FESTIVAL DI ROMA:nuovoTV_Servizi vari

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FESTIVAL DI ROMA:nuovoTV_Servizi vari
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DI
ROMA 2008
Una kermesse
in mutazione
È giunto alla terza edizione quello che da quest’anno, sotto la guida del
nuovo direttore Gian Luigi Rondi, si chiama Festival Internazionale del Film
di Roma. Ma ha emozionato più per gli incontri (Cronenberg, Servillo e
DI MAURIZIO ERMISINO
Verdone su tutti) che per i film.
S
arà forse per il fatto che dalla capitale è
passato, per una mostra e un incontro
con il pubblico, il ‘signore delle mutazioni’ David Cronenberg: ma la rassegna cinematografica di Roma non può non essere
considerata una manifestazione mutante, un
ibrido in costante equilibrio tra la Festa che
era e il Festival che sarà. Nelle due precedenti edizioni aveva una selezione (Première) dedicata ai grandi film in arrivo e agli attori di
richiamo, un concorso non molto importante e una sezione Extra ricca di spunti. Ora la
nuova direzione artistica di Gian Luigi Rondi ha provveduto alla fusione di Première e
Concorso in un’unica selezione ufficiale, anticipando probabilmente il futuro in cui ci sarà
un solo concorso principale, come in molti altri festival. Già per questo motivo quella che
era la ‘festa’ del cinema rischia di perdere la
propria originalità e di conformarsi alla formula standard di altre rassegne esistenti. La
personalità del festival dipenderà dalla direzione che prenderà questa selezione ufficiale:
più spostata verso le anteprime, film di valore con un certo richiamo per il pubblico, o più
verso il concorso, composto da film finto-autoriali che scontentano sia il pubblico sia la
critica, come ne abbiamo visti fin troppi anche quest’anno. La nostra idea è che il Festival di Roma debba spostarsi sempre più verso
le anteprime, anche per differenziarsi da Venezia, e lasciare a questa il ruolo di paladina
del film d’arte vero e proprio. Anche se i confini tra le due tipologie di pellicola sembrano
essere ormai flebili: film come The Wrestler e
The Hurt Locker, visti proprio a Venezia, possono appartenere a buon diritto a entrambe.
Ci fa ben sperare la nomina di Piera Detassis
a coordinatrice della selezione ufficiale: la Direttrice di Ciak ha sempre curato le anteprime, e nessuno meglio di lei sa quali film uniscono qualità artistica e appeal commerciale.
Il regista canadese David Cronenberg (sopra) e
gli attori italiani Toni Servillo e Carlo Verdone
(in basso) sono stati protagonisti di interessanti
incontri con il pubblico nel corso della terza
edizione del Festival di Roma.
In generale, distinzioni tra sezioni a parte, è
stato un festival con pochi grandi film. Non è
una buona annata per il cinema, questo lo sapevamo già, e Roma ha sofferto della stessa carestia artistica che ha condizionato Venezia,
senza neanche offrire però un colpo di coda finale com’era stato appunto al Lido con The
Wrestler. Se non altro, accomunati dall’annata di crisi cinematografica come economica,
Roma e Venezia quest’anno non hanno avuto
le forze per farsi la guerra. Ma se Venezia veleggia verso il futuro con un’identità ben formata e precisa, la giovane kermesse romana deve ancora trovare una personalità ben definita. Quel che è mancato quest’anno è stato un
grande film che caratterizzasse l’evento, come
erano stati nelle prime due edizioni The Departed di Martin Scorsese e Into The Wild di
Sean Penn. Per la cronaca, a vincere sono stati dei film che probabilmente non vedremo
mai in sala. Il premio del pubblico è andato a
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Donatella Finocchiaro, protagonista del film
‘Galantuomini’ di Edoardo Winspeare, ha vinto
il premio come miglior attrice.
Resolution 819 di Giacomo Battiato (ma la pellicola batte bandiera francese e polacca), una
storia che torna sulla guerra dei Balcani per
raccontare il genocidio di Srebrenica, mentre
il Marc’Aurelio d’Oro della giuria è stato vinto da Opium War di Siddiq Barmak, una coproduzione nippo-coreano-afgana, che mostra
due piloti americani abbattuti nel deserto dell’Afghanistan, dove scopriranno il vero paese
e i risultati della guerra.
Se bisogna indicare il vero vincitore del Festival di Roma, questo è senz’altro Mario Sesti.
La sua sezione Extra ci ha regalato le cose migliori della kermesse: gli incontri con David
Cronenberg, Toni Servillo, Carlo Verdone,
Olivier Assayas, Michael Cimino e Al Pacino
sono stati tra i momenti più emozionanti del
Festival. Dalla rassegna esce bene anche il cinema italiano: Galantuomini di Edoardo Winspeare (che ha fatto vincere a Donatella Finocchiaro il premio come miglior attrice) e Il
passato è una terra straniera di Daniele Vicari
sono opere intense e coraggiose, sopra la media della nostra produzione. Ma anche qui c’è
da fare una precisazione: i film italiani, di cui
il nuovo direttore Rondi e il sindaco Alemanno si sono detti più volte paladini, al Festival
del Film di Roma sono stati davvero troppi.
Praticamente tutti i film tricolori in uscita sono stati gettati nel calderone romano, a volte
troppo precipitosamente, con il rischio di non
rivelarsi all’altezza.
I protagonisti
Si fa chiamare Festival, la nuova kermesse, ma
ha ancora (per fortuna) i caratteri della Festa.
L’idea nuova delle scorse edizioni, quella di far
incontrare il pubblico con i grandi del cinema, è apparsa ancor più vincente in un anno
nel quale le pellicole non hanno lasciato il se-
gno. E così, i momenti vincenti e indimenticabili sono stati quelli degli incontri.
Modi gentili, stretta di mano con poca forza
(chi scrive ha avuto la fortuna di stringergliela all’inaugurazione della sua mostra ‘Chromosomes’, al Palazzo delle Esposizioni, che
ferma in un’immagine statica alcuni fotogrammi dei suoi film), occhi di ghiaccio ma
dall’espressione triste, il regista canadese David Cronenberg ha incontrato un pubblico entusiasta spiegando alcune sequenze dei suoi
film e rispondendo a quesiti sull’essenza del
cinema. Come questo: nell’horror fa più paura nascondere o mostrare? “Hitchcock è stato
un maestro nello spaventare senza mostrare
nulla”, ha spiegato il regista, “ma nei suoi film
ci sono anche stupri e strangolamenti: erano i
tempi in cui viveva a imporre di mostrare poco. Far vedere cose orribili significa parlare della realtà. Nei miei film ci sono molti momenti di violenza. Dopo La zona morta in tanti mi
hanno detto che stavo diventando come Hitchcock. Poi ho fatto La mosca: tutti affermavano che era una metafora dell’Aids, io spie-
gavo che c’è un male peggiore, l’invecchiamento e la mortalità del corpo”. Un corpo che
è sempre al centro della poetica di Cronenberg, il primo a pensare alla bellezza interna
del corpo e non solo a quella visibile. Accade
in Inseparabili. “Uno dei gemelli si chiede perché non ci siano gare di bellezza per l’interno
del corpo”, ricorda l’autore canadese. “Non ci
siamo ancora abituati alla totalità di quello che
siamo. Ci sono cose che ci distolgono dal corpo umano: la religione, gli affari, l’arte. Io sono ateo, non credo in una vita dopo la morte. Accettare la propria inesistenza non è facile: è molto più semplice inventare qualcosa
che vada oltre l’esistenza umana. Io mi considero un esistenzialista: l’esistenza umana è quello di cui cerco di parlare. Ma da Inseparabili
fino al recente La promessa dell’assassino, l’attenzione di Cronenberg si è concentrata anche sui mutamenti della mente e non solo su
quelli del corpo. “In Inseparabili si dibatte la
questione dell’identità, come in Spider”, spiega. “È l’essere umano che crea l’identità e la
rielabora continuamente. Ci sono molte persone che perdono la strada della propria identità, come accade con gli schizofrenici”.
L’incontro con Toni Servillo e Carlo Verdone, la strana coppia, si è incentrato su temi
meno inquietanti e ha avuto i toni della commedia. Visti insieme sembravano i protagonisti di un buddy movie, due personaggi capitati per caso in una situazione in cui devono
convivere per forza. E proprio questa potrebbe essere l’idea per un film che, vedendoli discorrere fra loro, abbiamo iniziato a immaginare e a sognare. In comune i due attori hanno molte cose, perché un film comico può anche commuovere e un film drammatico può
far sorridere. Ma sono prima di tutto due interpreti con tempi di recitazione perfetti, come dimostra Verdone ne L’amore è eterno finIl film ‘Resolution 819’ di Giacomo Battiato,
che racconta il genocidio di Srebrenica, ha
vinto il premio del pubblico.
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Foto di Claudio Iannone
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ché dura, da cui era tratta la prima sequenza
scelta da Servillo. “Ci sono comici straordinari, che regalano una risata liberatoria che ci
porta in una zona lontana da quella in cui siamo costretti a vivere”, ha spiegato l’attore di
Afragola. “Ho scoperto Carlo attraverso una
serie di maschere con le quali raccontava una
certa romanità. Ora è un attore che recita per
un superpubblico che sta al suo interno. Non
impone mai sé stesso e non manda mai avanti il personaggio per poi essere costretto a rincorrerlo. Nel mettersi davanti alla macchina
da presa dimostra un’ironia spessa, quella capacità di prendere le distanze dal personaggio
per poi prenderci in trappola”. “Questa riflessione apre nuovi modi di intendere me stesso
e il mio lavoro”, ha commentato Verdone, tra
il commosso e divertito. A proposito di tempi di recitazione, Verdone ha scelto una sequenza tratta dalla registrazione televisiva, curata da Paolo Sorrentino, di Sabato, domenica e lunedi, in cui Servillo fornisce quella che
è forse la miglior versione di un classico di
Eduardo De Filippo dai tempi dell’originale.
“Sono rimasto colpito da questo pezzo perché
il duetto tra Toni Servillo e Anna Bonaiuto è
straordinario. È come una partita a tennis: ti
devono tirare bene la palla e tu devi rispondere”, ha spiegato ammirato il regista romano. “Il miglior attore è quello che sa sostenere i piani d’ascolto”, afferma Verdone. “Non
è facile, bisogna fare dei piccoli gesti per non
rendere statica la propria presenza e per non
rimanere come dei sacchi di patate”. Anche
l’incontro tra Servillo e Verdone è stato un ottimo match: ma a proposito di attori, non dobbiamo dimenticare gli incontri tra il pubblico
e due interpreti amatissimi come Al Pacino e
Viggo Mortensen, e quello con un regista di
culto come Michael Cimino, che ha mostrato e commentato alcune sequenze dei suoi musical preferiti.
In alto, Claudio Bisio e Anita Caprioli in una
scena del film ‘Si può fare’ di Giulio
Manfredonia. Sopra, Monica Bellucci è stata
fra le protagoniste del film ‘L’uomo che ama’ di
Maria Sole Tognazzi. Sotto, una scena di ‘Un
gioco da ragazze’, pellicola d’esordio di
Matteo Rovere.
Il cinema italiano che vince
È stato un festival decisamente all’insegna del
cinema italiano. Un cinema con luci e ombre,
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con opere coraggiose e ricche di personalità,
ma anche con molti film sopravvalutati. Le luci si chiamano Edoardo Winspeare e Daniele
Vicari. I loro lungometraggi, rispettivamente
Galantuomini e Il passato è una terra straniera,
entrambi girati in Puglia (che sta diventando
una location sempre più importante per il cinema, grazie all’ottimo lavoro della Apulia
Film Commission), vantano una forza fuori
dal comune per quel che riguarda le produzioni nostrane.
In Galantuomini ci troviamo in un paesino del
Salento: siamo agli inizi degli anni ‘90, e tre
bambini che da piccoli giocavano assieme ora
sono cresciuti: Ignazio è un magistrato che torna a Lecce dopo essere stato a Milano, Lucia
è il braccio destro di un capomafia, Fabio è
morto di overdose. Nel frattempo è nata la Sacra Corona Unita, la più celebre associazione
mafiosa pugliese. Ignazio e Lucia sono affezionati, legati, attratti l’uno dall’altra, ma si
trovano su sponde opposte. La situazione impone delle scelte, fa vacillare le proprie convinzioni. È un film di mafia, Galantuomini,
ma soprattutto un intenso melodramma, in
cui l’oggetto del proprio desiderio è continuamente allontanato o negato. Un misurato
Fabrizio Gifuni e una caleidoscopica Donatella Finocchiaro, ora dolente, ora crudele, ora
sensualissima, sono l’anima del film. “È l’attrice più emozionante d’Italia”, ha raccontato
Winspeare. “È venuta nel Salento, ha lavorato moltissimo sulla lingua, ha visto le movenze delle donne del posto. Ha la postura della
donna mediterranea, potrebbe essere una stella del cinema iraniano o anche una nostra diva degli anni ’50. Può essere bella e dolce, ma
anche dura e spietata”. E poi c’è il tocco di
Winspeare, maestro nel raccontare luci e colori del suo Salento. “La mia terra è molto importante, ci sono molto legato: è il mio palcoscenico”, ha spiegato il regista. “La conosco
bene: il dialetto, la forma, le movenze della
gente, le facce. L’importante per me è raccontare sentimenti universali. Tolstoj diceva:
racconta il tuo villaggio e racconterai il mon-
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Michele Riondino ed Elio Germano, interpreti
de ‘Il passato è una terra straniera’ di Daniele
Vicari, uno dei film più apprezzati durante la
kermesse romana.
do”.
Da Lecce a Bari, per una storia di… bari. Giorgio incontra Francesco a una festa, e da quel
momento viene trascinato in una discesa agli
inferi, fatta di poker, truffe e cocaina, che ne
libera gli istinti più bassi. Tutto viene narrato
in un lungo flashback, grazie all’incontro con
una ragazza. Giorgio nel frattempo è diventato un magistrato e ha rimosso l’accaduto. Per
lui il passato è una terra straniera. Daniele Vicari adatta per lo schermo il romanzo di Gianrico Carofiglio: il risultato è un film rabbioso,
non conciliante, viscerale. Il ricordo, per sua
natura, è soggettivo, confuso, sfumato: Vicari gira in modo da distorcere i contorni delle
immagini, sfocandole e giocando con i suoni
per creare un effetto disturbante, alla Lynch.
“Il romanzo è scritto in prima persona: ma la
voce fuori campo per me non funzionava”, ha
svelato Vicari. “Ho deciso di raccontare per
immagini questo sprofondare del personaggio
in sé stesso: quando ricordiamo qualcosa di rimosso lo facciamo in modo non chiaro, confuso. Al cinema non abbiamo odori e sapori
per ricreare le emozioni, ma abbiamo il sonoro. E abbiamo utilizzato il formato anamorfico in maniera scorretta: mettendo gli obiettivi a distanza sbagliata abbiamo distorto i contorni dell’immagine. Abbiamo anche collocato dei pezzi di vetro davanti alla lente per rendere il tutto più confuso”. È una storia di cattive compagnie, con echi di Dostoevskij, sostenuta dalle interpretazioni di Elio Germano
e Michele Riondino, ambentata in una Bari
notturna e misteriosa. “Come tantissime città
europee, in particolare del Mediterraneo, Bari ha una duplice natura: è una città moderna
e dinamica, e conserva, in modo visibile, il
proprio passato”, ha raccontato il regista. “E
questa duplicità è facile da trasformare in ambiguità: si possono fare giochi di luce con gli
ambienti. Ci sono case borghesi che sono eclatanti e contrastano in maniera incredibile con
i sottani, le case che stanno al pianterreno”.
Dopo le luci, ecco le ombre
Ma per un cinema italiano che convince, c’è
anche quello che ci ha lasciati perplessi. Non
è il caso di Si può fare di Giulio Manfredonia,
con Claudio Bisio, storia di un sindacalista che
va a dirigere una cooperativa di disabili mentali nella Milano da bere e degli stilisti in ascesa degli anni ’80: erano anche gli anni della
legge Basaglia sulla chiusura dei manicomi e
sul reinserimento sociale dei disabili grazie al
lavoro. ‘Si può fare’ ogni tipo di lavoro, anche
per chi ha dei disagi. ‘Si può fare’ anche un
film che parla di temi seri riuscendo a far sorridere, commuovere, partecipare.
Delude invece L’uomo che ama, di Maria Sole Tognazzi. Scene di vita di coppia in un interno. È settembre. un uomo e una donna si
amano (stanno insieme da sei mesi), fanno l’amore e compiono piccoli gesti quotidiani. Lui
però scopre un tradimento, qualcosa si rompe irrimediabilmente, i due si lasciano. Marzo: lui ha un’altra donna, con cui sta cercando casa e anche di fare un figlio. Sembra feli-
ce, ma qualcosa lo tormenta: non riesce a dormire la notte. Capirà che non ama la sua compagna e deciderà di lasciarla. Il film di Maria
Sole Tognazzi coglie il jolly nella scelta del suo
protagonista: Pierfrancesco Favino è l’attore
perfetto per rendere l’idea di un uomo sfaccettato, sensuale e maschile ma con una profonda sensibilità, parente stretto del protagonista
di Saturno contro. Ed è proprio la sua interpretazione a tenere a galla un film che ha parecchie falle, soprattutto a livello di sceneggiatura. Ma quella che manca, nonostante gli
ottimi attori (accanto a Favino ci sono la ‘sconosciuta’ Ksenia Rappoport e una dignitosa
Monica Bellucci), è la chimica tra gli amanti.
Le scene di coppia non raggiungono mai quella verità e quella naturalezza che richiederebbe un film come questo. L’uomo che ama è
una pellicola che riesce a stupire solo in un’occasione, nel finale, giocando sui diversi piani
temporali. È una scelta che ha l’effetto di dare un sussulto allo spettatore e di spiegare la
ciclicità dell’amore e della sofferenza, ma che
sa di furbo e di posticcio, come se fosse stata
messa lì per dare movimento a un film che è,
e rimane, piuttosto statico. Brutta figura anche per un altro figlio d’arte, Brando De Sica
(figlio di Christian e nipote di Vittorio): il suo
Parlami di me altro non è che la ripresa di uno
spettacolo teatrale del padre. Il risultato è mediocre, ma in questo caso la colpa non è tanto di De Sica jr. quanto di chi ha selezionato
questo film per la sezione competitiva delle
Anteprime.
Dalla padella alla brace: Un gioco da ragazze,
film d’esordio di Matteo Rovere, viene presentato addirittura in concorso, con la promessa di mostrare uno spaccato della vita dei
giovani d’oggi. In una città di provincia (siamo a Lucca) tre ragazze ricche, belle e viziate
fanno a scuola il bello e il cattivo tempo. L’amore, le feste, i rapporti umani: per loro tutUna scena di ‘Parlez-moi de la pluie’ della
regista francese Agnès Jaoui, con Jamel
Debbouze e Jean-Pierre Bacri.
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to è un gioco, tanto sono abili a manipolare
chi si avvicina a loro. E così anche il nuovo
professore di lettere diventa parte di questo
gioco, destinato a finire male. Matteo Rovere
gira bene alcune sequenze, come quelle in discoteca, alle feste, e una scena shock di bullismo al femminile nello spogliatoio della palestra. Ma il film vive fondamentalmente su un
equivoco: nasce come una storia noir (il romanzo di Andrea Cotti è edito da Mondadori nella collana Colorado Noir, che pubblica
anche i romanzi di Sandrone Dazieri, qui cosceneggiatore) e nella prima parte viene presentato come spaccato sociologico. Quando
vira verso il thriller lo fa troppo bruscamente,
con cadute di tono e umorismo involontario.
Rovere non riesce a valorizzare gli attori adulti (da Filippo Nigro a Valentina Carnelutti)
mentre lavora benino con le ragazze, tra le quali spicca il corpo e il volto di Chiara Chiti, di
cui forse risentiremo parlare. Ma il peggio deve ancora arrivare: si tratta de Il sangue dei vinti, oggettivamente una delle pellicole più brutte della rassegna. Nato come tv movie e tratto da un saggio di Giampaolo Pansa, il film
(ma è veramente difficile definirlo tale) racconta la Resistenza mostrando anche, e soprattutto, gli orrori perpetrati dai partigiani.
È stato osteggiato fin dall’inizio perché tacciato di revisionismo storico: ma la colpa dell’opera di Michele Soavi non è tanto questa,
quanto una sciatteria che va dalla sceneggiatura al livello visivo dell’opera, dalle enormi
incongruenze narrative fino alla recitazione di
tutti gli attori.
Dall’alto: Colin Farrell ed Edward Norton in ‘Pride and Glory’ di Gavin O’Connor; Moritz Bleibtreu
e Johanna Wokalek in ‘La banda Baader-Meinhof’ di Uli Edel; Keira Knightley in ‘The Duchess’ di
Saul Dibb.
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Le anteprime e i gioielli
Da tradizione, il Festival di Roma è anche una
vetrina per molti film internazionali. Come
detto in apertura, quest’anno sono mancati i
capolavori. Non ci sono stati dei nuovi The
Departed o Into The Wild, ma neanche opere
paragonabili a The Prestige, Onora il padre e la
madre o Juno, per citare alcuni dei titoli di ‘prestigio’ che la kermesse romana aveva sfornato
nelle passate edizioni. Qualcosa di buono, comunque, si è visto. A partire da La banda Baader-Meinhof, che ci ha ricordato come anche
la Germania abbia avuto i suoi anni di piombo: Uli Edel (Christiane F – Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino) racconta l’onda lunga che dal
’68 portò alla lotta armata e al terrorismo internazionale. Il cinema tedesco fa ancora i conti con il proprio passato (La caduta, Le vite degli altri), ma evitando la claustrofobia da kammerspiel dei film precedenti: il lungometraggio di Edel è potente e adrenalinico, puro cinema di genere con un’anima al suo interno.
Quella che non possiede Pride and Glory di
Gavin O’Connor, una storia che al cinema è
stata già raccontata mille volte, l’ultima ne I
padroni della notte. L’onore e la gloria sono i
valori fondanti della famiglia: ma quale famiglia? Quella di sangue, che unisce i padri ai figli, o quella della polizia, che si stringe coesa
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La giuria ha attribuito il Marc’Aurelio d’Oro alla
pellicola ‘Opium War’, diretta da Siddiq
Barmak e ambientata durante la guerra in
Afghanistan.
al proprio interno? Le due istituzioni si confondono, si sovrappongono e si contrappongono.
È proprio la confusione tra le due ‘famiglie’ a
far sì che queste si disgreghino. Pride and Glory
parte in maniera convenzionale ma cresce arrivando a un finale inaspettato e notevole. È
un lavoro dove le costruzioni delle psicologie
dei personaggi e le loro interpretazioni (il solito, immenso Edward Norton su tutti, poi
Colin Farrell e Jon Voight) sono migliori dell’intreccio. È un film fatto con orgoglio, ma
senza gloria.
Piuttosto di maniera, anche se raffinato e godibile, è La duchessa di Saul Dibb: narra la storia di Georgiana Spencer, vissuta alla fine del
Settecento, antenata della famosa e sfortunata Lady Diana Spencer. Il film racconta il suo
matrimonio – contratto da giovanissima – con
il Duca di Devonshire; il suo amore – corrisposto ma osteggiato – per il Conte Gray; e il
ménage a trois con il marito e la sua migliore
amica, Bess. Il regista sceglie di raccontare una
storia del passato per parlare anche del pre-
sente. La chiave di lettura più interessante per
comprendere il film sembra essere proprio questa: Georgiana e Diana sono vittime dello stesso destino, a secoli di distanza, come se la maledizione fosse destinata a ripetersi, secondo
una concezione ciclica della storia. Come tutti i film in costume, però, è caratterizzato da
una certa formalità e prevedibilità. Ogni film
di questo tipo sembra già essere stato fatto e
rischia di rimanere schiacciato, senza una personalità definita, tra quelli che sono i due ‘estremi’ nell’approccio al genere: Barry Lindon, il
capolavoro filologico e rigoroso di Kubrick, e
Marie Antoinette, una rilettura personale e libera dei fatti storici con elementi anacronistici. Ha personalità da vendere invece Parlezmoi de la pluie di Agnès Jaoui, storia di un regista fallito che deve girare un documentario
sulle donne in carriera. Inizia così a seguire come un’ombra Agathe, femminista convinta,
da poco entrata in politica. Come gli altri film
della Jaoui, anche questo presenta dialoghi divertenti, sagaci, sottili, delicati e mai volgari.
La sua è una scrittura in punta di penna, che
non sbaglia un colpo (avercene di sceneggiatori così per le nostre commedie!), e che riesce, nella sua leggerezza, ad andare in profondità e a parlarci di noi. La Jaoui è una piccola Woody Allen perché racconta i nostri tic, le
nostre debolezze, i vezzi e le fragilità che appartengono ai suoi personaggi come a tutti
noi. Il suo film parla dell’incomunicabilità di
oggi, un’incomunicabilità che viene dal tempo, di cui ne abbiamo sempre meno. Lo script
lo spiega attraverso gli oggetti: occhiali e batterie che si perdono, telefonini che non hanno campo, e così via.
Delusione invece per Rocknrolla di Guy Ritchie, negli ultimi anni noto più come (ormai
ex) marito di Madonna che come regista. Ritchie ha scelto di tornare nella sua Londra per
raccontare com’è cambiata in questi ultimi anni. È proprio questo lo spunto del film che interessa e che funziona. Come non vedere nel
magnate russo che riceve i suoi partner in affari nello stadio della sua squadra, quel Roman Abramovich che ha scompaginato il calcio inglese ed europeo acquistando il Chelsea?
E nella rockstar che tutti credono morto, ma
che si rialza ogni volta dalle sue ceneri, il chitarrista tossico-glam Pete Doherty dei Babyshambles? Tra ovvie verità, come quella che
“un rocker vale di più da morto”, e rigurgiti
di omofobia e xenofobia, sintomo di una società in decadenza com’è l’occidente di questo inizio di millennio, Ritchie prova a girare
un film a metà strada tra Tarantino e Trainspotting, non riuscendo a raggiungere i suoi
obiettivi. Se i ‘tarantinismi’ si notano parecchio (la danza buffa tra Gerard Butler e Thandie Newton che richiama quella tra Travolta e
la Thurman in Pulp Fiction, le scritte in sovrimpressione), anche il modello Trainspotting è presente (Gun di Lou Reed per raccontare la dipendenza dalla droga, dove il film di
Boyle usava Perfect Day).
Chiudiamo con la sezione Extra che, oltre agli
incontri, anche tra i film ci ha regalato perle
come Martyrs, probabilmente l’horror dell’anno; come Man On Wire, documentario costruito come un film di rapina; e come 9,99
Dollars, un film in stop motion sul senso della vita, dopo qualche minuto del quale si dimentica che si stanno guardando pupazzi di
plastilina e si pensa di assistere a una pellicola con persone vere. Mantenere in vita e potenziare questa sezione sarà una di quelle scelte da fare assolutamente per sostenere un festival ancora in cerca di un’identità, in contiAl Pacino firma autografi sul red carpet. L’attore
italo-americano ha partecipato agli incontri
della sezione Extra, diretta da Mario Sesti.
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