Desideri infiniti ovvero il desiderio della felicità

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Desideri infiniti ovvero il desiderio della felicità
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PRIMO CLASSIFICATO
SEZIONE TESINA BIENNIO
Desideri infiniti
ovvero
il desiderio della felicità
di Francesco Bresciani, Marco Gardelli, Giacomo Menichetti, Veronica Valbonesi,
Matteo Venditto
Classe II B Igea, I.T.C. "C. Matteucci", Forlì
Coordinatore: Prof.ssa Giovanna Fabbri
“L'anima umana... desidera sempre essenzialmente, e mira unicamente, benché sotto
mille aspetti, al piacere, ossia alla felicità, che considerandola bene, è tutt'uno col piacere”
(Zibaldone)
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uesto passo dello Zibaldone ci sembra sintetizzi molto efficacemente l'aspetto della
poesia di Leopardi che più ci ha colpito, e che abbiamo cercato di verificare
attraverso l'analisi di alcune opere: i desideri infiniti ovvero il desiderio della felicità.
Dalla lettura e comprensione dei testi siamo passati a un tentativo di confronto con la
nostra esperienza personale e abbiamo verificato che tutti ci poniamo delle domande sulla
vita e che tutti gli esseri umani desiderano la felicità.
La ricerca del poeta è difficile, lunga, deludente a volte; cerca un amore perfetto, una
donna ideale, il piacere, l'infinito che nel mondo non c'è, ma non si arrende.
“Se tu desideri un cavallo, ti pare di desiderarlo come cavallo e come un tal piacere, ma in
fatti lo desideri come piacere astratto e illimitato. Quando giungi a possedere il cavallo,
trovi un piacere necessariamente circoscritto e senti un vuoto nell'anima, perché quel
desiderio che tu avevi effettivamente non resta pago.” (Zibaldone)
Come risulta da questo passo i desideri infiniti portano ad avvertire che tutto è inadeguato
e che c'è sempre una sproporzione fra ciò che otteniamo e ciò che cerchiamo, perché
aspiriamo a qualcosa di tanto grande che si può essere solo in grado di immaginare, a cui
però si tende sempre.
“Il fatto è che quando l'anima desidera una cosa piacevole, desidera la soddisfazione di un
suo desiderio infinito, desidera veramente il piacere, e non un tal piacere..... E perciò tutti i
piaceri devono essere misti di dispiacere, come proviamo, perché l'anima nell'ottenerli
cerca avidamente quello che non può trovare, cioè una infinità di piacere, ossia la
soddisfazione di un desiderio illimitato.” (Zibaldone)
Spesso, nel percorso della sua ricerca, nel quale ci siamo riconosciuti, il poeta sceglie la
solitudine, come abbiamo avuto modo di verificare, oppure privilegia alcuni interlocutori,
come ad esempio la luna o la donna, ai quali affida i suoi interrogativi, le sue domande
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universali. Temi ricorrenti nel suo itinerario sono: l'attesa, l'insoddisfazione, le false
speranze.
Abbiamo cercato di seguire il percorso dell'autore analizzando alcuni testi che ci sono
sembrati particolarmente esplicativi in questo senso. Siamo partiti da poesie come
L'infinito, La sera del dì di festa, Alla sua donna, per passare poi a A Silvia, Il Canto
notturno di un pastore errante dell'Asia, Il sabato del villaggio, Il passero solitario,
affiancando alla lettura dei versi quella di alcuni passi dello Zibaldone che ci hanno aiutato
ad approfondire la comprensione del pensiero del poeta.
L'INFINITO
N
e L’infinito Leopardi descrive il colle, vicino al palazzo paterno, in cui lui amava
recarsi a passeggiare, qui il suo sguardo veniva limitato da una siepe che gli
impediva di osservare l’orizzonte.
Quindi il poeta prova a immaginare cosa c'è al di là della siepe e oltre l’orizzonte,
immagina l’infinito, una vastità illimitata, nella quale si confonde quasi col nulla, si trova
smarrito e si lascia naufragare tra fantasia e realtà, in un mare composto da fantasia e
ragione.
Ci è sembrato che le parole scritte da Leopardi in un brano dello Zibaldone ci possano
aiutare a tentare di capire di più la sua esperienza: “Alle volte l'anima desidera
effettivamente una veduta ristretta e confinata in certi modi, come nelle situazioni
romantiche. La cagione è la stessa, cioè il desiderio dell'infinito, perché allora in luogo
della vista, lavora l'immaginazione e il fantastico sottentra al reale. L'anima si immagina
quel che non vede, che quell'albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando
in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe, se la sua vista si
estendesse da per tutto, perché il reale escluderebbe l'immaginario”.
Il poeta quindi immagina uno spazio infinito in cui “navigare” con la mente e trovare uno
spiraglio di serenità rispetto alla vita di tutti i giorni, che si sviluppa con un ciclo
“meccanico” e in definitiva “ripetitivo”; egli desidera qualcosa di “diverso”, un
cambiamento. Trova dolce e piacevole immergersi nel mare dell'infinito che la sua mente
ricrea mediante percezioni fisiche (quali la vista in particolare) che lo aiutano a dimenticare
il presente e astrarsi temporaneamente dalla realtà. Tuttavia mette in risalto anche la
sproporzione dell’uomo di fronte alla percezione dell’infinito, perché si sente piccolo al
cospetto di qualcosa di sconfinato e quasi si perde nel cercare di percepire l’immensità,
perché la mente può conoscere pienamente solo le cose misurabili.
Il dolore è la reazione dell’uomo quando riconosce che è vero quello che il suo cuore non
può accettare: cioè che il nulla vince e non vi si può opporre.
Leopardi esprime perfettamente un sentimento che è normalmente riscontrabile nelle
persone di tutti i tempi, che si prova innumerevoli volte nel corso della vita, quel desiderio
di infinito che fa star male e dal quale nasce l'insoddisfazione.
Ogni persona desidera incondizionatamente la felicità, ma quando si desidera una cosa
(materiale o non) e la si ottiene, la felicità è un attimo che sfugge prima ancora che lo si
possa assaporare, e comunque spesso il grado di felicità che si ottiene è inferiore alle
aspettative e dura il tempo necessario per desiderare qualcos’altro, in un ciclo infinito di
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desideri, insoddisfazioni e delusioni, perché il cuore umano punta a ciò che sulla terra non
esiste: la felicità infinita, eterna.
Ci si può perdere nell’infinito, con la mente che “naviga” tra mille illusioni in un mare senza
orizzonti, in una immensità sia spaziale che temporale.
Si vorrebbe che tutte le aspettative venissero realizzate, ma anche quando ci si accorge
che ciò è impossibile, come accade a Leopardi, si continua a cercare qualcosa di più, ma
non basta cercare, non basta sperare, né desiderare, e tuttavia questo atteggiamento
contraddistingue gli uomini e li rende “vivi”.
LA SERA DEL DÌ DI FESTA
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uesto idillio, scritto probabilmente nel 1820, descrive la sera della domenica in
paese, quando la festa è ormai passata e propone con intensità il dramma
dell'incapacità del poeta di partecipare alla vita.
La poesia si apre con un notturno lunare, in cui il poeta descrive il paesaggio che vede
dalla casa paterna; lo descrive come un paesaggio calmo e sereno che, illuminato dalla
chiara luce della luna, infonde tranquillità.
Dopo questa descrizione, il poeta si rivolge idealmente ad una donna, che lui ha notato
durante la festa, ma dalla quale non è stato ricambiato. Lei dorme, è felice e non ha
pensieri, ma non sa che ha provocato una ferita, un forte dolore nel poeta, una delusione
che lo attanaglia e gli fa provare una tristezza inquieta. Questi sentimenti lo portano a fare
un confronto tra lui e questa donna: mentre lei dorme, lui non ha pace, si affaccia a
guardare il cielo e rivolge una riflessione alla natura creatrice (a cui spesso pone i suoi
interrogativi), che lo porta a concludere che lui è stato creato solo per soffrire e piangere e
gli è stata tolta ogni possibilità di speranza.
Da questo pensiero affiora un forte travaglio per la differenza fra la sua condizione e quella
della donna amata: lei è tranquilla e dorme, mentre lui non smette di pensare a lei e non
riesce a dormire, perché soffre pensando al fatto che lei non lo ha degnato di uno sguardo.
Infatti il poeta scrive che mentre lei dorme, forse sta sognando tutti gli ammiratori dai quali
durante la festa è stata corteggiata e che le sono piaciuti, ma sa benissimo che lui non
apparirà mai nei suoi sogni. Avverte la condizione straziante dell'escluso a cui la natura
non concede di provare il fascino dell'amore.
Ed è proprio questo che fa stare male l’autore, il quale manifesta dei segni di ribellione, di
sfogo (“e qui per terra mi getto, e grido, e fremo”).
Ad un certo punto però sente per la via il canto dell’artigiano e fa una riflessione di
carattere esistenziale, esce dal suo particolare: pensa al fatto che tutto al mondo passa e
non lascia traccia, pensa a come tutto ciò che l’uomo fa, compiendo anche dei sacrifici, in
fondo è nulla. Se nessuno ricorda più nemmeno le imprese dell’antica Roma, allora è
evidente che nessuno può essere ricordato per sempre e non può lasciare un segno che
resti per sempre, eppure lui desidera l'eternità, l'amore assoluto. Leopardi è talmente
addolorato che “gli si stringe il core” a pensare come tutto nella vita passa.
I motivi per cui questa affermazione viene fatta possono essere molti: il poeta non si è
divertito durante la festa e gli altri sì, lui non è stato degnato di uno sguardo dalla donna
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amata, è già finito il giorno di festa... quest'ultima riflessione è senz’altro il motivo più forte
di questa “fitta” che sente. La poesia termina con un ricordo di quando era piccolo e la
domenica sera in casa, quando era passato il giorno festivo, lui non riusciva a dormire e
soffocava un pianto silenzioso nel cuscino, e sentendo un canto che si allontanava e piano
piano scompariva, dice l’autore, “già similmente si stringeva il core” pensando alla fragilità
e alla precarietà della vita. Questa è un’espressione talmente forte che secondo noi non
può essere spiegata e deve essere citata così come è scritta; si può solo avvertire una
corrispondenza nell'esperienza personale .
Ciò che ci sorprende molto di questo poeta, è il fatto che le sue esperienze ricorrono nella
vita di tutti. I suoi testi sono di un profondo realismo, perché riesce a esprimere sentimenti
e desideri che si possono verificare nella realtà, come ad esempio il desiderio di
corrispondenza da parte della donna amata. Tuttavia la mancata corrispondenza lo porta
continuamente a rilanciare, a porsi interrogativi ulteriori, a cercare qualcosa di più grande.
Benché venga definito pessimista, ci sentiamo di sostenere invece che è realistico.
Gli elementi più significativi di questa poesia sono: il confronto tra lui e la donna, il
passaggio dalla calma (la descrizione del paesaggio iniziale) all’agitazione (l’atto di sfogo
del poeta), ma anche la forte sensibilità dell’autore verso il fatto che niente al mondo lascia
un segno duraturo nel tempo, che si contrappone al suo desiderio di infinito. Nel corso di
tutta la vita egli tuttavia ha sempre continuato a cercare delle risposte alle sue domande
sull’esistenza dell’uomo e sul suo significato.
ALLA SUA DONNA
N
ella poesia Alla sua donna, ci siamo soffermati in particolare sull'uso che Leopardi fa
di alcuni aggettivi abbinati a certi sostantivi per definire la sua situazione esistenziale,
in relazione al desiderio di incontrare la donna amata.
Definisce la sorte “avara”, ovvero pensa che il destino sia crudele e responsabile del fatto
che lui non può vedere la Bellezza, che conserverà per gli uomini del futuro. La Bellezza è
forse un’idea eterna che non prende forma e quindi non può provare i dolori e gli affanni di
chi vive la vita mortale.
L’autore sa che non potrà mai vedere la donna a cui si rivolge, vorrebbe almeno
immaginarla per potersi rallegrare della sua immagine anche in quei tempi di oscurità in
cui vive(secol tetro) e in quell'aria irrespirabile (aer nefando).
A Leopardi perciò non rimane che la speranza di poterla incontrare, un giorno in un luogo
sconosciuto, che percorrerà pensando che lei gli indicherà la strada e lo accompagnerà su
quel suolo arido. L'espressione “arido suolo” indica proprio la sua visione del mondo, che
paragona a un terreno piatto, inanimato, privo di vita, in cui non cresce nulla.
Il destino infatti non vuole dare agli uomini finché sono in vita, il conforto della presenza
della Bellezza, mentre se essa avesse potuto manifestarsi, l'esistenza mortale sarebbe
stata come quella degli dei.
Leopardi ripensa ai desideri e alle speranze che aveva in passato, mentre poi tutto è
andato perduto; in tempi bui e in un'aria irrespirabile, si accontenterà dell'immagine che ha
della Bellezza, se non gli sarà permesso di vederla dal vero.
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La poesia si conclude come fosse una lettera che Leopardi scrive alla Bellezza, nella
quale si descrive come un innamorato che lei non conosce e che proviene da un mondo in
cui gli anni sono brevi e dolorosi, dove il tempo passa in fretta e non resta orma del
passato. Un concetto che emerge anche ne La sera del dì di festa.
Leopardi in fine si firma con il nome di “ignoto amante” e manda questa “lettera” alla donna
che lui immagina in un mondo in cui vive una vita felice.
Ricordando i sogni che aveva da giovane rimpiange la sua capacità di desiderare
qualcosa (i perduti desiri) e la speranza, anch’essa perduta. Si lamenta e cita le valli dove
si odono i canti degli agricoltori e dove lui sta seduto a rimpiangere i sogni non realizzati
che aveva da ragazzo, e che adesso non ha più. Tra queste colline ricorda i desideri che
crescendo ha perduto e non può più sperare di vederli esauditi, perché appunto è
cresciuto e l' età fiorita della vita, l'età della speranza è terminata.
I “perduti desiri” sono le aspettative che per lui sono ormai andate perdute, come anche la
speranza, “perduta speme”, che vacilla fra delusioni e l'impossibilità di trovare un senso
alla vita, di dare un senso a quelli che altrimenti sarebbero stati “anni infausti e brevi”, anni
brevi, segnati dalla sventura e senza felicità, anni nei quali per il poeta le giornate
sarebbero trascorse “incerte e brune”.
Sembra quasi che l’autore stia intravedendo le nere nuvole all’orizzonte come una
metafora del futuro che l'attende. Le giornate sono scure e senza alcuna certezza, come
accade nella nostra “mortal vita o funerea vita” che termina inesorabilmente con la morte,
dopo la quale non si hanno certezze su cosa ci accadrà.
Egli descrive il tempo in cui vive molto lucidamente, per lui l’aria è simbolicamente
irrespirabile “l’aer nefando”, si sente oppresso dal modo di pensare delle persone e in
quell’ambiente per lui è difficile vivere, definisce infatti il suo tempo il “secol tetro” cioè
buio, senza speranze, nel quale per riuscire a resistere, bisognerebbe avere qualcosa che
dia un senso forte all'esistenza, oppure si rischia di trascorrere una vita incerta, scura,
senza speranze e senza felicità.
A SILVIA
L
a poesia A Silvia è un canto scritto da Leopardi nel 1828 dedicato probabilmente a
una ragazza che il poeta realmente conobbe, forse Teresa Fattorini, figlia del
cocchiere di casa Leopardi, morta giovane. Nella poesia Silvia non rappresenta tanto
la donna amata dal poeta, ma diventa il simbolo delle speranze e aspettative giovanili che
non solo lui, ma tutte le persone vedono svanire nel tempo col sopraggiungere dell’età
adulta. Dopo la morte della ragazza Leopardi prova una profonda delusione e si sente
ingannato dalla Natura, uno dei suoi interlocutori ricorrenti, che resta indifferente di fronte
all’infelicità dell’uomo, perché lascia che speri, ma poi delude le aspettative. Così Leopardi
negli ultimi versi della poesia pone alla Natura un triste interrogativo: domanda a
quest’ultima se la verità è che le speranze inesorabilmente svaniscono quando, insieme
all’età adulta, arriva la consapevolezza di ciò che la vita è veramente, (il “vero”), e insieme
alle speranze svaniscono anche i sogni e le illusioni che aiutano a vivere, così della vita
restano solo il dolore e infine la morte.
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Nei primi cinque versi il poeta instaura un dialogo con Silvia domandandole se ricorda il
tempo passato quando era ancora nella sua giovane età, e la bellezza traspariva dai suoi
occhi, “occhi ridenti e fuggitivi”, e quando “lieta e pensosa” trascorreva la giovinezza.
Nei successivi otto versi Leopardi descrive l’ambiente circostante fornendo elementi uditivi
(“…al tuo perpetuo canto…”) e olfattivi (“…il maggio odoroso…”) con un'alternanza del
referente ambiente/ragazza.
Dal verso quindicesimo fino al ventiduesimo il poeta non descrive più l’universo di Silvia
ma il suo, facendo riferimento agli studi che gli erano molto cari (“…gli studi leggiadri…”) e
alle “carte” sulle quali passava molto tempo e faticava molto (“…le sudate carte…”), studi
che però ogni tanto interrompeva per recarsi sulla terrazza della casa paterna dalla quale
si soffermava ad ascoltare il canto di Silvia e il rumore del telaio al quale lei lavorava.
Dal verso ventiduesimo fino al verso venticinquesimo Leopardi descrive ciò che vede
affacciandosi dalla terrazza della casa paterna. Il verso ventiduesimo inizia con il verbo
mirare (“…miravo il ciel sereno…”) che per lui ha un significato molto profondo; non
intende questo verbo come il semplice osservare limitandosi alla visione dell'aspetto
esteriore, ma osservare riflettendo e guardandosi dentro. Oltre al cielo, dalla terrazza può
vedere “le vie dorate”, “gli orti”, poi in lontananza, da una parte il mare, dall’altra le
montagne.
Il poeta davanti al canto della ragazza e alla visione della natura non sa come esprimere il
sentimento che prova, come scrive nei versi ventisei e ventisette “…lingua mortal non dice
/ quel ch’io sentivo in seno…”, perché la dimensione nella quale il poeta è immerso non e
più solamente quella reale, nella quale la ragazza è fisicamente presente, ma è un luogo
idealizzato, in cui ella diviene l'idea stessa dell'amore e della vita. Infatti Silvia era il nome
di una ninfa protagonista del poema Aminta di Torquato Tasso, nel quale veniva
raccontata la storia d’amore del pastore Aminta e della ninfa dei boschi, Silvia.
Nei versi successivi fa ritorno il tema del ricordo, il poeta ripensa al tempo in cui aveva
grandi speranze, che nel presente sono andate svanendo insieme alla giovinezza e a
Silvia. In questi versi torna anche uno dei temi cari a Leopardi, “la rimembranza acerba”,
cioè il ricordare essendo coscienti che una cosa ormai è passata e non ritornerà più, come
esprimono specialmente le parole: “…un affetto mi preme / acerbo e sconsolato…” che
utilizza per esprimere in quale stato d’animo si trova: acerbo perché soffre aspramente e
sconsolato perché pur non volendosi arrendere nella ricerca della felicità, non riesce a
realizzare le sue aspettative.
Nei versi successivi il Poeta rivolge alcuni interrogativi alla Natura, intesa come forza
creatrice (non la natura nella quale il poeta trovava conforto) e domanda a essa, perché la
realtà sia così diversa dalle speranza dell’uomo e perché la Natura poi non conceda mai di
realizzare le aspettative. Questa considerazione generale che Leopardi esprime è
determinata dal fatto che il poeta rimane come sospeso davanti alla sproporzione fra il
sogno, che sa che non si avvererà, e la realtà .
Nei versi dal quarantesimo al quarantasettesimo, molto importanti, riprende la
corrispondenza iniziale tu-io, tra lui e la ragazza. Silvia è ormai morta e con essa le
speranze; della ragazza resta solo il ricordo. In questo passaggio si può capire che Silvia è
sì morta, ma nella poesia resterà sempre vivo il suo ricordo e con lei le sue speranze,
perché la Natura inganna, la poesia no.
Nei versi successivi Leopardi piange la morte della ragazza, che identifica con la
speranza, e la morte della “sua” speranza, la morte della prima può essere pianta, ma
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quella della seconda no. Lui continua, nonostante l’avversione della Natura, a sperare e a
cercare la felicità, anche se la sua conclusione è che al sopraggiungere dell’età adulta,
quando fa la sua comparsa “il vero”, cioè la consapevolezza del significato della vita, le
speranze della giovinezza si dissolvono proprio come le speranze di Silvia che muore
prima di raggiungere “il fior degli anni suoi”.
In questa poesia pertanto ritornano molti temi cari a Leopardi: la sublimità del sentire, che
lui prova quando “mira” la natura e riesce a vederne un aspetto molto più profondo del
semplice aspetto esteriore; la rimembranza acerba, il sentimento che lui prova quando
ricorda le speranze che nascevano in lui quando vedeva Silvia (la poesia è stata scritta
molto tempo dopo la morte della ragazza); la sproporzione tra il sogno e la realtà, quando
sotto forma di interrogativi chiede risposta alla Natura Creatrice sul perché delle sue
sofferenze, non vedendo mai avverate le sue aspettative e i suoi sogni.
In questa poesia tuttavia è dominante l’idealizzazione della donna, perché Silvia non
rappresenta semplicemente una ragazza amata dal poeta, ma in lei viene identificata la
speranza che è il tema centrale del testo.
Ci sembra che un passo dello Zibaldone possa nuovamente aiutarci a cogliere il pensiero
dell'autore riguardo al concetto di idealizzazione: “Una giovane dai sedici ai diciotto anni
ha nel suo viso, ne' suoi moti, nelle sue voci... un non so che di divino che niente può
agguagliare... Quel fiore purissimo, quella speranza vergine... quell'aria d'innocenza, di
ignoranza completa del male...; tutte queste cose, anche senza interessarvi, fanno in voi
un'impressione così viva, così profonda, così ineffabile che voi non vi saziate di guardare
quel viso, ed io non conosco cosa che più di questa sia capace di elevarci l'anima, di
trasportarci in un altro mondo, di darci un'idea di angeli, di divinità, di felicità. Tutto questo,
ripeto, senza innamorarci, cioè senza muoverci il desiderio di possedere quell'oggetto”.
CANTO NOTTURNO DI UN PASTORE ERRANTE DELL'ASIA
I
l Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, è stato composto da Leopardi a
Recanati e gli è stato suggerito dalla lettura di un articolo del barone Meyendorff sui
pastori nomadi dei Kirkisi: “molti di essi passano la notte seduti su di una pietra a
guardare la luna e a improvvisare delle parole molto tristi su arie che non lo sono di
meno”. L'idea di questi canti primitivi profondamente tristi affascinò il poeta al punto che,
per la prima volta nella sua lirica, volle suggerire la presenza musicale del canto usando
più settenari che endecasillabi e accentuando molto la presenza della rima. Della
condizione di quei pastori lo colpiva la solitudine totale nella steppa e il silenzio sterminato
della notte di fronte agli interrogativi fondamentali della vita rivolti alla luna. Al poeta
sembra che in questo modo primitivo di porsi dell'uomo di fronte al mistero della vita vi sia
l'origine stessa della poesia.
Il canto notturno è una poesia nella quale Leopardi mette a confronto: la vita della luna e la
vita del pastore che assomigliano molto. La luna sorge e tramonta ogni giorno senza
stancarsi mai, il pastore ugualmente si sveglia alle prime ore dell'alba, porta a pascolare il
suo gregge e alla sera riposa. La poesia inizia con alcune domande che Leopardi porge
alla luna chiedendole se non si è ancora stancata di ruotare attorno alla terra vedendo
sempre le stesse cose.
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Un “vecchierel bianco” è il simbolo dell'uomo che affronta tante fatiche nel corso della sua
vita ma, quando muore, tutto di lui viene dimenticato. Il poeta ci descrive così la vita di
ogni uomo: l'uomo quando nasce piange per essere nato e i genitori lo consolano fin dal
principio della sua esistenza. L'uomo cresce, sempre con l'appoggio e il sostegno dei
genitori che lo consolano per il fatto stesso di essere nato. Infine il poeta fa una riflessione
e spiega alla Luna che questa è la vita mortale di ogni uomo, ma siccome lei mortale non
è, ciò che le sta raccontando forse non le interessa. Però nonostante lei sia eterna, forse
può capire la sofferenza dell'uomo, perché lei comprende il significato di ogni cosa.
Leopardi considera la vita un dolore e invidia “la greggia” che non conosce la miseria
dell'uomo, non solo perché non ha problemi e tutto ciò che fa è dovuto solamente all'istinto
dell'animale, ma perché non prova mai alcuna noia esistenziale. La poesia termina con
una riflessione personale: egli prova un certo fastidio nei confronti della vita, eppure non
desidera nulla e non gli è mai successo niente di terribile, ma il dolore della vita è
incancellabile.
Leopardi conclude dicendo che se avesse avuto le ali da volare sulle nubi, per vedere le
stelle, sarebbe più felice o forse no: forse in qualunque forma o condizione dentro una
tana o una culla, il giorno della nascita è funesto per tutti, e da quel momento inizia il
dolore incancellabile della vita. Tuttavia sulla spietata considerazione “la vita è male”
sembra prevalere la richiesta di una luce che illumini la vita breve e infelice dell'uomo.
IL SABATO DEL VILLAGGIO
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l Sabato del villaggio è ispirato all’atmosfera del paese, animato il sabato sera
dall’allegria della festa in arrivo.
Nella poesia compaiono cinque personaggi reali: la donzelletta, la vecchierella, i
fanciulli, il zappatore, il legnaiolo.
Il canto si apre con la presentazione della donzelletta che rientra dopo una giornata di
lavoro in campagna. ella è contenta di ritornare a casa perché il giorno successivo è
domenica, un giorno di festa per tutti.
La donzelletta porta in mano un mazzo di rose e viole che per forma e dimensione sono
due fiori molto diversi, perché la viola è a gambo corto mentre la rosa è a gambo lungo e
quindi non sono adatti da abbinare,oltre al fatto che fioriscono in tempi diversi; Leopardi
quindi non usa un'immagine realistica, ma si ispira alla tradizione letteraria. I fiori
serviranno alla fanciulla il giorno seguente per farsi bella e quindi farsi notare dai giovani
del paese.
Subito dopo ci viene presentata la vecchierella, personaggio che si contrappone alla
donzelletta; essa è seduta e sta filando rivolta verso occidente e intanto che si dedica al
suo lavoro, vedendo la donzelletta, ricorda quando anche lei sana e snella la domenica
era solita farsi bella e gioire con i suoi coetanei.
Intanto nel paese inizia a farsi buio e Leopardi, come tutti i poeti romantici, ama i paesaggi
notturni.
Le campane suonano dando il segno della festa in arrivo e questo suono conforta il cuore
di ciascuna persona.
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I fanciulli nella piazzetta giocano urlando e fanno un lieto rumore, intanto lo zappatore
torna al suo povero ostello fischiettando e tra sé pensa al giorno del suo riposo.
Poi quando tutti sono nelle loro case e stanno dormendo si odono gli attrezzi del legnaiolo
che lavora nella sua bottega, e si impegna per finire entro l’alba il suo lavoro, per quindi
godersi il dì festivo.
Sabato è il giorno più gradito della settimana pieno di allegria e speranza, domani le ore
recheranno tristezza e noia, perché ognuno nel suo cuore farà ritorno al pensiero del
lavoro che il dì seguente lo attende.
A questo punto compare il garzoncello scherzoso: ragazzo spensierato che è simbolo
della giovinezza, il tempo che precede l'arrivo dei cupi pensieri della maturità, quando
l’uomo perde le illusioni. Al garzoncello, che rappresenta tutti i giovani, Leopardi dice che
la giovinezza è come un giorno pieno di allegria, un giorno chiaro e sereno che precede la
maturità.
Lo invita a godere tale situazione serena, la stagione lieta della vita. Non vuole dirgli altro,
ma lo invita a non dolersi anche se che la maturità tarderà a venire.
Tutti questi personaggi vivono il loro sabato con un sentimento di attesa per il giorno
successivo, la domenica poi si rivelerà noiosa e triste, perché tutti nel loro cuore faranno
ritorno con il pensiero al lavoro che li attende il giorno successivo. Il sabato e la domenica
possono essere interpretati l'uno come una metafora dell’attesa e dei desideri, ma anche
dell’illusione, l'altro come la disillusione. Leopardi nel canto sviluppa una sorta di parabola
attraverso la quale, con tono quasi colloquiale, tratteggia attraverso una metafora un
nostro atteggiamento: durante la giovinezza, paragonata al sabato, l’uomo vive il tempo
dell’attesa, momento magico in cui pregusta la pienezza della vita, ma quando la pienezza
(maturità), paragonata alla domenica, giunge ecco che egli si sente deluso. La maturità ha
deluso le aspettative e non ha realizzato lo stato di pienezza tanto atteso. E allora non
resta che pensare al lavoro, come ogni lavoratore fa in ogni giorno festivo.
Nella poesia compare un evidente contrasto tra la giovinezza e la maturità, come si può
notare fin dall’inizio quando troviamo la donzelletta che torna a casa felice dalla campagna
e la vecchierella che è seduta sulle scale.
Vi è anche il contrasto tra ricordo e speranza, che emerge sempre tra la vecchierella che
ricorda la sua giovinezza e la giovinetta che spera di vivere una domenica bella e
divertente.
I due sensi maggiormente sviluppati nella poesia sono: la vista e l’udito.
Già nella prima strofa vi è il contrasto tra la donzelletta che ritorna a casa con il suo mazzo
di rose e viole (sensazione visiva) e il raccontare della vecchierella (sensazione uditiva),
poi l’arrivo dell’imbrunire è contrapposto al suono delle campane, alle grida dei fanciulli e
al fischiettare del contadino. Leopardi fa ricorso a un gioco di immagini visive e uditive, che
hanno lo scopo di comunicare al lettore l'atmosfera prefestiva del borgo.
I temi principali della poesia sono: l’attesa, la speranza e il desiderio del piacere. La gioia è
presentata come pura attesa, per cui non si è felici quando si gusta realmente una cosa,
ma quando si attende di gustarla, mentre il riposo della domenica è invaso dalla noia, dalla
tristezza per la settimana che sta per ricominciare.
Ci siamo trovati molto d’accordo con ciò che Leopardi esprime in questa poesia, perché
comunica un sentimento che anche noi proviamo la domenica quando ci troviamo a
studiare per il giorno successivo. La sensazione di tristezza e noia aumenta con il passare
delle ore, perché si pensa che la festa è già passata.
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E' una sensazione di tristezza ci coglie già al termine del sabato pomeriggio, dopo essere
usciti con gli amici; appena si arriva a casa si pensa già alla domenica e quindi a quello
che si dovrà fare il giorno seguente quando si tornerà a scuola.
Questa poesia ci è piaciuta molto e forse, tra tutte quelle che abbiamo letto, è quella che
esprime i temi con i quali ci siamo confrontati nel modo più vicino alla vita di tutti giorni
anche ai nostri tempi.
IL PASSERO SOLITARIO
L
a poesia è stata scritta da Leopardi in età avanzata, ma il canto fa più di un riferimento
alla giovinezza del poeta, rievocata in tono piacevole.
Il poeta fa nuovamente ricorso alla tecnica della somiglianza-differenza fra lui e il
passero (già usata in A Silvia), grazie alla quale l'uccelletto diventa simbolo della solitudine
assoluta, della totale incapacità di intrattenere rapporti con gli altri e con la realtà. Ma
l'esclusione dalla vita diviene capacità straordinaria di evocare la nostalgia della vita e
dell'amore non vissuti e gli elementi negativi vengono relegati negli intermezzi o nel finale.
Il poeta affronta diversi temi: giovinezza, gioia, festa, primavera, che compaiono sia nella
prima strofa, a proposito del passero, sia nella seconda, a proposito del poeta. La prima
strofa è la descrizione delle abitudini di vita del passero solitario; in essa troviamo una
rappresentazione del passero come colui che mira il modo di vivere degli altri uccelli, che
festeggiano gioiosamente la loro gioventù e l’arrivo della primavera. Leopardi non a caso
utilizza il verbo mirare, che ricorre spesso nelle sue poesie; infatti mirare è un guardare
che suscita delle riflessioni.
Il passero rimane pensoso in disparte, non ha bisogno di divertimenti o di stare insieme ai
compagni, perché tutto ciò che fa è dovuto all’istinto. Il passero canta, ma ogni suo canto è
privo di dolore o felicità.
Già da questo punto si può notare l’analogia-diversità tra la vita del passero e quella del
poeta, che ci verrà descritta nella seconda strofa, all’interno della quale ritornano le
sensazioni vaghe e indefinite, soprattutto i suoni lontani che si diffondono nell’aria: il suono
di campane e gli spari di fucili per annunciare l’inizio della festa. Leopardi guarda fuori
dalla sua finestra, vede la primavera che brilla nell’aria e nota tutta la gioventù del suo
paese vestita per la festa. Anche se nel testo non viene precisato, immaginiamo che
l’autore abbia provato un senso di sconforto e solitudine non potendosi o non volendosi
unire al divertimento comune; ma ciò non ci deve portare a pensare che Leopardi non
abbia mai frequentato suoi coetanei. Al contrario l’autore ha spesso avuto contatti con
altre persone, ma ne è rimasto deluso per la superficialità con la quale consideravano e
affrontavano le circostanze della vita. Ci dice, in un suo scritto, che la gente tendeva
spesso a considerare banali le questioni importanti e viceversa. Questo è uno dei motivi
per cui il poeta ha scelto una vita solitaria e si è chiuso in sé stesso, pensando che nessun
altro l’avrebbe potuto capire. Trova così una sorta di consolazione e sfogo nella poesia.
Ciò può succedere anche a noi: può capitarci di non sentirci capiti da nessuno o avere
paura di essere giudicati, così l’unico sfogo sono le parole scritte per noi stessi.
Nonostante ciò, per quanto solitaria e priva di gioie, la giovinezza per Leopardi è pur
sempre la stagione privilegiata della vita.
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Il paragone tra la condizione del passero e quella dell’autore è ripreso in quella che
potrebbe essere una terza sequenza nella quale si sviluppa la poesia: quando per il
passero arriverà la vecchiaia, questi non si dorrà della sua vita, perché ogni suo
atteggiamento gli è stato donato dalla natura, mentre il poeta si chiede se si pentirà un
giorno di non aver vissuto in modo più piacevole e felice il suo tempo migliore,
rappresentato dalla giovinezza, e si volgerà al passato senza possibilità di conforto.
Pensiamo che questa paura non faccia parte solo dell'esperienza di Leopardi, ma sia
presente un po’ in ognuno di noi, anche se in forme diverse. Tutti ci ritroviamo un giorno a
porci delle domande sulla nostra vita, quindi a fare riflessioni esistenziali ed universali,
proprio come il poeta. La paura di ognuno di noi potrebbe proprio essere quella di scoprire
di non aver vissuto fino in fondo ogni istante della nostra vita e di pentircene un giorno. In
fondo vorremmo tutti fermarci ad una perfezione fisica, non invecchiando mai. Tutto ciò ci
fa comprendere che Leopardi non si può considerare pessimista, ma porta alla luce
riflessioni realistiche e soprattutto attuali, che tutti gli esseri umani possono fare o hanno
bisogno di scoprire.
Tornando al contesto della poesia, si può notare come la vecchiaia e la morte abbiano due
significati diversi per ognuno dei due personaggi. Nel caso del passero, la morte viene
paragonata ad un semplice giorno che finisce. Ma per Leopardi, la morte viene descritta
come la detestata soglia che ognuno di noi vorrebbe evitare. Una seconda differenza
riguarda i ricordi. Leopardi conserverà molti ricordi, tratterrà le emozioni provate e quelle
non vissute che quindi rimpiange; al contrario, il passero, privo di memoria, sarà incapace
di fare tali riflessioni. Pensiamo che anche noi, giunti alla vecchiaia porteremo nella nostra
memoria molti ricordi di quello che è stato il nostro tempo migliore, la nostra vita e anche
noi avremo momenti o decisioni da rimpiangere, perché purtroppo nell’esistenza non si ha
sempre una seconda possibilità e tutte le opportunità vanno prese al momento giusto. Se
ciò non accade, proveremo un senso di rimorso o di rimpianto.
Il passero solitario è un canto che ci è piaciuto particolarmente, perché come in molti altri
ci siamo identificati in ciò che il poeta voleva comunicare di sé utilizzando la poesia.
Questa è una capacità di Leopardi che abbiamo particolarmente ammirato e apprezzato,
perché riesce a incuriosire e coinvolgere.
CONCLUSIONI
L
eopardi rappresenta una delle voci più alte della nostra poesia. Risente fortemente
della difficile condizione culturale, familiare e personale in cui si trova. Sceglie di
vivere nella solitudine e comprende cose che molto probabilmente seguendo questo
stile di vita più facilmente si possono cogliere.
Il poeta è riuscito a trasmettere con i suoi versi ciò che pensava dell’uomo, della natura e
della vita stessa, e questo è ciò che ci ha colpiti di lui: il suo modo di affrontare la realtà e
la tenacia nel continuare nella ricerca della felicità, anche se spesso questa non viene
soddisfatta.
Nei suoi testi emerge la ricerca del significato della vita e la sproporzione che c’è tra i
sacrifici che si fanno e la sorte a cui si e destinati, Ci testimonia quanto una vita anche
piena di dolori e dispiaceri debba essere vissuta intensamente.
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Ci colpisce il modo in cui parla alla natura e come si rivolge ad essa, interrogandola sul
destino dell'uomo.
Nelle sue poesie emerge anche la donna (quasi sempre idealizzata), che ricopre un ruolo
rilevante, e che è fonte di un profondo travaglio, ma anche occasione per riflettere,
allargare l'orizzonte, andare oltre il contingente e dalle sofferenze per il tormento amoroso
approdare alla ricerca dell'assoluto.
Tutti tendiamo a un infinito che non conosciamo, perché tutti gli esseri umani desiderano la
felicità e questo desiderio non cessa mai. È una caratteristica comune a tutti gli uomini e
forse senza la consapevolezza di questo desiderio non ci potremmo considerare
veramente vivi. Nello stesso tempo, Leopardi afferma che tutti i piaceri sono misti al
dispiacere, siccome l’anima cerca sempre qualcosa che non si può trovare, ovvero
l’infinito. Ciò ci porta ad avvertire una sproporzione, perché l’infinito è qualcosa di molto
più grande che si può solamente immaginare ed è ciò a cui tende ogni nostro desiderio.
Leopardi ci insegna di non accontentarsi mai di qualcosa di meno, ma di continuare a
cercare il nostro infinito.