 47 Ivi, p. 136. Il paradiso perduto, ovvero: “una stagione all’inferno” 533 di percorrere la caduta a ritroso: dall’acquisizione della coscienza di sé come ‘individuo’, alla consacrazione di questa individualità ad Altri, inteso come momento più alto raggiungibile da quell’io che abbia conseguito la pienezza del suo sviluppo. In ciò consiste la straordinarietà della figura di Cristo e del suo insegnamento. «Amare il prossimo come se stessi» è, secondo Dostoevskij, il più alto precetto donato da Cristo all’uomo. Esso non rappresenta esclusivamente un’esaltazione dell’amore come sentimento dal quale non è possibile prescindere per vivere una vita «come la visse colui che morì sulla croce»; costituisce, altresì, un’esortazione alla conoscenza di sé come momento essenziale nella vita di ogni singolo individuo, poiché solo a partire da questa appropriazione di sé, risulta possibile realizzare quell’ideale umano incarnato da Cristo. Egli insegna che: Il «regno dei cieli» è una condizione del cuore – non qualcosa che giunge «oltre la terra» o «dopo la morte» [...]. Il «regno di Dio» non è qualcosa che si attende: non ha un ieri e un dopodomani, non giunge tra «mille anni» – è l’esperienza di un cuore; esiste ovunque e in nessun luogo48. Ed ancora: Questo «lieto messaggero» morì come visse, come aveva insegnato – non per «redimere gli uomini», ma per indicare come si deve vivere. La pratica della vita è ciò che egli ha lasciato in eredità agli uomini: il suo contegno dinanzi ai giudici, agli sgherri, agli accusatori e a ogni specie di calunnia e di scherno – il suo contegno sulla croce. Egli non resiste, non difende il suo diritto, non fa un passo per allontanare da se il punto estremo, fa anzi qualcosa di più, lo provoca... E prega, soffre, ama con loro, in coloro che gli fanno del male... Le parole rivolte al ladrone sulla croce racchiudono in sé l’intero Vangelo. «Questi in verità è stato un uomo divino, un figlio d’Iddio...» – dice il ladrone. «Se tu lo senti» – risponde il redentore – «tu sei in paradiso, anche tu sei un figlio d’Iddio...». Non difendersi, non sdegnarsi, non attribuire responsabilità... Ma neppure resistere al malvagio – amarlo49. Oltrepassare la propria isolata individualità per donarsi agli altri perdendosi in essi ed in essi ritrovarsi per possedersi come ci si possiede nel proprio egotismo, rappresenta il primo passo per giungere all’instaurazione del «paradiso in terra». Possiamo, dunque, affermare, riprendendo gli interrogativi che ci siamo posti in precedenza, che l’esperienza del male risulta necessaria all’uomo, non eludibile, ma non per procedere alla rinascita, al48 49 F. NIETZSCHE, L’Anticristo, tr. it. di F. Masini, Adelphi, Milano 1988, pp. 45-46. Ivi, p. 46. 534 Enrico Sposato la riconquista del paradiso perduto, bensì all’appropriazione autentica di sé, di quella energia vitale che manifesta la sua intensità prescindendo da qualsiasi giudizio di valore, «al di là del bene e del male». Per quanto, tuttavia, queste affermazioni possano sembrare conclusive, esse, in realtà, non fanno che riproporre nuovamente la questione dell’assurdità dell’esistenza. Siamo di fronte a quella che Michail Bachtin definisce «cattiva infinità», ossia quel movimento per il quale non si dà alcuna chiusura esaustiva nella narrazione e nell’esposizione dostoevskiana, non vi è la possibilità di giungere ad una conclusione, ad una cristallizzazione di significato tale da poter ritenere un pensiero compiuto nei suoi aspetti. Attraverso l’analisi dell’esistenza Dostoevskij sente di poter affermare, per mezzo di alcuni dei suoi personaggi, che è possibile per l’uomo realizzare il paradiso in terra, attraverso un dionisiaco perdersi per poi ritrovarsi; dare se stessi al prossimo in quanto è dal prossimo che “ci” riceviamo. Ma è ciò realmente possibile? Il paradiso in terra è ciò a cui l’uomo davvero aspira? Riecheggiano nella mente alcune affermazioni di Dostoevskij che ci pongono di fronte ad una dialettica insormontabile: 16 aprile. Masa è stata deposta sul tavolo. Ci rivedremo mai? Amare il prossimo come se stesso secondo il comandamento di Cristo, non è possibile. La legge dell’individualità sulla terra, l’io è di impedimento... Così l’uomo sulla terra aspira ad un ideale, contrario alla sua natura. Quando l’uomo non adempie la legge dell’aspirazione all’idea, cioè non porta con amore il proprio Io in sacrificio agli uomini o ad un altro essere (io e Masa) egli soffre e chiama questo peccato. E così l’uomo ininterrottamente deve sentire la sofferenza, che è controbilanciata dal paradisiaco adempimento del precetto, cioè dal sacrificio. Questo è il contrappasso terreno. Altrimenti la terra sarebbe stata inconcepibile...50. D’altronde, come affermava l’uomo ridicolo, l’uomo non può amare che soffrendo e, probabilmente, proprio in ciò consiste l’aspetto assurdo dell’esistenza, ossia nella bruciante certezza del fatto che sarebbe possibile realizzare un alto ideale, risulta, anzi, quasi più difficile non realizzarlo: eppure, stranamente ogni cosa, ogni comportamento non fa che allontanarsene irrimediabilmente. Ogni individuo vive nel proprio animo questa abissale ed insuperabile contraddizione. Ecco perché Dostoevskij afferma che «Dio e Satana lottano tra di loro e il campo di battaglia è il cuore dell’uomo»: «Noi non ci realizziamo mai. Siamo due abissi: un pozzo che fissa il cielo»51. 50 51 L.P. GROSSMAN, Dostoevskij, a cura di A. d’Amelia, Samonà e Savelli, Milano 1977, p. 367. F. PESSOA, Il libro dell’inquietudine, cit., p. 139.