Anno V - La Voce dell`Isola

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Anno V - La Voce dell`Isola
Anno V - N. 9~10 • 27 Maggio 2010 - € 1,50
Giornale Siciliano di Politica, Cultura, Economia, Spettacolo, diretto da Salvo Barbagallo
Mentre potenti e politici
festeggiano
l’unità d’Italia e Garibaldi
NELLA SICILIA DELL’AUTONOMIA TRADITA
BRUCIATI 64 ANNI DI STATUTO SPECIALE
di SALVO BARBAGALLO
I
l presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a Marsala, poche
settimane addietro per dare l’avvio
alle celebrazioni del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia, è
stato lapidario. Esprimendosi nei confronti di chi parla di secessione o di
frantumazione del Paese ha affermato:
“Un balbettare penoso, negando il salto di qualità che il Paese tutto fece
unendosi”. È indubbio che sarebbe
folle parlare di secessionismo in un
mondo ormai globalizzato, ma a noi
“Siciliani” viene difficile ammettere
che il “salto di qualità” provocato
dall’unione delle varie parti dell’Italia
abbia mai portato qualcosa di positivo
alla Sicilia ed alla sua popolazione. E
sosteniamo ciò con convinzione nella
ricorrenza (avvenuta a pochi giorni
dalla vista del Capo dello Stato nei
luoghi dello sbarco dei Mille di Garibaldi) di un altro anniversario, il sessantaquattresimo, quello dell’Autonomia Siciliana. Una “Autonomia”, forte
di uno Statuto Speciale che fa parte integrante della Costituzione Italiana,
mai applicata e che in tanti hanno cercato di cancellare in maniera definitiva.
Quell’Autonomia, “concessa” da
uno Stato che risorgeva dalle macerie
della guerra, contro ogni tipo di dittatura, in Sicilia non ha portato nulla di
buono, così come è accaduto quando
si realizzò l’unità del Paese, perché i
principi che animavamo quelle importanti determinazioni, sono stati palesemente e costantemente disattesi.
Quell’Autonomia nasceva da una
spinta “secessionista” di una popolazione che voleva rendersi “indipendente” quando l’Italia era dominata
dai fascisti e da Mussolini e che, a Italia liberata, non sapeva quale futuro
potesse attenderla.
La Storia viene dimenticata, o “manipolata” per ragioni politiche ma, allora, nel 1946, coloro che rappresentavano l’Italia, si resero ben conto che
alla Sicilia “qualcosa” bisognava pur
dare, se non si voleva che accadesse il
peggio. Illustri studiosi elaborarono
uno Statuto della Regione che potesse
portare allo sviluppo dell’Isola, e lo
Statuto, con qualche modifica, venne
approvato e promulgato. Evidentemente, però, doveva esserci sotto un
qualche “trucco” poiché la Sicilia, nella sua lunga storia, di “regali” non ne
ha mai ricevuti. Il “trucco” è emerso
nel corso di questi sessantaquattro anni. Lo Statuto non doveva essere applicato, le prerogative in esso contenute ignorate. Ma sicuramente se ciò si è
verificato la responsabilità non può essere soltanto dei governanti l’Italia,
ma anche (se non soprattutto) di chi ha
avuto ruoli nel governo dell’Isola, indubbiamente conniventi nella strategia
di tenere costantemente la Sicilia sottomessa, in balìa dei più forti del momento.
Il Presidente della Repubblica a
Marsala ha rimproverato i politici del
Sud, e li ha invitati a riconoscere “le
proprie insufficienze in decenni di autogoverno”, spronandoli a sfruttare le
“specificità” concesse. E parliamo,
dunque, di quelle “specificità” statutarie che mai sono state applicate, quelle
che quando qualche presidente (ricordiamoci di Silvio Milazzo e di Rino
Nicolosi) ha tentato di mettere in moto
quelle che oggi vengono chiamate
“specificità”, subito si è fatto in modo
di renderlo inoffensivo.
Oggi si torna a parlare delle “specificità” poiché, come è stato sottolineato, con il Titolo V della Costituzione si
lavora ad “un più conseguente sviluppo delle Autonomie” nel Paese: per i
Siciliani, dopo sessantaquattro anni di
Autonomia “bruciata” dalla negligenza e dalla indifferenza, la volontà di
intenti non appare credibile.
Il Presidente della Repubblica è stato accolto trionfalmente dai Siciliani,
così come vennero accolti Garibaldi e
gli yankees che sbarcarono nel luglio
del 1943 nell’isola, sperando (ed è
questo l’errore) che qualcosa potesse
cambiare, che si potesse essere cittadini di prima classe come tutti in Italia,
e non subordinati. In realtà la colonizzazione della Sicilia è stata non-stop:
tutti vengono ad attingere, pochi a dare. Resta l’amaro in bocca. Resta la
rabbia.
All’interno i dossier sull’Autonomia
Banca del Sud, punto e a capo,
sempre in nome dello sviluppo
di MARCO DI SALVO
S
ilvio Berlusconi (foto al centro) nel pieno della bagarre firme ha trovato il tempo per presentare il nuovo Comitato promotore della
Banca del Sud. La banca «non sarà un carrozzone»,
ha precisato, perché il ruolo dello Stato è semplicemente quello di promotore: avrà una quota minoritaria che sarà dismessa entro cinque anni. «Credito
e legalità sono i pilastri per lo sviluppo del nostro
Sud. E io - aggiunge il premier - sarò il secondo depositante, dopo il ministro
Tremonti».
L’istituzione del Comitato promotore, composto da
quindici persone e presieduto da Vito Dell’Erba
(presidente dell’Associazione delle Casse di risparmio di Puglia e Basilicata),
rappresenta un nuovo passo
operativo dell’istituto che,
nelle intenzioni del governo, dovrebbe contribuire a
finanziare l’economia del
Mezzogiorno, in special
modo le piccole e medie
imprese. Sarà compito del
Comitato individuare e selezionare i soci fondatori
(oltre allo Stato), definire la
governance della banca, le
specifiche funzioni e attività. Entro l’estate sarà pronto il piano industriale, in
autunno arriverà l’ok di
Bankitalia, ed entro l’anno dovrebbero vedersi i
primi effetti sul territorio. Il capitale sarà in massima parte privato. La Banca potrà emettere, attraverso la rete del credito cooperativo e delle Poste, i cosiddetti «Sud bond», garantiti dallo Stato, cioè obbligazioni di scopo a medio-lungo termine che saranno tassate al 5% fino a un massimo di 100mila
euro per sottoscrittore, anzichè al 12,50%. «Siamo
il primo governo - può dire Giulio Tremonti - che
per il Mezzogiorno ha fatto una banca e una fiscalità di vantaggio». Le banche di credito cooperativo
socie e le Poste metteranno a disposizione i loro
sportelli. «É un buon progetto», commenta l’amministratore delegato delle Poste, Massimo Sarmi, che
sta già lavorando per adeguare gli sportelli postali
al nuovo compito. «É un progetto coerente con la
missione delle banche di credito cooperativo - dice
Alessandro Azzi, presidente di Federcasse - a favore delle piccole e medie imprese».
Tutto bene, allora? Non
si direbbe, perché c'è chi,
pur essendo un giovane deputato, ha la memoria lunga. E contrattacca la presentazione in pompa magna. “Il ministro Tremonti
il 9 marzo 2006 alle ore
17.00 presentò a Napoli
presso la sede del Circolo
dell'Unione, il Comitato
promotore della Banca del
Mezzogiorno.
Tutto avvenne nell'imminenza delle elezioni politiche. Quattro anni dopo la
storia si ripete...”. È quanto
ha affermato in una nota
battuta dalle agenzie subito
dopo la presentazione Francesco Boccia, coordinatore
delle commissioni Economiche del gruppo Pd della
Camera a proposito della
presentazione della Banca
del sud. “Desidereremmo
sapere che fine ha fatto il
presidente del Comitato promotore, il principe Carlo Di Borbone”, ironizza Boccia aggiungendo di
aver “sempre sperato in questi 18 mesi che il governo credesse davvero nel Mezzogiorno.
La vicenda bizzarra della fantomatica Banca che
nasce con soli 5 milioni di euro - conclude - è la
conferma di quanto il Sud sia considerato marginale”. E buono solo per la campagna elettorale di tutti, aggiungiamo noi...
Politica
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L’esempio più acclarato delle tante distorsioni di un sistema costituzionale difeso da tutti (a parole)
L’Autonomia e Babbo Natale:
ci sono, ma solo nella fantasia
di MARCO DI SALVO
N
ella dissennata storia della
Repubblica Italiana l’esempio più acclarato delle tante
distorsioni di un sistema costituzionale (a parole) difeso e promosso da
tutti sta nella storia della Statuto Siciliano, che sarebbe (il condizionale
è d’obbligo) alla base della tanto (a
parole) festeggiata (nelle ultime settimane) Autonomia.
Babbo Natale in giallo e rosso
La si festeggia come se fosse Natale, come se da un momento all’altro si attendesse il discendere di un
simpatico signore dal camino (ben
in carne, magari con la barba e un
vestito di colore giallorosso di impronta sicula, in cambio di quello
rosso imposto a Santa Claus dalle
scelte di marketing della Coca Cola)
che porti in dono questo o quel regalo, questa o quella prebenda. Peccato che Babbo Natale, come l’Autonomia siciliana, semplicemente
non esista. E peccato (peccato davvero, per tutti quelli che ne cianciano tanto, sempre a parole) che dove
e quando l’autonomia (l’indipendenza o, se il caso, la separazione)
sono state, esse sono sempre state
nella storia solo figlie di moti, di
scelte politiche e non di regali venuti dall’alto. E il paradosso dell’Autonomia siciliana è proprio questo.
Non dobbiamo conquistarla. Ce
l’abbiamo, ma non la usiamo (non
la usano i nostri rappresentanti istituzionali, se non, a volte, come
spauracchio per alzare il prezzo in
trattative di basso livello). Il nostro
(finché non ce lo leveranno, magari
La Voce
dell’Isola
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Anno V, nº 9~10
27 Maggio 2010
Gli articoli rispecchiano
l’esclusivo pensiero dei loro autori
27 maggio 2010
mentre fanno il federalismo voluto da chi
difende gli interessi di
macroregioni padane
di fatto mai esistite) è
un modello di autonomia sostanzialmente
restato sulla carta, ma
nello stesso tempo che
resta in perenne attesa
di una applicazione in
quanto sempre formalmente legittimo. Vi è
quasi dell’incredibile
nello scoprire che questa Autonomia, applicata alla lettera, sarebbe addirittura la “negazione dello spreco”,
con l’accollo di quasi
tutti i servizi pubblici
da parte della Regione
e degli enti pubblici
territoriali. Si scopre,
e sembra incredibile,
l’ignoranza in cui sono stati tenuti i diretti
interessati, i cittadini,
che la Sicilia è (o meglio “sarebbe”) uno
stato semi-sovrano appena confederato con la Repubblica
Italiana, capace di creare un proprio
ordinamento tributario, di partecipare all’emissione della moneta comune, in cui persino l’amministrazione
periferica dello Stato (quella residua) sarebbe organizzata e disciplinata dallo Stato-Regione (ragion per
cui il Presidente siederebbe nel
Consiglio dei Ministri, non come
rappresentante della Regione, ma
come “Ministro della Repubblica
per gli affari dello Stato italiano in
Sicilia”). La “piccola costituzione
siciliana” che dovrebbe regolare la
vita dell’intera Regione, (dovrebbe),
non è mai stata attuata del tutto anzi
l’autonomia della Sicilia si riduce
ad una carta formalmente legittima
che è stata attuata solo per 10 anni
(dal 1947 al 1957) e dopo dimenticata.
Sviluppo contro manodopera
Un’autonomia mai applicata o
forse mai realmente voluta, soprattutto per ragioni economiche. Per
fare un esempio: l’art. 38 del nostro
Statuto “prevede fondi da parte dello Stato” da destinare ai lavori pubblici “a titolo di solidarietà nazionale”. Fondi dovuti che furono
versati per cinque anni,
dal 1951 al 1956 e successivamente soppressi (e sostituiti
con altri che invece di garantire
l’autonomo sviluppo finirono
nelle tasche e nello sviluppo di altre
regioni del nostro
Paese, contribuendo
al miracolo economico). La Sicilia non ebbe
più quei finanziamenti volti a
favorire la progettazione generale di
infrastrutture e servizi che avrebbero migliorato le condizioni territoriali regionali, tanto da poter raggiungere il livello di regioni più
evolute (mentre anche allora si parlava del Ponte di Messina, naturalmente...). Le stesse verso le quali
partirono i nostri padri e stanno, mestamente, ricominciando a partire i
Il nostro
è un modello
di Autonomia
sostanzialmente
rimasto sulla carta,
ma nello stesso tempo
che resta
in perenne attesa
di una applicazione
in quanto, sempre
formalmente,
legittimo
nostri figli negli ultimi anni. Tutto
questo a fronte di uno Statuto, quello siciliano, volto a favorire, l’indipendenza, l’economia regionale ed
un proprio ordinamento tributario
portando l’Isola a sviluppare attività
produttive senza più bisogno di elemosinare o dipendere dal governo
centrale.
Un sogno durato undici anni
Dal 1957 il nostro Statuto non è
stato più applicato esistendo solo
nell’ombra. La Sicilia, dunque, vive
continuamente nell’illegalità, remando contro la propria costituzione e spianando il terreno ad una
classe dirigenziale (non solo politica) corrotta da gravi forme di clientelismo. Esempio massimo, a conferma di tutto ciò, la questione legata all’Alta Corte della Sicilia che
rappresentava più di tutti il simbolo
e l’organo di un’autonomia tradita e
rifiutata. L’Alta Corte disciplina
dall’art. 24 dello Statuto aveva il
compito di “risolvere” i conflitti tra
Stato e Regione, ma con un raggio
di azione più grande. Era una sorta
di “sindacato” di costituzionalità di
tutte quelle norme che si devono applicare in Sicilia provenienti da
qualunque fonte. Uno strumento di garanzia. Appunto. E, in quanto tale, soppresso. Con la
sentenza n. 38 del 7
marzo 1957 che
dispone così: “La
competenza dell’Alta Corte per la
Regione Siciliana è
stata travolta dalla
Costituzione; essa
era competenza provvisoria ai sensi della VII
disp. trans. della Cost., destinata a scomparire con l’entrata in
funzione della Corte Costituzionale”.
colo 24 dello Statuto (è istituita in
Roma un’Alta Corte con sei membri
e due supplenti, oltre il Presidente
ed il Procuratore generale nominati
in pari numero dalle Assemblee legislative dello Stato e della Regione, e scelti fra persone di speciale
competenza in materia giuridica),
era quello di creare un organo non
con competenza limitata ai conflitti tra Stato e Regioni
ma con un raggio di
azione più vasto che
arrivasse ad identificarla con un vero e proprio sindacato speciale
di costituzionalità di tutte
quelle norme
che si devono
applicare in Sicilia, qualunque sia
la fonte. Infatti, secondo gli articoli 25
e 26 dello Statuto, l’organo giurisdizionale giudica sulla costituzionalità delle leggi emanate dall’Assemblea regionale; delle leggi e dei regolamenti
emanati dallo Stato, dei reati compiuti dal Presidente e dagli assessori
regionali nell’esercizio delle funzioni di cui al presente Statuto, ed accusati dall’Assemblea regionale.
Questa Corte, secondo Massimo
Costa, “equamente costituita, avrebbe potuto agire come la paladina
della nostra autonomia.
E si capisce perché, sin dal suo
inizio, sia stata fieramente boicottata”. Nei suoi 10 anni di attività, dal
1947 fino alla sentenza del 1957 che
ha stabilito l’assorbimento delle sue
funzioni da parte della Corte costituzionale, nella giurisprudenza
dell’Alta Corte deve essere menzionata una celebre sentenza, quella del
luglio 1949, con la quale essa impedì che il Parlamento italiano modificasse con legge ordinaria lo Statuto
siciliano. “In gran parte delle sentenze - osserva Massimo Costa l’Alta Corte considerava l’autonomia siciliana un patto tra due entità
paritetiche, nei rispettivi ambiti di
sovranità riconosciuti. Un’autonomia che funzionava, continua Costa,
nonostante la sempre più aperta
ostilità dei poteri forti italiani, nonostante il freno a mano tirato dalla
stessa Dc autonomista di allora, obbligata a ragioni di prudenza per
non spiacere alle centrali politiche
romane”.
All’assorbimento delle funzioni
dell’Alta Corte da parte della Corte
Costituzionale si è arrivati, secondo
Costa “per mezzo di una sentenza
illegittima”. Un giudizio, a dire il
vero, che l’Alta Corte non ha mai
avallato con propria sentenza.
“L’autonomia, osserva Costa è stata
scippata ai siciliani con un vero e
proprio colpo di Stato, lasciandola
nelle mani di un organo giurisdizionale (Corte costituzionale, ndr) che
non è terzo e che dimostra quasi ad
ogni sentenza la propria parzialità e
il proprio centralismo, smantellando pezzo a pezzo
l’autonomia siciliana
a colpi di interpretazioni abrogative”. Ma qual è
stato il ruolo
della Regione
di fronte a questo “golpe” politico-giuridico? “La Regione - osserva Costa- avrebbe dovuto aprire una serissima crisi istituzionale ricusando la
competenza della Corte
Costituzionale. Ma chi è politicamente, culturalmente e psicologicamente subalterno non è in grado di
assumere tale posizione.”
Da lì in poi ogni tanto un’abbaiata
alla luna di qualche presidente della
regione (in cambio di qualche elemosina in più) e poco altro. È proprio questo il punto: chi è subalterno riuscirà mai ad essere autonomo?
E che senso ha festeggiare l’Autonomia che (di fatto) non c’è?
L’inganno della Corte Costituzionale
E invece non è così. Come ha sottolineato Massimo Costa in un libro
dello scorso anno, l’obiettivo della
sua istituzione, disciplinata dall’artiLa Voce dell’Isola n. 9~10
Politica
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L’impietosa analisi, ma forse futuribile, del settimanale “The Economist”
Una nuova mappa dell’Europa
mentre l’Italia si frantuma
di VALTER VECELLIO
S
baglia “l’Economist” che brutalmente parla di due Europe:
una che in qualche modo riesce a tirarsi fuori dalle sabbie mobili
di una crisi la cui fine appare ancora
lontana; e un’altra, che invece è
sempre più avviluppata nel disastro
di cui è in larga parte responsabile?
La domanda insistente (e la frequenza con cui si propone il dubbio solo
per questo ha il sapore di una “certezza” fino a poco fa indicibile), è
se in Europa sia mai esistita quella
volontà di dare vita a quell’unione
politica ed economica che Bruxelles
riteneva necessaria per far funzionare l’euro. “La Grecia è piccola, la
Spagna è gestibile”, riassume Guy
Dimore, sull’altra “bibbia” del capitalismo mondiale, il “Financial Times”. Poi, la madre di tutte le domande: ma se fallisse l’economia
italiana? Secondo alcuni esperti il
destino dell’euro verrà messo alla
prova proprio a Roma. “Nessuno ha
i mezzi per salvare un paese così
importante”, dice Natacha Valla,
economista di Goldman Sachs; e
snocciola gli elementi di inquietudine: investimenti bassi, modesta crescita dell’occupazione, aumento del
debito pubblico (nel 2010 dal 115
per cento del PIL, al 118), ormai diventato il secondo in Europa, dopo
quello greco.
Ci si consola col fatto che tra le
famiglie italiane si registra un basso
tasso di indebitamento, e che la
maggior parte dei titoli emessi dal
tesoro è in mani italiane; tuttavia
l’analisi è ugualmente spietata: “Divisa tra un nord economicamente dinamico e orientato alle esportazioni,
e un sud arretrato e dipendente dallo
Stato, l’Italia sembra un microcosmo dell’eurozona”, e si osserva che
sarà necessario fare appello a tutte
le risorse disponibili per “superare
le tensioni e dare prova di capacità
di risolvere i problemi”. Anni fa
sempre “l’Economist” descrisse il
nostro Paese come “he real sick
man of Europe”, il vero malato del
vecchio continente. Ora la situazione è differente: di malati se ne sono
aggiunti altri, ma nessuno dei “vecchi” nel frattempo è guarito.
Le due Italie: problemi strutturali, come l’elevata pressione fiscale,
l’eccesso di spesa pubblica, la rigidità del mercato del lavoro, un sistema bancario “arroccato”. Una situazione che favorisce e alimenta quella che il leader radicale Marco Pannella riassume nello slogan: “Uccidono la patria europea e creano
l’Europa delle patrie”. In questo
processo, di arroccamento e insieme
di disgregazione, un ruolo tra i più
significativi lo gioca la Lega Nord
di Umberto Bossi. Lega non a caso
nella sua storia si è legata ad altri
movimenti e organizzazioni neo-populisti: dai partiti del Progresso e
Nuova Democrazia in Scandinavia,
al Vlaams Blok fiammingo; dalla
Lega ticinese in Svizzera al Fpoe, il
partito fondato da Jorge Haider; e
senza disdegnare i Republikaner tedeschi e il Front National di JeanMarie Le Pen in Francia; e più recentemente con la CDU bavarese di
Edmund Stoiber e la Serbia di Slobodan Milosevic, quest’ultimo definito da Bossi “molto più democratico di D’Alema”. Dichiaratamente
La Voce dell’Isola n. 9~10
Nel nostro Paese assistiamo, in questi giorni, alla progressiva
(e, parrebbe, inarrestabile) disgregazione delle forze politiche
tradizionali e qualcuna “nuova”, le ha perfino anticipate
e precedute. La Lega al contrario si consolida
anti-europea, gli uomini della Lega
si sono spellati le mani compiaciuti,
quando Giulio Tremonti, ha esortato
“ad alzare le bandiere dell’onore e
dell’orgoglio”, e si è atleticamente
domandato: “Perché non è più l’Europa a cambiare il mondo, ma il
mondo a cambiare l’Europa? Per
una ragione molto semplice -. Per-
ché non è stata l’Europa a entrare
nella globalizzazione, ma la globalizzazione ad entrare in Europa, trovandola insieme incantata e impreparata…”.
Assistiamo, in questi giorni alla
progressiva (e, parrebbe, inarrestabile) disgregazione delle forze politiche tradizionali (e qualcuna “nuo-
va”, le ha perfino anticipate e precedute); la Lega al contrario si consolida e afferma: una politica fatta di
parole d’ordine semplicistiche, di
verbale contestazione nei confronti
della partitocrazia, e contemporaneamente una sistematica partecipazione ai processi di lottizzazione…il
retroterra “culturale” affonda le sue
radici in quello che teorizzava Gianfranco Miglio: una “rivoluzione” federale fondata su tre macro-regioni
(Padania, Etruria, Mediterranea), oltre le cinque a Statuto speciale:
“L’Italia unita è figlia di una congiuntura storica particolare che ha
mescolato insieme popoli che non
hanno nulla in comune. Noi abbiamo nelle vene sangue barbaro, siamo legati al negotium, al lavoro. I
meridionali invece vivono nell’otium, il dolce far nulla. Una differenza antropologica”.
“L’Economist” tutto sommato si
limita a fotografare una situazione
che sembrava una bizzarra fantasia;
e che forse, per quanto bizzarra e
fantastica, un giorno si realizzerà. I
segni ci sono tutti, in nuce e l’analisi dell’ “Economist” lo certifica.
“The Economist” ridisegna i confini:
il nostro Sud denominato “bordello”
(29 aprile 2010 | Da The Economist online)
L
e persone che trovano la loro vicini fastidiosi si possono spostare in
un altro quartiere, mentre i paesi non possono. Ma supponiamo che si
possa fare. Rimodulare la mappa d'Europa renderebbe la vita più logica e amichevole. La Gran Bretagna, che dopo le elezioni politiche dovrà
confrontarsi con la sua terribile finanza pubblica, dovrebbe avvicinarsi per i
paesi dell'Europa meridionale che si trovano in una posizione simile. Potrebbe essere trainata in una nuova posizione vicino alle Azzorre. (Se il
viaggio si rivela accidentato, questa potrebbe essere
una buona occasione per
fare del Galles e della Scozia isole separate). Al posto della Gran Bretagna si
potrebbe spostare la Polonia, che ha sofferto già abbastanza della sua posizione tra Russia e Germania e
merita la possibilità di godere i venti di rinforzo dell'Atlantico settentrionale e
la sicurezza di avere un
mare tra essa e qualsiasi
potenziale invasore.
L'incomprensibile conflitto linguistico belga tra
fiammingo e francese (che
ha appena portato ad una
crisi di governo) rappresentano l'Europa centrale
al suo peggio, ad esempio
la Slovacchia e la minoranza etnica in lingua ungherese. Così il Belgio dovrebbe scambiare il posto
con la Repubblica ceca. I
ben organizzati cechi potrebbero stare benissimo
con i loro nuovi vicini
olandese e viceversa. La
Bielorussia, attualmente
senza sbocco sul mare e
che cerca di uscire da sotto
il pollice della Russia, gioverebbe notevolmente dallo spostamento nella regione nordica, la cui influenza
ha svolto un grande ruolo nell'aiutare i paesi baltici ad uscire dal loro retaggio sovietico. Così dovrebbe spostarsi verso nord al Baltico, prendendo il
posto di Estonia, Lettonia e Lituania.
Questi tre paesi dovrebbero spostare in una nuova posizione da qualche
parte vicino Irlanda. Come l'isola di smeraldo, essi hanno giocato bene la
carta della "svalutazione interna", riconquistando competitività dal taglio di
salari e dei prezzi, piuttosto che prendere la semplice opzione di svalutazio-
ne della moneta, o di incauto indebitamento come la Grecia. I paesi baltici
sarebbero felice di essere più lontani dalla Russia e più vicini all'America.
Tra le altre mosse, Kaliningrad potrebbe spostare la costa verso la Russia,
che terminerebbe così il suo status anomalo di exclave, eredità della seconda guerra mondiale, e risolverebbe qualsiasi possibilità di futuri conflitti
coi russi sul transito ferroviario. Negli spazi liberati dalla Polonia e Bielorussia dovrebbero venire le parti centrale e occidentale dell'Ucraina. Così la
Germania, con il confine ucraino ora solo 100 km da Berlino, potrebbe iniziare a prendere sul serio l'ingresso in Europa dell'Ucraina. Lo spostamento
ucraino consentirebbe
Russia di spostarsi a ovest
e a sud, così liberando la
Siberia per i cinesi, che
verrà comunque annessa
prima o poi. Poi arriva un
riordinamento dei Balcani.
Macedonia, Albania e Kosovo deve ruotare posti,
con la Macedonia al posto
del Kosovo accanto alla
Serbia, Kosovo spostato al
posto dell'Albania sulla
costa e l'Albania verso l'interno.
In questo modo le fantasie greche paranoiche sulle
rivendicazioni territoriali
degli irredentisti slavi evaporerebbero. La Bosnia è
troppo fragile per spostarsi
e dovrà rimanere dove è.
La Svizzera e la Svezia sono spesso confusi. Così
avrebbe senso spostare
Svizzera nord, dove sarebbe adatta ordinatamente in
paesi nordici. La neutralità
sarebbe perfetta avendo
accanto finlandesi e svedesi; la Norvegia sarebbe felice di avere un altro paese
terzo della porta accanto.
Germania può rimanere
dove è, come può la Francia. Ma l'Austria potrebbe
spostarsi ad ovest al posto
della Svizzera, fare spazio
per la Slovenia e la Croazia che si sposterebbero a nord-ovest. Questi potrebbero aderire al Nord
Italia in una nuova Alleanza regionale (idealmente gestita da un Doge, da
Venezia).
Il resto dell'Italia, da Roma verso il basso, sarebbe da separare e da unire
con la Sicilia per formare un nuovo paese, chiamato ufficialmente il Regno
delle due Sicilie (ma soprannominato bordello). E potrebbero formare
un'Unione monetaria con la Grecia, e nessun altro.
27 maggio 2010
Politica
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Sono note le cifre complessive del bilancio annuale ma non le singole voci
Oggi si conosce poco o nulla
della gestione finanziaria dell’Ars
di ERNESTO GIRLANDO
N
iente è peggiore della vox
populi quando alimenta e
amplifica tutti i luoghi comuni del cosiddetto uomo qualunque. Mille gli esempi passabili. Da
“chi ruba una gallina va in galera e
chi ruba un miliardo la fa franca”, a
“tutti sono uguali, tutti rubano alla
stessa maniera”, per parafrasare De
Gregori. Per non parlare poi di tutte
le combinazioni possibili sui privilegi, le prerogative, le immunità della politica e gli emolumenti e le prebende dei politici. Forse però una
cosa financo peggiore c’è: è alimentarli, i pregiudizi e le dicerie popolari, con azioni e talvolta omissioni
quasi sempre al di sotto di ogni sospetto. È un argomento infinito,
quello che riguarda gli appannaggi
del potere. Da sempre. Fiumi di inchiostro sono scorsi negli anni, per
non dire nei secoli, per denunciare
privilegi di casta, sprechi di risorse,
indebitamenti indebiti, dubbie utilità
e occultamenti di spese, facili affidamenti di consulenze, stipendi
d’oro. Mali che si perpetuano e stratificano negli anni, per i quali la politica dolcevitosa sconta la rata del
discredito da parte di una società civile il cui mito è, per parte sua, impallidito e che solo l’inciviltà della
prima riesce ancora a conferirgli vigore.
Noi che non amiamo i giudizi
(peggio, i pregiudizi) all’ingrosso,
la vaghezza grossolana della demagogia, l’arbitrarietà fumosa e ipocrita della retorica, siamo convinti che
un politico debba essere ben pagato
e che la tranquillità economica sia
una condizione essenziale affinché
ognuno svolga al meglio il proprio
delicato compito e sia distolto dai
cattivi pensieri. Il punto è semmai
un altro: pretendere che il politico
faccia bene il suo lavoro e che sia
assecondato e garantito il diritto di
ogni cittadino di sapere come si
spendono le risorse pubbliche. Diceva Kant nell’Appendice alla Pace
perpetua che “Tutte le azioni relative al diritto di altri uomini la cui
massima non è suscettibile di pubblicità, sono ingiuste”.
L’obbligo di pubblicità di tutti gli
atti governativi è tale non solo perché è utile al cittadino per conoscere
l’operato dei detentori del potere e
favorire il loro controllo, ma soprattutto perché tale pubblicità costituisce già di per sé una forma di controllo. Fallito il sogno giacobino
configurante l’assolutismo rivoluzionario quale ineluttabile strumento atto a realizzare il regno della virtù, abbiamo tutti imparato che è la
democrazia a costituire il regno di
una virtù possibile e che esso regno
non è altro che esercizio quotidiano
della pratica democratica. La superiorità della democrazia rispetto allo
stato assoluto, che difendeva la necessità di mantenere il segreto sulle
decisioni adottate (gli arcana imperii), consiste proprio nella sua capacità di rendere trasparente il potere.
Se c’è un limite che la pratica democratica non è riuscita a valicare è
quello dell’esistenza del cosiddetto
doppio stato, ovvero della persistenza accanto a un potere visibile, di un
potere invisibile.
L’antica formula degli arcana imperii, di cui Tacito parla negli Anna27 maggio 2010
Francesco Cascio, presidente dell’Assemblea Regionale Siciliana
les, dopo essere scampata alla polvere e alla ruggine degli anni, sembra non aver perso l’alone di fascino
e di mistero che l’ha contraddistinta
nei secoli. Appena qualche anno or
sono, il Segretario generale dell’Assemblea regionale siciliana rispondeva usando proprio quella formula
alla richiesta di un sindacato interno
che tentava di comprendere le ragioni per le quali non era stata bandita
una gara d’appalto per l’attribuzione
di un call center. “Arcana imperii”
ra. Non sappiamo quanti e quali deputati godono di un vitalizio in deroga. Un sistema complesso quello
del trattamento pensionistico, che
segue regole secondo le quali il parlamentare gode di un vitalizio previo possedimenti di alcuni requisiti,
salvo concedere in deroga, a cura
del Consiglio di Presidenza, il vitalizio a chi i requisiti non li ha.
L’unica cosa certa è il cosiddetto
“parametro”, una scelta adottata nel
corso delle prime sedute dell’As-
le assegnato a quest’area sacra e impenetrabile è scelto con grande accortezza. Ma se non ci è noto quanto il Parlamento siciliano spenda per
mantenere un deputato, tra stipendio, rimborsi, indennità, contributi
per la segreteria; tra rimborsi elettorali, che hanno soppiantato il vecchio sistema del finanziamento pubblico ai partiti bocciato da un referendum, e contributi ai gruppi parlamentari a titolo di elargizione per
iniziative di carattere politico e cul-
Un bunker inaccessibile: le carte contabili che circolano
all’interno dell’Assemblea sono prerogativa di pochi intimi
e il personale assegnato a quest’area sacra e impenetrabile
è scelto con grande accuratezza
scrisse il Segretario del tempo, evidentemente convinto che talune materie, non potendo essere comprese
dalla ragione di coloro che non vivono di politica, dovessero necessariamente essere tenute lontano dagli
sguardi e dall’attenzione dei sudditi.
L’episodio sarebbe gustoso e la formula, fascinosa e ammaliante, usata
da un Segretario dotato certamente
di buona cultura classica e giuridica,
puro esercizio virtuosistico di un accademismo erudito, se non fosse
che l’Assemblea è in realtà un territorio in cui gli arcana imperii, la segretazione sistematica degli atti, sono componenti essenziali e abnormi,
profondamente radicati, nella gestione della comunicazione istituzionale al punto da fare dell’organo
legislativo siciliano un bunker inaccessibile.
Della gestione finanziaria dell’Ars si sa poco o nulla: si conoscono le cifre complessive del bilancio
annuale ma non le singole voci. Ossia sappiamo quanto l’Assemblea
spende annualmente ma non sappiamo, per larga parte, come. Non c’è
documento ufficiale che attesti
l’ammontare dello stipendio dei deputati, quali benefit vengono a loro
concessi, a quanto ammonta il vitalizio di un deputato a fine legislatu-
semblea e formalizzata con una legge regionale risalente al 1965, secondo cui ai deputati regionali siciliani spetta lo stesso trattamento
economico dei membri del Parlamento e, più precisamente, del Senato della Repubblica, considerato
di miglior favore. Ma anche in questo caso si deroga abbondantemente.
Il Consiglio di Presidenza, del quale
ogni decisione non è sottoposta ad
alcun controllo, pur avendo forza di
legge e non è impugnabile da nessuno, ammette spesso eccezioni e aggiustamenti sul trattamento economico dei deputati, ritoccando il parametro ovviamente a favore degli
stessi parlamentari.
Poche notizie si hanno circa il
fondo di quiescenza di deputati e
personale. L’unica cosa certa è che,
a differenza del Senato, esso non è
autonomo, non ha un consiglio di
amministrazione o dei revisori dei
conti, non ha un regolamento e viene gestito dalla Ragioneria, dal Collegio dei Questori e dal Banco di Sicilia. Non si ha notizia in merito a
eventuale gara d’appalto per l’assegnazione della gestione dei depositi
all’istituto bancario.
Le carte contabili che circolano
all’intero dell’Assemblea sono prerogativa di pochi intimi e il persona-
turale con obbligo di rendiconto anche se, paradosso tra i paradossi,
non sono previste sanzioni nel caso
di utilizzo dei fondi diverso da quello prescritto (un po’ come la storia
di un paio di Presidenti della Regione condannati per maldestre fughe
con malloppo), parimenti fumosa è
la condizione che riguarda il personale di Palazzo dei Normanni.
Anche in questo caso il parametro
del Senato dovrebbe costituire il riferimento dei livelli degli stipendi
dell’Assemblea regionale. Anche in
questo caso gli smarcamenti sono
radicata consuetudine. Si parla di
indennità favolose per il capo di gabinetto del presidente (160 mila euro, oltre lo stipendio che euro più,
euro meno si aggira sui 300 mila euro l’anno), di vie privilegiate attraverso le quali dirigenti, quadri intermedi, assistenti si vedono lievitare i
compensi automaticamente verso
l’alto.
È il sistema del cosiddetto galleggiamento, altrove abolito, sempre in
vigore all’Assemblea regionale siciliana. Un automatismo compensativo che si applica anche e in ugual
misura al vitalizio dei pensionati:
aumentano gli stipendi del personale attivo, aumentano le pensioni di
quello quiescente. Ma la cosa incre-
dibile, anche in questo caso, è che
dall’Assemblea non è mai uscita
una notizia ufficiale degli organi
rappresentativi, una nota formale,
che consenta a tutti di sapere come
stanno realmente le cose. Arcana
imperii, interna corporis acta.
Di tanto in tanto qualcosa sfugge
alle maglie strette della rete silenziosa che avvolge misteriosamente
la materia. Tempo fa da un quotidiano è stata resa nota (caso unico) la
liquidazione di un Segretario generale del parlamento isolano: un milione e settecento mila euro circa.
Mistero venuto alla luce grazie allo
sfogo del Presidente dell’Ars del
tempo a cui dovette tremare parecchio la mano nel firmare il decreto
di liquidazione. Il caso di Felice
Crosta, dirigente dell’Agenzia per le
Acque, ha tenuto banco qualche mese fa per l’eccezionale indennità
previdenziale che gli è stata riconosciuta da una sentenza della Corte
dei Conti: 500 mila euro l’anno,
1350 euro al giorno. Mentre nessun
accento scandaloso si ode di fronte
alle pensioni dei dirigenti dell’Assemblea, mediamente superiori di
quelle percepite dai dirigenti regionali.
Nessuno si indigna sostanzialmente perché nessuna sa nulla. Il
punto è proprio questo: la consegna
del silenzio, gli arcana imperii. Tutti
zitti: deputati di maggioranza e di
opposizione, dipendenti di ogni ordine e grado. Ogni compenso, ogni
emolumento, ogni indennità e ogni
appannaggio può anche essere legittimo e sacrosanto (non crediamo lo
siano sempre, certo) purché però sia
doverosamente reso pubblico e spiegato. Coprire privilegi ed eccessi
dell’amministrazione pubblica vuol
dire cagionare un deficit di democrazia, oltre che di bilancio, far crescere il discredito e la sfiducia verso
la politica e, ancor peggio, verso le
istituzioni.
La democrazia si può ammazzare
in mille modi, attraverso lo stacanovismo della dichiarazione quotidiana, ma può anche morire di inedia a
fronte del perenne avvilimento del
principio di pubblicità che è il cardine su cui poggiano le istituzioni democratiche, nonché l’imprescindibile valore che regola i moderni sistemi di comunicazione istituzionale.
La Voce dell’Isola n. 9~10
Politica
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Sviluppo, ambiente e ulteriori trivellazioni petrolifere in terra siciliana
Petrolio: riecco i texani all’assalto
delle risorse del nostro sottosuolo
di ERNESTO GIRLANDO
Zitti zitti i danni ambientali
li hanno già fatti questi magnati
del petrolio che vengono da oltre Oceano:
la questione passa sotto silenzio
e con il benestare dei nostri governanti
L
o sviluppo è una scelta e non
è un percorso obbligato.
L’idea è una giustissima idea
ed è un’idea “liberale” nel senso più
profondo e nobile del termine, perché implica il concetto, appunto, di
scelta e rigetta ogni approccio deterministico che esclude il “libero arbitrio”, la libera capacità di autodeterminarsi di una comunità e pone la
politica del fatto compiuto come
l’unica opzione praticabile. Ma nel
clima di ribaltamento complessivo
che viviamo, diventa un’idea fragile, che abita più nelle belle speranze
e nelle buone letture che nella realtà
vera. Lo sviluppo, nel nostro Paese
forse più che altrove, è stato sostanzialmente un convulso e poco ponderato sfruttamento intensivo del
territorio e delle sue risorse. È stato
benessere economico di tanti ma anche spoliazione ai danni di intere regioni e di intere collettività, tacitate
e accecate dalla promessa di chimerici vantaggi immediati e rapinati di
un futuro compromesso da scelte
(altrui) sbagliate, sacrificato sull’altare dell’avidità (sempre altrui) a
breve scadenza. E soprattutto lo sviluppo siciliano è stato una somma
paurosa di fatti compiuti: prima si
trivellava, si raffinava, si speculava,
si costruiva, poi si constatavano le
conseguenze. Parliamo al passato,
ma nulla nel presente è cambiato.
Nel clima di planetario sgomento
che l’incidente sulla piattaforma petrolifera nel Golfo del Messico ha
destato nelle coscienze di ciascuno
di noi, non possono passare sotto
traccia i “fatti compiuti” davanti ai
quali qualcuno molto spesso inopinatamente ancora ci pone.
Risale all’aprile dello scorso anno, ha una durata di sei anni, interessa un’area complessiva di 460
km quadrati: è la nuova concessione
per la ricerca di idrocarburi in mare
nel tratto che va da Scoglitti a Sampieri, che il Ministero dello Sviluppo economico ha rilasciato alla Srn,
Sviluppo risorse naturali, società
con sede in Roma e controllata dalla
“Mediterranean Resources” che ha
invece sede ad Austin in Texas. Entro la fine dell’anno in corso la Srn
dovrebbe entrare in possesso di tutte
Striscioni di protesta nella provincia di Siracusa
le autorizzazioni necessarie ad iniziare le indagini sottomarine che nel
caso dovessero dare esito positivo
lascerebbero il passo all’allestimento dei pozzi veri e propri.
Ci risiamo dunque. Ancora i texani all’assalto delle risorse del nostro
sottosuolo. Dopo la Panther Oil, costretta dalle opposizioni dei territori
interessati alle loro ricerche di idrocarburi, in particolare a Noto e nel
ragusano, a sbaraccare, si apre un
nuovo fronte di resistenza.
Nondimeno, esso non è il solo
che, come d’incanto, si apre in questa assurda guerra infinita delle
compagnie petrolifere che, con il
benestare di assessori regionali e
politici locali compiacenti, danno
l’assalto alle risorse di un territorio
che da tempo dice no a ogni tentativo di violenza.
Sempre la Mediterranean Resources, attraverso la controllata Irminio
srl, ha ottenuto il permesso di effettuare ricerche di idrocarburi liquidi
e gassosi in territorio sciclitano, fi-
Incendio sulla piattaforma Deepwater Horizon
La Voce dell’Isola n. 9~10
nanco in una zona limitrofa alla riserva naturale di Mangiagesso e in
quella prospiciente la fornace Penna. Un’area che si estende per 9.600
ettari, interamente ricadente nel territorio del comune di Scicli, comprendente monumenti patrimonio
Unesco dell’umanità, beni artistici,
archeologici, paesaggistici di enorme rilievo, individuati dalla Comunità Europea come Sit, Siti di importanza comunitaria, e zone di protezione speciale, Zps. Ancora una
volta ci troviamo davanti al “fatto
compiuto”.
perforazione, conseguenza di nuove
autorizzazioni rilasciate dalla Regione a una compagnia che da 15
anni opera in territorio ragusano,
dove ha già effettuato trivellazioni
nell’assoluto silenzio e nell’indifferenza generale. Merito e onore alla
sovrintendente Greco, dunque.
Che il mondo sia pervaso dalla
follia è cosa risaputa. Che le vicende della vita politica nel nostro Paese abbiano, al meglio, la forma del
paradosso, al peggio quella della
pazzia, si sa. È come se non uno ma
tanti ingranaggi mentali siano fuori
Fosse finita. In
una zona tra Ragusa e Santa Croce
Camerina, in contrada Cammarana, a
un tiro di schioppo
dall’antica città di
Kamarina, in piena
zona archeologica,
la sovrintendente ai
Beni archeologici
di Ragusa, Vera
Greco, ha sospeso
in via cautelativa i
lavori di sbancamento per la realizzazione di una piattaforma atta ad
ospitare apparecchiature di scavo e
uso e pensieri scarrucolati, accompagnati da azioni deliranti, circolino
indisturbati. Quale chiave di lettura
possibile, se non questa, per comprendere i meccanismi che conducono alle squinternate campagne
che alcuni sindaci, associazioni di
categoria, sindacati, hanno messo su
a fronte dell’istituzione del Parco
degli Iblei? Una risorsa eccezionale
per il territorio ragusano, un’imperdibile opportunità di trasformare antropologicamente ed economicamente il territorio e dotarlo di
un’identità.
Quale altra chiave di lettura a
fronte del silenzio, a volte delle sordide complicità, che accompagnano
l’assalto allo stesso territorio da parte di compagnie interessate solo a
spremere, sfruttare, negare la stessa
possibilità di un futuro ragionevolmente sostenibile alla gente degli
Iblei? Possibile che Cia, Confagricoltura, Camera di Commercio,
Cgil, eccetera eccetera, non siano
preoccupate del danno economico e
ambientale (come follemente lo furono per il Parco) che le trivellazioni possono cagionare al “sistema
Ragusa”?
Eppure zitti zitti i danni li hanno
fatti questi magnati del petrolio. Il
Mediterraneo è il mare più inquinato da idrocarburi, vuoi perché solcato in lungo e in largo dalle petroliere
che lavano le loro cisterne in mare
aperto; vuoi per le piattaforme off
shore (una, la Vega opera da vent’anni al largo delle coste iblee) che
sia nella fase esplorativa, sia in
quella estrattiva, sono responsabili
di una larga quota dell’inquinamento globale del mare. E non solo.
Proprio la Vega Oil e la Edison Spa,
in questi giorni sono stati chiamati a
giudizio per rispondere dei gravi
danni ambientali causati dallo sversamento in mare, con modalità illecite e nocive per l’ecosistema, di rifiuti speciali pericolosi derivanti
dall’attività estrattiva e di stoccaggio degli idrocarburi, al fine di risparmiare diverse decine di milioni
di euro. Nel gennaio scorso la rottura di un tratto dell’oleodotto che da
Ragusa trasporta il petrolio nella
raffineria di Priolo con inquantificabile sversamento di greggio nella
valle del Tellaro, in territorio di Noto, ha dato prova dell’inaffidabilità
dei sistemi di viaggio del petrolio
estratto nel ragusano. E speriamo
Dio non voglia altro.
Ma si può investire nel turismo,
nelle risorse vocazionali del territorio, nell’agricoltura e nell’enogastronomia e poi accettare tutto ciò
senza batter ciglio e per giunta dopo
essersi sollevati contro un parco naturalistico inventandosi di sana
pianta rischi per l’economia delle
imprese ragusane? Si tratta proprio
di una deriva mentale. Cose - appunto - da matti.
27 maggio 2010
6
Politica
Un’esperienza formativa grazie all’efficiente e moderna rete di collegamenti
Stagione estiva alle porte
vacanze iblee da sballo…
di ERNESTO GIRLANDO
L
a stagione estiva è alle porte
e, grazie alla moderna ed efficiente rete di collegamento
con il resto del mondo, raggiungere
le nostre città sarà un’imperdibile
esperienza formativa. I creativi delle
più importanti aziende legate al settore turistico stanno studiando le soluzioni possibili. Nel frattempo la
Federalberghi, in collaborazione
con la Provincia regionale di Ragusa, ha diffuso un accattivante opuscolo di informazione per i turisti
dal titolo “Che anno è, che posto è”.
Ma vediamo nel dettaglio i pacchetti
preparati dalle agenzie di viaggi per
raggiungere le amene località degli
Iblei.
Aereo. La fase di completamento
delle strutture aeroportuali comisane
dura da quattro anni. Adesso siamo
entrati nella delicatissima e per ciò
lunga fase di completamento della
fase di… completamento. Tuttavia,
già da questa estate l’aeroscalo sarà
aperto al traffico aereo. In mancanza del servizio di controllo del volo,
l’Aeronautica militare (ancora proprietaria del sedime aeroportuale)
Ferrovia ragusana: esempio simbolico ed emblematico dello stato dei trasporti in Sicilia
metterà a disposizione dei viaggiatori una flotta di velivoli storici pilotati da veterani della prima guerra
mondiale.
Ogni biplano potrà ospitare un solo passeggero per volta, che dovrà
presentarsi all’aeroporto militare di
Ciampino, previsto quale punto di
raccolta e arruolamento, almeno tre
giorni prima della partenza, vestito
con costume d’epoca, per partecipaciano notevolmente nei giorni di
della corsia, mantiene tempi di perprezzo del biglietto nelle tratte da e
re all’alzabandiera e ingrassare i pipioggia per mezzo del caratteristico
correnza saldamente ancorati alla
per Ragusa.
stoni del motore.
asfalto saponato di cui è stata optradizione imperiale romana, alla
Automobile. La Siracusa-RaguTreno. Dopo i tagli di Trenitalia,
portunamente dotata l’importante
cui epoca risale la sua costruzione
sa-Gela, i cui lavori furono inauguviaggiare in treno è diventata
arteria. A causa dell’apertura del
com’è facile notare dalle pietre mirati da Vittorio Emanuele Orlando
un’elettrizzante esperienza di turicantiere per il raddoppio, questa
liari che la
smo estremo. Il
estate i turisti potranno godere del
fiancheggiano
pacchetto “Ragusa
suggestivo percorso alternativo pae che indicain rotaia” viene
rallelo in mezzo ai salici.
no la distanza
fornito in alternatiNave. Una confortevole crociera
in miglia dal
va a chi ha già pronel Mediterraneo con partenza dalle
miliario auvato il Safari in
coste libiche e attracco nel porto tureo. Tempi
Kenia, il parapenristico di Marina di Ragusa, a bordo
che si accordio sulle Ande,
l’attraversamento
del deserto del Sahara, il viaggio di
sola andata a Chernobyl. La partenza
è prevista da Milano. Si andrà in un
quarto d’ora a Bologna, dove bisognerà scendere dal
treno, recuperare
in camera iperbarica gli effetti dell’alta velocità, pro- Comiso: resta solo la simulazione a tre dimensioni dell’aeroporto
seguire su un intercity per raggiunche ottenne i finanziamenti dall’Eugere in poche ore Firenze, indi ragropa nel corso della Conferenza di
giungere e procedere da Roma TerPace di Parigi del 1919 in cambio
mini in vagone letto, immancabildella rinuncia alla Dalmazia, è ormente dotato di Internet, frigobar e
mai dichiarata zona di interesse stotivù, servizi forniti, nello spirito delrico-archeologico e non potrà più
la nuova politica dei tagli adottata
essere toccata. In compenso i turisti
da Trenitalia, in sostituzione del letin visita sul posto potranno ammirato. Sbarcati in Sicilia, il viaggio prore gli antichi utensili e il carro a cacederà a bordo di un treno a manovalli per il trasporto dei laterizi abvella che entrerà trionfante, alcuni
bandonati dagli operai del tempo,
giorni dopo, alla stazione di Catania
all’altezza dello svincolo di RosoliCentrale.
ni, a causa dell’acquazzone che inDa lì, per essere sicuri di raggiunterruppe i lavori, mai più ripresi,
gere le stazioni iblee, l’ente ferronell’agosto del 1921.
viario italiano consiglia ai signori
La Ragusa-Catania, in attesa
viaggiatori di portarsi da casa l’apUlivo secolare delle campagne iblee
dell’inizio dei lavori di raddoppio
posito treno, non compreso nel
Ecco i principali e aggiornati “pacchetti”
preparati dalle agenzie di viaggio per raggiungere le amene
località del Ragusano nei prossimi mesi
27 maggio 2010
di affollati barconi multicolori nei
quali si potrà familiarizzare con uomini e donne di diverse etnie. Organizzata dall’agenzia “Mare Nostro”
il cui pacchetto di maggioranza è
detenuto dalla mafia siciliana che,
caduta in disgrazia, ha dovuto cedere il controllo della droga ai calabresi e quello degli appalti alla Protezione civile, e adesso cerca di risalire la corrente grazie al fiorente traffico del trasporto passeggeri nel canale di Sicilia. Tutto compreso nel
prezzo: dal respingimento al cannoneggiamento, dal ricovero nei centri
di identificazione ed espulsione
all’adrenalica esperienza della clandestinità. Diversa l’accoglienza a
questi turisti nordafricani a seconda
dell’orientamento politico delle amministrazioni locali. Un calcio in
culo se di destra, un chinotto e un
calcio in culo se di sinistra.
Poste. Viste le carenze infrastrutturali di collegamento, alcune imprese di spedizioni irrompono nel
mercato passeggeri, immedesimandosi nelle esigenze dell’utente costretto a raggiungere territori impervi. Il servizio sembra essere efficiente: basta farsi imballare nel polistirolo o nei più avanzati materiali
espansi, e con la giusta affrancatura
si viene spediti per la destinazione
scelta. Essenziale trovare all’arrivo
qualcuno che firmi l’avviso di ricevimento.
Pagando un piccolo sovrapprezzo
si può anche scegliere la posta
espressa aerea ed essere sganciati
con il paracadute sopra la città scelta. Allo studio un avveniristico servizio di posta pneumatica: si potrà
essere sparati attraverso un’enorme
tubazione che collega le principali
capitali europee con la filiale ragusana di Poste italiane. Le prove di
simulazione hanno dato buon esito:
nei due minuti e venti da Roma a
Ragusa, l’on. Riccardo Minardo è
giunto a destinazione con la capigliatura in piega come sempre e il
suo stato confusionale non è parso
aumentato, all’arrivo, rispetto alla
partenza.
La Voce dell’Isola n. 9~10
Politica
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RAGUSA: Scicli, Modica e Vittoria alla ricerca della soluzione del problema delle discariche
Rifiuti, è emergenza perenne
battaglie non-stop fra Comuni
di ERNESTO GIRLANDO
C
i mancava pure questa: il disintegratore di rifiuti solidi urbani. Nel cupore di questi
giorni, abbiamo tratto profondo e
inatteso sollievo leggendo sulla stampa locale di una straordinaria invenzione che risolverebbe in un paio
d’ore il problema dei rifiuti in provincia di Ragusa (e probabilmente
nel mondo). Avevamo lasciato sindaci che capeggiavano tumultuanti presidii davanti ai cancelli delle discariche, polizie municipali in assetto di
guerra, politici impegnati in furibonde liti a difesa dell’integrità del proprio orto, Comuni, Provincia, Ato
Ambiente, prede di spaventose crisi
istituzionali. Tutto tempo perso. È
stata presentata da un’azienda canadese ad autorevoli rappresentanti della Provincia regionale di Ragusa la
macchina che risolverà il tutto, riducendo la spazzatura a livello sub atomico, trasformandola in energia pulita e rilasciando alla fine del ciclo un
intenso profumo di rose nell’aria. In
omaggio, ogni due disintegratori di
rifiuti, sarà offerto ai sindaci l’Apparecchio per darsi pacche sulle spalle,
un’altra straordinaria invenzione della ditta canadese da utilizzare ogniqualvolta si sente il bisogno di congratularsi con se stessi. E visto che
ormai neanche il cane di casa scodinzola a sindaci e politici in genere e,
dunque, la necessità di sentirsi apprezzati e benvoluti è grande, l’oggetto ha notevoli prospettive di mercato.
E questa è la parte seria della questione. In attesa di scrivere la grande
pagina di Storia della Scienza, basta
rivedere tutto ciò che è successo in
materia di guerra locale dei rifiuti per
rendersi conto che la parte comica è
un’altra. Dopo il primo capitolo del
conflitto caratterizzato dai respingimenti degli autocompattatori dei Comuni di Scicli e Modica da parte del
sindaco di Ragusa per evitare che entrassero nella discarica di Cava dei
modicani, una grande confusione ha
pervaso le pagine di questo clamoroso evento di storia contemporanea.
Grande dissidio intorno a un problema pseudo-amministrativo di fondo:
ci si trova davanti a un sistema di discariche sub comprensoriali o ad un
unico ambito provinciale? Nel primo
caso, ognuno sarebbe obbligato a
conferire i propri rifiuti nella discarica di competenza (in linea con la posizione espressa dal sindaco di Ragusa); nel secondo, visto che l’ambito è
provinciale, l’Ato può permettere a
chiunque di abbancare i propri rifiuti
dove meglio crede. I fatti (o meglio
gli eventi arbitrari che seguiranno)
faranno propendere per la prima opzione.
Le discariche gestite dalla società
d’ambito sono tre. Ognuna in condizioni peggiori delle altre. Quella di
Cava dei modicani ha ancora un’autonomia che si aggira intorno ad un
anno; satura quella di Scicli, chiusa,
in attesa di essere messa in sicurezza
e in attesa di un finanziamento per la
costruzione della quarta vasca che
permetterebbe di prolungare la vita
della discarica di appena 18-24 mesi;
quasi satura quella di Vittoria, con
un’autonomia residua di pochi mesi,
anch’essa in attesa della realizzazione di un’altra vasca. Dal punto di vista finanziario la situazione è ingarbugliata. Scicli, nel momento in cui
La Voce dell’Isola n. 9~10
ha passato in consegna la discarica di
San Biagio all’Ato, avrebbe dovuto
tirar fuori le somme (circa 3 milioni e
mezzo di euro) per realizzare le opere
necessarie a rimettere la stessa in
funzione.
Il Comune sciclitano dichiara che i
soldi non ce l’ha e che deve ricevere
per la precedente gestione della discarica (che ha causato la prima
Grande Guerra dei rifiuti) svariati
milioni dai comuni di Ispica, Pozzallo e Modica (intorno ai sei milioni di
euro soltanto quest’ultimo). Frattan-
di Ragusa, Chiaramonte, Monterosso
e Giarratana; i comuni di Scicli e
Modica conferiranno presso la discarica di Mazzarrà S. Andrea in provincia di Messina a 250 km. di distanza.
Naturalmente scenderanno in guerra Scicli e Modica che paventano
enormi disagi logistici e vertiginosi
aumenti di bollette. Si tenterà di evitare questa incresciosa situazione con
un estenuante susseguirsi riunioni tra
sindaci, presidente della Provincia e
dell’Ato Ambiente. L’indice è puntato su quest’ultimo, accusato un po’
Nessuno aveva pensato che per riaprire la discarica di Scicli c’era bisogno di individuarne un gestore e ci
sono tempi tecnici e procedure da seguire. Mentre per avviare i lavori di
ampliamento delle vasche occorrono
due gare: una per la progettazione,
una per la realizzazione dei lavori.
Mesi, forse anni.
Tutto da rifare, dunque. L’improvvisazione, dopo il dilettantismo, la
farà da padrona. L’Ato indicherà la
discarica di Vittoria come il fronte
estremo dell’emergenza: la reazione
non accuseranno nessun peso aggiuntivo. Conferire nella discarica messinese costerà venti euro meno a tonnellata, rispetto a Cava dei modicani,
risparmio che compenserà i costi di
trasporto.
L’emergenza certo non finisce qui.
Quanto durerà ancora la discarica di
Mazzarrà S. Andrea? Soltanto pochi
mesi: fino ai primi di luglio. E dopo?
Chissà. Quel che per il momento è
certa è la vendetta che Di Pasquale
consuma ai danni di Vindigni: a poche settimane dalla scadenza naturale
del sindaco di Vittoria non tarderà. Nuove barricate, stavolta
davanti ai cancelli
della discarica di
Pozzo bollente per
impedire che altri comuni, oltre a quelli
del sub comprensorio, vi scarichino i loro rifiuti. Frattanto la
rottura tra Vindigni,
presidente dell’Ato, e
Nello Di Pasquale si
fa sempre più netta: l’uno non ritirerà
il ricorso al Tar, l’altro ridarà vigore
alla delibera che chiude Cava dei
modicani al conferimento di altri comuni. Tempi comici rispettati alla
perfezione.
A questo punto non rimane che la
soluzione imposta dall’assessore regionale: Modica e Scicli porteranno i
loro rifiuti nella discarica di Mazzarrà S. Andrea. Si scopre stranamente
che le casse dei Comuni interessati
del mandato, l’assemblea dei sindaci
ha azzerato il Cda dell’Ato Ambiente
di Ragusa e amen, Vindigni è andato.
Non ne sentiremo certo la mancanza.
Il problema vero è che sentiremo ancora purtroppo la presenza degli altri
protagonisti di questa grottesca vicenda che tra pochi mesi saranno di
nuovo chiamati a gestire (si fa per dire) la nuova emergenza - emergenza
che è perenne - dei rifiuti in provincia di Ragusa.
Le discariche gestite dalla società
d’ambito sono tre, ognuna in condizioni
peggiori delle altre: quella di Cava
dei modicani ha ancora un’autonomia
che si aggira intorno ad un anno;
satura quella di Scicli, chiusa, in attesa
di essere messa in sicurezza e quasi satura
quella di Vittoria
to, sono stati individuati tre siti per
una nuova discarica comprensoriale
(due a Ispica, uno a Scicli), ma i Comuni da quell’orecchio non ci sentono, a parte una promessa verbale del
sindaco di Ispica e nulla più. I conti
dell’Ato sono presto fatti: sei milioni
di debiti, a fronte però di 18 milioni
di crediti che sono le somme dovute
dai comuni e mai versati nelle casse
della società d’ambito. Quindi i sindaci, da un lato sbraitano e si ammutinano, dall’altro non tirano fuori il
becco di un quattrino, causando criticità nella gestione complessiva dei rifiuti.
Visto il tutto, l’assessore regionale
al ramo, Pier Carmelo Russo, deciderà, in data 10 aprile, che dopo il 20 le
cose così dovranno funzionare: la discarica di Vittoria resterà aperta ai
Comuni di Vittoria, Comiso, Santa
Croce e Acate, mentre Ispica e Pozzallo ivi avranno accesso solo fino a
quando sarà realizzata la nuova vasca; la discarica di Ragusa ai comuni
da tutti di essere l’artefice di mille disastri. Il tavolo istituzionale elaborerà
una soluzione per scongiurare, almeno nell’immediato, il trasporto dei rifiuti di Modica e Scicli nella discarica messinese.
I comuni si impegneranno (ancora
una volta, tanto l’impegno non costa
nulla) a versare proporzionalmente
parte delle somme dovute, necessarie
a mettere in sicurezza la discarica di
Scicli, permetterne l’apertura e avviare la costruzione delle altre vasche
nella stessa Scicli e a Vittoria.
Perfino il sindaco di Ragusa si mostra accondiscendente promettendo di
aprire la propria discarica fino al 30
di aprile a Modica e Scicli, in cambio
del ritiro del ricorso al Tar presentato
precedentemente dall’Ato contro
l’ordinanza di Di Pasquale che chiudeva Cava dei modicani.
Tutto sembra risolto ma a gestire la
materia è solo l’inopinato spirito dilettantistico di dilettanti allo sbaraglio. Sembra di stare alla corrida.
27 maggio 2010
Politica
8
Road Map per uscire dalla recessione economica: la fiscalità compensativa
Crisi: l’inversione di tendenza
minacciata dalle speculazioni
di MIRCO ARCANGELI
D
opo aver analizzato (nei precedenti articoli) le cause dell’attuale recessione economica e le potenzialità della Regione
Sicilia in vista di una possibile ripresa economica, ragioniamo ora
sugli strumenti utili per favorire una
ripresa, capace di sollevare il PIL e
portarlo su livelli di crescita americani. Vero è, che comincia ad intravvedersi una leggera inversione
di tendenza di tutti gli indici economici, ma è pur vero che l’intensità
di questo cambiamento è talmente
fragile, da renderlo quasi insignificante, e facilmente attaccabile dagli
effetti che la speculazione finanziaria, sempre all’erta, può provocare.
Prima di entrare nel merito degli
strumenti che si possono utilizzare a
questo fine, mi corre l’obbligo di
puntualizzare la situazione economica della Comunità Europea, alla
luce del crolli di borsa, conseguenti
agli attacchi speculativi internazionali degli ultimi giorni.
Il rischio di insolvenza di un Paese determina il rischio di default
dello stesso sistema economico di
quel Paese. Infatti i titoli di Stato di
un Paese vengono acquistati prima
di tutto dallo stesso sistema finanziario del Paese emittente (Banche,
assicurazioni, istituzioni finanziarie,
fondi e investitori), sia per rispondere a norme che prevedono determinati equilibri tra titoli a reddito fisso, titoli a reddito variabile, e investimenti, sia per distribuirlo al popolo degli investitori. Se dovesse accadere il mancato rimborso dei titoli
alla scadenza, (o la mancata acquisizione dei titoli di nuova emissione a
copertura dei vecchi in scadenza)
l’intero sistema finanziario andrebbe in crisi, con un probabile rischio
di insolvenza, diffuso in tutti i settori dell’economia.
L’effetto domino poi, causerebbe
una crisi anche nei paesi a questo
collegati. Questo è stato il primo
motivo a base della reazione comunitaria alla crisi Greca, ed al possibile rischio di insolvenza. L’Europa
ha praticamente garantito i creditori
(possessori di titoli di stato) della
Grecia, creando una dotazione di
750 mld. di euro, ed ammettendo
anche la possibilità, da parte della
Comunità Europea, di acquistare i
titoli di Stato di nuova emissione
dei paesi europei. Il crollo delle
Borse così, si è bloccato, si è poi in
parte recuperato il valore perduto,
per poi subire altri colpi speculativi.
La speculazione infatti, scommette
che l’eccessivo debito di Paesi come
Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna
(PIGS) produca un default economico degli stessi Paesi, ed un crollo
dell’euro, come conseguenza finanziaria più immediata. In effetti, il
problema esiste, (debito eccessivo
dei Paesi europei, recessione economica, ecc.) e non è possibile intervenire solo con misure straordinarie
ed estemporanee, poiché alla fine
non risultano credibili e durature.
È necessario intervenire, invece,
per ridurre il debito pubblico. Occorre che nei Paesi europei si intervenga con riforme strutturali degli
apparati statali troppo spreconi; ridurre le dispersioni, razionalizzare i
sistemi pensionistici, ridimensionare
i costi della politica, sostituire i ma27 maggio 2010
È necessario intervenire per ridurre il debito pubblico.
Occorre che nei Paesi europei si intervenga con riforme
strutturali degli apparati statali troppo spreconi;
occorre ridurre le dispersioni, razionalizzare i sistemi
pensionistici, ridimensionare i costi della politica
nager incapaci e solo politici delle
strutture statali, con manager veri e
produttivi, ed alla fine se ci sarà da
“tirare la cinghia” occorrerà, per tutti, sopportare i sacrifici conseguenti.
Inoltre, è sempre più necessario, accelerare i processi per giungere ad
una unificazione dei paesi comunitari, anche da un punto di vista politico e finanziario, realizzando la
confederazione degli Stati europei,
per rendere omogenea e credibile la
propria iniziativa.
Dall’altra parte il sistema economico deve fare la sua parte, deve riprendere competitività, si deve rinnovare, deve poter dimensionarsi
per competere a livello mondiale, e
questo la piccola impresa non sempre riesce a farlo. Anche questo ragionamento ci porta a considerare
ineludibile che l’uscita dall’attuale
crisi potrà essere possibile solo con
soggetti economici diversi. Non saranno più come prima.
Ma come è possibile aiutare ed
accelerare il percorso, verso un idoneo dimensionamento aziendale,
con le giuste competenze oltre che
conoscenze, capace di essere competitivo nei mercati, senza dover vivere di rendita, o avvantaggiati da
motivi di cambio dell’euro o per assistenza pubblica? È necessario investire nella ricerca e sviluppo, utilizzare tutte le professionalità esistenti, dotarsi di strumenti capaci di
abbattere i costi senza pesare sul bi-
lancio dello Stato, già troppo provato.
In Italia ci sono 19 laureati su 100
giovani (tra i 25 ed i 34 anni), contro la media dei Paesi Ocse di 34, la
Francia di 41, la Spagna di 39, gli
Usa di 40, il Giappone di 54. Secondo la Banca d’Italia il numero di imprenditori con più di 65 anni di età è
sceso dal 37,2% del 2002 al 24,2%,
mentre gli imprenditori tra i 35 e i
55 anni è salito dal 29,1% al 43,9%.
Contemporaneamente è aumentato
anche il numero degli imprenditori
laureati, passato dal 23 al 34,7%.
Secondo la Banca d’Italia se più
laureati giovani entrano in azienda,
aumenta la probabilità di un rinnovo
del sistema. Università, ricerca e
sviluppo, sono il terreno su cui il
Paese dovrà investire, poiché fino
ad oggi troppo poco si è fatto.
In questo contesto le professioni
economiche possono rappresentare
lo strumento per coniugare le politiche strategiche all’economia reale e
produttiva. Gli stessi commercialisti
e consulenti aziendali, dovranno essere sempre più, un supporto tecnico professionale in funzione dello
sviluppo, portando la propria professionalità dentro le aziende, non
solo per leggere e tradurre gli eventi
compiuti (i bilanci), ma soprattutto
per contribuire: alla realizzazione
della progettualità strategico-aziendale; alla ricerca degli strumenti finanziari più idonei; all’analisi della
produttività aziendale; alla ricerca
dei mercati; ad interfacciare l’economia reale al sistema politico.
Per quanto concerne gli strumenti, avrà un senso attivare interventi
di fiscalità compensativa, e strumenti operativi di finanza agevolata.
Perché i maggiori costi sociali di tali agevolazioni produrranno importanti benefici sociali. Fiscalità compensativa quindi, legata a finalità
ben determinate. Partita come fiscalità di vantaggio, viene poi definita
fiscalità compensativa per poi diventare fiscalità dì sviluppo. In realtà la seconda dizione è quella che la
descrive meglio anche se il
fine è quello dello sviluppo.
Il Credito d’imposta per
incremento occupazionale,
è lo strumento principe di
fiscalità compensativa, poiché restituisce alle imprese
gli stessi costi che fa pagare. In pratica il costo per lo
Stato di una persona assunta con il credito d’imposta è
pari a zero se in mancanza
di credito d’imposta la stessa persona risulta restare disoccupata. Infatti il costo
dei contributi a carico del
datore di lavoro (400-500
euro) è più o meno pari al
credito d’imposta che riceve. Ma il beneficio sociale
diventa notevole, poiché dà
futuro e speranza ad un di-
soccupato che quindi diventa occupato; si distribuisce un reddito che a
sua volta viene tassato, e lo Stato incassa; si incrementa il consumo (dato dal nuovo reddito a disposizione)
e quindi si sviluppa l’economia; si
riducono i costi del lavoro a carico
delle imprese, che possono quindi
meglio competere.
La fiscalità compensativa si può
utilizzare anche per lo sviluppo di
determinati territori, quali ad esempio, il mezzogiorno. Ci si riferisce,
in questo caso, ad una tassazione
molto contenuta sulle nuove attività,
per un numero di anni consistente,
che “compensi” le imprese, dei numerosi svantaggi che sostengono
nell’insediarsi nei territori del Mezzogiorno e nelle aree depresse.
Ove solitamente si è in presenza
di infrastrutture inadeguate, di forte
criminalità organizzata, di difficoltà
nelle procedure amministrative e
burocratiche, di accesso al credito
più complicato e con un costo del
denaro più alto, di una patrimonializzazione aziendale inesistente. In
questo contesto economico le imprese, attraverso la fiscalità compensativa riequilibrano il gap territoriale, e si pongono in concorrenza
in maniera paritaria con le imprese
di territori più avanzati ed organizzati.
Anche la detassazione degli utili
reinvestiti, rappresenta un idoneo
strumento di fiscalità compensativa
e per lo sviluppo. Scadrà il prossimo
30 giugno, il periodo di regime di
un anno della Tremonti Ter (detassazione degli utili reinvestiti), e sarebbe opportuno rinnovarlo almeno
di un altro anno, per dare ossigeno
agli investimenti volti a migliorare
la propria competitività. In conclusione, come strumenti da mettere in
campo, si intende quelli possibili
con l’intervento della leva fiscale
nell’economia in funzione dello sviluppo.
La road map che si immagina, per
uscire dalla crisi, vede quindi nei
nuovi ruoli dei protagonisti, l’obiettivo di costruire le basi di un sistema, non creato sul concetto della
produzione tout court, ma finalizzate all’integrazione economica del
territorio, utilizzando le attitudini e
le vocazioni presenti, attraverso
strumenti quali la leva fiscale e le
R&S, con un nuovo ed importante
contributo delle professioni, che andando oltre il singolo effetto specifico, potrà assurgere a diventare un
vero e proprio ruolo sociale.
La Voce dell’Isola n. 9~10
DOSSIER
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La storia stravolta
La storia dimenticata
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Nel 64º anniversario dell’Autonomia siciliana
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el sessantaquattresimo anniversario
dell’Autonomia Siciliana proponiamo ai
nostri lettori tre dossier pubblicati negli
anni scorsi, convinti che si riesce a stravolgere la
storia, così come è accaduto, quando si perde la
memoria dei fatti, quando si mitizzano perso-
N
La Voce dell’Isola n. 9~10
naggi i cui comportamenti vengono esaltati in
piena mistificazione, ignorando cosa hanno rappresentato veramente.
La memoria è un bene di tutti e nessuno ha il
diritto di cancellarla sovrapponendo montagne
di menzogne che tornano utili solo al potere ed
ai cosiddetti potenti, di qualsiasi epoca. Non
commentiamo i dossier che ripubblichiamo, ma
li indichiamo, a nostro avviso, quale strumento
per non dimenticare.
Questi i dossier con le date in cui sono stati
pubblicati da “La Voce dell’Isola”.
27 maggio 2010
DOSSIER
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27 maggio 2010
A
lla luce di così tanto interesse sulla questione
siciliana che si è accentuata in questi ultimi
tempi, vogliamo narrare quanto accadde in
Sicilia quel famoso 21 ottobre del 1860, anniversario che è ricorso proprio nei giorni scorsi, poiché ancora sono in tanti a non conoscere la “verità” guardata da un diverso di punto di vista da quello ufficiale, di quella pagina di storia che ci ha portato a ciò
che siamo oggi.
Al fine di essere il più possibile chiari sulla questione, non possiamo esimerci d’iniziare senza brevemente accennare ad alcune realtà sullo sbarco di
Garibaldi, azione che lo storico Mack Smith ha definito “la donchisciottesca spedizione di Garibaldi e
dei suoi Mille”, circa il modo rocambolesco di come
avvenne l’operazione. Innanzitutto, apparve chiaro
che le operazioni paramilitari di Garibaldi furono
prive di validità giuridica perché a quell’impresa
mancò la credenziale di uno Stato ufficialmente costituito e, quindi, la necessaria copertura di una bandiera. Si trattò dunque, a
nostro avviso, di un’avventura paramilitare, personale e piratesca assolutamente illegale, per usare un linguaggio in voga
oggi. Sin dal primo momento, il popolo siciliano
ebbe seri dubbi sull’azione: si voleva realmente liberare la Sicilia dalla dominazione borbonica, oppure si voleva compiere
un’altra vera e propria invasione? Infatti, quel
giorno di maggio, quando
a Marsala giunse Garibaldi con le sue navi, in rada
e alla fonda del porto trovò due cannoniere della
“Mediterranean Fleet” inglese: le HMS. “Argus” e
“Intrepid”, formalmente
in visita di cortesia in Sicilia, ma in realtà giunte
lì su precise istruzioni del
gabinetto Palmerston
Russel; e mentre i garibaldini del Piemonte erano già sbarcati e gli altri
del “Lombardo” si accingevano a imitarli, sopraggiunsero a Marsala la pirocorvetta “Stromboli”,
comandata da Guglielmo
Acton, e due altri piroscafi armati della stessa flotta borbonica, che si accorsero della presenza sul
molo di uomini in giubbe
rosse e li scambiarono per
i red coats delle truppe
inglesi. Allora, il comandante Acton, che aveva
già fatto armare i pezzi,
fece chiedere agli inglesi
se gli uomini armati che
si vedevano sul molo fossero truppe britanniche.
Gli inglesi risposero di
no, e nel contempo, avvertirono Acton che i loro
comandanti si trovavano
a terra. Acton, che rabbrividì al solo pensiero che
una scheggia di granata
potesse colpire un ufficiale della regina Vittoria,
decise di attendere il loro
ritorno sulle loro navi, e solo dopo un’ora buona poté aprire il fuoco. Ma a quel
punto, gli uomini intravisti sul molo erano già al sicuro e ben nascosti dai tiri dello “Stromboli” e dei
piroscafi “Partenope” e “Capri”.
Questi episodi della prima ora di Garibaldi e dei
Mille in Sicilia, la dicevano già allora lunga e c’inducono oggi a ritenere che, se il capitano di fregata
Acton non fosse stato troppo fiducioso nella lealtà
britannica e avesse adempiuto al suo dovere di soldato, almeno la metà della spedizione che approfittò
di quell’ora per abbandonare il “Lombardo”, avrebbe fatto la stessa fine che fecero nel 1857 i 300 di
Carlo Pisacane, e forse la storia che portò la Sicilia
dall’una all’altra dominazione sarebbe ancora tutta
da scrivere.
D’altronde, la perfidia e l’egoismo della diplomazia inglese, le sue riserve mentali sul destino coloniale della Sicilia, nel maggio 1860, non vennero
compresi soltanto da quell’ufficiale borbonico che,
dopo tutto, passò al nemico prima ancora della capi-
LA VOCE DELL’ISOLA
11 novembre 2006
lia si era dato nel 1848-49, si comportò da invasore,
sfruttando il territorio occupato, distraendone le risorse finanziarie per i bisogni di altri territori, di altre popolazioni, di altri Stati.
Gli eventi di quella triste pagina di storia del popolo siciliano, che fu rapinato, saccheggiato, umiliato, reso servo e trucidato dai liberatori garibaldini,
non trova spazio di approfondimento in questa brevissima narrativa che, principalmente, è rivolta all’atto ben congegnato di annessione della Sicilia. Infatti, il 2 giugno, il governo provvisorio garibaldino
aveva emanato da Palermo un decreto sulla divisione dei demani; ma non appena i contadini passarono
a reclamarne l’attuazione e a rivendicare anche la
quotizzazione delle terre demaniali acquistate illegalmente dai commercianti e dai borghesi, fu proprio quel governo che cominciò ad applicare contro
di essi quegli altri decreti emanati dallo stesso Dittatore in difesa della proprietà e degli interessi agrari
della borghesia e, per di più, adottando contro i poveri disillusi la procedura
sommaria dei Consigli di
guerra distrettuali, istituiti
con il decreto del 20 maggio. E se ciò costituì da
un lato una garanzia per
la classe aristocraticoborghese, la quale inclinò
subito all’annessione
pronta ed incondizionata,
determinò dall’altro la
frattura definitiva tra
quello pseudo-liberatore e
il proletariato dell’isola.
Inoltre, le stragi contadine che Bixio e gli altri comandanti delle colonne
garibaldine consumarono
a Bronte, a Nicosia, a
Mascalucia, a Nissoria, a
Leonforte e a Biancavilla,
sono il suggello e le prove storiche più schiaccianti della politica filoborghese e reazionaria
adottata fin dal primo
momento dall’Eroe della
libertà dei popoli. Garibaldi mise subito in atto il
desiderio del re che “si
compisse senza ritardo
l’annessione”, e Depretis
(pro-dittatore con il decretò di Milazzo del 21luglio) cominciò ad emanare tutta una serie di provvedimenti allo scopo di
far scomparire ogni residua possibilità di autodeterminazione dei siciliani.
A tale proposito, ricordiamo in modo specifico i
provvedimenti politicamente e psicologicamente
incisivi deI 13 giugno,
con il quale si abolì l’emblema nazionale dell’Isola, sostituendolo con lo
stemma sabaudo, come se
la Sicilia dovesse essere
considerata d’ora innanzi
un bene di quella Corona
o addirittura parte del patrimonio privato di quei
re; quello del 16 giugno,
che revocò le dogane tra
l’Isola e le province itaGiuseppe Garibaldi
liane; quello del I7 giugno, che impose alle navi
siciliane la bandiera dello
Stato sabaudo; quello del 2 luglio, con il quale si
lana menzogna secondo cui egli sbarcò nell’isola per
stabili che gli effettivi dell’esercito siciliano andavaaiutare il popolo siciliano a riprendere in mano la dino a costituire la XV e la XVI divisione dell’esercito
sponibilità del proprio destino. Infatti, nel primo depiemontese; quello del 6 luglio, che dispose l’intecreto fatto a Salemi due giorni dopo lo sbarco, egli
stazione di tutti gli atti pubblici a “Vittorio Emanuesi autoproclamò “comandante in capo delle forze nale II Re d’Italia”, quando ancora non lo era; quelli
zionali in Sicilia” e affermò di “assumere nel nome
del 5 e del 14 luglio, con i quali gli uomini della
di Vittorio Emanuele Re d’Italia, la Dittatura in SiciMarina Militare siciliana furono incorporati negli orlia”. Cioè, si attribuì, senza mezzi termini e senz’alganici di quella Sarda.
cun equivoco, la posizione giuridica dell’occupante
Dal 3 agosto ad oltre la metà di ottobre, anziché
bellico e, in particolare, dell’invasore il quale, per
dare la pro-dittatura ad Antonio Mordini, si attuò
delega più o meno espressa del non ancora re d’Itauna vera e propria buriana di provvedimenti: l’estenlia, intendeva succedere al precedente invasore. È
sione all’isola dello Statuto Albertino; l’adozione
dunque inoppugnabile che fin da questo suo primo
della formula del giuramento di fedeltà a Vittorio
decreto, egli scartasse ogni pur minima concessione
Emanuele Il e ai suoi reali successori; l’intestazione
alla libertà dei siciliani, poiché con la forza acquistadelle leggi “in nome di S.M. Vittorio Emanuele Re
va la sovranità del territorio che gradualmente andad’Italia”; l’unificazione monetaria; il riconoscimento
va occupando. Contrariamente alla sua conclamata
alla pari dei gradi accademici conseguiti fuori della
sensibilità di “eroe della libertà dei popoli”, che
Sicilia e nei pubblici concorsi svoltisi nell’isola.
avrebbe dovuto indurlo a scegliere di concedere la
Vennero recepiti pure i decreti piemontesi sull’ordilegislazione e l’organizzazione che lo Stato di Sicitolazione del proprio re, ma non lo furono dagli stessi Siciliani nel 1812, nel ‘48, nel ‘60, e anche nel
1943-45. La narrazione di quei fatti non ha lo scopo
di fare filosofia politica o di rifare la storia dell’impresa siciliana di un Garibaldi a cui il Foreign Office
credette di riconoscere la stoffa del Bolivar, di San
Martin, di Artigas, di Espartero, la stoffa del libertador sudamericano o iberico, anglofilo per inclinazione o per necessità; né di dare spazio alla sterile e
odiosa polemica sull’estrazione tipicamente italica e
nordista del contingente originario dei cosiddetti
Mille. Lo scopo è invece di chiarire lo status che il
nuovo invasore rivesti in Sicilia, succedendo all’occupante borbonico. Giuseppe Garibaldi non prese
mai in considerazione il sacrosanto diritto dei siciliani alla libertà, né volle riconoscere l’esistenza di
quel partito costituzionale che rappresentava l’opinione politica maggioritaria di essi. Non di meno, i
testi scolastici e la storiografia tradizionale tentano
ancora, nel 2006, di far passare per verità la grosso-
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15-28 Settembre 2007
Una chiave di lettura per capire avvenimenti dalle origini a tutt’oggi ignote
L’associazionismo
come forma
di mutuo soccorso
Stato, Chiesa, Massoneria segreta
Onorata società e Mafia
I
l teorema siciliano parte dall’ipotesi che in un determinato periodo
storico uomini appartenenti a
quattro “aggregazioni” di natura diametralmente diversa, Stato (nel senso
delle Istituzioni, più propriamente
degli uomini che hanno costituito il
corpo delle Istituzioni, politici compresi), Chiesa (partecipazione di
esponenti dell’Alto clero, di strutture
finanziarie del Vaticano, di appartenenti all’Opus Dei), Massoneria (in
quanti hanno mantenuto la loro adesione in forma segreta e occulta) e
Mafia, si siano trovati in accordo per
raggiungere precisi obiettivi, mirati
inizialmente, ma molto genericamente, agli interessi della collettività (nazionale e internazionale) e poi sfociati, praticamente e concretamente, in
interessi di potere di raggruppamento
(in senso assoluto). In merito a questo teorema Stato, Massoneria, Chiesa e Mafia quale perno sul quale ipoteticamente hanno ruotato gli avvenimenti che hanno costituito le fondamenta dell’edificio della nuova Sicilia autonomistica e di gran parte della
struttura dello Stato italiano, intendiamo ricordare che i tempi e le situazioni in cui gli appartenenti a queste aggregazioni hanno agito negli
anni che hanno preceduto lo sbarco
anglo-americano in Sicilia, nel 1943,
erano ben diversi dagli attuali: coinvolgevano Paesi diversi, e la valenza
dei personaggi stessi era ben lontana,
a tutti i livelli, da quella dei discen-
C
denti che ne hanno assunto, direttamente o indirettamente, l’eredità.
Probabilmente le stesse intenzioni
(leggasi motivazioni) che hanno spinto protagonisti di natura, ceto e cultura diverse a percorrere una stessa
strada, potevano essere condivisibili
(leggasi Machiavelli “il fine giustifica i mezzi”) in quei periodi e inserite
in quel determinato e particolare contesto storico. È chiaro che protagonisti e loro azioni riletti a distanza, nel
Terzo Millennio, e viste le conseguenze che hanno provocato, assumono connotazioni che oggi non solo
non possono essere condivise, ma soprattutto non possono essere comprese nella loro reale dimensione. Il teorema enunciato, pertanto e a nostro
avviso, può essere utilizzato solo come chiave di lettura per capire connessioni altrimenti difficili da individuare, e usato mantenendo la massima cautela nell’esprimere un giudizio
di merito, per evitare il rischio di cadere nei luoghi comuni che per tanti
decenni sono stati spacciati per verità
assolute. Inoltre, gli elementi del teorema Stato, Chiesa, Massoneria e
Mafia di quegli anni non sono certo
quelli che la pubblicistica – più o meno di comodo – nel corso di oltre un
cinquantennio, ha divulgato o tenuti
segreti, alimentando, strumentalmente o involontariamente, una ignoranza sicuramente utile a quanti hanno
voluto mantenere uno stato di conoscenza molto nebulosa.
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esercitato in prima persona da chi lo detiene, costituiscono i principali fattori dai quali si snoda il processo di attivazione degli
interessi che trovano nel territorio-Sicilia il
luogo ideale di sedimentazione e il laboratorio sperimentale per le pianificazioni economiche e politiche che vengono applicate
solo in minima parte localmente, ma che
vengono proiettate altrove, dove, appunto,
gli interessi principali convergono.
È difficoltoso ricomporre il mosaico degli accadimenti che hanno caratterizzato la
vita della Sicilia nell'ultimo secolo, tenuto
conto anche che agli scenari socio-politicoeconomico-militari si sono intercalati continui adattamenti nelle linee strategiche tracciate da coloro che sono stati protagonisti
(spesso non noti) dei fatti stessi. Non è possibile andare alla ricerca di fonti documentali; non è possibile attingere a memorie
storiche in quanto, ovviamente, gli stessi
protagonisti hanno provveduto e provvedono (quelli ancora in vita) a coprire le loro
azioni passate. Insufficienti, dunque, i punti
di riferimento certi. Essendo, però, identificati i pochi elementi - la ricchezza, il potere
- che stanno alla base dei variegati intrecci,
si può delineare la struttura del mosaico,
pur se mancano molti tasselli; si può ricostruire il puzzle della storia siciliana strettamente connessa a quella dell’Italia e di diversi Paesi europei ed extraeuropei, almeno
in riferimento agli ultimi sessanta anni.
Come premessa all'analisi sulla centralità
della Sicilia, nella sua storia e nella sua
prospettiva, sono i ruoli ricoperti da alcune
nazioni (principalmente Gran Bretagna e
Stati Uniti d'America) e da alcune aggregazioni umane (Mafia, Massoneria, Chiesa,
Servizi segreti, Politica) nell'indirizzo che è
stato dato, a vario titolo, agli episodi che
hanno caratterizzato gli ultimi anni del Secondo conflitto mondiale nell'isola, che
hanno costituito la base della realtà odier-
hiesa, Mafia, Massoneria, Politica, Mondo economico. L'associazionismo è stato costantemente un
fattore determinante nella vita della Sicilia, costituendo, nelle varie forme in cui si è manifestato, elemento fondamentale di sopravvivenza, di mutuo soccorso, di
autodifesa, di distinzione di classe.
L'associazionismo, dunque, forte legame, in determinati casi indissolubile, fra quanti accettano un vincolo reciproco basato su specifici interessi. Quali che siano. Anche per una particolare
predisposizione naturale dell'Uomo Siciliano, l'associazionismo
segreto, o riservato, o
discriminatorio, ha
avuto modo di radicarsi sia nel tessuto sociale delle classi dominanti, sia nei ceti medi
e nei ceti meno abbienti che, di riflesso,
hanno cercato formule
di aggregazione imitative, o formule di aggregazione in opposizione
Le radici della Massoneria in Sicilia si
perdono nel tempo e
sicuramente possono
considerarsi antecedenti alla stessa Cristianità, se si tengono nel debito conto le trasformazioni che la Chiesa si
vide costretta ad operare (feste dedicate a Santi) per fare
fronte alle cosiddette ritualità pagane, con l'obiettivo di
non perdere i favori e il seguito popolari e di acquisire
fedeli sotto l'ombrello della religione.
Le radici della Massoneria in Sicilia, pertanto, vanno
ricercate negli antichi riti trasmessi dai vicini Paesi del
Mediterraneo (vedi l'Egitto, e il rito di "Memphis e Misraim", sino ad oggi attivo), piuttosto che nell'Illuminismo europeo che ebbe funzione determinante quale "catalizzatore" di una materia non ancora codificata in una
moderna funzionalità associativa finalizzata a scopi sociali e politici.
Nell'Ottocento la Massoneria siciliana diventava
espressione di una classe che intendeva mantenere il segreto sulle proprie attività: così come i Liberi Muratori
europei rimanevano
padroni dei misteri, si
trasformava facilmente in associazione segreta che si contrapponeva al potere dominante, trasformandosi
ulteriormente, a sua
volta, in potere.
Dall'altra parte, l'Onorata Società, nata
dall'esigenza di coprire
il vuoto lasciato dallo
Stato, si manifestava
come espressione di
equilibrio e di giustizia in una società dove, appunto, lo Stato
non esercitava la sua
funzione, finendo con
l'assimilare il sistema
strutturale-organizzativo della Massoneria quale società
segreta. Storicamente, ai primi dell'Ottocento, l'area di
formazione del modello dell'Onorata Società era su base
estremamente settaria, così come lo era la Massoneria;
nel secondo Ottocento l'Onorata Società al settarismo
aggiungeva il mutuo soccorso, così come avveniva nella
Massoneria.
Onorata Società e Massoneria trovavano, pertanto,
momenti di incontro, momenti di alleanza. I territori dove questo reciproco travaso è stato più accentuato (e dove in diverse istanze esiste ancora) Trapani, Palermo,
Caltanissetta, Enna.
La trasformazione dell'Onorata Società in Mafia-soggetto di arricchimento economico con metodi violenti e
di sopraffazione, non poteva non influire sui continui
adattamenti del modo d'essere della Massoneria nei territori della Sicilia occidentale.
La Mafia diventa, così, una ramificata associazione a
fini criminali, riferendosi al sistema organizzativo piramidale tipico della Massoneria.
La Mafia, insomma, prende a mutuare i propri modelli
in maniera funzionale agli obiettivi che intende raggiungere, adattandosi al mutare dei tempi e dei luoghi con
tutta una serie di caratterizzazioni culturali specifiche degli uomini di comando che ne costituiscono il vertice, e
della qualità degli uomini e dei mezzi che ha a disposizione. La Mafia è, a questo punto, una organizzazione
criminale organizzata, saldamente strutturata, che si avvale nel tempo di rapporti con ogni tipo di potere (pubblico, economico, sociale) per svolgere le proprie attività. La Massoneria della Sicilia occidentale, presa a modello dall'Onorata Società, in vari comparti, subisce la
trasformazione di quell'aggregazione in Mafia, organizzazione di sfruttamento che sta al passo con i tempi.
Non c'è dunque da stupirsi di trovare (ieri, come presumibilmente anche oggi) in un gruppo massonico (ieri
nella sola Sicilia occidentale, oggi presumibilmente sul
piano nazionale e internazionale) personaggi (nel mondo
pubblico o privato) di un certo rilievo che realizzano insieme con i cosiddetti mafiosi un livello di collaborazione che può avere riflessi politici o economico-affaristici.
Il Caso Sindona è un esempio emblematico.
In questo quadro nessuno può escludere (come hanno
dimostrato gli scandali dell'ultimo trentennio) che in determinati momenti personalità del mondo politico o imprenditoriale con origini massoniche, possono essere stati (o sono) organiche all'interno di operazioni di natura
squisitamente mafiosa.
Ciò si è verificato quando tra la Mafia e potere politico-economico-massonico si è avuta (e si può avere) una
sostanziale coincidenza di finalità riguardanti, soprattutto, la gestione di interessi comuni.
Da tenere nel giusto conto che gli elementi alla base
della progressiva integrazione tra Massoneria e Mafia,
sotto la compiacente copertura quantomeno di una parte
della Chiesa, hanno avuto ragioni specifiche proprio negli anni del Secondo conflitto mondiale, con una forte
accelerazione nel periodo antecedente allo sbarco alleato
in Sicilia, per consolidarsi alla fine della guerra e articolarsi (come già rilevato) in precisi patteggiamenti, sfociati ufficialmente nel compromesso della concessione
alla Sicilia dello Statuto Speciale Autonomistico, ma che
possono benissimo sottindendere altri tipi di accordi.
Le radici della libera
muratoria in Sicilia
si perdono nel tempo
e sicuramente possono
considerarsi antecedenti
alla stessa Cristianità
Don Calogero Vizzini
Ruolo determinante della Sicilia
in riferimento agli scenari internazionali
N
on è azzardato affermare che la Sicilia ha avuto, in qualsiasi tempo,
un ruolo importante e spesso determinante non solo nella vita del Paese, ma
anche in riferimento allo scenario internazionale. La posizione geografica dell'isola estremamente strategica da un punto di vista degli scambi commerciali e come avamposto militare - ha fatto sì che la Sicilia diventasse crocevia di interessi variegati che
hanno costantemente travalicato i confini
nazionali, ma che sempre nel territorio regionale hanno trovato la loro ragione d'essere. È per questi motivi che personaggi siciliani hanno ottenuto e detenuto un potere
economico, politico e criminale che è riuscito a condizionare lo sviluppo e il futuro
della regione ed a provocare particolari
scelte di indirizzo politico sia sul piano nazionale che nei rapporti internazionali. In
poche parole, la Sicilia ha avuto costantemente una sua particolare centralità negli
avvenimenti più incisivi della storia italiana, dell'Europa, dei Paesi del Mediterraneo
e, spesso, dei Paesi d’Oltre Oceano. Centralità accentuatasi maggiormente nel corso
dell'ultimo secolo; centralità che la Sicilia
continua a mantenere al di là di quanto possa trasparire, al di là delle apparenti condizioni di sudditanza al potere politico ed
economico centrale, al di là del diffuso malessere delle classi meno abbienti. La ricchezza è accentrata nelle mani di una circoscritta classe dominante che rifugge dall'apparire. Questa classe dominante, nel corso
dell'ultimo mezzo secolo, ha raffinato le
sue strategie, creando rapporti imperscrutabili con il mondo finanziario, politico (a
volte anche con quello criminale) nazionale
e internazionale. A supporto di tale classe
dominante, una serie di sub categorie e di
forme di associazionismo trasversali non
sempre identificabili. L'accumulo della ricchezza, l'esercizio del potere quasi mai
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DOSSIER
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na. Ciò che è accaduto, infatti, dal 1940 sino allo sbarco degli Alleati in Sicilia, all’occupazione dell’isola (luglio 1943), fino
ai primi anni dell’autonomia dell’Isola, è
stato rilevante: ha visto in prima linea personaggi che hanno agito in nome e per conto degli Stati Uniti, dell'Inghilterra, della
Mafia, della Massoneria, della Chiesa.
È in quegli anni che questi personaggi
hanno costruito la ricchezza e il potere che,
poi, hanno condizionato nei decenni successivi non solamente il futuro della Sicilia,
ma anche molti degli assetti socio-politicoeconomici dell'Italia, influenzando e, a volte, determinando le stesse strategie dei governi in ambito nazionale, europeo e, spesso, nell'ambito di alcuni Paesi del Mediterraneo.
È un periodo estremamente complesso ed
articolato, quello che va dagli Anni Quaranta sino alla conclusione del conflitto
mondiale, poiché in quei 5 anni si stabilirono accordi e patti scelleratiindissolubili
(quali i personaggi che agirono? quale la
dimensione e la sostanza dei patti?) che sarebbero dovuti durare 50 anni, e che non riguardavano soltanto il futuro della Sicilia,
ma anche quello dell'Italia e degli equilibri
che si sarebbero dovuti stabilire nello scacchiere del Mediterraneo.
È sufficiente ricordare che la Sicilia venne liberata nel luglio del 1943, quando le
sorti della guerra non erano ancora certe;
che l'Italia venne liberata nell'estate del
1945 e che l'Italia divenne Repubblica nel
1946 per potere superficialmente capire
quali enormi interessi vennero giocati in Sicilia proprio in quella manciata di anni.
Comprensibile, da parte di coloro che condussero gli eventi, la necessità di cancellare
ogni traccia del loro operato. Comprensibile, soprattutto, la necessità di fare in modo
che venisse soppressa, a tutti i livelli, la
memoria storica.
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LA VOCE DELL’ISOLA
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15-28 Settembre 2007
Costante la presenza di politici siciliani nel Governo nazionale
Dai “patti scellerati”
privilegi e potere per pochi
E
state 1943-Sicilia liberata,
1945 fine della guerra. L'amministrazione della Sicilia "liberata", da parte degli alleati anglo
statunitensi nasce come frutto di
una mediazione del contrasto tra la
Gran Bretagna (che vuol governare
da sola la Sicilia per porre una opzione sulla futura egemonia nel bacino del Mediterraneo) e gli Stati
Uniti (il cui governo riceve pressioni dall'importante componente italo-americana) che premono per una
gestione diretta e completa dell'Isola, consapevoli che l'occupazione
dell'Italia avrebbe presentato difficoltà e che la conclusione del conflitto ancora era lontana. Un compromesso non facile, che comunque
viene raggiunto, con la sottoscrizione di patti della durata cinquantennale (ipotesi: “x” numero di ministeri in ogni governo nazionale a
personaggi siciliani; “x” provvidenze per la Sicilia programmate nella
“canalizzazione” di finanziamenti e
sussidi mirati,, Sicilia che deve restare - in ogni modo - regione non
industrializzata, ma regione "consumatrice" di prodotti del nord; “x”
privilegi per la classe dominante in
Sicilia, eccetera).
La maggior parte dei sottoscrittori di quei patti oggi sono scomparsi
per morte naturale (oppure no), e
ciò che abbiamo affermato intendiamo considerarlo una ipotesi di approfondimento. Continuando. All'approssimarsi della scadenza dei
50 anni della durata degli accordi,
gli equilibri nati dal compromesso
incominciarono a rompersi: i nuovi
patti ancora oggi non riescono ad
essere sottoscritti, gli equilibri, pertanto, stentano a consolidarsi. Oggi
è già domani, e la Sicilia aspetta ancora il suo futuro.
Utile ricordare che la Sicilia ha
ottenuto uno Statuto Autonomistico
Speciale ancor prima della Costituzione italiana: uno Statuto che non
è mai stato applicato, e che, se fosse
stato applicato nelle sue normative,
avrebbe potuto cambiare le sorti
dell’Isola. Non è superfluo chiedere
il perché della mancata applicazione di uno Statuto simile.
Il "Teorema Siciliano" non ha ragione d’essere, nella misura in cui
non può essere documentalmente
dimostrato, ma le ipotesi tracciate
probabilmente costituiscono una
realtà che non necessita di “interpretazioni”, ma di ricerca di riscontri oggettivi.
Dal 1942 a oggi tanti e tanti fatti,
caratterizzati da profondi chiaroscuri, si sono aggiunti nella telenovela
della storia isolana: appaiono tutti
come fotocopie di episodi precedentemente accaduti. Agli omicidi
di Mafia si sono aggiunti altri omicidi: dal dopoguerra cancellati 540
nomi, noti e meno noti, fra i quali i
giudici Giovanni Falcone e Paolo
Borsellino, vittime di una logica
che poco ha di umano. Un rosario
di morte. Nel contempo il macrofenomeno di tangentopoli non ha risparmiato la Sicilia; poi i grandi
processi agli insospettabili (leggasi
Andreotti o Contrada o Mannino) e
a centinaia di affiliati alle cosche;
gli arresti spettacolari dei Capi riconosciuti della mafia (leggasi Totò
Riina o Benedetto Santapaola, Provenzano).
La Sicilia ha cambiato volto nel
giro di qualche decennio, nel Terzo
Millennio appare come un’altra terra, se è vero, come è vero (i dati statistici lo dimostrano), che il turismo
internazionale ne fa una meta ambi-
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Mattei (al centro della foto) e gli impianti del petrolio siciliano
ta. Ma nulla nello scenario conosciuto muta, anche se Don Luigi
Ciotti si mobilita unitamente alla
società civile, ai sindacati e ai sindaci di tutta Italia (a Gela il 23 marzo 2004) raccogliendo quindicimila
manifestanti per “La giornata della
memoria e dell’impegno in ricordo
delle vittime della mafia”, per denunciare ancora le nuove infiltrazioni criminali negli appalti pubblici e il lavoro nero come piaga che
non si riesce ad evitare.
Indubbiamente qualcosa è cambiato: già a metà degli Anni Novanta nelle grandi città (da Palermo a
può essere elemento fuorviante nella conoscenza della realtà odierna.
Non esiste più, infatti, la classificazione dei livelli criminali così come
in precedenza era conosciuta l’organizzazione: nell’epoca della globalizzazione, e con le nuove generazioni discendenti dalle famiglie mafiose, si deve parlare in termini di
network internazionali di affari illeciti attraverso società lecite che
operano in nome e per conto del crimine. Continuare a sostenere che è
in Sicilia il cuore di questo mondo,
che resta impenetrabile, è limitare e
circoscrivere, e non solo territorial-
Forse i nuovi accordi non
sono ancora stati ratificati.
Gli eredi, forse, non
all’altezza di chi in passato
ha imposto compromessi
ed equilibri instabili
Catania) il numero degli omicidi è
drasticamente calato, la Sicilia non
è più attenzionata dalla stampa nazionale quale regione con il maggior numero di morti ammazzati, il
primato si sposta in altre regioni al
di là dello Stretto di Messina. In verità resta il luogo comune che continua a classificare le attività delinquenziali con il termine Mafia, termine che, a nostro avviso, non corrisponde da tempo allo stato delle
cose: le mutazioni del fenomeno sono talmente evidenti, che chiamare
ancora Mafia il potere criminale,
mente, la questione. Quel che ci
proponiamo, in queste ultime battute, con appena due esempi, è sottolineare la ripetitività con cadenza
periodica dei fatti e le apparenti
contraddizioni dei fatti stessi che si
verificano da un decennio (o più)
all’altro.
Così se di separatismo non si parla per un certo tempo, ecco che inevitabilmente torna alla ribalta: i giochi dei misteri si aprono e si chiudono con estrema velocità. Nel dicembre del 1992 il sociologo Pino
Arlacchi – ancor prima di tutta una
seria di rivelazioni su questo argomento fornite l’anno dopo da pentiti
ritenuti attendibili – sosteneva che il
progetto del separatismo mafioso
esiste. Le considerazioni di Arlacchi
scaturivano da dati raccolti: i boss
mafiosi avendo un’età media di cinquanta/sessant’anni, avendo accumulato fortune difficilmente spendibili senza l’individuazione da parte
degli investigatori, e avendo alle
spalle condanne anche all’ergastolo,
hanno necessità di un sito tranquillo
dove poter trascorrere in serenità il
resto della loro esistenza. Una Sicilia indipendente, con un suo governo facilmente soggetto alle influenze malavitose, da questo punto di
vista è l’ideale. L’altro fattore, quello economico: la prospettiva di una
Sicilia definitivamente staccata dall’Italia, con una posizione geografica veramente invidiabile, può costituire un paradiso fiscale nel Mediterraneo, centro di smistamento da
sempre di traffici illeciti internazionali. Secondo l’opinione di Pino Arlacchi un progetto siffatto verrebbe
favorito e vedrebbe l’appoggio di
imprenditori e uomini d’affari spregiudicati, oltrechè di politici a caccia di nuove fortune. Se si guarda
all’immediato futuro, si può notare
che l’ipotesi avanzata da Arlacchi
non è tanto peregrina: nel 2010 il
Mediterraneo diventerà area di libero scambio, mentre le pressioni della Lega per un’Italia federata si fanno sempre più insistenti. Dall’altra
parte, in Sicilia, all’Assemblea Regionale, è in discussione la modifica dello Statuto autonomistico che
non è mai stato applicato....
Il petrolio siciliano era uno dei
sogni più ricorrenti di Mattei: per
anni e anni non è mai stato ritenuto
dai governanti siciliani una possibile risorsa per cambiare le sorti della
Sicilia. Di un petrolio per il futuro
non si parlava da tempo, così come
è stato per il Tungsteno dei Nebrodi
completamente dimenticato, quan-
do, all’improvviso, ecco, dal 22
marzo 2004, che c’è un via libera a
nuove trivelle. Il quotidiano La Sicilia così descrive l’evento: La Regione ha messo nero su bianco, assieme con i petrolieri, sui disciplinari e decreti idrocarburi che daranno il via alla ricerca e all’estrazione
sul territorio siciliano.
Le società Sarcis, Edison e Panther (compagnia texana) sono le prime ad esplorare il sottosuolo isolano per la ricerca di gas e oli in questa nuova era di liberalizzazione del
settore. Il governo Cuffaro dà così
una svolta in un comparto che, per
decenni, ha visto il monopolio dell’Eni detenuto con la stessa Regione
attraverso la Sarcis (90 per cento
Regione, 10 %per cento Eni), e che
oggi ha visto già pronti anche i texani a mettere in moto le trivelle.
L’americano Jim Smitherman, nel
corso della conferenza di presentazione dell’evento, a Palermo, ha affermato: “Panther Resources e io, in
qualità di presidente della società,
abbiamo il piacere di iniziare la
caccia: l’esplorazione in Sicilia. La
Sicilia è un potenziale enorme ancora non esplorato”. Così è stato.
Ed è stata la parte orientale dell’isola, per il momento, la più interessata a questi progetti. In dettaglio:
le concessioni riguardano l’estrazione dell’idrocarburo, i permessi la ricerca dell’idrocarburo. Le prime riguardano la zona di Saperi dove la
Sarcis opererà in una estensione di
69,20 chilomentri quadrati, con un
investimento di 50.096.319,21 euro;
sempre la Sarcis trivellerà a Case
Squillaci su un territorio di 52,50
chilometri quadrati con un investimento di 18.592.448,36 euro. Seguono i progetti di ricerca, che vedono la Panther scandagliare il Fiume Tellaro, 746,937 chilometri quadrati di territorio con un investimento di 43.400.000 di euro; la
Edison effettuerà la ricerca nella zona di Paternò, 743,80 chilometri
quadrati, investendo 5.500.266,00
di euro. Altre istanze di Compagnie
petrolifere sono al vaglio della Regione.
Un interrogativo è lecito: quali i
meccanismi che muovono le costanti di una sconcertante ripetitività di avvenimenti? Troppo lungo
l’elenco degli uomini abbattuti sulla
strada di un auspicato progresso
della Sicilia. Troppi fatti inquietanti
si sono verificati, troppe trame al
cui centro c’è la Sicilia. La trasformazione in atto sul territorio – dalla
presa di coscienza della gente, alla
produttività dell’imprenditoria che
sembra essersi svegliata da un lungo sonno - necessita di analisi accurate per essere sorretta e indirizzata
verso uno sviluppo che sia coerente
con lo stesso ambiente e per non generare facili avventurismi.
C’è il fantasma della mafia inafferrabile; c’è la mafia non certamente vinta che muta sembianze,
che si fa gli affari suoi che si avvale
degli strumenti che ritiene più opportuni, servendosi di tutti quei mediatori che sono disponibili nella
società. Ci sono gli interessi internazionali trasversali delle grandi
lobby economiche che, al pari della
mafia, sanno farsi gli affari propri,
utilizzando, a loro volta, strumenti e
mediatori disponibili. C’è il potere
dell’informazione, e chi lo detiene
sa farne uso. La Sicilia resta sempre
terra di conquista. C’è, infine, il cittadino rimasto senza punti di riferimento, che non crede più neanche
nel primato della politica.
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Cultura 21
Riscontro positivo nelle sale per la produzione della “Heles” di Carlo Bernabei
“Le ultime 56 ore” di Fragasso
un film tra denuncia e spettacolo
di CARLO BARBAGALLO
C
ome previsto, l’ultimo film di
Claudio Fragasso “Le ultime
56 ore” ha suscitato polemiche e giudizi contrastanti sin dalla
sua prima proiezione nelle sale, il 7
maggio scorso. Si rimprovera al regista di fare troppo action movie, di
volere ottemperare in ogni modo alle aspettative degli spettatori d’oggi,
ormai abituati al prevalere, appunto,
dell’azione sui contenuti, ma contemporaneamente di non voler perdere un’occasione per contenuti importanti che è doveroso rassegnare
al pubblico. Si rimprovera al regista,
insomma, di aver voluto mischiare
capre e cavoli per accontentare tutti,
e di avere dimenticato che in una
buona storia non deve
predominare, “per necessità di cassetta”, la spettacolarità. Sono giudizi frettolosi, a nostro avviso,
piuttosto ingiusti.
Se lo spettatore non
ama (ma è poi vero?) i
film considerati “d’arte”,
dove è costretto a impegnare il proprio intelletto,
preferendo quelli dove il
successo è affidato alla
spettacolarità, all’azione,
la responsabilità non è
principalmente dei registi,
ma ricade sulle grandi Case cinematografiche il cui
interesse primario è quello di portare tanti soldoni
a casa. I film di “contenuti” di soldi in cassa, purtroppo e spesso, ne portano ben pochi. Claudio Fragasso ai contenuti
tiene, così come tiene al successo
economico dei lavori che realizza,
che il pubblico esca dalle sale cinematografiche soddisfatto, convinto
d’avere speso bene tempo e danaro.
E allora? Allora rimettiamo al giusto
posto questo “Le ultime 56 ore”.
Innanzitutto c’è “una” storia scaturita da un soggetto di Rossella
Drudi, che ha curato pure la sceneggiatura del film - : “Le ultime 56
ore” parte da cronache vere (e non
di “fantasia”, come qualcuno ha
commentato): parla di soldati italiani in missione in Kosovo, che si
sono ammalati di leucemia essendo
venuti a contatto con scorie di
uranio impoverito contenuto nei
proiettili utilizzati in quella guerra.
La “critica” dovrebbe porre questo
aspetto primario alla sua attenzione:
parlare di uranio impoverito, dei
danni mortali che provoca in chi so-
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A sinistra Carlo Bernabei, sopra: Gian Marco Tognazzi, sotto: il regista Claudio Fragasso e alcune scene tratte dal film
pravvive alle distruzioni, e di ciò
che è accaduto in Kosovo, inevitabilmente provoca prevedibili
leucemia e cancro a causa dei proiettili con uranio impoverito è un argomento tabù, in Italia come all’estero, e per affrontarlo, con
qualunque sistema, ci vuole coraggio. Parlarne significa “denunciare”
uno stato di cose non ancora sanato,
le cui conseguenze si protrarranno a
lungo nel tempo. Questo coraggio la
Drudi, Fragasso e il produttore Carlo Bernabei con la sua Heles Film
poi Claudio Fragasso abbia messo
nello stesso calderone azione, giallo
pisicologico, thriller e sentimentalismo di marca televisiva non c’è da
stupirsi più di tanto: sono ingredienti misurati per tenere sempre vivo
l’interesse e la tensione dello spettatore al quale, alla fine, resta un senso di inquietudine che lo induce a riflettere su tutto ciò che ignora delle
guerre che gli italiani combattono
I danni provocati dalle scorie dei proiettili con uranio
impoverito pagati in prima persona dai militari italiani
in missione nel Kosovo
reazioni negative in quanti non vorrebbero che questo tipo di vicenda
venisse divulgato e portato a
conoscenza dei cittadini: diversi
ambienti, da quelli militari, a quelli
dei fabbricanti di armi, a tutt’oggi,
preferirebbero che restasse il silenzio sulle vicende legate agli eventi
bellici, e non vedere certo un film
che arriva a milioni di persone.
Quello dei militari colpiti da
Production hanno dimostrato di
averlo, e non conosciamo se e
quante difficoltà abbiano potuto incontrare nella realizzazione del film.
La storia, dunque, parte con un
punto forte, d’impatto: lo stesso
ministero dei Beni culturali ne ha
dovuto prendere atto se lo ha cofinanziato, dandogli il merito che gli
spettava è attribuendogli la qualifica
di “film di interesse culturale”. Che
fuori dai confini nazionali, nell’intento di portare o mantenere la pace
e la libertà..
Si rimprovera a “Le ultime 56
ore” di stare tra cinema e televisione, tecnicamente parlando, e di
ciò - si sostiene - ne risente il complesso del film. C’è da dire che oggi i
confini fra grande schermo e piccolo schermo sono impercettibili, gli
uni complementari agli altri. Fragas-
so è un regista italiano che ha narrato una storia italiana come la può
raccontare un italiano: superficiale
il paragone con il Kubrich di “Full
metal jacket “. Ed è lo stesso regista
che afferma che “Le ultime 56 ore
vuole essere un omaggio appassionato a certo cinema italiano degli
anni Settanta”, a voler significare
che il nostro “modo” di fare Cinema
non può essere paragonato ad altro
se non solo al Cinema Italiano.
“Le ultime 56 ore” ha una trama
(che non raccontiamo) dove si intrecciano due linee narrative e dove
si incontrano attori come Gianmarco Tognazzi, Barbora Bobulova, Luca Lionello, Nicole Murgia, Luigi
Maria Borruano, Simona Borioni,
Primo Reggiani, David Coco, Francesco Venditti, Libero De Rienzo,
Maurizio Merli, Nicola Canonico,
Diego Guerra, Giampiero Lisarelli,
Simone Sabani, Vanni Fais, Andrea
Fragasso, Claudio Vanni, Claudio
Masin, Emerico Lacetti, Maurizio
Matteo Merli, e tanti altri: un cast di
tutto rispetto.
Atteso dalla critica e dal pubblico,
il film rappresenta sicuramente una
marcia in più nel Cinema Italiano,
che spesso langue in un limbo indefinito.
27 maggio 2010
22 Attualità
Oggi è necessario e fondamentale mantenere una serietà di metodo
Il limite del Giornalismo online:
manca “l’autorità informativa”
La Rete
sta ancora
lottando
per aggiustare
la sua dimensione
credibile,
e con la Rete
stanno lottando
i giornalisti online
di RINA BRUNDU
I
l “limite” c’è: inutile negarlo!
Prima di procedere ad analizzarne la natura nel dettaglio, vorrei
precisare che, secondo me, le problematiche editoriali internettiane
sono cosa ben distinta dalle macroscopiche questioni legate agli accordi e alle baruffe internazionali tese a
dimostrare “chi comanda” in una simile, provvidenziale, dimensione alternativa.
Il limite editoriale che mi interessa analizzare in questa sede è dunque quello che riguarda il semplice
utente, quando l’utente è un qualsiasi individuo, una qualsiasi società,
una qualunque associazione che si
propone di operare in Rete. Nello
specifico, che si propone di operare
in Rete nel campo giornalistico.
Il principale ostacolo editoriale
che deve affrontare oggidì il giornalismo online è infatti un ostacolo di
natura mentale. Il va sans dire, la
stampa tradizionale, così come la
vetrine radio o tv, detengono ancora
un notevole primato di credibilità
sulla fiducia. Frasi quali “era scritto
sul giornale”, “lo ha detto il notiziario” sono comuni come il “buongiorno” e il “buonasera” e, temo, lo
saranno ancora per molto tempo a
venire.
Di converso, l’espressione “l’ho
letto online”, ma anche statements
più specifici quali “lo scrive Wikipedia”, o “era l’argomento del giorno su Facebook” non hanno la stessa “autorità” informativa. Al contrario, tali fonti virtuali vengono ancora viste, da un signor Rossi qualsiasi, come i luoghi per eccellenza di
nidificazione dei falsi scoop. Insomma, Internet alla stregua di un paradiso fiscale dell’inattendibilità giornalistica!
È paradossale! Ferma restando la
sua storia ancora giovane (a ben
guardare, credo sia proprio questo il
vero tallone di Achille), pensiamo
per un attimo alle potenzialità di un
sito come Wikipedia. Nessuna enciclopedia cartacea, per quanto blasonata, e per quanto credibile, potrebbe mai sperare di fare meglio! Questo perché Wikipedia (ovvero la sua
idea-essenza) ha una possibilità di
espressione universale che nessun
altro editore può eguagliare: nessuno meglio della fonte che l’ha vissuta (qualunque essa sia e a qualunque
titolo) potrebbe raccontare meglio, e
con più precisione, una vita, una
27 maggio 2010
esperienza, una
visione critica,
una storia, un ricordo. Ma anche una costruzione intellettuale più impegnata. Sì, è proprio così semplice come donare (non rubare) caramelle ad
un bambino. E capire questo significa avere capito tanto. Senz’altro, significa lavorare molto bene in questa già determinante dimensione virtuale che, nel futuro prossimo, condizionerà ogni nostra esperienza
quotidiana.
Ma naturalmente viviamo tempi
internettiani che sono la preistoria
della loro straordinaria avventura.
Ne deriva che la Rete sta ancora lottando per aggiustare la sua dimensione credibile: e con la Rete stanno
lottando i giornalisti online. Non
tutti s’intende, ma quelli che sono
veramente
tali sicuramente. Soprattutto,
lottano contro le proprie fobie,
le proprie
idiosincrasie: sono davvero un giornalista se
pubblico solamente in Internet?
Data la mia ferma convinzione
che giornalisti si nasce, non voglio
neppure prendermi l’impiccio di rispondere ad una simile sciocca domanda. Questo non vuol dire che il
problema di costruire una base operativa credibile sparisca di suo. Di
sicuro, l’unico modo che ha il giornalismo online di superare l’ostacolo mentale di cui si diceva è di mantenere una serietà di metodo che è
fondamentalmente la stessa serietà
di metodo che ci si aspetta dal giornalismo tradizionale (e che, purtroppo, pure quest’ultimo, in molte situazioni, fatica a garantire).
Questa modalità severa non dovrebbe però implicare approcci bigotti di qualsiasi natura verso un
universo virtuale che ha naturalmente esigenze proprie. Mai sottovalutare il rischio di disattenderne le
necessità-fisiologiche! Questo per
dire che il giornalismo online non
deve proporsi come piattaforma intellettuale digitale ripetitiva di schemi obsoleti (sebbene noti e vincenti), quanto piuttosto come occasione
importante di improvement e di crescita. Per esempio, qualunque sia la
rubrica giornalistica sotto esame,
questa non potrà presentarsi con il
ritmo monocorde e bi-dimensionale
del cartaceo, ma dovrà rispecchiare
le esigenze di dinamicità (in senso
lato) dello spazio virtuale.
Il tema diventa tanto più vero
quando si guarda all’essenza che ca-
Elio Veltri e Antonio Laudati spiegano come si trasforma la criminalità
“Mafia pulita” presentato in Confindustria Catania
L
a mafia del terzo millennio
non spara, né uccide. Ma
compra e corrompe. È la prima azienda italiana per fatturato.
Una holding del crimine organizzato da mille miliardi di dollari che si
infiltra nell’economia sana, dove
investe enormi capitali, capaci di
condizionare lo sviluppo di interi
territori. È questo lo scenario descritto da Elio Veltri e dal procuratore della Repubblica di Bari, Antonio Laudati nel libro “Mafia Pulita”.
Il volume è stato presentato nei
giorni scorsi in Confindustria Catania, nel corso di un incontro moderato dal giornalista Nino Milazzo,
al quale hanno partecipato il presidente degli industriali di Catania,
Domenico Bonaccorsi di Reburdone, il presidente dell'Ance Catania,
Andrea Vecchio, il Presidente dell'Associazione Italiani per l’Europa, Salvo Raiti, il Presidente di
Confindustria Avellino, Silvio Sarno. Come un “golpe strisciante” spiegano gli autori - la mafia sta
penetrando in ampi settori della
vita pubblica e si mescola all’economia legale.
Il suo enorme patrimonio (130
miliardi di euro solo in Italia),
potrebbe coprire il debito pubblico italiano. La nuova mafia è
quella che si quota in Borsa, che
riesce ad investire nei settori più
redditizi e soprattutto non è più
un fenomeno legato ai territori del
Mezzogiorno, ma riguarda pesantemente il Nord dell’Italia, come
l’intera economia internazionale.
Per colpirla, non basta reprimere, ma occorre una massiccia opera
di prevenzione. Molto possono fare i cittadini, le associazioni, le imprese.
I numeri riportati nel volume sono impressionanti: l' industria del
crimine dà lavoro a quasi un milione e 800 mila italiani: il 27 per
cento degli abitanti della Calabria,
il 12% dei campani il 10 dei siciliani e il 2 dei pugliesi. La strada
maestra da seguire per gli autori rimane quella tracciata da Giovanni
Falcone: colpire la mafia nel fatturato e nei capitali, per sottrargli la
preziosa linfa vitale che la sostiene.
Do. Co.
ratterizzerà il giornale ed il giornalista “virtuale”. Ad entrambe queste
pedine sarà infatti richiesto un ulteriore “sforzo” intellettivo che dovrà
manifestarsi sottoforma di espressione multipla delle diverse potenzialità. E dunque attraverso una notevole capacità immaginifica, e dunque attraverso una variegata visione
da applicarsi alle necessità di analisi
dell’argomento studiato. Qualunque
esso sia.
In generale, io penso che questo
limite mentale editoriale potrà dissolversi soltanto con il tempo. Meglio ancora, quando morirà la generazione che Internet lo ha concepito.
Morto il genitore saccente e intransigente, il figlio si responsabilizzerà
di conseguenza. Soprattutto, potrà
concentrarsi a risolvere gli altri “limiti più mondani” che affliggono
gli internauti-di-questi-tempi. E
quindi anche il loro editore (sempre,
in senso lato).
A mio modo di vedere, questi ultimi sono soprattutto limiti legati al
tempo e legati all’ancora scarsa attenzione che mettiamo nel nostro
operare online (e sono limiti determinati, per esempio, da un editing
mai completo degli articoli, da una
forma linguistica censurabile – parlo della mia -,da un’analisi degli argomenti trattati che raramente “lavora” sotto la superficie e via discorrendo). Attualmente, l’importanza della necessità di superare
questi ostacoli viene percepita davvero solo dal giornalista, o dal futuro-giornalista che si propone in Rete
così come si propone nella vita. In
primis, presentandosi con tanto di
nome e di cognome. C’è da dire infatti che se la “firma” del professionista poteva contare qualcosa nel
giornalismo tradizionale, nella dimensione virtuale la “firma” sarà
tutto. Sarà senz’altro la conditio sine qua non che determinerà il successo di una rubrica. E quindi il successo di quelle somme di rubriche
che saranno i giornali digitali del futuro.
Questo perché, se è vero che il
grande editore tradizionale o “virtuale” che sia - avrà sempre le sue
variegate ed infinite carte da giocare, è anche ipotizzabile che la Rete
conserverà in eterno quel suo tratto
benigno abbastanza da concedere,
finanche al pesce piccolissimo, l’opportunità di giocarsi l’asso nella manica. E di farlo, in maniera indiscutibilmente vincente.
La Voce dell’Isola n. 9~10
Cultura 23
In libreria “La sposa gentile” di Lia Levi
Inconsueta storia d’amore
sullo sfondo del Piemonte
di LUCA PLATANIA
L
ia Levi racconta la storia
d’amore tra Amos, ricco banchiere ebraico e Teresa, una
ragazza cristiana di origini contadine sullo sfondo del Piemonte degli
inizi del Novecento.
Per avere scelto di amare una non
ebrea Amos è emarginato dalla propria famiglia e dalla propria comunità. Teresa, anch’essa bandita dalla
propria famiglia, per
rendere felice l’uomo
che ama abbraccia la
fede ebraica; quindi
con un comportamento
semplice e
paziente riesce progressivamente a ricucire i rapporti con la
famiglia del
compagno, poi
marito. La storia si fa dunque
positiva, segnando l’ascesa
della rispettabile famiglia di
Amos Segre nella buona società,
con un finale decisamente a sorpresa.
La vicenda di Amos e Teresa rimanda alle problematiche che dovettero affrontare le comunità ebraiche italiane una volta libere dai
ghetti e giuridicamente equiparate
nei diritti civili: in che maniera esse
reagirono ai matrimoni misti? Su
questo punto, dopo essere stato posto al bando dal padre, Amos esplode con la sorella Anna: “Insomma,
ognuno può vivere il suo essere
ebreo come vuole… abbiamo la libertà, non te ne sei accorta?”; ma
questo tipo di libertà l’imbarazzata
Anna si accorge proprio di non
averla prevista.
Una sottile ed intelligente ironia
sulla classe borghese accompagna
tutta la narrazione; è spesso preferito dall’autrice il racconto in terza
persona; una scelta indovinata, tale
da non disperdere in troppe parole
la sostanza dell’intenso dialogo tra i
protagonisti. Il libro ci conduce ad
un incontro con il mondo ebraico: le
usanze, le festività, persino le ricette
dei dolci rituali, assolutamente interessanti per i buongustai, rendendo
questo apprendimento leggero, naturale.
Il percorso di Teresa nell’ebraismo diventa il viaggio del lettore
(non ebreo, s’intende), che si chiede
con lei: come si fa a diventare
ebrei? È proprio impossibile conciliare il culto della Madonna, dopotutto di formazione ebraica anch’essa, con l’ebraismo, come ricorda
una ingenua Teresa alla sua maestra
Sara?
Nella caratterizzazione dei due
protagonisti sono state indubbiamente riversate le maggiori forze
dell’autrice: Amos va controcorrente, è una figura inusuale per l’immaginario italiano, abituato a vedere
gli ebrei del primo Novecento
“chiusi”socialmente; è fin dall’inizio incline ai più deboli, ai bisognoLa Voce dell’Isola n. 9~10
si, in lui un forte bisogno
etico accompagna tutta la
sua riflessione sulle persone, sulla vita che lo circonda. Da una iniziale solitudine ed incompletezza, attraverso il rapporto con Teresa
Amos pone in essere le proprie potenzialità: più amore
riceve, più ne diffonde intorno a lui ed alla sua casa.
Nonostante
il personaggio
Teresa abbia
una complessità psicologica che viene
svelata durante l’intero
arco della vicenda, più
che una persona introspettiva Lia
Levi ci de- Lia Levi
scrive una
donna fattiva, straordinariamente vitale: dalle sue mani
sono prodotti inesauribilmente i
corredi rituali dei
nuovi nati della
comunità, i dolci
migliori, ecco una
Demetra dispensatrice di abbondanza. Non per niente Teresa è di
origine contadina, è Terra e appare
come una ninfa dei boschi all’attonito Amos all’inizio del racconto.
L’aggettivo della sposa protagonista, gentile, potrebbe essere anche
La vicenda raccontata rimanda
alle problematiche che dovettero affrontare
agli inizi del Novecento
le comunità ebraiche italiane
una volta libere dai ghetti e giuridicamente
equiparate nei diritti civili
letto “come di gentile animo”, un ricordo stilnovistico, ma in realtà Teresa è tesa totalmente all’amore verso il marito, amore che la guida in
ogni scelta; non è lei a nobilitare
spiritualmente lui, si direbbe il contrario, seppur Teresa possegga già
nella sua formazione cristiana la
comprensione e la necessità dell’amore per il prossimo, traducendoli con semplicità nell’ebraismo.
Nel volume è ricordato, in un apparire e scomparire, il contesto storico, al quale la famiglia Segre si affaccia con pudore, quasi con distacco: si discute di Giolitti, del dibattito sul divorzio, del suffragio femmi-
nile, dell’intervento italiano nella
Grande Guerra; il fratello di Amos,
Salvatore si candida col Partito Socialista, passato ad un riformismo
gradualistico, contrario all’intervento.
Ma la grande storia non turba più
di tanto i personaggi di La sposa
gentile. I pogrom russi sono una realtà lontana, le preoccupazioni sono
quelle quotidiane, quelle dell’ambiente domestico che va difeso dalla
bruttura del mondo: le feste, la crescita dei figli, la normalità ed un benessere materiale ed interiore, la so-
luzione dei contrasti per la costruzione di un microcosmo familiare
migliore. Solo una sottile inquietudine, come un segnale di allarme
prende forma lentamente nell’animo
di Amos.
Il tutto fino ad una inaspettata cesura del racconto: questa felicità, diventata normalità, può essere all’improvviso vietata. Forse perché troppo bella.
LIA LEVI
La sposa gentile
Edizioni e/o, Roma, 2010
€ 18,00
Note biografiche
Lia Levi, di famiglia piemontese, vive a Roma, dove ha diretto per
trent’anni il mensile ebraico «Shalom».
Per le Edizioni e / o ha inoltre pubblicato: Una bambina e basta (premio
Elsa Morante Opera Prima), Quasi un’Estate, L’Albergo della Magnolia
(Premio Moravia e Premio Fenice Europa), Tutti i giorni di tua vita, Se va
via il re e Il Mondo è cominciato da un pezzo.
Con La Sposa Gentile l’autrice ha ricevuto l’8 Maggio del corrente anno
il Premio Alghero Donna per la narrativa 2010.
Incontro a Catania con la scrittrice piemontese
Vincono sempre le ragioni del cuore
di LUCA PLATANIA
R
ecentemente nella Libreria Cavallotto di
Corso Sicilia a Catania è stata ospitata la
presentazione del volume La sposa gentile di Lia Levi.
Presente un piccolo, ma competente pubblico
in un contesto informale che ha facilitato gli
scambi di opinione, dei commenti e delle impressioni sul testo, le domande all’autrice.
Hanno presentato il volume Luigi La Rosa e
Massimo Maugeri; l’attrice Egle Doria ha alternato agli interventi letture di alcuni brani salienti
del romanzo con una bella e suggestiva interpretazione.
L’autrice è nota al grande pubblico in particolare con Una bambina e basta, toccante testimonianza della sua esperienza delle leggi razziali in
Italia nel 1938.
Abbiamo avuto modo di incontrata alla fine
della presentazione, approfittando della la sua
cortesia e simpatia:
Signora Levi, in fondo il protagonista del
suo romanzo, Amos Levi, nel rompere con la
sua comunità per amore di Teresa compie una
scelta del cuore che alla lunga si dimostra giusta: non si fa imprigionare dal formalismo
della legge, ma si dirige verso il bene a qualunque costo.
Sì, lei ha letto bene; ma non è tutto chiaro per
il personaggio all’inizio, a volte nella passionalità stessa c’è qualcosa di più profondo, razionale, che ci guida alla scelta giusta.
È palese comunque che in Amos c’è un’etica
che gli deriva dai suoi stessi insegnamenti
ebraici, lui li interpreta fino alle estreme conseguenze.
Lei è riuscita a scrivere un libro di rara delicatezza di sentimenti e finezza di descrizione; in particolare nell’irrompere di Teresa
nella vita di Amos, lei ha reso un totale sconvolgimento dei sensi e dell’intelletto, senza però ricorrere al linguaggio della corporeità.
Oggi la maggior parte degli autori di romanzi sembra invece dovere obbedire alle
leggi del mercato, indugiando in descrizioni
erotiche anche molto spinte; come ha fatto a
pubblicare un libro così?
L’ho fatto, è possibile farlo nonostante ciò che
lei evidenzia in molti romanzi di successo pubblicati in questi anni; le scene d’amore descritte
in maniera esplicita ottengono l’effetto contrario, più sei esplicito e più ti allontani dal rendere certe emozioni.
È dalla vaghezza, dall’indeterminato che invece scaturisce una forte impressione.
La storia da lei raccontata è così bella da
chiedersi se simili unioni fossero davvero possibili nell’Italia del primo Novecento. Erano
casi frequenti?
No, non accadeva di frequente; ma è la storia
dei miei nonni, lui ebreo, lei cristiana, che compirono questo passo coraggioso, legati da un
fortissimo amore.
È alla loro vicenda che mi ispiro in La sposa
gentile, ma immaginandomela, senza ricavarla
da notizie reali; tra l’altro erano pochi i dettagli
che si ricordavano nella mia famiglia di questo
strano, ma riuscito matrimonio. È per raccontare il loro amore che ho scritto questo libro.
Nel seguire Teresa che compie il suo percorso verso la religione del marito, scelta dettata
dall’amore, il lettore apprende gradatamente
di usi, costumi, festività, parole – chiave della
religione ebraica.
Leggendo il libro si apprende molto, senza
però uno sforzo scolastico, manualistico; lei è
riuscita a rendere interessante e leggero questo percorso, era nelle sue intenzioni?
Sì, ho posto delle brevi note che spiegassero
in maniera semplici questo mondo, per rendere
uno spaccato della vita tradizionale nella borghesia ebraica del primo Novecento.
Alberto Cavaglion, uno storico e studioso
dell’ebraismo italiano ha affermato non molto tempo fa in Il senso dell’Arca, Ebrei senza
saperlo che la comunità ebraica in Italia è conosciuta solo per la sua testimonianza nella
giornata della Memoria e nelle altre occasioni
in cui si ricorda la tragedia della Shoah.
Mancherebbe invece una conoscenza della
comunità ebraica italiana, della sua presenza
sul territorio, del suo apporto al territorio.
Che ne pensa?
No, non sono d’accordo. Dopotutto la presenza ebraica in Italia è piccola: cerca di farsi sentire come può, ma i giorni della cultura ebraica
sono affollatissimi, la gente è curiosa.
A Roma, dove io vivo, i ristoranti casher, “rituali”, negli ultimi anni sono diventati una decina e ciò perché molte persone sono attratte dalla cultura, finanche dalla cucina ebraica.
27 maggio 2010
24 Cultura
“Letteratitudine”: uno dei salotti letterari più esclusivi d'Italia
Con Maugeri e Internet
una finestra sul mondo
di SALVO ZAPPULLA
I
nternet è destinato a diventare
l'invenzione del secolo, ha rivoluzionato il sistema della comunicazione. È una finestra sul mondo.
Ha dato libero accesso a tutti, visibilità a quanti desiderano esercitare il
loro diritto all'esistenza, dalla casalinga al poeta locale cui nessuno voleva dare credito letterario. Un
oceano popolato da pesci multiformi che si muovono sconnessi alla ricerca di luce. Nel bene e nel male
ha sovvertito certi strumenti di potere, egemonia della stampa e della televisione. Una rivoluzione in piena
regola. Fioriscono i siti on-line, proliferano i blog. Una miriade di stelle
dove la gente sbarca per avere diritto al proprio piccolo raggio di luce.
Il 18 Settembre 2006, un ragazzo
della provincia di Catania, dai modi
raffinati e dai toni garbati, decide di
aggiungere la sua stellina in questo
sconfinato firmamento: apre un litblog (blog letterario) per il semplice
desiderio di comunicare e condividere il suo amore per la letteratura
con altre persone. Nasce Letteratitudine. E nasce Maugeri, il fenomeno.
L'uomo con la camicia celeste. Sarà
proprio il garbo, la signorilità, la
professionalità che faranno di questo ragazzo un personaggio di fama
nazionale. Ben presto il blog entra a
far parte della famiglia dei blog
d'autore di Kataweb-Gruppo
Espresso. Letteratitudine diventa
uno dei salotti letterari più esclusivi
d'Italia. Un punto di incontro virtuale dove potersi confrontare, dibattere su argomenti culturali, interagire,
polemizzare anche, ma in maniera
costruttiva ed evitando risse e sterili
polemiche.
Tutto ciò a Massimo Maugeri costa energie, impegno costante e duro
lavoro. Ma è propria questa la capacità che lo contraddistingue: la buo-
Un punto di incontro virtuale
dove potersi confrontare, dibattere
su argomenti culturali, interagire,
polemizzare anche, ma in maniera
costruttiva ed evitando risse
e sterili polemiche
mon e tanti altri ancora. Camon gli
na educazione, l'affabilità che il padedica un articolo su Tuttolibri, a
drone di casa usa con gli stessi ricui fa seguito quello di Loredana
guardi nei confronti dei suoi ospiti,
Lipperini su Venerdi di Repubblica.
siano essi personaggi famosi o perGli addetti stampa delle maggiori
sone qualsiasi. E se qualcuno insiste
Case Editrici gli inviano le novità
a fare il troll, viene invitato con le
(una media di 60 libri al mese) spebuone maniere ad andare a farlo da
un'altra parte. Che
già di troll è pieno
il mondo e non c'è
bisogno di riempire anche i siti.
Numeri da capogiro, dibattiti culturali di altissimo
livello, rubriche
affidate ad esperti).
Quasi tutti i più
famosi scrittori
italiani accettano
di presentare i loro libri su Letteratitudine. Qualche
nome: Dacia Maraini, Paolo Di
Stefano, Roberto
Alajmo, Beatrice
Masini, Catena
Fiorello, Rita
Charbonnier,
Giorgia Lepore,
Antonella Cilento,
Ferdinando Ca- Massimo Maugeri, a destra la copertina del libro
rando in un passaggio su Letteratitudine.
Insomma, Maugeri rischia
di passare alla storia come
l'uomo che ha dato ufficialità
e identità alla cultura diffusa
attraverso il virtuale. Tutto
questo è raccontato in un li-
bro pubblicato da Azimut i cui proventi saranno devoluti in beneficenza a la “Casa della famiglia ferita”,
una comunità mariana che gestisce
un orfanotrofio nella ex Jugoslavia.
Letteratitudine, il libro,
pagg. 274, € 15,00
Nel “Cerchio infinito” la poesia di Renzo Montagnoli
La vita racchiuse in una clessidra
di SALVO ZAPPULLA
L
eggendo questa silloge poetica di Renzo Montagnoli mi è venuto da pensare
a un naufrago su una zattera smarrito
nell’oceano tempestoso del grande mistero
della vita. Riflessioni nichiliste quelle di
Renzo? O aperte alla speranza? C’è un Dio
che vigila sulla nostra povera esistenza? E se
c’è, perché non incide?
La parola scritta nel suo evolversi spaziotemporale assume concetti che conducono alla personalità dell’autore, alla sua sofferenza
esistenziale, ai molteplici agenti esterni che
ne hanno forgiato il carattere. “… Il mio
sguardo correva lontano/immaginava oltre
orizzonte/s’inerpicava su ripidi pendii/s’aggrappava alle nubi del cielo/correva con l’acqua dei fiumi/indugiava in pozzi nascosti/si
spegneva nel dubbio del nulla…”.
Le elaborazioni poetiche di Renzo esprimono tematiche di grande fascino e allo stesso tempo insondabili, rimandano a suggestive risonanze impossibili a dipanarsi per la
mente umana, mirano al raggiungimento di
un ‘aulica ed estetica perfezione di forma e
contenuto, e da esse traspare la limpida sin-
27 maggio 2010
cerità del suo intelletto. P. Valéry sosteneva:
“La poesia deve essere una festa dell’intelletto”.
O forse la poesia è la condanna dell’intelletto, la ricerca continua di ombre da esplorare. “Una luce fugge nel cielo di notte/un arcano mistero solca l’universo/veloce si muove in un cerchio infinito/corre senza posa in
un’eterna fatica/ le sue strade son lastricate di
stelle/la sua meta è rincorrere se stessa/ in un
corrosivo cosmico affanno/.E quando rapida
scompare ai nostri occhi/lascia uno sciame di
sogni svaniti”.
Traspare un senso di ineluttabile nei versi
di Montagnoli, come volesse avocare a sé
l’incanto e serrarlo dentro la fortezza della
propria esistenza, prima che sia troppo tardi,
prima che vada in disfacimento sotto le sferzate inclementi dell’oblio.
La vita racchiusa dentro una clessidra che
inesorabilmente consuma i suoi granelli. Anime che sono transitate fugacemente su questo pianeta senza lasciare tracce. Il poeta è un
uomo solo, solo più degli altri, limitato nella
sua condizione di essere imperfetto, peregrino che si addentra per un viaggio senza meta,
col suo carico di dubbi, in un’odissea di con-
Renzo Montagnoli
flitti interiori. La sua solitudine è sconfinata,
tormentata dal suo incanto e disincanto, dai
suoi interrogativi impossibilitati ad avere risposte,
Renzo Montagnoli nasce a Mantova l’8
maggio 1947. Laureato in economia e commercio, dopo aver lavorato per lungo tempo
presso un’azienda di credito ora è in pensione e vive con la moglie Svetlana a Virgilio
(MN). Ha vinto con la poesia “Senza tempo”
il premio Alois Braga edizione 2006 e con il
racconto “I silenzi sospesi” il Concorso Les
Nouvelles edizione 2006. Sue poesie e racconti sono pubblicati sulle riviste Isola Nera,
Prospektiva e Writers Magazine Italia, oltre
a essere presenti in antologie collettive e in
e-book. Ha pubblicato la silloge “Canti celtici” (Il Foglio, 2007). È il dominus del sito
culturale Arteinsieme (www.arteinsieme.net).
La Voce dell’Isola n. 9~10
Cultura 25
La tipica singolarità del vasto mondo delle costumanze popolari
Gocce di umanità gli indovinelli
raccolti da Sebastiano Burgaretta
di CORRADO PICCIONE
L
eggendo e riflettendo su questo compendio di cultura popolare che è la raccolta di indovinelli Non è cosa malcreata di
Sebastiano Burgaretta, edita da
Emanuele Romeo, ci domandiamo:
È poesia, poesia vissuta? È una voce
misteriosa che ha echi profondi
nell’animo umano? Una poesia modulata su sentenziosità vive, che riflettono aspirazioni segrete, mancate o fallite? Sono frammenti o sintesi parziali di espressioni esistenziali?
Dipende, certo, dall’angolo visuale del lettore, dell’interprete, ma anche del traduttore da una lingua
all’altra. Ma è anche da osservare
che la pregnanza concettuale del
dialetto dipende dalla sua originaria
intensità nella versione del linguaggio comune. Una pregnanza nella
quale incide la cadenza tradizionale
di una indefinibile interiorità. Ma
innanzi a questa raccolta di indovinelli, quale può essere la reazione
intellettuale, la posizione psicologica di colui il quale, come chi scrive,
non è un cultore di tradizioni popolari, non è un esperto di ricerche etnologiche?
Esiste certamente quella che i latini chiamavano dilectatio, che consente d’interpretare come gocce di
umanità, gocce di umanità che cadono su un tessuto esistenziale intriso di ironia, di scetticismo e di un
impulso, forte impulso, alle interpretazioni allusive della cultura di
ambiente. Queste gocce di umanità
sono una tipica singolarità del vasto
mondo delle costumanze popolari,
dense di suggestioni, nelle quali riflettono sorprendenti ancestralità.
Nella pregevole introduzione di
Sebastiano Burgaretta troviamo la
chiave di lettura di questi indovinelli, che da una originaria espressione
dialettale vengono resi in un moderno linguaggio italiano. Ivi leggiamo
convincenti significazioni del concetto di osceno, che da una primitiva lussuriosità assurge a un principio di naturalità intensamente vissuta. E questa osservazione è meritevole di attenta valutazione. L’osceno, come occasione, come strumento di relazioni sociali, non è
un’espressione di relativismo morale, di decadenza di costumanze tradizionali, non è lo sfrenato sensualismo che è indice di negatività; è
modernamente divelto dall’etimo latino obscenus, che, secondo glottologi e filologi, equivale a infausto.
Ma omnia munda mundis. Così nella moderna prospettiva l’ammirazione del nudo femminile non è volgare ostentazione, non è oscena. Il nudo femminile è l’apoteosi della bellezza come nella universale considerazione della Venere Anadiomene
del nostro museo. Questo pensiero
nobilita l’angolo visuale di una moderna dimensione della nozione di
osceno.
Dalle acute osservazioni di Burgaretta può trarsi argomento per una
più approfondita lettura della raccolta, una lettura intesa a individuare nelle peculiarità semantiche la
natura unidimensionale dell’anima
siciliana. Una lettura psico-antropologica della vera anima siciliana,
che è avvolta nel velo di una sottile
ironia, nel considerare la propria viLa Voce dell’Isola n. 9~10
Sopra: presentazione del libro di Burgaretta
ta e la vita altrui. Ma questa ironia
conduce a quel senso di solitudine
che è tipicamente siciliano. Ricordo
quell’indimenticabile relazione che
Luigi Pirandello tenne, ricordando
Giovanni Verga. Disse, appunto, fra
le tante riflessioni indimenticabili,
questa: Il siciliano nella profondità
della sua anima è un uomo solo,
perché è profondamente triste.
Ma dove si raccoglie questa tipicità tradizionale della sicilianità?
Nella figura classica del contadino
del tempo del Pitrè, di Salomone
Marino, che definiva il contadino la
parte più eletta del popolo, la più ingenua, la più sana, la più onesta. Ma
fu sempre così? Il contadino siciliano, oppresso dal dispotismo padronale, dal flagello dell’usura, dalle
avversità della vita, viveva con la
Sebastiano Burgaretta
sua famiglia tradizionalmente in miseria, ma accettava in silenzio il suo
destino.
Viveva in silenzio e ne beveva
questo colloquio silenzioso con il
suo animale, quasi sempre un asino,
del quale si fidava assai più che
dell’ uomo, con il quale aveva peraltro sporadici e occasionali rapporti.
Gli indovinelli, così come i proverbi, erano il suo soliloquio, si tramandavano di generazione in generazione, in quanto appropriati ai vari
accadimenti della vita. Segnavano le
tracce del cammino umano, e la monotonia della sua quotidianità segnava ritmi consueti privi di parole,
ma intessuti di gesti significativi,
mai insensati.
Il contadino non rideva, non piangeva, era dominato da un senso fatalistico, supersensibilmente fatalistico, della vita; in fondo era uno scettico, credo neppure in fondo un credente, pur essendo legato alle tradizionali usanze religiose del suo paese. Conosceva soltanto il lavoro dal-
l’alba al tramonto, e l’indovinello, come il proverbio, ritmava la
sua cadenza esistenziale, era in
fondo la sua pedagogia. Scetticismo ed ironia il suo abito mentale,
l’ironia come tendenziale dissoluzione di pregiudizi, di usanze, di
miti, ma anche come una istintiva
tendenza anarcoide che ha avuto
sempre nei contadini imprevedibile
e causalmente indecifrabili esperienze. Quali esperienze? Quelle più
sorprendenti ritmate dagli indovinelli e dai detti, ma compresi e interpretati, se si riesce a coglierne il
profondo. Voglio richiamare, a tale
riguardo, una mia sorprendente
esperienza personale.
Molti anni fa io, confidenzialmente con un contadino della nostra
Avola, raccolsi una davvero sor-
Da una
originaria
espressione
dialettale resi
in un moderno
linguaggio
italiano
prendente singolarità. Censurandosi
il comportamento tortuoso, non leale, non corretto di qualcuno, sentii
da questo contadino un giudizio assolutamente inatteso, che ripeto in
dialetto: Chissu è un macciavellu.
Rimasi sorpreso da questo giudizio.
Non avrei mai pensato che nel linguaggio di un contadino totalmente
analfabeta, del tutto incolto, fosse
inserito il nome di una personalità
che non conobbe mai la Sicilia, ma
che soprattutto riuscisse a raffigurare in quella espressione semantica
un giudizio di carattere morale.
Ma mi domandavo come fosse
possibile nell’animo di un incolto,
di un analfabeta questa misteriosa
stratificazione culturale che lo conduceva ad acquisire implicitamente
ma inconsapevolmente un giudizio
di carattere storiografico certamente
estraneo alla mentalità di quel contadino. Ma questo rimane sempre un
mistero. E se pensiamo che questo
giudizio così drastico del contadino
in fondo si ricollega a una visione
storiografica del Segretario fiorentino desueta, superata da studi
più approfonditi, ma che lungamente era diffusa nella mente comune,
ci rendiamo conto di come questa
misteriosa acquisizione di un linguaggio, di un riferimento di straordinario valore storico fosse acquisito nella mentalità di un incolto, di
un ignorante. Ma il contadino tutto
questo riusciva a vedere nell’ambito
di un detto. E se leggiamo attentamente questi indovinelli, li vediamo
tutti come espressione significativa
di una visione della vita, di una visione del mondo, ma di una visione
del mondo che è sempre riconducibile a quella mentalità che è tipica
appunto del contadino: scetticismo e
ironia.
Era difficile che un contadino di
quel tempo dicesse parole banali,
insignificanti, irriconducibili a un
criterio logico. Tutto aveva un significato. Le parole erano tutte finalizzate a un giudizio, a una valutazione. Mi ricordo anche la triste esperienza di un altro contadino, un padre il quale riceve, dal figlio, che
pure ha portato avanti negli studi
con sbocco in attività lavorative di
un certo livello, l’ingratitudine, l’incapacità di capire che cosa ha fatto
il padre per lui.
Il contadino non usa parole aspre,
giudizi sprezzanti, espressioni tali
da offendere quell’ingrato suo figlio. Assomma e riduce tutto a un
detto, che io ho colto dalla bocca di
molti contadini e che voglio riprodurre anche adesso nell’espressione
dialettale: Cu ri nu sceccu fa n cavaddhu,/ u primu càuci u scippa iddhu. A chi genera un figlio e riesce a
portarlo ai gradi più alti della vita
comune può succedere che il figlio
non solo si dimentica del padre, ma
i primi calci li dà proprio a quell’infelice genitore che ha sacrificato la
sua vita per lui.
È tutto un mondo, è tutta una visione della vita che andrebbe studiata, e fa bene Burgaretta a impegnarsi in questo. È tutto un mondo diverso da quello comune, diverso,
perché ormai quel contadino
non esiste più; non esiste
neppure l’asino, suo amico e
compagno di lavoro. Tutto è
affidato alla memoria, ma
direi alla memoria del rimpianto, alla memoria di una
nostalgia profondamente
vissuta e sofferta. Oggi
quel contadino che ripeteva gli indovinelli, e li ripeteva con una pregnanza
assolutamente allusiva ai
fatti accaduti e accadibili
della vita non esiste più
purtroppo. Esiste il coltivatore diretto, il piccolo
proprietario, il piccolo
imprenditore, direi, la
mezza cultura, che è
peggiore dell’incultura;
è sempre meglio l’incultura di quel contadino che non ha studiato,
che non ha mai avuto
un libro in mano, che
non è mai andato a
scuola, piuttosto che la
mezza cultura di chi è
andato a scuola spesso
senza frutto.
È questo il valore
del libro di Sebastiano Burgaretta,
quello di farci rivivere questa temperie ideale, questo mondo ornai
tramontato sotto i nostri occhi, che
però egli è in grado di leggere attentamente, penetrando nel vivo di
queste pagine. Ha inoltre, sì, dischiuso un orizzonte straordinario di
cultura, di civiltà, la civiltà contadina di cui parlava il Pitrè. Questa civiltà è vissuta tra noi ed è ripresa,
compendiata in questi indovinelli.
Ecco perché questa è un’opera di alta cultura, che va letta, studiata, meditata, e che in un certo modo deve
rappresentare il transito verso una
conoscenza più approfondita di
esperienze che sono vissute accanto
a noi e che spesso non abbiamo considerato, che spesso non abbiamo
valorizzato. Eppure erano esperienze dense di una saggezza infinita,
che solo l’anima eterna del contadino sapeva dare.
Ecco il valore del libro, ecco la
necessità di studiare questo libro.
Per questo siamo tutti profondamente grati a Burgaretta. La sua è
un’opera di cultura, è un’opera di
civiltà, perché la civiltà di un popolo è anche nel culto delle sue memorie. E noi, raccogliendo in questo libro il culto delle nostre memorie,
facciamo opera di alta civiltà. Così
si progredisce, così si va avanti nella vita. Così il senso collettivo della
convivenza potrà avere fasi successive più elevate e più nobili. Per
questo noi ringraziamo Sebastiano
Burgaretta, gli siamo profondamente grati, perché ha dato un grande
servizio alla cultura siciliana e alla
cultura nazionale, ha dato un grande
servizio alla cultura universale, perché, leggendo in tutto il mondo questo libro, si comprenderà qual è il
gioiello culturale e storico della nostra Sicilia, questo compendio di
universalità, questo compendio di
grandezze umane, di miserie umane,
di civiltà, di ironia, di scetticismo.
È un umanesimo, quello della Sicilia, straordinariamente ricco. Raccogliamolo, non disperdiamolo, tramandiamolo. Questo è il nostro dovere.
27 maggio 2010
26 Cultura
Incontro con Bruno Contigiani, autore del gustoso saggio “Chi va piano”
La famiglia di una volta
e ora la “nuova” famiglia
di RITA CHARBONNIER
“L’invidia,
tra i cosiddetti
vizi capitali,
è forse
quella che ha causato
le maggiori sciagure
all’umanità”
E
siste ancora la famiglia? Sì,
naturalmente; ma il divorzio,
la convivenza, le relazioni
omosessuali, i rapporti d’amore senza convivenza, la rivoluzione dei
ruoli di mamma e papà hanno creato
oggi famiglie di tipologie molto diverse.
Come affrontare allora questo
nuovo scenario, come aiutare i nostri figli a comprenderlo, come insegnare a noi stessi a coltivarlo? Con
questo libro saggiamente allegro
Bruno Contigiani ci spiega che il
buon senso non va d’accordo con la
fermezza e che l’amore per se stessi
è l’esatto contrario dell’egoismo.
“Chi va piano. Piccole alchimie per
grandi sentimenti” (Casa editrice
Rizzoli) è un manuale di auto-aiuto
unico nel suo genere, un continuo
invito ad apprezzare le
gioie
della
nuova normalità. La domanda
che l’autore rivolge ai suoi
lettori è molto
semplice: sei sicuro che le cose
che ti tormentano siano davvero
dei problemi?
Bruno Contigiani è anche il
presidente dell’Associazione
Onlus “Vivere con
lentezza”, che si
occupa di educazione e comunicazione sociale sulle
politiche del tempo
nelle aree del mondo in cui il benessere economico è già diffuso, e che
sostiene l’autonomia e lo sviluppo
nelle aree povere o con diseguaglianze sociali. È nata alla fine del
2005 da un gruppo di persone immerse nella frenesia della vita di
ogni giorno, che hanno iniziato a
porsi domande sulla propria insoddisfazione.
Lo scopo dell’Associazione è
condividere e diffondere idee che
possano migliorare la qualità della
vita. Per questo organizza eventi
culturali (tra i quali la “Giornata
Mondiale della Lentezza” e il festival letterario “Leggevamo quattro
libri al bar”), dibattiti e convegni nei
quali ci si confronta su temi così
difficilmente misurabili come il
tempo e la felicità.
Il primo saggio che hai pubblicato, “Vivere con lentezza” (Orme
Editori) è un invito a prendersi i
propri tempi, piuttosto che soccombere alla frenesia del quotidiano. In “Chi va piano” (Rizzoli)
proponi di applicare questo principio alle relazioni d’amore. Perché hai desiderato scrivere questo
libro?
Ci sono momenti, nella vita, in
cui ci troviamo a un bivio: lì possiamo dare il nostro meglio, oppure il
nostro peggio. È una scelta. Quando ci si lascia, ad esempio, come
accade sempre più spesso, si può
scegliere di dilaniarsi e farsi la
guerra, oppure di continuare a rispettarsi reciprocamente. Io racconto una storia, la mia, riflessa negli
occhi delle donne. Non pretendo di
27 maggio 2010
insegnare
nulla: dico
solo come ho
fatto, come
avrei potuto
fare, e come
sarebbe stato meglio
non avessi
fatto.
Nel libro
affermi
che i padri
separati
“non sanno cucinare, non
sanno fare la spesa, non sanno accudire, ma principalmente non
sanno riempire il tempo che trascorrono con i figli.” Perché, secondo te, le cose starebbero in
questo modo?
Potrei incolpare le mamme italiane, ma non sarebbe giusto. Noi uo-
mini siamo molto abituati a indicare
delle strade; i nostri figli ci guardano, talvolta ci giudicano e controllano se quelle strade le percorriamo
anche noi. Certe volte ci chiedono
di fare dei tratti insieme a loro: in
quel momento dobbiamo ascoltarli
e cercare di capire che cosa veramente ci vogliono dire. Senza continuare a porre loro delle domande,
che magari ci fanno sentire migliori, ma le cui risposte non arriveranno mai, oppure arriveranno solo nel
linguaggio cifrato che tanto ci fa
soffrire. Come va? Bene – Dove
vai? Esco – Ti piace? Non lo so.
Nel tuo libro parli anche dell’invidia che alcuni provano per la felicità degli altri. È un problema
che senti in modo particolare?
L’invidia, tra i cosiddetti vizi capitali, è forse quella che ha causato
le maggiori sciagure all’umanità.
Ne “L’Uccello dipinto” di Kosinsky
si racconta che nei gruppi di noma-
Racconti
di Ennio Montesi
È
nelle librerie pubblicato dall’editore Mursia “Racconti per non impazzire”, una serie di racconti dedicati da Ennio Montesi all’amico Federico Fellini
a metà tra psicologia e fantasia, tra il concepibile e l’irrealizzabile, nei quali i protagonisti vengono inghiottiti dalle proprie esistenze. Storie
tragiche, surreali e profondamente umane in
cui l’autore esercita la sua abilità narrativa
inducendo a frugare all’interno delle coscienze e lasciando aperte diverse piste interpretative.
Ennio Montesi è autore di romanzi e soggetti per la televisione e il cinema. Significativo il suo scambio epistolare con lo scrittore
statunitense Henry Roth, che gli dedicò il racconto “Prosewriter’s Threnody”. Montesi è
fondatore, insieme a Luigi Cascioli, di Axteismo, movimento internazionale di libero pensiero, che concentra studiosi, cristologi laici,
ricercatori, magistrati, scrittori e persone che non accettano imposizioni e influenze religiose.
Fa parte della Segreteria Nazionale del partito politico
Democrazia Atea.
Ennio Montesi
di bisognava stare molto attenti
quando si scoppiava a ridere: se il
tuo vicino riusciva a contarti i denti
mentre eri a bocca aperta, saresti
morto entro l’anno. L’invidia fa
paura. Mi colpisce che molti, anche
amici, non sappiano godere delle
tue piccole gioie, fosse anche una
vincita minuscola al Gratta e Vinci.
Ci sono amici che ti accettano solo
quando le cose ti vanno male e non
sopportano i tuoi cambiamenti. Io
credo che gli amici si vedano molto
anche nei momenti felici, non solo
in quelli “del bisogno”.
Che senso ha per te la famiglia,
e in che modo, oggi, ne vedi una
possibile?
Gira e rigira la famiglia conta
ancora tanto, solo che sta cambiando architettura. Resta un nucleo di
affetti, di relazioni, di progetti in comune, di rispetto e di regole condivise. Dopodiché, allargata o ristretta, verticale o orizzontale, tradizionale o di genere, su queste basi può
funzionare. Ci si può separare, ma
il reciproco sostegno non dovrebbe
mai mancare. “Per allevare un figlio ci vuole un villaggio”, dice un
vecchio proverbio africano. Inoltre
la famiglia va vissuta in modo tridimensionale, nel rispetto di sé, degli
altri, dell’ambiente e del mondo.
La Voce dell’Isola n. 9~10
Cultura 27
Incontro con Mavie Parisi, autrice del romanzo “E sono creta che muta”
La cantrice del quotidiano
che scava nelle profondità
di MARIA LUCIA RICCIOLI
L
a morte di Salinger ha scatenato una piena di saggi e articoli. Quello scritto da Sandro
Veronesi, uscito su Repubblica il 19
febbraio scorso, contiene un riferimento ai diari di Diderot che mi è
sembrato illuminante: «[…] ognuno, ha detto Diderot, si costruisce
una statua interiore, e lo fa nel momento peggiore della propria vita,
l’adolescenza, quando non sa ancora
nulla di sé e del mondo, e non ha la
minima idea di come si costruisca
una statua – e poi passa il resto dei
suoi giorni a cercare di somigliarle.
Se gli va bene arriva il momento in
cui se ne rende conto e comincia a
demolirla, ma è impossibile sbarazzarsene del tutto, ed è per questo
che nessuno riesce mai a essere felice».
Tutto questo mi è venuto in mente
(ri)leggendo il libro d’esordio di
Mavie Parisi, E sono creta che muta
(Perrone Lab, Roma 2009, euro 18).
Cos’hanno a che fare Salinger e
Diderot con una storia attuale che
intreccia telefonate, sms, trascrizioni di incontri in chat, appuntamenti
e uscite con le amiche, cene, bagni
al mare e nuotate in piscina? Il titolo, tratto da una poesia di Giovanni
Pennisi, è evocativo e nello stesso
tempo programmatico: la nostra volontà ma soprattutto la vita stessa
tendono a demolire o scalfire la statua interiore che con caparbietà
ognuno di noi costruisce su più o
meno illusorie certezze e vera saggezza forse è proprio quella di lasciarsi mutare come la creta sotto le
dita di un’invisibile artefice, senza
rimpianti ma con la serenità di chi si
adatta alla corrente della vita senza
ostacolarla ma assecondandola.
La protagonista, Kita Narea, porta
nell’animo i segni della recente se-
parazione. L’ansia di
ricostruirsi una vita –
sentimentale ma anche professionale e
familiare: l’arte come
ridefinizione di sé e
una maternità ricomposta e più consapevole – la portano agli incontri virtuali e reali
delle chat, ad un alcolismo “domestico” ma
non meno pericoloso
della dipendenza tossica.
L’idea di corrente, di
stream come i flussi di
informazioni di Facebook, non è solo contenutistica: situazioni e dialoghi scorrono con fluidità e Mavie Parisi è
abile nel farci immergere nella liquidità della
vita di tutti i giorni. La
narrazione si dipana senza strappi o stacchi bruschi, con un linguaggio
semplice che però scava
nelle psicologie dei personaggi.
Kita usa il pc come uno
specchio dei propri desideri, delle proprie angosce. Cerca
tra le righe delle conversazioni una
frase, una parola che dia un nome
alla propria ricerca. Come nelle
quêtes medievali, il senso del viaggio sta nel viaggio stesso. Alla fine
del romanzo, che non è una vera e
propria conclusione – proprio come
nella vita – ma una tappa, uno stadio incompleto ancora ma più conscio della statua di creta che è la sua
esistenza, Kita accetterà il cambiamento come crescita.
Il classico romanzo di formazione, il Bildungsroman, qui è un romanzo di trasformazione, di scom-
La volontà ma soprattutto la vita stessa
tendono a demolire o scalfire la statua
interiore che con caparbietà
ognuno di noi costruisce su più o meno
illusorie certezze
posizione e ricomposizione di sé, in
cui l’arte è catarsi e conforto, l’amicizia e l’amore sostegni, puntelli. La
tecnica utilizzata – alternanza di capitoli in prima e in terza persona –
permette al lettore di osservare la
vita della protagonista da angolature
differenti.
Le finestre della Bovary qui sono
le finestrelle dei programmi per
chattare, schermi che sono difesa oltre che sguardo virtuale sul mondo
sconfinato delle solitudini. L’azione
qui è tutta interiore e non c’è bisogno di effetti o colpi di scena per
appassionarsi alle vicende di Kita,
Stefano, Damiano, dei figli di Kita
disorientati dalla separazione
dei genitori ma pronti a recepire
gli umori della madre, delle
amiche pronte a dispensare
consigli di sopravvivenza pur
vivendo al pari di Kita le esistenze complicate del nostro
vivere attuale.
Il libro è stato presentato nel
dicembre 2009 a Palazzo Beneventano, a Catania, a Roma,
al Biblios cafè di Siracusa, a
Palermo e in varie altre località. Ed ora qualche domanda
all’autrice.
Come sei riuscita a dar
voce – scusa il bisticcio – alla voce
interiore di Kita? Cosa ti ha ispirata aiutandoti a trovare la tua
voce personale?
Penso che ognuno di noi prima di
essere uno scrittore sia un lettore,
ed in quanto tale abbia dei generi
preferiti. Da sempre ho amato leggere romanzi in cui la vicenda esteriore fosse solo un pretesto per dare
voce all’interiorità. Qualcosa che
desse gli strumenti per compiere
uno scavo psicologico all’interno
delle relazioni umane, dei sentimenti e della maniera di gestirli. Più
che un’ispirazione è stata quindi
una necessità, la necessità di scrivere io stessa di cose che mi piaceva
Nuova ristampa di “Giorni di mafia” di Roberta D’Aquino
Significativo vademecum per non dimenticare
di DOMENICO COCO
N
el deludente panorama della visibilità
dell’editoria locale, il libro della ricercatrice Roberta D’Aquino “Giorni di mafia” riesce ad essere una eccezione: migliaia di
copie vendute, diverse ristampe. Sorge spontanea la domanda: è soltanto l’argomento “mafia”
che attira i lettori siciliani? Riteniamo che non
sia così, ma che si tratti, invece, del modo come
la questione sia stata affrontata.
Innanzitutto c’è da rilevare l’impegno di questa giovane ventiseienne, laureata in Giurisprudenza, che attualmente svolge il ruolo di ricercatrice presso l’ateneo catanese, mentre fa pratica
per conseguire l’abilitazione in Avvocatura: Roberta D’Aquino non è solo una studiosa dei fenomeni legati alla grande criminalità organizzata, ma è anche una studiosa interessata a comprendere la questione siciliana nella sua essenza.
Non suoni strana la sua prima tesi presentata per
conseguire il diploma degli studi superiori, “Sicilianità e Sicilitudine”, e la tesi di laurea, “Una
autonomia difficile: genesi e storia dello Statuto
Siciliano”.
Roberta D’Aquino è scesa in campo con
quanti si sono voluti organizzare per lottare la
La Voce dell’Isola n. 9~10
mafia: “A pochi giorni dalla commemorazione
della strage di Capaci, in cui morirono il giudice
Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo
e gli uomini della scorta, mi sono trovata a fare
una riflessione che pone al centro, per una volta,
l’aspetto psicologico, introspettivo, la considerazione di questi eroi come uomini, con le loro legittime paure che mai però sconfinarono nella
vigliaccheria.
Tra la fine degli Anni ’80 e gli inizi degli Anni ’90, mentre la città di Palermo, dilaniata dai
lutti, si svegliava lentamente dal torpore, iniziavano a vedersi cortei antimafia, attorno alle figure dei Giudici si condensava un’atmosfera intrisa di invidia, malumori, fatta di parole sussurrate, di altre non dette, di corvi che misteriosamente aleggiavano dentro e fuori il Palazzo di
Giustizia. In quel clima quegli uomini continuarono a lavorare e a condurre la vera lotta alla
mafia in Sicilia”, afferma la ricercatrice.
Probabilmente questo senso della consapevolezza verso l’abnegazione di quegli UominiGiudici ha spinto Roberta D’Aquino a scrivere
“Giorni di mafia”, ed a procedere nel suo impegno, quale testimonianza, di una Siciliana che
non intende sottrarre il suo contributo ad una
lotta che, prima o poi, otterrà il suo risultato.
Roberta D’Aquino
GIORNI DI MAFIA
Biesse editrice
Pagg. 286
leggere e sulle quali mi piaceva soffermarmi a pensare.
Ti ritrovi nella definizione di
“cantrice del quotidiano”?
Mi calza a pennello perché mi
permette di compiere e di far compiere un processo di identificazione
che renda empatico il mio rapporto
con i lettori.
Hai mantenuto per tutto il libro
un tono semplice – apparentemente semplice, direi, dato che
scava in profondità nelle psicologie dei personaggi –: in che modo
il tema del tuo romanzo hanno
condizionato il tuo stile di scrittura?
Questo ha condizionato molto il
mio linguaggio. La sua semplicità
deriva dall’esigenza che le parole
arrivino al cuore prima ancora che
al cervello. So che molti criticheranno questo concetto, ma per me la
scrittura è l’arte di emozionare prima e far riflettere poi attraverso le
parole. È un’arte che guarda e riflette ciò su cui ha puntato lo sguardo, attraverso la mediazione dello
scrittore.
Quali libri e quali autori ti hanno ispirata nella tua esplorazione
del quotidiano e dell’interiorità?
Come ho già avuto modo di dire,
ogni autore e ogni autrice che abbia
cantato l’epica del quotidiano e di
questo quotidiano abbia saputo trovare i risvolti interiori, è stato fonte
di ispirazione. Un nome tra tanti, la
Wharton tra le autrici del secolo
scorso. Anne Tyler nel contemporaneo. Nella quarta di copertina di un
libro di quest’ultima si legge che lei
riesce a narrare storie tanto comuni
quanto irripetibili. E ciò che rende
particolare, o appunto irripetibile
una vicenda comune è la vita interiore che la percorre e la sottende.
Il libro al quale mi riferisco è “Lezione di respiro” con il quale la Tyler ha vinto il Pulitzer nel 1988. Ma
avrei potuto citare qualunque altro
suo libro, per esempio “Un matrimonio da dilettanti”.
A che cosa stai lavorando in
questo momento? Hai un nuovo
progetto di scrittura?
Sto scrivendo un altro romanzo.
Questo secondo romanzo, a differenza del primo, avrà come protagonista un uomo. La scelta è stata
compiuta da tempo, ma ultimamente
è stata rafforzata dai commenti dei
lettori che hanno mostrato di apprezzare la mia capacità di penetrare il mondo maschile e di rappresentarlo. Voglio inoltre addentrarmi
nelle ossessioni e nei disturbi psicologici. Alla McGrath o alla Mc
Ewan, per intenderci, senza però
abbandonare l’idea che anche ciò
che apparentemente è inusuale, in
realtà fa parte del quotidiano di
molte storie.
27 maggio 2010