Anno V - La Voce dell`Isola
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Anno V - La Voce dell`Isola
Anno V - N. 9~10 • 27 Maggio 2010 - € 1,50 Giornale Siciliano di Politica, Cultura, Economia, Spettacolo, diretto da Salvo Barbagallo Mentre potenti e politici festeggiano l’unità d’Italia e Garibaldi NELLA SICILIA DELL’AUTONOMIA TRADITA BRUCIATI 64 ANNI DI STATUTO SPECIALE di SALVO BARBAGALLO I l presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a Marsala, poche settimane addietro per dare l’avvio alle celebrazioni del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia, è stato lapidario. Esprimendosi nei confronti di chi parla di secessione o di frantumazione del Paese ha affermato: “Un balbettare penoso, negando il salto di qualità che il Paese tutto fece unendosi”. È indubbio che sarebbe folle parlare di secessionismo in un mondo ormai globalizzato, ma a noi “Siciliani” viene difficile ammettere che il “salto di qualità” provocato dall’unione delle varie parti dell’Italia abbia mai portato qualcosa di positivo alla Sicilia ed alla sua popolazione. E sosteniamo ciò con convinzione nella ricorrenza (avvenuta a pochi giorni dalla vista del Capo dello Stato nei luoghi dello sbarco dei Mille di Garibaldi) di un altro anniversario, il sessantaquattresimo, quello dell’Autonomia Siciliana. Una “Autonomia”, forte di uno Statuto Speciale che fa parte integrante della Costituzione Italiana, mai applicata e che in tanti hanno cercato di cancellare in maniera definitiva. Quell’Autonomia, “concessa” da uno Stato che risorgeva dalle macerie della guerra, contro ogni tipo di dittatura, in Sicilia non ha portato nulla di buono, così come è accaduto quando si realizzò l’unità del Paese, perché i principi che animavamo quelle importanti determinazioni, sono stati palesemente e costantemente disattesi. Quell’Autonomia nasceva da una spinta “secessionista” di una popolazione che voleva rendersi “indipendente” quando l’Italia era dominata dai fascisti e da Mussolini e che, a Italia liberata, non sapeva quale futuro potesse attenderla. La Storia viene dimenticata, o “manipolata” per ragioni politiche ma, allora, nel 1946, coloro che rappresentavano l’Italia, si resero ben conto che alla Sicilia “qualcosa” bisognava pur dare, se non si voleva che accadesse il peggio. Illustri studiosi elaborarono uno Statuto della Regione che potesse portare allo sviluppo dell’Isola, e lo Statuto, con qualche modifica, venne approvato e promulgato. Evidentemente, però, doveva esserci sotto un qualche “trucco” poiché la Sicilia, nella sua lunga storia, di “regali” non ne ha mai ricevuti. Il “trucco” è emerso nel corso di questi sessantaquattro anni. Lo Statuto non doveva essere applicato, le prerogative in esso contenute ignorate. Ma sicuramente se ciò si è verificato la responsabilità non può essere soltanto dei governanti l’Italia, ma anche (se non soprattutto) di chi ha avuto ruoli nel governo dell’Isola, indubbiamente conniventi nella strategia di tenere costantemente la Sicilia sottomessa, in balìa dei più forti del momento. Il Presidente della Repubblica a Marsala ha rimproverato i politici del Sud, e li ha invitati a riconoscere “le proprie insufficienze in decenni di autogoverno”, spronandoli a sfruttare le “specificità” concesse. E parliamo, dunque, di quelle “specificità” statutarie che mai sono state applicate, quelle che quando qualche presidente (ricordiamoci di Silvio Milazzo e di Rino Nicolosi) ha tentato di mettere in moto quelle che oggi vengono chiamate “specificità”, subito si è fatto in modo di renderlo inoffensivo. Oggi si torna a parlare delle “specificità” poiché, come è stato sottolineato, con il Titolo V della Costituzione si lavora ad “un più conseguente sviluppo delle Autonomie” nel Paese: per i Siciliani, dopo sessantaquattro anni di Autonomia “bruciata” dalla negligenza e dalla indifferenza, la volontà di intenti non appare credibile. Il Presidente della Repubblica è stato accolto trionfalmente dai Siciliani, così come vennero accolti Garibaldi e gli yankees che sbarcarono nel luglio del 1943 nell’isola, sperando (ed è questo l’errore) che qualcosa potesse cambiare, che si potesse essere cittadini di prima classe come tutti in Italia, e non subordinati. In realtà la colonizzazione della Sicilia è stata non-stop: tutti vengono ad attingere, pochi a dare. Resta l’amaro in bocca. Resta la rabbia. All’interno i dossier sull’Autonomia Banca del Sud, punto e a capo, sempre in nome dello sviluppo di MARCO DI SALVO S ilvio Berlusconi (foto al centro) nel pieno della bagarre firme ha trovato il tempo per presentare il nuovo Comitato promotore della Banca del Sud. La banca «non sarà un carrozzone», ha precisato, perché il ruolo dello Stato è semplicemente quello di promotore: avrà una quota minoritaria che sarà dismessa entro cinque anni. «Credito e legalità sono i pilastri per lo sviluppo del nostro Sud. E io - aggiunge il premier - sarò il secondo depositante, dopo il ministro Tremonti». L’istituzione del Comitato promotore, composto da quindici persone e presieduto da Vito Dell’Erba (presidente dell’Associazione delle Casse di risparmio di Puglia e Basilicata), rappresenta un nuovo passo operativo dell’istituto che, nelle intenzioni del governo, dovrebbe contribuire a finanziare l’economia del Mezzogiorno, in special modo le piccole e medie imprese. Sarà compito del Comitato individuare e selezionare i soci fondatori (oltre allo Stato), definire la governance della banca, le specifiche funzioni e attività. Entro l’estate sarà pronto il piano industriale, in autunno arriverà l’ok di Bankitalia, ed entro l’anno dovrebbero vedersi i primi effetti sul territorio. Il capitale sarà in massima parte privato. La Banca potrà emettere, attraverso la rete del credito cooperativo e delle Poste, i cosiddetti «Sud bond», garantiti dallo Stato, cioè obbligazioni di scopo a medio-lungo termine che saranno tassate al 5% fino a un massimo di 100mila euro per sottoscrittore, anzichè al 12,50%. «Siamo il primo governo - può dire Giulio Tremonti - che per il Mezzogiorno ha fatto una banca e una fiscalità di vantaggio». Le banche di credito cooperativo socie e le Poste metteranno a disposizione i loro sportelli. «É un buon progetto», commenta l’amministratore delegato delle Poste, Massimo Sarmi, che sta già lavorando per adeguare gli sportelli postali al nuovo compito. «É un progetto coerente con la missione delle banche di credito cooperativo - dice Alessandro Azzi, presidente di Federcasse - a favore delle piccole e medie imprese». Tutto bene, allora? Non si direbbe, perché c'è chi, pur essendo un giovane deputato, ha la memoria lunga. E contrattacca la presentazione in pompa magna. “Il ministro Tremonti il 9 marzo 2006 alle ore 17.00 presentò a Napoli presso la sede del Circolo dell'Unione, il Comitato promotore della Banca del Mezzogiorno. Tutto avvenne nell'imminenza delle elezioni politiche. Quattro anni dopo la storia si ripete...”. È quanto ha affermato in una nota battuta dalle agenzie subito dopo la presentazione Francesco Boccia, coordinatore delle commissioni Economiche del gruppo Pd della Camera a proposito della presentazione della Banca del sud. “Desidereremmo sapere che fine ha fatto il presidente del Comitato promotore, il principe Carlo Di Borbone”, ironizza Boccia aggiungendo di aver “sempre sperato in questi 18 mesi che il governo credesse davvero nel Mezzogiorno. La vicenda bizzarra della fantomatica Banca che nasce con soli 5 milioni di euro - conclude - è la conferma di quanto il Sud sia considerato marginale”. E buono solo per la campagna elettorale di tutti, aggiungiamo noi... Politica 2 L’esempio più acclarato delle tante distorsioni di un sistema costituzionale difeso da tutti (a parole) L’Autonomia e Babbo Natale: ci sono, ma solo nella fantasia di MARCO DI SALVO N ella dissennata storia della Repubblica Italiana l’esempio più acclarato delle tante distorsioni di un sistema costituzionale (a parole) difeso e promosso da tutti sta nella storia della Statuto Siciliano, che sarebbe (il condizionale è d’obbligo) alla base della tanto (a parole) festeggiata (nelle ultime settimane) Autonomia. Babbo Natale in giallo e rosso La si festeggia come se fosse Natale, come se da un momento all’altro si attendesse il discendere di un simpatico signore dal camino (ben in carne, magari con la barba e un vestito di colore giallorosso di impronta sicula, in cambio di quello rosso imposto a Santa Claus dalle scelte di marketing della Coca Cola) che porti in dono questo o quel regalo, questa o quella prebenda. Peccato che Babbo Natale, come l’Autonomia siciliana, semplicemente non esista. E peccato (peccato davvero, per tutti quelli che ne cianciano tanto, sempre a parole) che dove e quando l’autonomia (l’indipendenza o, se il caso, la separazione) sono state, esse sono sempre state nella storia solo figlie di moti, di scelte politiche e non di regali venuti dall’alto. E il paradosso dell’Autonomia siciliana è proprio questo. Non dobbiamo conquistarla. Ce l’abbiamo, ma non la usiamo (non la usano i nostri rappresentanti istituzionali, se non, a volte, come spauracchio per alzare il prezzo in trattative di basso livello). Il nostro (finché non ce lo leveranno, magari La Voce dell’Isola Iscritto al n° 15/2006 dell’apposito Registro presso il Tribunale di Catania Registro ROC n. 16473 Editore Mare Nostrum Edizioni Srl Direttore responsabile Salvatore Barbagallo Condirettore Marco Di Salvo Redazione Catania - Via Distefano n° 25 Tel/fax 095 533835 E-mail: [email protected] [email protected] Fotocomposizione e Stampa Litocon Srl - Z.I. Catania Tel. 095 291862 Per la pubblicità: Tel/fax 095 533835 E-mail: [email protected] [email protected] Anno V, nº 9~10 27 Maggio 2010 Gli articoli rispecchiano l’esclusivo pensiero dei loro autori 27 maggio 2010 mentre fanno il federalismo voluto da chi difende gli interessi di macroregioni padane di fatto mai esistite) è un modello di autonomia sostanzialmente restato sulla carta, ma nello stesso tempo che resta in perenne attesa di una applicazione in quanto sempre formalmente legittimo. Vi è quasi dell’incredibile nello scoprire che questa Autonomia, applicata alla lettera, sarebbe addirittura la “negazione dello spreco”, con l’accollo di quasi tutti i servizi pubblici da parte della Regione e degli enti pubblici territoriali. Si scopre, e sembra incredibile, l’ignoranza in cui sono stati tenuti i diretti interessati, i cittadini, che la Sicilia è (o meglio “sarebbe”) uno stato semi-sovrano appena confederato con la Repubblica Italiana, capace di creare un proprio ordinamento tributario, di partecipare all’emissione della moneta comune, in cui persino l’amministrazione periferica dello Stato (quella residua) sarebbe organizzata e disciplinata dallo Stato-Regione (ragion per cui il Presidente siederebbe nel Consiglio dei Ministri, non come rappresentante della Regione, ma come “Ministro della Repubblica per gli affari dello Stato italiano in Sicilia”). La “piccola costituzione siciliana” che dovrebbe regolare la vita dell’intera Regione, (dovrebbe), non è mai stata attuata del tutto anzi l’autonomia della Sicilia si riduce ad una carta formalmente legittima che è stata attuata solo per 10 anni (dal 1947 al 1957) e dopo dimenticata. Sviluppo contro manodopera Un’autonomia mai applicata o forse mai realmente voluta, soprattutto per ragioni economiche. Per fare un esempio: l’art. 38 del nostro Statuto “prevede fondi da parte dello Stato” da destinare ai lavori pubblici “a titolo di solidarietà nazionale”. Fondi dovuti che furono versati per cinque anni, dal 1951 al 1956 e successivamente soppressi (e sostituiti con altri che invece di garantire l’autonomo sviluppo finirono nelle tasche e nello sviluppo di altre regioni del nostro Paese, contribuendo al miracolo economico). La Sicilia non ebbe più quei finanziamenti volti a favorire la progettazione generale di infrastrutture e servizi che avrebbero migliorato le condizioni territoriali regionali, tanto da poter raggiungere il livello di regioni più evolute (mentre anche allora si parlava del Ponte di Messina, naturalmente...). Le stesse verso le quali partirono i nostri padri e stanno, mestamente, ricominciando a partire i Il nostro è un modello di Autonomia sostanzialmente rimasto sulla carta, ma nello stesso tempo che resta in perenne attesa di una applicazione in quanto, sempre formalmente, legittimo nostri figli negli ultimi anni. Tutto questo a fronte di uno Statuto, quello siciliano, volto a favorire, l’indipendenza, l’economia regionale ed un proprio ordinamento tributario portando l’Isola a sviluppare attività produttive senza più bisogno di elemosinare o dipendere dal governo centrale. Un sogno durato undici anni Dal 1957 il nostro Statuto non è stato più applicato esistendo solo nell’ombra. La Sicilia, dunque, vive continuamente nell’illegalità, remando contro la propria costituzione e spianando il terreno ad una classe dirigenziale (non solo politica) corrotta da gravi forme di clientelismo. Esempio massimo, a conferma di tutto ciò, la questione legata all’Alta Corte della Sicilia che rappresentava più di tutti il simbolo e l’organo di un’autonomia tradita e rifiutata. L’Alta Corte disciplina dall’art. 24 dello Statuto aveva il compito di “risolvere” i conflitti tra Stato e Regione, ma con un raggio di azione più grande. Era una sorta di “sindacato” di costituzionalità di tutte quelle norme che si devono applicare in Sicilia provenienti da qualunque fonte. Uno strumento di garanzia. Appunto. E, in quanto tale, soppresso. Con la sentenza n. 38 del 7 marzo 1957 che dispone così: “La competenza dell’Alta Corte per la Regione Siciliana è stata travolta dalla Costituzione; essa era competenza provvisoria ai sensi della VII disp. trans. della Cost., destinata a scomparire con l’entrata in funzione della Corte Costituzionale”. colo 24 dello Statuto (è istituita in Roma un’Alta Corte con sei membri e due supplenti, oltre il Presidente ed il Procuratore generale nominati in pari numero dalle Assemblee legislative dello Stato e della Regione, e scelti fra persone di speciale competenza in materia giuridica), era quello di creare un organo non con competenza limitata ai conflitti tra Stato e Regioni ma con un raggio di azione più vasto che arrivasse ad identificarla con un vero e proprio sindacato speciale di costituzionalità di tutte quelle norme che si devono applicare in Sicilia, qualunque sia la fonte. Infatti, secondo gli articoli 25 e 26 dello Statuto, l’organo giurisdizionale giudica sulla costituzionalità delle leggi emanate dall’Assemblea regionale; delle leggi e dei regolamenti emanati dallo Stato, dei reati compiuti dal Presidente e dagli assessori regionali nell’esercizio delle funzioni di cui al presente Statuto, ed accusati dall’Assemblea regionale. Questa Corte, secondo Massimo Costa, “equamente costituita, avrebbe potuto agire come la paladina della nostra autonomia. E si capisce perché, sin dal suo inizio, sia stata fieramente boicottata”. Nei suoi 10 anni di attività, dal 1947 fino alla sentenza del 1957 che ha stabilito l’assorbimento delle sue funzioni da parte della Corte costituzionale, nella giurisprudenza dell’Alta Corte deve essere menzionata una celebre sentenza, quella del luglio 1949, con la quale essa impedì che il Parlamento italiano modificasse con legge ordinaria lo Statuto siciliano. “In gran parte delle sentenze - osserva Massimo Costa l’Alta Corte considerava l’autonomia siciliana un patto tra due entità paritetiche, nei rispettivi ambiti di sovranità riconosciuti. Un’autonomia che funzionava, continua Costa, nonostante la sempre più aperta ostilità dei poteri forti italiani, nonostante il freno a mano tirato dalla stessa Dc autonomista di allora, obbligata a ragioni di prudenza per non spiacere alle centrali politiche romane”. All’assorbimento delle funzioni dell’Alta Corte da parte della Corte Costituzionale si è arrivati, secondo Costa “per mezzo di una sentenza illegittima”. Un giudizio, a dire il vero, che l’Alta Corte non ha mai avallato con propria sentenza. “L’autonomia, osserva Costa è stata scippata ai siciliani con un vero e proprio colpo di Stato, lasciandola nelle mani di un organo giurisdizionale (Corte costituzionale, ndr) che non è terzo e che dimostra quasi ad ogni sentenza la propria parzialità e il proprio centralismo, smantellando pezzo a pezzo l’autonomia siciliana a colpi di interpretazioni abrogative”. Ma qual è stato il ruolo della Regione di fronte a questo “golpe” politico-giuridico? “La Regione - osserva Costa- avrebbe dovuto aprire una serissima crisi istituzionale ricusando la competenza della Corte Costituzionale. Ma chi è politicamente, culturalmente e psicologicamente subalterno non è in grado di assumere tale posizione.” Da lì in poi ogni tanto un’abbaiata alla luna di qualche presidente della regione (in cambio di qualche elemosina in più) e poco altro. È proprio questo il punto: chi è subalterno riuscirà mai ad essere autonomo? E che senso ha festeggiare l’Autonomia che (di fatto) non c’è? L’inganno della Corte Costituzionale E invece non è così. Come ha sottolineato Massimo Costa in un libro dello scorso anno, l’obiettivo della sua istituzione, disciplinata dall’artiLa Voce dell’Isola n. 9~10 Politica 3 L’impietosa analisi, ma forse futuribile, del settimanale “The Economist” Una nuova mappa dell’Europa mentre l’Italia si frantuma di VALTER VECELLIO S baglia “l’Economist” che brutalmente parla di due Europe: una che in qualche modo riesce a tirarsi fuori dalle sabbie mobili di una crisi la cui fine appare ancora lontana; e un’altra, che invece è sempre più avviluppata nel disastro di cui è in larga parte responsabile? La domanda insistente (e la frequenza con cui si propone il dubbio solo per questo ha il sapore di una “certezza” fino a poco fa indicibile), è se in Europa sia mai esistita quella volontà di dare vita a quell’unione politica ed economica che Bruxelles riteneva necessaria per far funzionare l’euro. “La Grecia è piccola, la Spagna è gestibile”, riassume Guy Dimore, sull’altra “bibbia” del capitalismo mondiale, il “Financial Times”. Poi, la madre di tutte le domande: ma se fallisse l’economia italiana? Secondo alcuni esperti il destino dell’euro verrà messo alla prova proprio a Roma. “Nessuno ha i mezzi per salvare un paese così importante”, dice Natacha Valla, economista di Goldman Sachs; e snocciola gli elementi di inquietudine: investimenti bassi, modesta crescita dell’occupazione, aumento del debito pubblico (nel 2010 dal 115 per cento del PIL, al 118), ormai diventato il secondo in Europa, dopo quello greco. Ci si consola col fatto che tra le famiglie italiane si registra un basso tasso di indebitamento, e che la maggior parte dei titoli emessi dal tesoro è in mani italiane; tuttavia l’analisi è ugualmente spietata: “Divisa tra un nord economicamente dinamico e orientato alle esportazioni, e un sud arretrato e dipendente dallo Stato, l’Italia sembra un microcosmo dell’eurozona”, e si osserva che sarà necessario fare appello a tutte le risorse disponibili per “superare le tensioni e dare prova di capacità di risolvere i problemi”. Anni fa sempre “l’Economist” descrisse il nostro Paese come “he real sick man of Europe”, il vero malato del vecchio continente. Ora la situazione è differente: di malati se ne sono aggiunti altri, ma nessuno dei “vecchi” nel frattempo è guarito. Le due Italie: problemi strutturali, come l’elevata pressione fiscale, l’eccesso di spesa pubblica, la rigidità del mercato del lavoro, un sistema bancario “arroccato”. Una situazione che favorisce e alimenta quella che il leader radicale Marco Pannella riassume nello slogan: “Uccidono la patria europea e creano l’Europa delle patrie”. In questo processo, di arroccamento e insieme di disgregazione, un ruolo tra i più significativi lo gioca la Lega Nord di Umberto Bossi. Lega non a caso nella sua storia si è legata ad altri movimenti e organizzazioni neo-populisti: dai partiti del Progresso e Nuova Democrazia in Scandinavia, al Vlaams Blok fiammingo; dalla Lega ticinese in Svizzera al Fpoe, il partito fondato da Jorge Haider; e senza disdegnare i Republikaner tedeschi e il Front National di JeanMarie Le Pen in Francia; e più recentemente con la CDU bavarese di Edmund Stoiber e la Serbia di Slobodan Milosevic, quest’ultimo definito da Bossi “molto più democratico di D’Alema”. Dichiaratamente La Voce dell’Isola n. 9~10 Nel nostro Paese assistiamo, in questi giorni, alla progressiva (e, parrebbe, inarrestabile) disgregazione delle forze politiche tradizionali e qualcuna “nuova”, le ha perfino anticipate e precedute. La Lega al contrario si consolida anti-europea, gli uomini della Lega si sono spellati le mani compiaciuti, quando Giulio Tremonti, ha esortato “ad alzare le bandiere dell’onore e dell’orgoglio”, e si è atleticamente domandato: “Perché non è più l’Europa a cambiare il mondo, ma il mondo a cambiare l’Europa? Per una ragione molto semplice -. Per- ché non è stata l’Europa a entrare nella globalizzazione, ma la globalizzazione ad entrare in Europa, trovandola insieme incantata e impreparata…”. Assistiamo, in questi giorni alla progressiva (e, parrebbe, inarrestabile) disgregazione delle forze politiche tradizionali (e qualcuna “nuo- va”, le ha perfino anticipate e precedute); la Lega al contrario si consolida e afferma: una politica fatta di parole d’ordine semplicistiche, di verbale contestazione nei confronti della partitocrazia, e contemporaneamente una sistematica partecipazione ai processi di lottizzazione…il retroterra “culturale” affonda le sue radici in quello che teorizzava Gianfranco Miglio: una “rivoluzione” federale fondata su tre macro-regioni (Padania, Etruria, Mediterranea), oltre le cinque a Statuto speciale: “L’Italia unita è figlia di una congiuntura storica particolare che ha mescolato insieme popoli che non hanno nulla in comune. Noi abbiamo nelle vene sangue barbaro, siamo legati al negotium, al lavoro. I meridionali invece vivono nell’otium, il dolce far nulla. Una differenza antropologica”. “L’Economist” tutto sommato si limita a fotografare una situazione che sembrava una bizzarra fantasia; e che forse, per quanto bizzarra e fantastica, un giorno si realizzerà. I segni ci sono tutti, in nuce e l’analisi dell’ “Economist” lo certifica. “The Economist” ridisegna i confini: il nostro Sud denominato “bordello” (29 aprile 2010 | Da The Economist online) L e persone che trovano la loro vicini fastidiosi si possono spostare in un altro quartiere, mentre i paesi non possono. Ma supponiamo che si possa fare. Rimodulare la mappa d'Europa renderebbe la vita più logica e amichevole. La Gran Bretagna, che dopo le elezioni politiche dovrà confrontarsi con la sua terribile finanza pubblica, dovrebbe avvicinarsi per i paesi dell'Europa meridionale che si trovano in una posizione simile. Potrebbe essere trainata in una nuova posizione vicino alle Azzorre. (Se il viaggio si rivela accidentato, questa potrebbe essere una buona occasione per fare del Galles e della Scozia isole separate). Al posto della Gran Bretagna si potrebbe spostare la Polonia, che ha sofferto già abbastanza della sua posizione tra Russia e Germania e merita la possibilità di godere i venti di rinforzo dell'Atlantico settentrionale e la sicurezza di avere un mare tra essa e qualsiasi potenziale invasore. L'incomprensibile conflitto linguistico belga tra fiammingo e francese (che ha appena portato ad una crisi di governo) rappresentano l'Europa centrale al suo peggio, ad esempio la Slovacchia e la minoranza etnica in lingua ungherese. Così il Belgio dovrebbe scambiare il posto con la Repubblica ceca. I ben organizzati cechi potrebbero stare benissimo con i loro nuovi vicini olandese e viceversa. La Bielorussia, attualmente senza sbocco sul mare e che cerca di uscire da sotto il pollice della Russia, gioverebbe notevolmente dallo spostamento nella regione nordica, la cui influenza ha svolto un grande ruolo nell'aiutare i paesi baltici ad uscire dal loro retaggio sovietico. Così dovrebbe spostarsi verso nord al Baltico, prendendo il posto di Estonia, Lettonia e Lituania. Questi tre paesi dovrebbero spostare in una nuova posizione da qualche parte vicino Irlanda. Come l'isola di smeraldo, essi hanno giocato bene la carta della "svalutazione interna", riconquistando competitività dal taglio di salari e dei prezzi, piuttosto che prendere la semplice opzione di svalutazio- ne della moneta, o di incauto indebitamento come la Grecia. I paesi baltici sarebbero felice di essere più lontani dalla Russia e più vicini all'America. Tra le altre mosse, Kaliningrad potrebbe spostare la costa verso la Russia, che terminerebbe così il suo status anomalo di exclave, eredità della seconda guerra mondiale, e risolverebbe qualsiasi possibilità di futuri conflitti coi russi sul transito ferroviario. Negli spazi liberati dalla Polonia e Bielorussia dovrebbero venire le parti centrale e occidentale dell'Ucraina. Così la Germania, con il confine ucraino ora solo 100 km da Berlino, potrebbe iniziare a prendere sul serio l'ingresso in Europa dell'Ucraina. Lo spostamento ucraino consentirebbe Russia di spostarsi a ovest e a sud, così liberando la Siberia per i cinesi, che verrà comunque annessa prima o poi. Poi arriva un riordinamento dei Balcani. Macedonia, Albania e Kosovo deve ruotare posti, con la Macedonia al posto del Kosovo accanto alla Serbia, Kosovo spostato al posto dell'Albania sulla costa e l'Albania verso l'interno. In questo modo le fantasie greche paranoiche sulle rivendicazioni territoriali degli irredentisti slavi evaporerebbero. La Bosnia è troppo fragile per spostarsi e dovrà rimanere dove è. La Svizzera e la Svezia sono spesso confusi. Così avrebbe senso spostare Svizzera nord, dove sarebbe adatta ordinatamente in paesi nordici. La neutralità sarebbe perfetta avendo accanto finlandesi e svedesi; la Norvegia sarebbe felice di avere un altro paese terzo della porta accanto. Germania può rimanere dove è, come può la Francia. Ma l'Austria potrebbe spostarsi ad ovest al posto della Svizzera, fare spazio per la Slovenia e la Croazia che si sposterebbero a nord-ovest. Questi potrebbero aderire al Nord Italia in una nuova Alleanza regionale (idealmente gestita da un Doge, da Venezia). Il resto dell'Italia, da Roma verso il basso, sarebbe da separare e da unire con la Sicilia per formare un nuovo paese, chiamato ufficialmente il Regno delle due Sicilie (ma soprannominato bordello). E potrebbero formare un'Unione monetaria con la Grecia, e nessun altro. 27 maggio 2010 Politica 4 Sono note le cifre complessive del bilancio annuale ma non le singole voci Oggi si conosce poco o nulla della gestione finanziaria dell’Ars di ERNESTO GIRLANDO N iente è peggiore della vox populi quando alimenta e amplifica tutti i luoghi comuni del cosiddetto uomo qualunque. Mille gli esempi passabili. Da “chi ruba una gallina va in galera e chi ruba un miliardo la fa franca”, a “tutti sono uguali, tutti rubano alla stessa maniera”, per parafrasare De Gregori. Per non parlare poi di tutte le combinazioni possibili sui privilegi, le prerogative, le immunità della politica e gli emolumenti e le prebende dei politici. Forse però una cosa financo peggiore c’è: è alimentarli, i pregiudizi e le dicerie popolari, con azioni e talvolta omissioni quasi sempre al di sotto di ogni sospetto. È un argomento infinito, quello che riguarda gli appannaggi del potere. Da sempre. Fiumi di inchiostro sono scorsi negli anni, per non dire nei secoli, per denunciare privilegi di casta, sprechi di risorse, indebitamenti indebiti, dubbie utilità e occultamenti di spese, facili affidamenti di consulenze, stipendi d’oro. Mali che si perpetuano e stratificano negli anni, per i quali la politica dolcevitosa sconta la rata del discredito da parte di una società civile il cui mito è, per parte sua, impallidito e che solo l’inciviltà della prima riesce ancora a conferirgli vigore. Noi che non amiamo i giudizi (peggio, i pregiudizi) all’ingrosso, la vaghezza grossolana della demagogia, l’arbitrarietà fumosa e ipocrita della retorica, siamo convinti che un politico debba essere ben pagato e che la tranquillità economica sia una condizione essenziale affinché ognuno svolga al meglio il proprio delicato compito e sia distolto dai cattivi pensieri. Il punto è semmai un altro: pretendere che il politico faccia bene il suo lavoro e che sia assecondato e garantito il diritto di ogni cittadino di sapere come si spendono le risorse pubbliche. Diceva Kant nell’Appendice alla Pace perpetua che “Tutte le azioni relative al diritto di altri uomini la cui massima non è suscettibile di pubblicità, sono ingiuste”. L’obbligo di pubblicità di tutti gli atti governativi è tale non solo perché è utile al cittadino per conoscere l’operato dei detentori del potere e favorire il loro controllo, ma soprattutto perché tale pubblicità costituisce già di per sé una forma di controllo. Fallito il sogno giacobino configurante l’assolutismo rivoluzionario quale ineluttabile strumento atto a realizzare il regno della virtù, abbiamo tutti imparato che è la democrazia a costituire il regno di una virtù possibile e che esso regno non è altro che esercizio quotidiano della pratica democratica. La superiorità della democrazia rispetto allo stato assoluto, che difendeva la necessità di mantenere il segreto sulle decisioni adottate (gli arcana imperii), consiste proprio nella sua capacità di rendere trasparente il potere. Se c’è un limite che la pratica democratica non è riuscita a valicare è quello dell’esistenza del cosiddetto doppio stato, ovvero della persistenza accanto a un potere visibile, di un potere invisibile. L’antica formula degli arcana imperii, di cui Tacito parla negli Anna27 maggio 2010 Francesco Cascio, presidente dell’Assemblea Regionale Siciliana les, dopo essere scampata alla polvere e alla ruggine degli anni, sembra non aver perso l’alone di fascino e di mistero che l’ha contraddistinta nei secoli. Appena qualche anno or sono, il Segretario generale dell’Assemblea regionale siciliana rispondeva usando proprio quella formula alla richiesta di un sindacato interno che tentava di comprendere le ragioni per le quali non era stata bandita una gara d’appalto per l’attribuzione di un call center. “Arcana imperii” ra. Non sappiamo quanti e quali deputati godono di un vitalizio in deroga. Un sistema complesso quello del trattamento pensionistico, che segue regole secondo le quali il parlamentare gode di un vitalizio previo possedimenti di alcuni requisiti, salvo concedere in deroga, a cura del Consiglio di Presidenza, il vitalizio a chi i requisiti non li ha. L’unica cosa certa è il cosiddetto “parametro”, una scelta adottata nel corso delle prime sedute dell’As- le assegnato a quest’area sacra e impenetrabile è scelto con grande accortezza. Ma se non ci è noto quanto il Parlamento siciliano spenda per mantenere un deputato, tra stipendio, rimborsi, indennità, contributi per la segreteria; tra rimborsi elettorali, che hanno soppiantato il vecchio sistema del finanziamento pubblico ai partiti bocciato da un referendum, e contributi ai gruppi parlamentari a titolo di elargizione per iniziative di carattere politico e cul- Un bunker inaccessibile: le carte contabili che circolano all’interno dell’Assemblea sono prerogativa di pochi intimi e il personale assegnato a quest’area sacra e impenetrabile è scelto con grande accuratezza scrisse il Segretario del tempo, evidentemente convinto che talune materie, non potendo essere comprese dalla ragione di coloro che non vivono di politica, dovessero necessariamente essere tenute lontano dagli sguardi e dall’attenzione dei sudditi. L’episodio sarebbe gustoso e la formula, fascinosa e ammaliante, usata da un Segretario dotato certamente di buona cultura classica e giuridica, puro esercizio virtuosistico di un accademismo erudito, se non fosse che l’Assemblea è in realtà un territorio in cui gli arcana imperii, la segretazione sistematica degli atti, sono componenti essenziali e abnormi, profondamente radicati, nella gestione della comunicazione istituzionale al punto da fare dell’organo legislativo siciliano un bunker inaccessibile. Della gestione finanziaria dell’Ars si sa poco o nulla: si conoscono le cifre complessive del bilancio annuale ma non le singole voci. Ossia sappiamo quanto l’Assemblea spende annualmente ma non sappiamo, per larga parte, come. Non c’è documento ufficiale che attesti l’ammontare dello stipendio dei deputati, quali benefit vengono a loro concessi, a quanto ammonta il vitalizio di un deputato a fine legislatu- semblea e formalizzata con una legge regionale risalente al 1965, secondo cui ai deputati regionali siciliani spetta lo stesso trattamento economico dei membri del Parlamento e, più precisamente, del Senato della Repubblica, considerato di miglior favore. Ma anche in questo caso si deroga abbondantemente. Il Consiglio di Presidenza, del quale ogni decisione non è sottoposta ad alcun controllo, pur avendo forza di legge e non è impugnabile da nessuno, ammette spesso eccezioni e aggiustamenti sul trattamento economico dei deputati, ritoccando il parametro ovviamente a favore degli stessi parlamentari. Poche notizie si hanno circa il fondo di quiescenza di deputati e personale. L’unica cosa certa è che, a differenza del Senato, esso non è autonomo, non ha un consiglio di amministrazione o dei revisori dei conti, non ha un regolamento e viene gestito dalla Ragioneria, dal Collegio dei Questori e dal Banco di Sicilia. Non si ha notizia in merito a eventuale gara d’appalto per l’assegnazione della gestione dei depositi all’istituto bancario. Le carte contabili che circolano all’intero dell’Assemblea sono prerogativa di pochi intimi e il persona- turale con obbligo di rendiconto anche se, paradosso tra i paradossi, non sono previste sanzioni nel caso di utilizzo dei fondi diverso da quello prescritto (un po’ come la storia di un paio di Presidenti della Regione condannati per maldestre fughe con malloppo), parimenti fumosa è la condizione che riguarda il personale di Palazzo dei Normanni. Anche in questo caso il parametro del Senato dovrebbe costituire il riferimento dei livelli degli stipendi dell’Assemblea regionale. Anche in questo caso gli smarcamenti sono radicata consuetudine. Si parla di indennità favolose per il capo di gabinetto del presidente (160 mila euro, oltre lo stipendio che euro più, euro meno si aggira sui 300 mila euro l’anno), di vie privilegiate attraverso le quali dirigenti, quadri intermedi, assistenti si vedono lievitare i compensi automaticamente verso l’alto. È il sistema del cosiddetto galleggiamento, altrove abolito, sempre in vigore all’Assemblea regionale siciliana. Un automatismo compensativo che si applica anche e in ugual misura al vitalizio dei pensionati: aumentano gli stipendi del personale attivo, aumentano le pensioni di quello quiescente. Ma la cosa incre- dibile, anche in questo caso, è che dall’Assemblea non è mai uscita una notizia ufficiale degli organi rappresentativi, una nota formale, che consenta a tutti di sapere come stanno realmente le cose. Arcana imperii, interna corporis acta. Di tanto in tanto qualcosa sfugge alle maglie strette della rete silenziosa che avvolge misteriosamente la materia. Tempo fa da un quotidiano è stata resa nota (caso unico) la liquidazione di un Segretario generale del parlamento isolano: un milione e settecento mila euro circa. Mistero venuto alla luce grazie allo sfogo del Presidente dell’Ars del tempo a cui dovette tremare parecchio la mano nel firmare il decreto di liquidazione. Il caso di Felice Crosta, dirigente dell’Agenzia per le Acque, ha tenuto banco qualche mese fa per l’eccezionale indennità previdenziale che gli è stata riconosciuta da una sentenza della Corte dei Conti: 500 mila euro l’anno, 1350 euro al giorno. Mentre nessun accento scandaloso si ode di fronte alle pensioni dei dirigenti dell’Assemblea, mediamente superiori di quelle percepite dai dirigenti regionali. Nessuno si indigna sostanzialmente perché nessuna sa nulla. Il punto è proprio questo: la consegna del silenzio, gli arcana imperii. Tutti zitti: deputati di maggioranza e di opposizione, dipendenti di ogni ordine e grado. Ogni compenso, ogni emolumento, ogni indennità e ogni appannaggio può anche essere legittimo e sacrosanto (non crediamo lo siano sempre, certo) purché però sia doverosamente reso pubblico e spiegato. Coprire privilegi ed eccessi dell’amministrazione pubblica vuol dire cagionare un deficit di democrazia, oltre che di bilancio, far crescere il discredito e la sfiducia verso la politica e, ancor peggio, verso le istituzioni. La democrazia si può ammazzare in mille modi, attraverso lo stacanovismo della dichiarazione quotidiana, ma può anche morire di inedia a fronte del perenne avvilimento del principio di pubblicità che è il cardine su cui poggiano le istituzioni democratiche, nonché l’imprescindibile valore che regola i moderni sistemi di comunicazione istituzionale. La Voce dell’Isola n. 9~10 Politica 5 Sviluppo, ambiente e ulteriori trivellazioni petrolifere in terra siciliana Petrolio: riecco i texani all’assalto delle risorse del nostro sottosuolo di ERNESTO GIRLANDO Zitti zitti i danni ambientali li hanno già fatti questi magnati del petrolio che vengono da oltre Oceano: la questione passa sotto silenzio e con il benestare dei nostri governanti L o sviluppo è una scelta e non è un percorso obbligato. L’idea è una giustissima idea ed è un’idea “liberale” nel senso più profondo e nobile del termine, perché implica il concetto, appunto, di scelta e rigetta ogni approccio deterministico che esclude il “libero arbitrio”, la libera capacità di autodeterminarsi di una comunità e pone la politica del fatto compiuto come l’unica opzione praticabile. Ma nel clima di ribaltamento complessivo che viviamo, diventa un’idea fragile, che abita più nelle belle speranze e nelle buone letture che nella realtà vera. Lo sviluppo, nel nostro Paese forse più che altrove, è stato sostanzialmente un convulso e poco ponderato sfruttamento intensivo del territorio e delle sue risorse. È stato benessere economico di tanti ma anche spoliazione ai danni di intere regioni e di intere collettività, tacitate e accecate dalla promessa di chimerici vantaggi immediati e rapinati di un futuro compromesso da scelte (altrui) sbagliate, sacrificato sull’altare dell’avidità (sempre altrui) a breve scadenza. E soprattutto lo sviluppo siciliano è stato una somma paurosa di fatti compiuti: prima si trivellava, si raffinava, si speculava, si costruiva, poi si constatavano le conseguenze. Parliamo al passato, ma nulla nel presente è cambiato. Nel clima di planetario sgomento che l’incidente sulla piattaforma petrolifera nel Golfo del Messico ha destato nelle coscienze di ciascuno di noi, non possono passare sotto traccia i “fatti compiuti” davanti ai quali qualcuno molto spesso inopinatamente ancora ci pone. Risale all’aprile dello scorso anno, ha una durata di sei anni, interessa un’area complessiva di 460 km quadrati: è la nuova concessione per la ricerca di idrocarburi in mare nel tratto che va da Scoglitti a Sampieri, che il Ministero dello Sviluppo economico ha rilasciato alla Srn, Sviluppo risorse naturali, società con sede in Roma e controllata dalla “Mediterranean Resources” che ha invece sede ad Austin in Texas. Entro la fine dell’anno in corso la Srn dovrebbe entrare in possesso di tutte Striscioni di protesta nella provincia di Siracusa le autorizzazioni necessarie ad iniziare le indagini sottomarine che nel caso dovessero dare esito positivo lascerebbero il passo all’allestimento dei pozzi veri e propri. Ci risiamo dunque. Ancora i texani all’assalto delle risorse del nostro sottosuolo. Dopo la Panther Oil, costretta dalle opposizioni dei territori interessati alle loro ricerche di idrocarburi, in particolare a Noto e nel ragusano, a sbaraccare, si apre un nuovo fronte di resistenza. Nondimeno, esso non è il solo che, come d’incanto, si apre in questa assurda guerra infinita delle compagnie petrolifere che, con il benestare di assessori regionali e politici locali compiacenti, danno l’assalto alle risorse di un territorio che da tempo dice no a ogni tentativo di violenza. Sempre la Mediterranean Resources, attraverso la controllata Irminio srl, ha ottenuto il permesso di effettuare ricerche di idrocarburi liquidi e gassosi in territorio sciclitano, fi- Incendio sulla piattaforma Deepwater Horizon La Voce dell’Isola n. 9~10 nanco in una zona limitrofa alla riserva naturale di Mangiagesso e in quella prospiciente la fornace Penna. Un’area che si estende per 9.600 ettari, interamente ricadente nel territorio del comune di Scicli, comprendente monumenti patrimonio Unesco dell’umanità, beni artistici, archeologici, paesaggistici di enorme rilievo, individuati dalla Comunità Europea come Sit, Siti di importanza comunitaria, e zone di protezione speciale, Zps. Ancora una volta ci troviamo davanti al “fatto compiuto”. perforazione, conseguenza di nuove autorizzazioni rilasciate dalla Regione a una compagnia che da 15 anni opera in territorio ragusano, dove ha già effettuato trivellazioni nell’assoluto silenzio e nell’indifferenza generale. Merito e onore alla sovrintendente Greco, dunque. Che il mondo sia pervaso dalla follia è cosa risaputa. Che le vicende della vita politica nel nostro Paese abbiano, al meglio, la forma del paradosso, al peggio quella della pazzia, si sa. È come se non uno ma tanti ingranaggi mentali siano fuori Fosse finita. In una zona tra Ragusa e Santa Croce Camerina, in contrada Cammarana, a un tiro di schioppo dall’antica città di Kamarina, in piena zona archeologica, la sovrintendente ai Beni archeologici di Ragusa, Vera Greco, ha sospeso in via cautelativa i lavori di sbancamento per la realizzazione di una piattaforma atta ad ospitare apparecchiature di scavo e uso e pensieri scarrucolati, accompagnati da azioni deliranti, circolino indisturbati. Quale chiave di lettura possibile, se non questa, per comprendere i meccanismi che conducono alle squinternate campagne che alcuni sindaci, associazioni di categoria, sindacati, hanno messo su a fronte dell’istituzione del Parco degli Iblei? Una risorsa eccezionale per il territorio ragusano, un’imperdibile opportunità di trasformare antropologicamente ed economicamente il territorio e dotarlo di un’identità. Quale altra chiave di lettura a fronte del silenzio, a volte delle sordide complicità, che accompagnano l’assalto allo stesso territorio da parte di compagnie interessate solo a spremere, sfruttare, negare la stessa possibilità di un futuro ragionevolmente sostenibile alla gente degli Iblei? Possibile che Cia, Confagricoltura, Camera di Commercio, Cgil, eccetera eccetera, non siano preoccupate del danno economico e ambientale (come follemente lo furono per il Parco) che le trivellazioni possono cagionare al “sistema Ragusa”? Eppure zitti zitti i danni li hanno fatti questi magnati del petrolio. Il Mediterraneo è il mare più inquinato da idrocarburi, vuoi perché solcato in lungo e in largo dalle petroliere che lavano le loro cisterne in mare aperto; vuoi per le piattaforme off shore (una, la Vega opera da vent’anni al largo delle coste iblee) che sia nella fase esplorativa, sia in quella estrattiva, sono responsabili di una larga quota dell’inquinamento globale del mare. E non solo. Proprio la Vega Oil e la Edison Spa, in questi giorni sono stati chiamati a giudizio per rispondere dei gravi danni ambientali causati dallo sversamento in mare, con modalità illecite e nocive per l’ecosistema, di rifiuti speciali pericolosi derivanti dall’attività estrattiva e di stoccaggio degli idrocarburi, al fine di risparmiare diverse decine di milioni di euro. Nel gennaio scorso la rottura di un tratto dell’oleodotto che da Ragusa trasporta il petrolio nella raffineria di Priolo con inquantificabile sversamento di greggio nella valle del Tellaro, in territorio di Noto, ha dato prova dell’inaffidabilità dei sistemi di viaggio del petrolio estratto nel ragusano. E speriamo Dio non voglia altro. Ma si può investire nel turismo, nelle risorse vocazionali del territorio, nell’agricoltura e nell’enogastronomia e poi accettare tutto ciò senza batter ciglio e per giunta dopo essersi sollevati contro un parco naturalistico inventandosi di sana pianta rischi per l’economia delle imprese ragusane? Si tratta proprio di una deriva mentale. Cose - appunto - da matti. 27 maggio 2010 6 Politica Un’esperienza formativa grazie all’efficiente e moderna rete di collegamenti Stagione estiva alle porte vacanze iblee da sballo… di ERNESTO GIRLANDO L a stagione estiva è alle porte e, grazie alla moderna ed efficiente rete di collegamento con il resto del mondo, raggiungere le nostre città sarà un’imperdibile esperienza formativa. I creativi delle più importanti aziende legate al settore turistico stanno studiando le soluzioni possibili. Nel frattempo la Federalberghi, in collaborazione con la Provincia regionale di Ragusa, ha diffuso un accattivante opuscolo di informazione per i turisti dal titolo “Che anno è, che posto è”. Ma vediamo nel dettaglio i pacchetti preparati dalle agenzie di viaggi per raggiungere le amene località degli Iblei. Aereo. La fase di completamento delle strutture aeroportuali comisane dura da quattro anni. Adesso siamo entrati nella delicatissima e per ciò lunga fase di completamento della fase di… completamento. Tuttavia, già da questa estate l’aeroscalo sarà aperto al traffico aereo. In mancanza del servizio di controllo del volo, l’Aeronautica militare (ancora proprietaria del sedime aeroportuale) Ferrovia ragusana: esempio simbolico ed emblematico dello stato dei trasporti in Sicilia metterà a disposizione dei viaggiatori una flotta di velivoli storici pilotati da veterani della prima guerra mondiale. Ogni biplano potrà ospitare un solo passeggero per volta, che dovrà presentarsi all’aeroporto militare di Ciampino, previsto quale punto di raccolta e arruolamento, almeno tre giorni prima della partenza, vestito con costume d’epoca, per partecipaciano notevolmente nei giorni di della corsia, mantiene tempi di perprezzo del biglietto nelle tratte da e re all’alzabandiera e ingrassare i pipioggia per mezzo del caratteristico correnza saldamente ancorati alla per Ragusa. stoni del motore. asfalto saponato di cui è stata optradizione imperiale romana, alla Automobile. La Siracusa-RaguTreno. Dopo i tagli di Trenitalia, portunamente dotata l’importante cui epoca risale la sua costruzione sa-Gela, i cui lavori furono inauguviaggiare in treno è diventata arteria. A causa dell’apertura del com’è facile notare dalle pietre mirati da Vittorio Emanuele Orlando un’elettrizzante esperienza di turicantiere per il raddoppio, questa liari che la smo estremo. Il estate i turisti potranno godere del fiancheggiano pacchetto “Ragusa suggestivo percorso alternativo pae che indicain rotaia” viene rallelo in mezzo ai salici. no la distanza fornito in alternatiNave. Una confortevole crociera in miglia dal va a chi ha già pronel Mediterraneo con partenza dalle miliario auvato il Safari in coste libiche e attracco nel porto tureo. Tempi Kenia, il parapenristico di Marina di Ragusa, a bordo che si accordio sulle Ande, l’attraversamento del deserto del Sahara, il viaggio di sola andata a Chernobyl. La partenza è prevista da Milano. Si andrà in un quarto d’ora a Bologna, dove bisognerà scendere dal treno, recuperare in camera iperbarica gli effetti dell’alta velocità, pro- Comiso: resta solo la simulazione a tre dimensioni dell’aeroporto seguire su un intercity per raggiunche ottenne i finanziamenti dall’Eugere in poche ore Firenze, indi ragropa nel corso della Conferenza di giungere e procedere da Roma TerPace di Parigi del 1919 in cambio mini in vagone letto, immancabildella rinuncia alla Dalmazia, è ormente dotato di Internet, frigobar e mai dichiarata zona di interesse stotivù, servizi forniti, nello spirito delrico-archeologico e non potrà più la nuova politica dei tagli adottata essere toccata. In compenso i turisti da Trenitalia, in sostituzione del letin visita sul posto potranno ammirato. Sbarcati in Sicilia, il viaggio prore gli antichi utensili e il carro a cacederà a bordo di un treno a manovalli per il trasporto dei laterizi abvella che entrerà trionfante, alcuni bandonati dagli operai del tempo, giorni dopo, alla stazione di Catania all’altezza dello svincolo di RosoliCentrale. ni, a causa dell’acquazzone che inDa lì, per essere sicuri di raggiunterruppe i lavori, mai più ripresi, gere le stazioni iblee, l’ente ferronell’agosto del 1921. viario italiano consiglia ai signori La Ragusa-Catania, in attesa viaggiatori di portarsi da casa l’apUlivo secolare delle campagne iblee dell’inizio dei lavori di raddoppio posito treno, non compreso nel Ecco i principali e aggiornati “pacchetti” preparati dalle agenzie di viaggio per raggiungere le amene località del Ragusano nei prossimi mesi 27 maggio 2010 di affollati barconi multicolori nei quali si potrà familiarizzare con uomini e donne di diverse etnie. Organizzata dall’agenzia “Mare Nostro” il cui pacchetto di maggioranza è detenuto dalla mafia siciliana che, caduta in disgrazia, ha dovuto cedere il controllo della droga ai calabresi e quello degli appalti alla Protezione civile, e adesso cerca di risalire la corrente grazie al fiorente traffico del trasporto passeggeri nel canale di Sicilia. Tutto compreso nel prezzo: dal respingimento al cannoneggiamento, dal ricovero nei centri di identificazione ed espulsione all’adrenalica esperienza della clandestinità. Diversa l’accoglienza a questi turisti nordafricani a seconda dell’orientamento politico delle amministrazioni locali. Un calcio in culo se di destra, un chinotto e un calcio in culo se di sinistra. Poste. Viste le carenze infrastrutturali di collegamento, alcune imprese di spedizioni irrompono nel mercato passeggeri, immedesimandosi nelle esigenze dell’utente costretto a raggiungere territori impervi. Il servizio sembra essere efficiente: basta farsi imballare nel polistirolo o nei più avanzati materiali espansi, e con la giusta affrancatura si viene spediti per la destinazione scelta. Essenziale trovare all’arrivo qualcuno che firmi l’avviso di ricevimento. Pagando un piccolo sovrapprezzo si può anche scegliere la posta espressa aerea ed essere sganciati con il paracadute sopra la città scelta. Allo studio un avveniristico servizio di posta pneumatica: si potrà essere sparati attraverso un’enorme tubazione che collega le principali capitali europee con la filiale ragusana di Poste italiane. Le prove di simulazione hanno dato buon esito: nei due minuti e venti da Roma a Ragusa, l’on. Riccardo Minardo è giunto a destinazione con la capigliatura in piega come sempre e il suo stato confusionale non è parso aumentato, all’arrivo, rispetto alla partenza. La Voce dell’Isola n. 9~10 Politica 7 RAGUSA: Scicli, Modica e Vittoria alla ricerca della soluzione del problema delle discariche Rifiuti, è emergenza perenne battaglie non-stop fra Comuni di ERNESTO GIRLANDO C i mancava pure questa: il disintegratore di rifiuti solidi urbani. Nel cupore di questi giorni, abbiamo tratto profondo e inatteso sollievo leggendo sulla stampa locale di una straordinaria invenzione che risolverebbe in un paio d’ore il problema dei rifiuti in provincia di Ragusa (e probabilmente nel mondo). Avevamo lasciato sindaci che capeggiavano tumultuanti presidii davanti ai cancelli delle discariche, polizie municipali in assetto di guerra, politici impegnati in furibonde liti a difesa dell’integrità del proprio orto, Comuni, Provincia, Ato Ambiente, prede di spaventose crisi istituzionali. Tutto tempo perso. È stata presentata da un’azienda canadese ad autorevoli rappresentanti della Provincia regionale di Ragusa la macchina che risolverà il tutto, riducendo la spazzatura a livello sub atomico, trasformandola in energia pulita e rilasciando alla fine del ciclo un intenso profumo di rose nell’aria. In omaggio, ogni due disintegratori di rifiuti, sarà offerto ai sindaci l’Apparecchio per darsi pacche sulle spalle, un’altra straordinaria invenzione della ditta canadese da utilizzare ogniqualvolta si sente il bisogno di congratularsi con se stessi. E visto che ormai neanche il cane di casa scodinzola a sindaci e politici in genere e, dunque, la necessità di sentirsi apprezzati e benvoluti è grande, l’oggetto ha notevoli prospettive di mercato. E questa è la parte seria della questione. In attesa di scrivere la grande pagina di Storia della Scienza, basta rivedere tutto ciò che è successo in materia di guerra locale dei rifiuti per rendersi conto che la parte comica è un’altra. Dopo il primo capitolo del conflitto caratterizzato dai respingimenti degli autocompattatori dei Comuni di Scicli e Modica da parte del sindaco di Ragusa per evitare che entrassero nella discarica di Cava dei modicani, una grande confusione ha pervaso le pagine di questo clamoroso evento di storia contemporanea. Grande dissidio intorno a un problema pseudo-amministrativo di fondo: ci si trova davanti a un sistema di discariche sub comprensoriali o ad un unico ambito provinciale? Nel primo caso, ognuno sarebbe obbligato a conferire i propri rifiuti nella discarica di competenza (in linea con la posizione espressa dal sindaco di Ragusa); nel secondo, visto che l’ambito è provinciale, l’Ato può permettere a chiunque di abbancare i propri rifiuti dove meglio crede. I fatti (o meglio gli eventi arbitrari che seguiranno) faranno propendere per la prima opzione. Le discariche gestite dalla società d’ambito sono tre. Ognuna in condizioni peggiori delle altre. Quella di Cava dei modicani ha ancora un’autonomia che si aggira intorno ad un anno; satura quella di Scicli, chiusa, in attesa di essere messa in sicurezza e in attesa di un finanziamento per la costruzione della quarta vasca che permetterebbe di prolungare la vita della discarica di appena 18-24 mesi; quasi satura quella di Vittoria, con un’autonomia residua di pochi mesi, anch’essa in attesa della realizzazione di un’altra vasca. Dal punto di vista finanziario la situazione è ingarbugliata. Scicli, nel momento in cui La Voce dell’Isola n. 9~10 ha passato in consegna la discarica di San Biagio all’Ato, avrebbe dovuto tirar fuori le somme (circa 3 milioni e mezzo di euro) per realizzare le opere necessarie a rimettere la stessa in funzione. Il Comune sciclitano dichiara che i soldi non ce l’ha e che deve ricevere per la precedente gestione della discarica (che ha causato la prima Grande Guerra dei rifiuti) svariati milioni dai comuni di Ispica, Pozzallo e Modica (intorno ai sei milioni di euro soltanto quest’ultimo). Frattan- di Ragusa, Chiaramonte, Monterosso e Giarratana; i comuni di Scicli e Modica conferiranno presso la discarica di Mazzarrà S. Andrea in provincia di Messina a 250 km. di distanza. Naturalmente scenderanno in guerra Scicli e Modica che paventano enormi disagi logistici e vertiginosi aumenti di bollette. Si tenterà di evitare questa incresciosa situazione con un estenuante susseguirsi riunioni tra sindaci, presidente della Provincia e dell’Ato Ambiente. L’indice è puntato su quest’ultimo, accusato un po’ Nessuno aveva pensato che per riaprire la discarica di Scicli c’era bisogno di individuarne un gestore e ci sono tempi tecnici e procedure da seguire. Mentre per avviare i lavori di ampliamento delle vasche occorrono due gare: una per la progettazione, una per la realizzazione dei lavori. Mesi, forse anni. Tutto da rifare, dunque. L’improvvisazione, dopo il dilettantismo, la farà da padrona. L’Ato indicherà la discarica di Vittoria come il fronte estremo dell’emergenza: la reazione non accuseranno nessun peso aggiuntivo. Conferire nella discarica messinese costerà venti euro meno a tonnellata, rispetto a Cava dei modicani, risparmio che compenserà i costi di trasporto. L’emergenza certo non finisce qui. Quanto durerà ancora la discarica di Mazzarrà S. Andrea? Soltanto pochi mesi: fino ai primi di luglio. E dopo? Chissà. Quel che per il momento è certa è la vendetta che Di Pasquale consuma ai danni di Vindigni: a poche settimane dalla scadenza naturale del sindaco di Vittoria non tarderà. Nuove barricate, stavolta davanti ai cancelli della discarica di Pozzo bollente per impedire che altri comuni, oltre a quelli del sub comprensorio, vi scarichino i loro rifiuti. Frattanto la rottura tra Vindigni, presidente dell’Ato, e Nello Di Pasquale si fa sempre più netta: l’uno non ritirerà il ricorso al Tar, l’altro ridarà vigore alla delibera che chiude Cava dei modicani al conferimento di altri comuni. Tempi comici rispettati alla perfezione. A questo punto non rimane che la soluzione imposta dall’assessore regionale: Modica e Scicli porteranno i loro rifiuti nella discarica di Mazzarrà S. Andrea. Si scopre stranamente che le casse dei Comuni interessati del mandato, l’assemblea dei sindaci ha azzerato il Cda dell’Ato Ambiente di Ragusa e amen, Vindigni è andato. Non ne sentiremo certo la mancanza. Il problema vero è che sentiremo ancora purtroppo la presenza degli altri protagonisti di questa grottesca vicenda che tra pochi mesi saranno di nuovo chiamati a gestire (si fa per dire) la nuova emergenza - emergenza che è perenne - dei rifiuti in provincia di Ragusa. Le discariche gestite dalla società d’ambito sono tre, ognuna in condizioni peggiori delle altre: quella di Cava dei modicani ha ancora un’autonomia che si aggira intorno ad un anno; satura quella di Scicli, chiusa, in attesa di essere messa in sicurezza e quasi satura quella di Vittoria to, sono stati individuati tre siti per una nuova discarica comprensoriale (due a Ispica, uno a Scicli), ma i Comuni da quell’orecchio non ci sentono, a parte una promessa verbale del sindaco di Ispica e nulla più. I conti dell’Ato sono presto fatti: sei milioni di debiti, a fronte però di 18 milioni di crediti che sono le somme dovute dai comuni e mai versati nelle casse della società d’ambito. Quindi i sindaci, da un lato sbraitano e si ammutinano, dall’altro non tirano fuori il becco di un quattrino, causando criticità nella gestione complessiva dei rifiuti. Visto il tutto, l’assessore regionale al ramo, Pier Carmelo Russo, deciderà, in data 10 aprile, che dopo il 20 le cose così dovranno funzionare: la discarica di Vittoria resterà aperta ai Comuni di Vittoria, Comiso, Santa Croce e Acate, mentre Ispica e Pozzallo ivi avranno accesso solo fino a quando sarà realizzata la nuova vasca; la discarica di Ragusa ai comuni da tutti di essere l’artefice di mille disastri. Il tavolo istituzionale elaborerà una soluzione per scongiurare, almeno nell’immediato, il trasporto dei rifiuti di Modica e Scicli nella discarica messinese. I comuni si impegneranno (ancora una volta, tanto l’impegno non costa nulla) a versare proporzionalmente parte delle somme dovute, necessarie a mettere in sicurezza la discarica di Scicli, permetterne l’apertura e avviare la costruzione delle altre vasche nella stessa Scicli e a Vittoria. Perfino il sindaco di Ragusa si mostra accondiscendente promettendo di aprire la propria discarica fino al 30 di aprile a Modica e Scicli, in cambio del ritiro del ricorso al Tar presentato precedentemente dall’Ato contro l’ordinanza di Di Pasquale che chiudeva Cava dei modicani. Tutto sembra risolto ma a gestire la materia è solo l’inopinato spirito dilettantistico di dilettanti allo sbaraglio. Sembra di stare alla corrida. 27 maggio 2010 Politica 8 Road Map per uscire dalla recessione economica: la fiscalità compensativa Crisi: l’inversione di tendenza minacciata dalle speculazioni di MIRCO ARCANGELI D opo aver analizzato (nei precedenti articoli) le cause dell’attuale recessione economica e le potenzialità della Regione Sicilia in vista di una possibile ripresa economica, ragioniamo ora sugli strumenti utili per favorire una ripresa, capace di sollevare il PIL e portarlo su livelli di crescita americani. Vero è, che comincia ad intravvedersi una leggera inversione di tendenza di tutti gli indici economici, ma è pur vero che l’intensità di questo cambiamento è talmente fragile, da renderlo quasi insignificante, e facilmente attaccabile dagli effetti che la speculazione finanziaria, sempre all’erta, può provocare. Prima di entrare nel merito degli strumenti che si possono utilizzare a questo fine, mi corre l’obbligo di puntualizzare la situazione economica della Comunità Europea, alla luce del crolli di borsa, conseguenti agli attacchi speculativi internazionali degli ultimi giorni. Il rischio di insolvenza di un Paese determina il rischio di default dello stesso sistema economico di quel Paese. Infatti i titoli di Stato di un Paese vengono acquistati prima di tutto dallo stesso sistema finanziario del Paese emittente (Banche, assicurazioni, istituzioni finanziarie, fondi e investitori), sia per rispondere a norme che prevedono determinati equilibri tra titoli a reddito fisso, titoli a reddito variabile, e investimenti, sia per distribuirlo al popolo degli investitori. Se dovesse accadere il mancato rimborso dei titoli alla scadenza, (o la mancata acquisizione dei titoli di nuova emissione a copertura dei vecchi in scadenza) l’intero sistema finanziario andrebbe in crisi, con un probabile rischio di insolvenza, diffuso in tutti i settori dell’economia. L’effetto domino poi, causerebbe una crisi anche nei paesi a questo collegati. Questo è stato il primo motivo a base della reazione comunitaria alla crisi Greca, ed al possibile rischio di insolvenza. L’Europa ha praticamente garantito i creditori (possessori di titoli di stato) della Grecia, creando una dotazione di 750 mld. di euro, ed ammettendo anche la possibilità, da parte della Comunità Europea, di acquistare i titoli di Stato di nuova emissione dei paesi europei. Il crollo delle Borse così, si è bloccato, si è poi in parte recuperato il valore perduto, per poi subire altri colpi speculativi. La speculazione infatti, scommette che l’eccessivo debito di Paesi come Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna (PIGS) produca un default economico degli stessi Paesi, ed un crollo dell’euro, come conseguenza finanziaria più immediata. In effetti, il problema esiste, (debito eccessivo dei Paesi europei, recessione economica, ecc.) e non è possibile intervenire solo con misure straordinarie ed estemporanee, poiché alla fine non risultano credibili e durature. È necessario intervenire, invece, per ridurre il debito pubblico. Occorre che nei Paesi europei si intervenga con riforme strutturali degli apparati statali troppo spreconi; ridurre le dispersioni, razionalizzare i sistemi pensionistici, ridimensionare i costi della politica, sostituire i ma27 maggio 2010 È necessario intervenire per ridurre il debito pubblico. Occorre che nei Paesi europei si intervenga con riforme strutturali degli apparati statali troppo spreconi; occorre ridurre le dispersioni, razionalizzare i sistemi pensionistici, ridimensionare i costi della politica nager incapaci e solo politici delle strutture statali, con manager veri e produttivi, ed alla fine se ci sarà da “tirare la cinghia” occorrerà, per tutti, sopportare i sacrifici conseguenti. Inoltre, è sempre più necessario, accelerare i processi per giungere ad una unificazione dei paesi comunitari, anche da un punto di vista politico e finanziario, realizzando la confederazione degli Stati europei, per rendere omogenea e credibile la propria iniziativa. Dall’altra parte il sistema economico deve fare la sua parte, deve riprendere competitività, si deve rinnovare, deve poter dimensionarsi per competere a livello mondiale, e questo la piccola impresa non sempre riesce a farlo. Anche questo ragionamento ci porta a considerare ineludibile che l’uscita dall’attuale crisi potrà essere possibile solo con soggetti economici diversi. Non saranno più come prima. Ma come è possibile aiutare ed accelerare il percorso, verso un idoneo dimensionamento aziendale, con le giuste competenze oltre che conoscenze, capace di essere competitivo nei mercati, senza dover vivere di rendita, o avvantaggiati da motivi di cambio dell’euro o per assistenza pubblica? È necessario investire nella ricerca e sviluppo, utilizzare tutte le professionalità esistenti, dotarsi di strumenti capaci di abbattere i costi senza pesare sul bi- lancio dello Stato, già troppo provato. In Italia ci sono 19 laureati su 100 giovani (tra i 25 ed i 34 anni), contro la media dei Paesi Ocse di 34, la Francia di 41, la Spagna di 39, gli Usa di 40, il Giappone di 54. Secondo la Banca d’Italia il numero di imprenditori con più di 65 anni di età è sceso dal 37,2% del 2002 al 24,2%, mentre gli imprenditori tra i 35 e i 55 anni è salito dal 29,1% al 43,9%. Contemporaneamente è aumentato anche il numero degli imprenditori laureati, passato dal 23 al 34,7%. Secondo la Banca d’Italia se più laureati giovani entrano in azienda, aumenta la probabilità di un rinnovo del sistema. Università, ricerca e sviluppo, sono il terreno su cui il Paese dovrà investire, poiché fino ad oggi troppo poco si è fatto. In questo contesto le professioni economiche possono rappresentare lo strumento per coniugare le politiche strategiche all’economia reale e produttiva. Gli stessi commercialisti e consulenti aziendali, dovranno essere sempre più, un supporto tecnico professionale in funzione dello sviluppo, portando la propria professionalità dentro le aziende, non solo per leggere e tradurre gli eventi compiuti (i bilanci), ma soprattutto per contribuire: alla realizzazione della progettualità strategico-aziendale; alla ricerca degli strumenti finanziari più idonei; all’analisi della produttività aziendale; alla ricerca dei mercati; ad interfacciare l’economia reale al sistema politico. Per quanto concerne gli strumenti, avrà un senso attivare interventi di fiscalità compensativa, e strumenti operativi di finanza agevolata. Perché i maggiori costi sociali di tali agevolazioni produrranno importanti benefici sociali. Fiscalità compensativa quindi, legata a finalità ben determinate. Partita come fiscalità di vantaggio, viene poi definita fiscalità compensativa per poi diventare fiscalità dì sviluppo. In realtà la seconda dizione è quella che la descrive meglio anche se il fine è quello dello sviluppo. Il Credito d’imposta per incremento occupazionale, è lo strumento principe di fiscalità compensativa, poiché restituisce alle imprese gli stessi costi che fa pagare. In pratica il costo per lo Stato di una persona assunta con il credito d’imposta è pari a zero se in mancanza di credito d’imposta la stessa persona risulta restare disoccupata. Infatti il costo dei contributi a carico del datore di lavoro (400-500 euro) è più o meno pari al credito d’imposta che riceve. Ma il beneficio sociale diventa notevole, poiché dà futuro e speranza ad un di- soccupato che quindi diventa occupato; si distribuisce un reddito che a sua volta viene tassato, e lo Stato incassa; si incrementa il consumo (dato dal nuovo reddito a disposizione) e quindi si sviluppa l’economia; si riducono i costi del lavoro a carico delle imprese, che possono quindi meglio competere. La fiscalità compensativa si può utilizzare anche per lo sviluppo di determinati territori, quali ad esempio, il mezzogiorno. Ci si riferisce, in questo caso, ad una tassazione molto contenuta sulle nuove attività, per un numero di anni consistente, che “compensi” le imprese, dei numerosi svantaggi che sostengono nell’insediarsi nei territori del Mezzogiorno e nelle aree depresse. Ove solitamente si è in presenza di infrastrutture inadeguate, di forte criminalità organizzata, di difficoltà nelle procedure amministrative e burocratiche, di accesso al credito più complicato e con un costo del denaro più alto, di una patrimonializzazione aziendale inesistente. In questo contesto economico le imprese, attraverso la fiscalità compensativa riequilibrano il gap territoriale, e si pongono in concorrenza in maniera paritaria con le imprese di territori più avanzati ed organizzati. Anche la detassazione degli utili reinvestiti, rappresenta un idoneo strumento di fiscalità compensativa e per lo sviluppo. Scadrà il prossimo 30 giugno, il periodo di regime di un anno della Tremonti Ter (detassazione degli utili reinvestiti), e sarebbe opportuno rinnovarlo almeno di un altro anno, per dare ossigeno agli investimenti volti a migliorare la propria competitività. In conclusione, come strumenti da mettere in campo, si intende quelli possibili con l’intervento della leva fiscale nell’economia in funzione dello sviluppo. La road map che si immagina, per uscire dalla crisi, vede quindi nei nuovi ruoli dei protagonisti, l’obiettivo di costruire le basi di un sistema, non creato sul concetto della produzione tout court, ma finalizzate all’integrazione economica del territorio, utilizzando le attitudini e le vocazioni presenti, attraverso strumenti quali la leva fiscale e le R&S, con un nuovo ed importante contributo delle professioni, che andando oltre il singolo effetto specifico, potrà assurgere a diventare un vero e proprio ruolo sociale. La Voce dell’Isola n. 9~10 DOSSIER DOSSIER 9 La storia stravolta La storia dimenticata SPECIA LE Nel 64º anniversario dell’Autonomia siciliana di Salvo Barbag allo 9 OLA DELL’IS06 20 LA VOCE vembre 11 no da pagina 14 aldi di Garib dei Mille a s po o re c p s ebbe lo tata: l’im iani, ed i raccon il va, a ic te m S is i s ia e r e La sto nfronti d ora non o c c n i a e e n h uffa tato c al Nord fu una tr ad uno S soltanto enefici la Sicilia b a re v e ta tt r e po di ann nità che di una U in nome G li accadim ter izz an enti che carato la vi ta di un i fatti, con l'o Pa biettivo scritti in ese possono es di accerta sere de- le cause che i vario mo re chett fatti ha tando i minato. nno deter o fatti, rip do: o racconNell'uno - comu preconfezionato or me nt e do po av tandoli fedel- la ricerca dovr e nell'altro ca di luogh so mu ni lontani dalla eb er fonti ce i lavor nque rea rte, oppu li ac qu isi ti da tiva, cioè non be essere obiet o strumen - tà. Pa , mistificatore ltà o, co- corre facile se si vo re interp parte, po tal gliono rip della rea rla retando re i luo e, iché, in re della né di gh er- vo l- già si offrir ca ch Si so cil e in ca co opera più i comuni; div ia ebbe un ntrario, Si cil ia e enta ch to. Noi intendia co insieme, è ac ca du di ciò porta anni ch iav mo dare re i fatti mplessa voler un pacto e va una ri- so e di lettura ai asettica giorni no nno dal fascis da gl i animo no esse fatti ch mente cro stri (o qu mo ai asi) può dua voler nacistico; impr , con fatti ste re stati all’orig e posessere ssi, esa arine dei delle ca penetrare nei ma: il “te ipotizzando un meandr use che orema sic teorei i fatti ha iliano”. nno pro(Segue nelle pa gine su ccessive) o abetism o, l’analf ontesi n la o is m el popolo soci pie nafede d vour e dei suoi o u b la a Carpita nte di C ta vince fu la car _______ si ppe Pari di Giuse di Enzo da pagina 10 Lomba rdo da pagina 18 el sessantaquattresimo anniversario dell’Autonomia Siciliana proponiamo ai nostri lettori tre dossier pubblicati negli anni scorsi, convinti che si riesce a stravolgere la storia, così come è accaduto, quando si perde la memoria dei fatti, quando si mitizzano perso- N La Voce dell’Isola n. 9~10 naggi i cui comportamenti vengono esaltati in piena mistificazione, ignorando cosa hanno rappresentato veramente. La memoria è un bene di tutti e nessuno ha il diritto di cancellarla sovrapponendo montagne di menzogne che tornano utili solo al potere ed ai cosiddetti potenti, di qualsiasi epoca. Non commentiamo i dossier che ripubblichiamo, ma li indichiamo, a nostro avviso, quale strumento per non dimenticare. Questi i dossier con le date in cui sono stati pubblicati da “La Voce dell’Isola”. 27 maggio 2010 DOSSIER 10 10 27 maggio 2010 A lla luce di così tanto interesse sulla questione siciliana che si è accentuata in questi ultimi tempi, vogliamo narrare quanto accadde in Sicilia quel famoso 21 ottobre del 1860, anniversario che è ricorso proprio nei giorni scorsi, poiché ancora sono in tanti a non conoscere la “verità” guardata da un diverso di punto di vista da quello ufficiale, di quella pagina di storia che ci ha portato a ciò che siamo oggi. Al fine di essere il più possibile chiari sulla questione, non possiamo esimerci d’iniziare senza brevemente accennare ad alcune realtà sullo sbarco di Garibaldi, azione che lo storico Mack Smith ha definito “la donchisciottesca spedizione di Garibaldi e dei suoi Mille”, circa il modo rocambolesco di come avvenne l’operazione. Innanzitutto, apparve chiaro che le operazioni paramilitari di Garibaldi furono prive di validità giuridica perché a quell’impresa mancò la credenziale di uno Stato ufficialmente costituito e, quindi, la necessaria copertura di una bandiera. Si trattò dunque, a nostro avviso, di un’avventura paramilitare, personale e piratesca assolutamente illegale, per usare un linguaggio in voga oggi. Sin dal primo momento, il popolo siciliano ebbe seri dubbi sull’azione: si voleva realmente liberare la Sicilia dalla dominazione borbonica, oppure si voleva compiere un’altra vera e propria invasione? Infatti, quel giorno di maggio, quando a Marsala giunse Garibaldi con le sue navi, in rada e alla fonda del porto trovò due cannoniere della “Mediterranean Fleet” inglese: le HMS. “Argus” e “Intrepid”, formalmente in visita di cortesia in Sicilia, ma in realtà giunte lì su precise istruzioni del gabinetto Palmerston Russel; e mentre i garibaldini del Piemonte erano già sbarcati e gli altri del “Lombardo” si accingevano a imitarli, sopraggiunsero a Marsala la pirocorvetta “Stromboli”, comandata da Guglielmo Acton, e due altri piroscafi armati della stessa flotta borbonica, che si accorsero della presenza sul molo di uomini in giubbe rosse e li scambiarono per i red coats delle truppe inglesi. Allora, il comandante Acton, che aveva già fatto armare i pezzi, fece chiedere agli inglesi se gli uomini armati che si vedevano sul molo fossero truppe britanniche. Gli inglesi risposero di no, e nel contempo, avvertirono Acton che i loro comandanti si trovavano a terra. Acton, che rabbrividì al solo pensiero che una scheggia di granata potesse colpire un ufficiale della regina Vittoria, decise di attendere il loro ritorno sulle loro navi, e solo dopo un’ora buona poté aprire il fuoco. Ma a quel punto, gli uomini intravisti sul molo erano già al sicuro e ben nascosti dai tiri dello “Stromboli” e dei piroscafi “Partenope” e “Capri”. Questi episodi della prima ora di Garibaldi e dei Mille in Sicilia, la dicevano già allora lunga e c’inducono oggi a ritenere che, se il capitano di fregata Acton non fosse stato troppo fiducioso nella lealtà britannica e avesse adempiuto al suo dovere di soldato, almeno la metà della spedizione che approfittò di quell’ora per abbandonare il “Lombardo”, avrebbe fatto la stessa fine che fecero nel 1857 i 300 di Carlo Pisacane, e forse la storia che portò la Sicilia dall’una all’altra dominazione sarebbe ancora tutta da scrivere. D’altronde, la perfidia e l’egoismo della diplomazia inglese, le sue riserve mentali sul destino coloniale della Sicilia, nel maggio 1860, non vennero compresi soltanto da quell’ufficiale borbonico che, dopo tutto, passò al nemico prima ancora della capi- LA VOCE DELL’ISOLA 11 novembre 2006 lia si era dato nel 1848-49, si comportò da invasore, sfruttando il territorio occupato, distraendone le risorse finanziarie per i bisogni di altri territori, di altre popolazioni, di altri Stati. Gli eventi di quella triste pagina di storia del popolo siciliano, che fu rapinato, saccheggiato, umiliato, reso servo e trucidato dai liberatori garibaldini, non trova spazio di approfondimento in questa brevissima narrativa che, principalmente, è rivolta all’atto ben congegnato di annessione della Sicilia. Infatti, il 2 giugno, il governo provvisorio garibaldino aveva emanato da Palermo un decreto sulla divisione dei demani; ma non appena i contadini passarono a reclamarne l’attuazione e a rivendicare anche la quotizzazione delle terre demaniali acquistate illegalmente dai commercianti e dai borghesi, fu proprio quel governo che cominciò ad applicare contro di essi quegli altri decreti emanati dallo stesso Dittatore in difesa della proprietà e degli interessi agrari della borghesia e, per di più, adottando contro i poveri disillusi la procedura sommaria dei Consigli di guerra distrettuali, istituiti con il decreto del 20 maggio. E se ciò costituì da un lato una garanzia per la classe aristocraticoborghese, la quale inclinò subito all’annessione pronta ed incondizionata, determinò dall’altro la frattura definitiva tra quello pseudo-liberatore e il proletariato dell’isola. Inoltre, le stragi contadine che Bixio e gli altri comandanti delle colonne garibaldine consumarono a Bronte, a Nicosia, a Mascalucia, a Nissoria, a Leonforte e a Biancavilla, sono il suggello e le prove storiche più schiaccianti della politica filoborghese e reazionaria adottata fin dal primo momento dall’Eroe della libertà dei popoli. Garibaldi mise subito in atto il desiderio del re che “si compisse senza ritardo l’annessione”, e Depretis (pro-dittatore con il decretò di Milazzo del 21luglio) cominciò ad emanare tutta una serie di provvedimenti allo scopo di far scomparire ogni residua possibilità di autodeterminazione dei siciliani. A tale proposito, ricordiamo in modo specifico i provvedimenti politicamente e psicologicamente incisivi deI 13 giugno, con il quale si abolì l’emblema nazionale dell’Isola, sostituendolo con lo stemma sabaudo, come se la Sicilia dovesse essere considerata d’ora innanzi un bene di quella Corona o addirittura parte del patrimonio privato di quei re; quello del 16 giugno, che revocò le dogane tra l’Isola e le province itaGiuseppe Garibaldi liane; quello del I7 giugno, che impose alle navi siciliane la bandiera dello Stato sabaudo; quello del 2 luglio, con il quale si lana menzogna secondo cui egli sbarcò nell’isola per stabili che gli effettivi dell’esercito siciliano andavaaiutare il popolo siciliano a riprendere in mano la dino a costituire la XV e la XVI divisione dell’esercito sponibilità del proprio destino. Infatti, nel primo depiemontese; quello del 6 luglio, che dispose l’intecreto fatto a Salemi due giorni dopo lo sbarco, egli stazione di tutti gli atti pubblici a “Vittorio Emanuesi autoproclamò “comandante in capo delle forze nale II Re d’Italia”, quando ancora non lo era; quelli zionali in Sicilia” e affermò di “assumere nel nome del 5 e del 14 luglio, con i quali gli uomini della di Vittorio Emanuele Re d’Italia, la Dittatura in SiciMarina Militare siciliana furono incorporati negli orlia”. Cioè, si attribuì, senza mezzi termini e senz’alganici di quella Sarda. cun equivoco, la posizione giuridica dell’occupante Dal 3 agosto ad oltre la metà di ottobre, anziché bellico e, in particolare, dell’invasore il quale, per dare la pro-dittatura ad Antonio Mordini, si attuò delega più o meno espressa del non ancora re d’Itauna vera e propria buriana di provvedimenti: l’estenlia, intendeva succedere al precedente invasore. È sione all’isola dello Statuto Albertino; l’adozione dunque inoppugnabile che fin da questo suo primo della formula del giuramento di fedeltà a Vittorio decreto, egli scartasse ogni pur minima concessione Emanuele Il e ai suoi reali successori; l’intestazione alla libertà dei siciliani, poiché con la forza acquistadelle leggi “in nome di S.M. Vittorio Emanuele Re va la sovranità del territorio che gradualmente andad’Italia”; l’unificazione monetaria; il riconoscimento va occupando. Contrariamente alla sua conclamata alla pari dei gradi accademici conseguiti fuori della sensibilità di “eroe della libertà dei popoli”, che Sicilia e nei pubblici concorsi svoltisi nell’isola. avrebbe dovuto indurlo a scegliere di concedere la Vennero recepiti pure i decreti piemontesi sull’ordilegislazione e l’organizzazione che lo Stato di Sicitolazione del proprio re, ma non lo furono dagli stessi Siciliani nel 1812, nel ‘48, nel ‘60, e anche nel 1943-45. La narrazione di quei fatti non ha lo scopo di fare filosofia politica o di rifare la storia dell’impresa siciliana di un Garibaldi a cui il Foreign Office credette di riconoscere la stoffa del Bolivar, di San Martin, di Artigas, di Espartero, la stoffa del libertador sudamericano o iberico, anglofilo per inclinazione o per necessità; né di dare spazio alla sterile e odiosa polemica sull’estrazione tipicamente italica e nordista del contingente originario dei cosiddetti Mille. Lo scopo è invece di chiarire lo status che il nuovo invasore rivesti in Sicilia, succedendo all’occupante borbonico. Giuseppe Garibaldi non prese mai in considerazione il sacrosanto diritto dei siciliani alla libertà, né volle riconoscere l’esistenza di quel partito costituzionale che rappresentava l’opinione politica maggioritaria di essi. Non di meno, i testi scolastici e la storiografia tradizionale tentano ancora, nel 2006, di far passare per verità la grosso- La Voce dell’Isola n. 9~10 DOSSIER 11 La Voce dell’Isola n. 9~10 27 maggio 2010 DOSSIER 12 27 maggio 2010 La Voce dell’Isola n. 9~10 DOSSIER 13 La Voce dell’Isola n. 9~10 27 maggio 2010 15 LA VOCE DELL’ISOLA 10 LA VOCE DELL’ISOLA 15-28 Settembre 2007 Una chiave di lettura per capire avvenimenti dalle origini a tutt’oggi ignote L’associazionismo come forma di mutuo soccorso Stato, Chiesa, Massoneria segreta Onorata società e Mafia I l teorema siciliano parte dall’ipotesi che in un determinato periodo storico uomini appartenenti a quattro “aggregazioni” di natura diametralmente diversa, Stato (nel senso delle Istituzioni, più propriamente degli uomini che hanno costituito il corpo delle Istituzioni, politici compresi), Chiesa (partecipazione di esponenti dell’Alto clero, di strutture finanziarie del Vaticano, di appartenenti all’Opus Dei), Massoneria (in quanti hanno mantenuto la loro adesione in forma segreta e occulta) e Mafia, si siano trovati in accordo per raggiungere precisi obiettivi, mirati inizialmente, ma molto genericamente, agli interessi della collettività (nazionale e internazionale) e poi sfociati, praticamente e concretamente, in interessi di potere di raggruppamento (in senso assoluto). In merito a questo teorema Stato, Massoneria, Chiesa e Mafia quale perno sul quale ipoteticamente hanno ruotato gli avvenimenti che hanno costituito le fondamenta dell’edificio della nuova Sicilia autonomistica e di gran parte della struttura dello Stato italiano, intendiamo ricordare che i tempi e le situazioni in cui gli appartenenti a queste aggregazioni hanno agito negli anni che hanno preceduto lo sbarco anglo-americano in Sicilia, nel 1943, erano ben diversi dagli attuali: coinvolgevano Paesi diversi, e la valenza dei personaggi stessi era ben lontana, a tutti i livelli, da quella dei discen- C denti che ne hanno assunto, direttamente o indirettamente, l’eredità. Probabilmente le stesse intenzioni (leggasi motivazioni) che hanno spinto protagonisti di natura, ceto e cultura diverse a percorrere una stessa strada, potevano essere condivisibili (leggasi Machiavelli “il fine giustifica i mezzi”) in quei periodi e inserite in quel determinato e particolare contesto storico. È chiaro che protagonisti e loro azioni riletti a distanza, nel Terzo Millennio, e viste le conseguenze che hanno provocato, assumono connotazioni che oggi non solo non possono essere condivise, ma soprattutto non possono essere comprese nella loro reale dimensione. Il teorema enunciato, pertanto e a nostro avviso, può essere utilizzato solo come chiave di lettura per capire connessioni altrimenti difficili da individuare, e usato mantenendo la massima cautela nell’esprimere un giudizio di merito, per evitare il rischio di cadere nei luoghi comuni che per tanti decenni sono stati spacciati per verità assolute. Inoltre, gli elementi del teorema Stato, Chiesa, Massoneria e Mafia di quegli anni non sono certo quelli che la pubblicistica – più o meno di comodo – nel corso di oltre un cinquantennio, ha divulgato o tenuti segreti, alimentando, strumentalmente o involontariamente, una ignoranza sicuramente utile a quanti hanno voluto mantenere uno stato di conoscenza molto nebulosa. 27 maggio 2010 esercitato in prima persona da chi lo detiene, costituiscono i principali fattori dai quali si snoda il processo di attivazione degli interessi che trovano nel territorio-Sicilia il luogo ideale di sedimentazione e il laboratorio sperimentale per le pianificazioni economiche e politiche che vengono applicate solo in minima parte localmente, ma che vengono proiettate altrove, dove, appunto, gli interessi principali convergono. È difficoltoso ricomporre il mosaico degli accadimenti che hanno caratterizzato la vita della Sicilia nell'ultimo secolo, tenuto conto anche che agli scenari socio-politicoeconomico-militari si sono intercalati continui adattamenti nelle linee strategiche tracciate da coloro che sono stati protagonisti (spesso non noti) dei fatti stessi. Non è possibile andare alla ricerca di fonti documentali; non è possibile attingere a memorie storiche in quanto, ovviamente, gli stessi protagonisti hanno provveduto e provvedono (quelli ancora in vita) a coprire le loro azioni passate. Insufficienti, dunque, i punti di riferimento certi. Essendo, però, identificati i pochi elementi - la ricchezza, il potere - che stanno alla base dei variegati intrecci, si può delineare la struttura del mosaico, pur se mancano molti tasselli; si può ricostruire il puzzle della storia siciliana strettamente connessa a quella dell’Italia e di diversi Paesi europei ed extraeuropei, almeno in riferimento agli ultimi sessanta anni. Come premessa all'analisi sulla centralità della Sicilia, nella sua storia e nella sua prospettiva, sono i ruoli ricoperti da alcune nazioni (principalmente Gran Bretagna e Stati Uniti d'America) e da alcune aggregazioni umane (Mafia, Massoneria, Chiesa, Servizi segreti, Politica) nell'indirizzo che è stato dato, a vario titolo, agli episodi che hanno caratterizzato gli ultimi anni del Secondo conflitto mondiale nell'isola, che hanno costituito la base della realtà odier- hiesa, Mafia, Massoneria, Politica, Mondo economico. L'associazionismo è stato costantemente un fattore determinante nella vita della Sicilia, costituendo, nelle varie forme in cui si è manifestato, elemento fondamentale di sopravvivenza, di mutuo soccorso, di autodifesa, di distinzione di classe. L'associazionismo, dunque, forte legame, in determinati casi indissolubile, fra quanti accettano un vincolo reciproco basato su specifici interessi. Quali che siano. Anche per una particolare predisposizione naturale dell'Uomo Siciliano, l'associazionismo segreto, o riservato, o discriminatorio, ha avuto modo di radicarsi sia nel tessuto sociale delle classi dominanti, sia nei ceti medi e nei ceti meno abbienti che, di riflesso, hanno cercato formule di aggregazione imitative, o formule di aggregazione in opposizione Le radici della Massoneria in Sicilia si perdono nel tempo e sicuramente possono considerarsi antecedenti alla stessa Cristianità, se si tengono nel debito conto le trasformazioni che la Chiesa si vide costretta ad operare (feste dedicate a Santi) per fare fronte alle cosiddette ritualità pagane, con l'obiettivo di non perdere i favori e il seguito popolari e di acquisire fedeli sotto l'ombrello della religione. Le radici della Massoneria in Sicilia, pertanto, vanno ricercate negli antichi riti trasmessi dai vicini Paesi del Mediterraneo (vedi l'Egitto, e il rito di "Memphis e Misraim", sino ad oggi attivo), piuttosto che nell'Illuminismo europeo che ebbe funzione determinante quale "catalizzatore" di una materia non ancora codificata in una moderna funzionalità associativa finalizzata a scopi sociali e politici. Nell'Ottocento la Massoneria siciliana diventava espressione di una classe che intendeva mantenere il segreto sulle proprie attività: così come i Liberi Muratori europei rimanevano padroni dei misteri, si trasformava facilmente in associazione segreta che si contrapponeva al potere dominante, trasformandosi ulteriormente, a sua volta, in potere. Dall'altra parte, l'Onorata Società, nata dall'esigenza di coprire il vuoto lasciato dallo Stato, si manifestava come espressione di equilibrio e di giustizia in una società dove, appunto, lo Stato non esercitava la sua funzione, finendo con l'assimilare il sistema strutturale-organizzativo della Massoneria quale società segreta. Storicamente, ai primi dell'Ottocento, l'area di formazione del modello dell'Onorata Società era su base estremamente settaria, così come lo era la Massoneria; nel secondo Ottocento l'Onorata Società al settarismo aggiungeva il mutuo soccorso, così come avveniva nella Massoneria. Onorata Società e Massoneria trovavano, pertanto, momenti di incontro, momenti di alleanza. I territori dove questo reciproco travaso è stato più accentuato (e dove in diverse istanze esiste ancora) Trapani, Palermo, Caltanissetta, Enna. La trasformazione dell'Onorata Società in Mafia-soggetto di arricchimento economico con metodi violenti e di sopraffazione, non poteva non influire sui continui adattamenti del modo d'essere della Massoneria nei territori della Sicilia occidentale. La Mafia diventa, così, una ramificata associazione a fini criminali, riferendosi al sistema organizzativo piramidale tipico della Massoneria. La Mafia, insomma, prende a mutuare i propri modelli in maniera funzionale agli obiettivi che intende raggiungere, adattandosi al mutare dei tempi e dei luoghi con tutta una serie di caratterizzazioni culturali specifiche degli uomini di comando che ne costituiscono il vertice, e della qualità degli uomini e dei mezzi che ha a disposizione. La Mafia è, a questo punto, una organizzazione criminale organizzata, saldamente strutturata, che si avvale nel tempo di rapporti con ogni tipo di potere (pubblico, economico, sociale) per svolgere le proprie attività. La Massoneria della Sicilia occidentale, presa a modello dall'Onorata Società, in vari comparti, subisce la trasformazione di quell'aggregazione in Mafia, organizzazione di sfruttamento che sta al passo con i tempi. Non c'è dunque da stupirsi di trovare (ieri, come presumibilmente anche oggi) in un gruppo massonico (ieri nella sola Sicilia occidentale, oggi presumibilmente sul piano nazionale e internazionale) personaggi (nel mondo pubblico o privato) di un certo rilievo che realizzano insieme con i cosiddetti mafiosi un livello di collaborazione che può avere riflessi politici o economico-affaristici. Il Caso Sindona è un esempio emblematico. In questo quadro nessuno può escludere (come hanno dimostrato gli scandali dell'ultimo trentennio) che in determinati momenti personalità del mondo politico o imprenditoriale con origini massoniche, possono essere stati (o sono) organiche all'interno di operazioni di natura squisitamente mafiosa. Ciò si è verificato quando tra la Mafia e potere politico-economico-massonico si è avuta (e si può avere) una sostanziale coincidenza di finalità riguardanti, soprattutto, la gestione di interessi comuni. Da tenere nel giusto conto che gli elementi alla base della progressiva integrazione tra Massoneria e Mafia, sotto la compiacente copertura quantomeno di una parte della Chiesa, hanno avuto ragioni specifiche proprio negli anni del Secondo conflitto mondiale, con una forte accelerazione nel periodo antecedente allo sbarco alleato in Sicilia, per consolidarsi alla fine della guerra e articolarsi (come già rilevato) in precisi patteggiamenti, sfociati ufficialmente nel compromesso della concessione alla Sicilia dello Statuto Speciale Autonomistico, ma che possono benissimo sottindendere altri tipi di accordi. Le radici della libera muratoria in Sicilia si perdono nel tempo e sicuramente possono considerarsi antecedenti alla stessa Cristianità Don Calogero Vizzini Ruolo determinante della Sicilia in riferimento agli scenari internazionali N on è azzardato affermare che la Sicilia ha avuto, in qualsiasi tempo, un ruolo importante e spesso determinante non solo nella vita del Paese, ma anche in riferimento allo scenario internazionale. La posizione geografica dell'isola estremamente strategica da un punto di vista degli scambi commerciali e come avamposto militare - ha fatto sì che la Sicilia diventasse crocevia di interessi variegati che hanno costantemente travalicato i confini nazionali, ma che sempre nel territorio regionale hanno trovato la loro ragione d'essere. È per questi motivi che personaggi siciliani hanno ottenuto e detenuto un potere economico, politico e criminale che è riuscito a condizionare lo sviluppo e il futuro della regione ed a provocare particolari scelte di indirizzo politico sia sul piano nazionale che nei rapporti internazionali. In poche parole, la Sicilia ha avuto costantemente una sua particolare centralità negli avvenimenti più incisivi della storia italiana, dell'Europa, dei Paesi del Mediterraneo e, spesso, dei Paesi d’Oltre Oceano. Centralità accentuatasi maggiormente nel corso dell'ultimo secolo; centralità che la Sicilia continua a mantenere al di là di quanto possa trasparire, al di là delle apparenti condizioni di sudditanza al potere politico ed economico centrale, al di là del diffuso malessere delle classi meno abbienti. La ricchezza è accentrata nelle mani di una circoscritta classe dominante che rifugge dall'apparire. Questa classe dominante, nel corso dell'ultimo mezzo secolo, ha raffinato le sue strategie, creando rapporti imperscrutabili con il mondo finanziario, politico (a volte anche con quello criminale) nazionale e internazionale. A supporto di tale classe dominante, una serie di sub categorie e di forme di associazionismo trasversali non sempre identificabili. L'accumulo della ricchezza, l'esercizio del potere quasi mai 11 15-28 Settembre 2007 DOSSIER DOSSIER 14 na. Ciò che è accaduto, infatti, dal 1940 sino allo sbarco degli Alleati in Sicilia, all’occupazione dell’isola (luglio 1943), fino ai primi anni dell’autonomia dell’Isola, è stato rilevante: ha visto in prima linea personaggi che hanno agito in nome e per conto degli Stati Uniti, dell'Inghilterra, della Mafia, della Massoneria, della Chiesa. È in quegli anni che questi personaggi hanno costruito la ricchezza e il potere che, poi, hanno condizionato nei decenni successivi non solamente il futuro della Sicilia, ma anche molti degli assetti socio-politicoeconomici dell'Italia, influenzando e, a volte, determinando le stesse strategie dei governi in ambito nazionale, europeo e, spesso, nell'ambito di alcuni Paesi del Mediterraneo. È un periodo estremamente complesso ed articolato, quello che va dagli Anni Quaranta sino alla conclusione del conflitto mondiale, poiché in quei 5 anni si stabilirono accordi e patti scelleratiindissolubili (quali i personaggi che agirono? quale la dimensione e la sostanza dei patti?) che sarebbero dovuti durare 50 anni, e che non riguardavano soltanto il futuro della Sicilia, ma anche quello dell'Italia e degli equilibri che si sarebbero dovuti stabilire nello scacchiere del Mediterraneo. È sufficiente ricordare che la Sicilia venne liberata nel luglio del 1943, quando le sorti della guerra non erano ancora certe; che l'Italia venne liberata nell'estate del 1945 e che l'Italia divenne Repubblica nel 1946 per potere superficialmente capire quali enormi interessi vennero giocati in Sicilia proprio in quella manciata di anni. Comprensibile, da parte di coloro che condussero gli eventi, la necessità di cancellare ogni traccia del loro operato. Comprensibile, soprattutto, la necessità di fare in modo che venisse soppressa, a tutti i livelli, la memoria storica. La Voce dell’Isola n. 9~10 DOSSIER 16 LA VOCE DELL’ISOLA 12 15-28 Settembre 2007 Costante la presenza di politici siciliani nel Governo nazionale Dai “patti scellerati” privilegi e potere per pochi E state 1943-Sicilia liberata, 1945 fine della guerra. L'amministrazione della Sicilia "liberata", da parte degli alleati anglo statunitensi nasce come frutto di una mediazione del contrasto tra la Gran Bretagna (che vuol governare da sola la Sicilia per porre una opzione sulla futura egemonia nel bacino del Mediterraneo) e gli Stati Uniti (il cui governo riceve pressioni dall'importante componente italo-americana) che premono per una gestione diretta e completa dell'Isola, consapevoli che l'occupazione dell'Italia avrebbe presentato difficoltà e che la conclusione del conflitto ancora era lontana. Un compromesso non facile, che comunque viene raggiunto, con la sottoscrizione di patti della durata cinquantennale (ipotesi: “x” numero di ministeri in ogni governo nazionale a personaggi siciliani; “x” provvidenze per la Sicilia programmate nella “canalizzazione” di finanziamenti e sussidi mirati,, Sicilia che deve restare - in ogni modo - regione non industrializzata, ma regione "consumatrice" di prodotti del nord; “x” privilegi per la classe dominante in Sicilia, eccetera). La maggior parte dei sottoscrittori di quei patti oggi sono scomparsi per morte naturale (oppure no), e ciò che abbiamo affermato intendiamo considerarlo una ipotesi di approfondimento. Continuando. All'approssimarsi della scadenza dei 50 anni della durata degli accordi, gli equilibri nati dal compromesso incominciarono a rompersi: i nuovi patti ancora oggi non riescono ad essere sottoscritti, gli equilibri, pertanto, stentano a consolidarsi. Oggi è già domani, e la Sicilia aspetta ancora il suo futuro. Utile ricordare che la Sicilia ha ottenuto uno Statuto Autonomistico Speciale ancor prima della Costituzione italiana: uno Statuto che non è mai stato applicato, e che, se fosse stato applicato nelle sue normative, avrebbe potuto cambiare le sorti dell’Isola. Non è superfluo chiedere il perché della mancata applicazione di uno Statuto simile. Il "Teorema Siciliano" non ha ragione d’essere, nella misura in cui non può essere documentalmente dimostrato, ma le ipotesi tracciate probabilmente costituiscono una realtà che non necessita di “interpretazioni”, ma di ricerca di riscontri oggettivi. Dal 1942 a oggi tanti e tanti fatti, caratterizzati da profondi chiaroscuri, si sono aggiunti nella telenovela della storia isolana: appaiono tutti come fotocopie di episodi precedentemente accaduti. Agli omicidi di Mafia si sono aggiunti altri omicidi: dal dopoguerra cancellati 540 nomi, noti e meno noti, fra i quali i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, vittime di una logica che poco ha di umano. Un rosario di morte. Nel contempo il macrofenomeno di tangentopoli non ha risparmiato la Sicilia; poi i grandi processi agli insospettabili (leggasi Andreotti o Contrada o Mannino) e a centinaia di affiliati alle cosche; gli arresti spettacolari dei Capi riconosciuti della mafia (leggasi Totò Riina o Benedetto Santapaola, Provenzano). La Sicilia ha cambiato volto nel giro di qualche decennio, nel Terzo Millennio appare come un’altra terra, se è vero, come è vero (i dati statistici lo dimostrano), che il turismo internazionale ne fa una meta ambi- 27 maggio 2010 Mattei (al centro della foto) e gli impianti del petrolio siciliano ta. Ma nulla nello scenario conosciuto muta, anche se Don Luigi Ciotti si mobilita unitamente alla società civile, ai sindacati e ai sindaci di tutta Italia (a Gela il 23 marzo 2004) raccogliendo quindicimila manifestanti per “La giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime della mafia”, per denunciare ancora le nuove infiltrazioni criminali negli appalti pubblici e il lavoro nero come piaga che non si riesce ad evitare. Indubbiamente qualcosa è cambiato: già a metà degli Anni Novanta nelle grandi città (da Palermo a può essere elemento fuorviante nella conoscenza della realtà odierna. Non esiste più, infatti, la classificazione dei livelli criminali così come in precedenza era conosciuta l’organizzazione: nell’epoca della globalizzazione, e con le nuove generazioni discendenti dalle famiglie mafiose, si deve parlare in termini di network internazionali di affari illeciti attraverso società lecite che operano in nome e per conto del crimine. Continuare a sostenere che è in Sicilia il cuore di questo mondo, che resta impenetrabile, è limitare e circoscrivere, e non solo territorial- Forse i nuovi accordi non sono ancora stati ratificati. Gli eredi, forse, non all’altezza di chi in passato ha imposto compromessi ed equilibri instabili Catania) il numero degli omicidi è drasticamente calato, la Sicilia non è più attenzionata dalla stampa nazionale quale regione con il maggior numero di morti ammazzati, il primato si sposta in altre regioni al di là dello Stretto di Messina. In verità resta il luogo comune che continua a classificare le attività delinquenziali con il termine Mafia, termine che, a nostro avviso, non corrisponde da tempo allo stato delle cose: le mutazioni del fenomeno sono talmente evidenti, che chiamare ancora Mafia il potere criminale, mente, la questione. Quel che ci proponiamo, in queste ultime battute, con appena due esempi, è sottolineare la ripetitività con cadenza periodica dei fatti e le apparenti contraddizioni dei fatti stessi che si verificano da un decennio (o più) all’altro. Così se di separatismo non si parla per un certo tempo, ecco che inevitabilmente torna alla ribalta: i giochi dei misteri si aprono e si chiudono con estrema velocità. Nel dicembre del 1992 il sociologo Pino Arlacchi – ancor prima di tutta una seria di rivelazioni su questo argomento fornite l’anno dopo da pentiti ritenuti attendibili – sosteneva che il progetto del separatismo mafioso esiste. Le considerazioni di Arlacchi scaturivano da dati raccolti: i boss mafiosi avendo un’età media di cinquanta/sessant’anni, avendo accumulato fortune difficilmente spendibili senza l’individuazione da parte degli investigatori, e avendo alle spalle condanne anche all’ergastolo, hanno necessità di un sito tranquillo dove poter trascorrere in serenità il resto della loro esistenza. Una Sicilia indipendente, con un suo governo facilmente soggetto alle influenze malavitose, da questo punto di vista è l’ideale. L’altro fattore, quello economico: la prospettiva di una Sicilia definitivamente staccata dall’Italia, con una posizione geografica veramente invidiabile, può costituire un paradiso fiscale nel Mediterraneo, centro di smistamento da sempre di traffici illeciti internazionali. Secondo l’opinione di Pino Arlacchi un progetto siffatto verrebbe favorito e vedrebbe l’appoggio di imprenditori e uomini d’affari spregiudicati, oltrechè di politici a caccia di nuove fortune. Se si guarda all’immediato futuro, si può notare che l’ipotesi avanzata da Arlacchi non è tanto peregrina: nel 2010 il Mediterraneo diventerà area di libero scambio, mentre le pressioni della Lega per un’Italia federata si fanno sempre più insistenti. Dall’altra parte, in Sicilia, all’Assemblea Regionale, è in discussione la modifica dello Statuto autonomistico che non è mai stato applicato.... Il petrolio siciliano era uno dei sogni più ricorrenti di Mattei: per anni e anni non è mai stato ritenuto dai governanti siciliani una possibile risorsa per cambiare le sorti della Sicilia. Di un petrolio per il futuro non si parlava da tempo, così come è stato per il Tungsteno dei Nebrodi completamente dimenticato, quan- do, all’improvviso, ecco, dal 22 marzo 2004, che c’è un via libera a nuove trivelle. Il quotidiano La Sicilia così descrive l’evento: La Regione ha messo nero su bianco, assieme con i petrolieri, sui disciplinari e decreti idrocarburi che daranno il via alla ricerca e all’estrazione sul territorio siciliano. Le società Sarcis, Edison e Panther (compagnia texana) sono le prime ad esplorare il sottosuolo isolano per la ricerca di gas e oli in questa nuova era di liberalizzazione del settore. Il governo Cuffaro dà così una svolta in un comparto che, per decenni, ha visto il monopolio dell’Eni detenuto con la stessa Regione attraverso la Sarcis (90 per cento Regione, 10 %per cento Eni), e che oggi ha visto già pronti anche i texani a mettere in moto le trivelle. L’americano Jim Smitherman, nel corso della conferenza di presentazione dell’evento, a Palermo, ha affermato: “Panther Resources e io, in qualità di presidente della società, abbiamo il piacere di iniziare la caccia: l’esplorazione in Sicilia. La Sicilia è un potenziale enorme ancora non esplorato”. Così è stato. Ed è stata la parte orientale dell’isola, per il momento, la più interessata a questi progetti. In dettaglio: le concessioni riguardano l’estrazione dell’idrocarburo, i permessi la ricerca dell’idrocarburo. Le prime riguardano la zona di Saperi dove la Sarcis opererà in una estensione di 69,20 chilomentri quadrati, con un investimento di 50.096.319,21 euro; sempre la Sarcis trivellerà a Case Squillaci su un territorio di 52,50 chilometri quadrati con un investimento di 18.592.448,36 euro. Seguono i progetti di ricerca, che vedono la Panther scandagliare il Fiume Tellaro, 746,937 chilometri quadrati di territorio con un investimento di 43.400.000 di euro; la Edison effettuerà la ricerca nella zona di Paternò, 743,80 chilometri quadrati, investendo 5.500.266,00 di euro. Altre istanze di Compagnie petrolifere sono al vaglio della Regione. Un interrogativo è lecito: quali i meccanismi che muovono le costanti di una sconcertante ripetitività di avvenimenti? Troppo lungo l’elenco degli uomini abbattuti sulla strada di un auspicato progresso della Sicilia. Troppi fatti inquietanti si sono verificati, troppe trame al cui centro c’è la Sicilia. La trasformazione in atto sul territorio – dalla presa di coscienza della gente, alla produttività dell’imprenditoria che sembra essersi svegliata da un lungo sonno - necessita di analisi accurate per essere sorretta e indirizzata verso uno sviluppo che sia coerente con lo stesso ambiente e per non generare facili avventurismi. C’è il fantasma della mafia inafferrabile; c’è la mafia non certamente vinta che muta sembianze, che si fa gli affari suoi che si avvale degli strumenti che ritiene più opportuni, servendosi di tutti quei mediatori che sono disponibili nella società. Ci sono gli interessi internazionali trasversali delle grandi lobby economiche che, al pari della mafia, sanno farsi gli affari propri, utilizzando, a loro volta, strumenti e mediatori disponibili. C’è il potere dell’informazione, e chi lo detiene sa farne uso. La Sicilia resta sempre terra di conquista. C’è, infine, il cittadino rimasto senza punti di riferimento, che non crede più neanche nel primato della politica. La Voce dell’Isola n. 9~10 DOSSIER 17 La Voce dell’Isola n. 9~10 27 maggio 2010 DOSSIER 18 27 maggio 2010 La Voce dell’Isola n. 9~10 DOSSIER 19 La Voce dell’Isola n. 9~10 27 maggio 2010 DOSSIER 20 27 maggio 2010 La Voce dell’Isola n. 9~10 Cultura 21 Riscontro positivo nelle sale per la produzione della “Heles” di Carlo Bernabei “Le ultime 56 ore” di Fragasso un film tra denuncia e spettacolo di CARLO BARBAGALLO C ome previsto, l’ultimo film di Claudio Fragasso “Le ultime 56 ore” ha suscitato polemiche e giudizi contrastanti sin dalla sua prima proiezione nelle sale, il 7 maggio scorso. Si rimprovera al regista di fare troppo action movie, di volere ottemperare in ogni modo alle aspettative degli spettatori d’oggi, ormai abituati al prevalere, appunto, dell’azione sui contenuti, ma contemporaneamente di non voler perdere un’occasione per contenuti importanti che è doveroso rassegnare al pubblico. Si rimprovera al regista, insomma, di aver voluto mischiare capre e cavoli per accontentare tutti, e di avere dimenticato che in una buona storia non deve predominare, “per necessità di cassetta”, la spettacolarità. Sono giudizi frettolosi, a nostro avviso, piuttosto ingiusti. Se lo spettatore non ama (ma è poi vero?) i film considerati “d’arte”, dove è costretto a impegnare il proprio intelletto, preferendo quelli dove il successo è affidato alla spettacolarità, all’azione, la responsabilità non è principalmente dei registi, ma ricade sulle grandi Case cinematografiche il cui interesse primario è quello di portare tanti soldoni a casa. I film di “contenuti” di soldi in cassa, purtroppo e spesso, ne portano ben pochi. Claudio Fragasso ai contenuti tiene, così come tiene al successo economico dei lavori che realizza, che il pubblico esca dalle sale cinematografiche soddisfatto, convinto d’avere speso bene tempo e danaro. E allora? Allora rimettiamo al giusto posto questo “Le ultime 56 ore”. Innanzitutto c’è “una” storia scaturita da un soggetto di Rossella Drudi, che ha curato pure la sceneggiatura del film - : “Le ultime 56 ore” parte da cronache vere (e non di “fantasia”, come qualcuno ha commentato): parla di soldati italiani in missione in Kosovo, che si sono ammalati di leucemia essendo venuti a contatto con scorie di uranio impoverito contenuto nei proiettili utilizzati in quella guerra. La “critica” dovrebbe porre questo aspetto primario alla sua attenzione: parlare di uranio impoverito, dei danni mortali che provoca in chi so- La Voce dell’Isola n. 9~10 A sinistra Carlo Bernabei, sopra: Gian Marco Tognazzi, sotto: il regista Claudio Fragasso e alcune scene tratte dal film pravvive alle distruzioni, e di ciò che è accaduto in Kosovo, inevitabilmente provoca prevedibili leucemia e cancro a causa dei proiettili con uranio impoverito è un argomento tabù, in Italia come all’estero, e per affrontarlo, con qualunque sistema, ci vuole coraggio. Parlarne significa “denunciare” uno stato di cose non ancora sanato, le cui conseguenze si protrarranno a lungo nel tempo. Questo coraggio la Drudi, Fragasso e il produttore Carlo Bernabei con la sua Heles Film poi Claudio Fragasso abbia messo nello stesso calderone azione, giallo pisicologico, thriller e sentimentalismo di marca televisiva non c’è da stupirsi più di tanto: sono ingredienti misurati per tenere sempre vivo l’interesse e la tensione dello spettatore al quale, alla fine, resta un senso di inquietudine che lo induce a riflettere su tutto ciò che ignora delle guerre che gli italiani combattono I danni provocati dalle scorie dei proiettili con uranio impoverito pagati in prima persona dai militari italiani in missione nel Kosovo reazioni negative in quanti non vorrebbero che questo tipo di vicenda venisse divulgato e portato a conoscenza dei cittadini: diversi ambienti, da quelli militari, a quelli dei fabbricanti di armi, a tutt’oggi, preferirebbero che restasse il silenzio sulle vicende legate agli eventi bellici, e non vedere certo un film che arriva a milioni di persone. Quello dei militari colpiti da Production hanno dimostrato di averlo, e non conosciamo se e quante difficoltà abbiano potuto incontrare nella realizzazione del film. La storia, dunque, parte con un punto forte, d’impatto: lo stesso ministero dei Beni culturali ne ha dovuto prendere atto se lo ha cofinanziato, dandogli il merito che gli spettava è attribuendogli la qualifica di “film di interesse culturale”. Che fuori dai confini nazionali, nell’intento di portare o mantenere la pace e la libertà.. Si rimprovera a “Le ultime 56 ore” di stare tra cinema e televisione, tecnicamente parlando, e di ciò - si sostiene - ne risente il complesso del film. C’è da dire che oggi i confini fra grande schermo e piccolo schermo sono impercettibili, gli uni complementari agli altri. Fragas- so è un regista italiano che ha narrato una storia italiana come la può raccontare un italiano: superficiale il paragone con il Kubrich di “Full metal jacket “. Ed è lo stesso regista che afferma che “Le ultime 56 ore vuole essere un omaggio appassionato a certo cinema italiano degli anni Settanta”, a voler significare che il nostro “modo” di fare Cinema non può essere paragonato ad altro se non solo al Cinema Italiano. “Le ultime 56 ore” ha una trama (che non raccontiamo) dove si intrecciano due linee narrative e dove si incontrano attori come Gianmarco Tognazzi, Barbora Bobulova, Luca Lionello, Nicole Murgia, Luigi Maria Borruano, Simona Borioni, Primo Reggiani, David Coco, Francesco Venditti, Libero De Rienzo, Maurizio Merli, Nicola Canonico, Diego Guerra, Giampiero Lisarelli, Simone Sabani, Vanni Fais, Andrea Fragasso, Claudio Vanni, Claudio Masin, Emerico Lacetti, Maurizio Matteo Merli, e tanti altri: un cast di tutto rispetto. Atteso dalla critica e dal pubblico, il film rappresenta sicuramente una marcia in più nel Cinema Italiano, che spesso langue in un limbo indefinito. 27 maggio 2010 22 Attualità Oggi è necessario e fondamentale mantenere una serietà di metodo Il limite del Giornalismo online: manca “l’autorità informativa” La Rete sta ancora lottando per aggiustare la sua dimensione credibile, e con la Rete stanno lottando i giornalisti online di RINA BRUNDU I l “limite” c’è: inutile negarlo! Prima di procedere ad analizzarne la natura nel dettaglio, vorrei precisare che, secondo me, le problematiche editoriali internettiane sono cosa ben distinta dalle macroscopiche questioni legate agli accordi e alle baruffe internazionali tese a dimostrare “chi comanda” in una simile, provvidenziale, dimensione alternativa. Il limite editoriale che mi interessa analizzare in questa sede è dunque quello che riguarda il semplice utente, quando l’utente è un qualsiasi individuo, una qualsiasi società, una qualunque associazione che si propone di operare in Rete. Nello specifico, che si propone di operare in Rete nel campo giornalistico. Il principale ostacolo editoriale che deve affrontare oggidì il giornalismo online è infatti un ostacolo di natura mentale. Il va sans dire, la stampa tradizionale, così come la vetrine radio o tv, detengono ancora un notevole primato di credibilità sulla fiducia. Frasi quali “era scritto sul giornale”, “lo ha detto il notiziario” sono comuni come il “buongiorno” e il “buonasera” e, temo, lo saranno ancora per molto tempo a venire. Di converso, l’espressione “l’ho letto online”, ma anche statements più specifici quali “lo scrive Wikipedia”, o “era l’argomento del giorno su Facebook” non hanno la stessa “autorità” informativa. Al contrario, tali fonti virtuali vengono ancora viste, da un signor Rossi qualsiasi, come i luoghi per eccellenza di nidificazione dei falsi scoop. Insomma, Internet alla stregua di un paradiso fiscale dell’inattendibilità giornalistica! È paradossale! Ferma restando la sua storia ancora giovane (a ben guardare, credo sia proprio questo il vero tallone di Achille), pensiamo per un attimo alle potenzialità di un sito come Wikipedia. Nessuna enciclopedia cartacea, per quanto blasonata, e per quanto credibile, potrebbe mai sperare di fare meglio! Questo perché Wikipedia (ovvero la sua idea-essenza) ha una possibilità di espressione universale che nessun altro editore può eguagliare: nessuno meglio della fonte che l’ha vissuta (qualunque essa sia e a qualunque titolo) potrebbe raccontare meglio, e con più precisione, una vita, una 27 maggio 2010 esperienza, una visione critica, una storia, un ricordo. Ma anche una costruzione intellettuale più impegnata. Sì, è proprio così semplice come donare (non rubare) caramelle ad un bambino. E capire questo significa avere capito tanto. Senz’altro, significa lavorare molto bene in questa già determinante dimensione virtuale che, nel futuro prossimo, condizionerà ogni nostra esperienza quotidiana. Ma naturalmente viviamo tempi internettiani che sono la preistoria della loro straordinaria avventura. Ne deriva che la Rete sta ancora lottando per aggiustare la sua dimensione credibile: e con la Rete stanno lottando i giornalisti online. Non tutti s’intende, ma quelli che sono veramente tali sicuramente. Soprattutto, lottano contro le proprie fobie, le proprie idiosincrasie: sono davvero un giornalista se pubblico solamente in Internet? Data la mia ferma convinzione che giornalisti si nasce, non voglio neppure prendermi l’impiccio di rispondere ad una simile sciocca domanda. Questo non vuol dire che il problema di costruire una base operativa credibile sparisca di suo. Di sicuro, l’unico modo che ha il giornalismo online di superare l’ostacolo mentale di cui si diceva è di mantenere una serietà di metodo che è fondamentalmente la stessa serietà di metodo che ci si aspetta dal giornalismo tradizionale (e che, purtroppo, pure quest’ultimo, in molte situazioni, fatica a garantire). Questa modalità severa non dovrebbe però implicare approcci bigotti di qualsiasi natura verso un universo virtuale che ha naturalmente esigenze proprie. Mai sottovalutare il rischio di disattenderne le necessità-fisiologiche! Questo per dire che il giornalismo online non deve proporsi come piattaforma intellettuale digitale ripetitiva di schemi obsoleti (sebbene noti e vincenti), quanto piuttosto come occasione importante di improvement e di crescita. Per esempio, qualunque sia la rubrica giornalistica sotto esame, questa non potrà presentarsi con il ritmo monocorde e bi-dimensionale del cartaceo, ma dovrà rispecchiare le esigenze di dinamicità (in senso lato) dello spazio virtuale. Il tema diventa tanto più vero quando si guarda all’essenza che ca- Elio Veltri e Antonio Laudati spiegano come si trasforma la criminalità “Mafia pulita” presentato in Confindustria Catania L a mafia del terzo millennio non spara, né uccide. Ma compra e corrompe. È la prima azienda italiana per fatturato. Una holding del crimine organizzato da mille miliardi di dollari che si infiltra nell’economia sana, dove investe enormi capitali, capaci di condizionare lo sviluppo di interi territori. È questo lo scenario descritto da Elio Veltri e dal procuratore della Repubblica di Bari, Antonio Laudati nel libro “Mafia Pulita”. Il volume è stato presentato nei giorni scorsi in Confindustria Catania, nel corso di un incontro moderato dal giornalista Nino Milazzo, al quale hanno partecipato il presidente degli industriali di Catania, Domenico Bonaccorsi di Reburdone, il presidente dell'Ance Catania, Andrea Vecchio, il Presidente dell'Associazione Italiani per l’Europa, Salvo Raiti, il Presidente di Confindustria Avellino, Silvio Sarno. Come un “golpe strisciante” spiegano gli autori - la mafia sta penetrando in ampi settori della vita pubblica e si mescola all’economia legale. Il suo enorme patrimonio (130 miliardi di euro solo in Italia), potrebbe coprire il debito pubblico italiano. La nuova mafia è quella che si quota in Borsa, che riesce ad investire nei settori più redditizi e soprattutto non è più un fenomeno legato ai territori del Mezzogiorno, ma riguarda pesantemente il Nord dell’Italia, come l’intera economia internazionale. Per colpirla, non basta reprimere, ma occorre una massiccia opera di prevenzione. Molto possono fare i cittadini, le associazioni, le imprese. I numeri riportati nel volume sono impressionanti: l' industria del crimine dà lavoro a quasi un milione e 800 mila italiani: il 27 per cento degli abitanti della Calabria, il 12% dei campani il 10 dei siciliani e il 2 dei pugliesi. La strada maestra da seguire per gli autori rimane quella tracciata da Giovanni Falcone: colpire la mafia nel fatturato e nei capitali, per sottrargli la preziosa linfa vitale che la sostiene. Do. Co. ratterizzerà il giornale ed il giornalista “virtuale”. Ad entrambe queste pedine sarà infatti richiesto un ulteriore “sforzo” intellettivo che dovrà manifestarsi sottoforma di espressione multipla delle diverse potenzialità. E dunque attraverso una notevole capacità immaginifica, e dunque attraverso una variegata visione da applicarsi alle necessità di analisi dell’argomento studiato. Qualunque esso sia. In generale, io penso che questo limite mentale editoriale potrà dissolversi soltanto con il tempo. Meglio ancora, quando morirà la generazione che Internet lo ha concepito. Morto il genitore saccente e intransigente, il figlio si responsabilizzerà di conseguenza. Soprattutto, potrà concentrarsi a risolvere gli altri “limiti più mondani” che affliggono gli internauti-di-questi-tempi. E quindi anche il loro editore (sempre, in senso lato). A mio modo di vedere, questi ultimi sono soprattutto limiti legati al tempo e legati all’ancora scarsa attenzione che mettiamo nel nostro operare online (e sono limiti determinati, per esempio, da un editing mai completo degli articoli, da una forma linguistica censurabile – parlo della mia -,da un’analisi degli argomenti trattati che raramente “lavora” sotto la superficie e via discorrendo). Attualmente, l’importanza della necessità di superare questi ostacoli viene percepita davvero solo dal giornalista, o dal futuro-giornalista che si propone in Rete così come si propone nella vita. In primis, presentandosi con tanto di nome e di cognome. C’è da dire infatti che se la “firma” del professionista poteva contare qualcosa nel giornalismo tradizionale, nella dimensione virtuale la “firma” sarà tutto. Sarà senz’altro la conditio sine qua non che determinerà il successo di una rubrica. E quindi il successo di quelle somme di rubriche che saranno i giornali digitali del futuro. Questo perché, se è vero che il grande editore tradizionale o “virtuale” che sia - avrà sempre le sue variegate ed infinite carte da giocare, è anche ipotizzabile che la Rete conserverà in eterno quel suo tratto benigno abbastanza da concedere, finanche al pesce piccolissimo, l’opportunità di giocarsi l’asso nella manica. E di farlo, in maniera indiscutibilmente vincente. La Voce dell’Isola n. 9~10 Cultura 23 In libreria “La sposa gentile” di Lia Levi Inconsueta storia d’amore sullo sfondo del Piemonte di LUCA PLATANIA L ia Levi racconta la storia d’amore tra Amos, ricco banchiere ebraico e Teresa, una ragazza cristiana di origini contadine sullo sfondo del Piemonte degli inizi del Novecento. Per avere scelto di amare una non ebrea Amos è emarginato dalla propria famiglia e dalla propria comunità. Teresa, anch’essa bandita dalla propria famiglia, per rendere felice l’uomo che ama abbraccia la fede ebraica; quindi con un comportamento semplice e paziente riesce progressivamente a ricucire i rapporti con la famiglia del compagno, poi marito. La storia si fa dunque positiva, segnando l’ascesa della rispettabile famiglia di Amos Segre nella buona società, con un finale decisamente a sorpresa. La vicenda di Amos e Teresa rimanda alle problematiche che dovettero affrontare le comunità ebraiche italiane una volta libere dai ghetti e giuridicamente equiparate nei diritti civili: in che maniera esse reagirono ai matrimoni misti? Su questo punto, dopo essere stato posto al bando dal padre, Amos esplode con la sorella Anna: “Insomma, ognuno può vivere il suo essere ebreo come vuole… abbiamo la libertà, non te ne sei accorta?”; ma questo tipo di libertà l’imbarazzata Anna si accorge proprio di non averla prevista. Una sottile ed intelligente ironia sulla classe borghese accompagna tutta la narrazione; è spesso preferito dall’autrice il racconto in terza persona; una scelta indovinata, tale da non disperdere in troppe parole la sostanza dell’intenso dialogo tra i protagonisti. Il libro ci conduce ad un incontro con il mondo ebraico: le usanze, le festività, persino le ricette dei dolci rituali, assolutamente interessanti per i buongustai, rendendo questo apprendimento leggero, naturale. Il percorso di Teresa nell’ebraismo diventa il viaggio del lettore (non ebreo, s’intende), che si chiede con lei: come si fa a diventare ebrei? È proprio impossibile conciliare il culto della Madonna, dopotutto di formazione ebraica anch’essa, con l’ebraismo, come ricorda una ingenua Teresa alla sua maestra Sara? Nella caratterizzazione dei due protagonisti sono state indubbiamente riversate le maggiori forze dell’autrice: Amos va controcorrente, è una figura inusuale per l’immaginario italiano, abituato a vedere gli ebrei del primo Novecento “chiusi”socialmente; è fin dall’inizio incline ai più deboli, ai bisognoLa Voce dell’Isola n. 9~10 si, in lui un forte bisogno etico accompagna tutta la sua riflessione sulle persone, sulla vita che lo circonda. Da una iniziale solitudine ed incompletezza, attraverso il rapporto con Teresa Amos pone in essere le proprie potenzialità: più amore riceve, più ne diffonde intorno a lui ed alla sua casa. Nonostante il personaggio Teresa abbia una complessità psicologica che viene svelata durante l’intero arco della vicenda, più che una persona introspettiva Lia Levi ci de- Lia Levi scrive una donna fattiva, straordinariamente vitale: dalle sue mani sono prodotti inesauribilmente i corredi rituali dei nuovi nati della comunità, i dolci migliori, ecco una Demetra dispensatrice di abbondanza. Non per niente Teresa è di origine contadina, è Terra e appare come una ninfa dei boschi all’attonito Amos all’inizio del racconto. L’aggettivo della sposa protagonista, gentile, potrebbe essere anche La vicenda raccontata rimanda alle problematiche che dovettero affrontare agli inizi del Novecento le comunità ebraiche italiane una volta libere dai ghetti e giuridicamente equiparate nei diritti civili letto “come di gentile animo”, un ricordo stilnovistico, ma in realtà Teresa è tesa totalmente all’amore verso il marito, amore che la guida in ogni scelta; non è lei a nobilitare spiritualmente lui, si direbbe il contrario, seppur Teresa possegga già nella sua formazione cristiana la comprensione e la necessità dell’amore per il prossimo, traducendoli con semplicità nell’ebraismo. Nel volume è ricordato, in un apparire e scomparire, il contesto storico, al quale la famiglia Segre si affaccia con pudore, quasi con distacco: si discute di Giolitti, del dibattito sul divorzio, del suffragio femmi- nile, dell’intervento italiano nella Grande Guerra; il fratello di Amos, Salvatore si candida col Partito Socialista, passato ad un riformismo gradualistico, contrario all’intervento. Ma la grande storia non turba più di tanto i personaggi di La sposa gentile. I pogrom russi sono una realtà lontana, le preoccupazioni sono quelle quotidiane, quelle dell’ambiente domestico che va difeso dalla bruttura del mondo: le feste, la crescita dei figli, la normalità ed un benessere materiale ed interiore, la so- luzione dei contrasti per la costruzione di un microcosmo familiare migliore. Solo una sottile inquietudine, come un segnale di allarme prende forma lentamente nell’animo di Amos. Il tutto fino ad una inaspettata cesura del racconto: questa felicità, diventata normalità, può essere all’improvviso vietata. Forse perché troppo bella. LIA LEVI La sposa gentile Edizioni e/o, Roma, 2010 € 18,00 Note biografiche Lia Levi, di famiglia piemontese, vive a Roma, dove ha diretto per trent’anni il mensile ebraico «Shalom». Per le Edizioni e / o ha inoltre pubblicato: Una bambina e basta (premio Elsa Morante Opera Prima), Quasi un’Estate, L’Albergo della Magnolia (Premio Moravia e Premio Fenice Europa), Tutti i giorni di tua vita, Se va via il re e Il Mondo è cominciato da un pezzo. Con La Sposa Gentile l’autrice ha ricevuto l’8 Maggio del corrente anno il Premio Alghero Donna per la narrativa 2010. Incontro a Catania con la scrittrice piemontese Vincono sempre le ragioni del cuore di LUCA PLATANIA R ecentemente nella Libreria Cavallotto di Corso Sicilia a Catania è stata ospitata la presentazione del volume La sposa gentile di Lia Levi. Presente un piccolo, ma competente pubblico in un contesto informale che ha facilitato gli scambi di opinione, dei commenti e delle impressioni sul testo, le domande all’autrice. Hanno presentato il volume Luigi La Rosa e Massimo Maugeri; l’attrice Egle Doria ha alternato agli interventi letture di alcuni brani salienti del romanzo con una bella e suggestiva interpretazione. L’autrice è nota al grande pubblico in particolare con Una bambina e basta, toccante testimonianza della sua esperienza delle leggi razziali in Italia nel 1938. Abbiamo avuto modo di incontrata alla fine della presentazione, approfittando della la sua cortesia e simpatia: Signora Levi, in fondo il protagonista del suo romanzo, Amos Levi, nel rompere con la sua comunità per amore di Teresa compie una scelta del cuore che alla lunga si dimostra giusta: non si fa imprigionare dal formalismo della legge, ma si dirige verso il bene a qualunque costo. Sì, lei ha letto bene; ma non è tutto chiaro per il personaggio all’inizio, a volte nella passionalità stessa c’è qualcosa di più profondo, razionale, che ci guida alla scelta giusta. È palese comunque che in Amos c’è un’etica che gli deriva dai suoi stessi insegnamenti ebraici, lui li interpreta fino alle estreme conseguenze. Lei è riuscita a scrivere un libro di rara delicatezza di sentimenti e finezza di descrizione; in particolare nell’irrompere di Teresa nella vita di Amos, lei ha reso un totale sconvolgimento dei sensi e dell’intelletto, senza però ricorrere al linguaggio della corporeità. Oggi la maggior parte degli autori di romanzi sembra invece dovere obbedire alle leggi del mercato, indugiando in descrizioni erotiche anche molto spinte; come ha fatto a pubblicare un libro così? L’ho fatto, è possibile farlo nonostante ciò che lei evidenzia in molti romanzi di successo pubblicati in questi anni; le scene d’amore descritte in maniera esplicita ottengono l’effetto contrario, più sei esplicito e più ti allontani dal rendere certe emozioni. È dalla vaghezza, dall’indeterminato che invece scaturisce una forte impressione. La storia da lei raccontata è così bella da chiedersi se simili unioni fossero davvero possibili nell’Italia del primo Novecento. Erano casi frequenti? No, non accadeva di frequente; ma è la storia dei miei nonni, lui ebreo, lei cristiana, che compirono questo passo coraggioso, legati da un fortissimo amore. È alla loro vicenda che mi ispiro in La sposa gentile, ma immaginandomela, senza ricavarla da notizie reali; tra l’altro erano pochi i dettagli che si ricordavano nella mia famiglia di questo strano, ma riuscito matrimonio. È per raccontare il loro amore che ho scritto questo libro. Nel seguire Teresa che compie il suo percorso verso la religione del marito, scelta dettata dall’amore, il lettore apprende gradatamente di usi, costumi, festività, parole – chiave della religione ebraica. Leggendo il libro si apprende molto, senza però uno sforzo scolastico, manualistico; lei è riuscita a rendere interessante e leggero questo percorso, era nelle sue intenzioni? Sì, ho posto delle brevi note che spiegassero in maniera semplici questo mondo, per rendere uno spaccato della vita tradizionale nella borghesia ebraica del primo Novecento. Alberto Cavaglion, uno storico e studioso dell’ebraismo italiano ha affermato non molto tempo fa in Il senso dell’Arca, Ebrei senza saperlo che la comunità ebraica in Italia è conosciuta solo per la sua testimonianza nella giornata della Memoria e nelle altre occasioni in cui si ricorda la tragedia della Shoah. Mancherebbe invece una conoscenza della comunità ebraica italiana, della sua presenza sul territorio, del suo apporto al territorio. Che ne pensa? No, non sono d’accordo. Dopotutto la presenza ebraica in Italia è piccola: cerca di farsi sentire come può, ma i giorni della cultura ebraica sono affollatissimi, la gente è curiosa. A Roma, dove io vivo, i ristoranti casher, “rituali”, negli ultimi anni sono diventati una decina e ciò perché molte persone sono attratte dalla cultura, finanche dalla cucina ebraica. 27 maggio 2010 24 Cultura “Letteratitudine”: uno dei salotti letterari più esclusivi d'Italia Con Maugeri e Internet una finestra sul mondo di SALVO ZAPPULLA I nternet è destinato a diventare l'invenzione del secolo, ha rivoluzionato il sistema della comunicazione. È una finestra sul mondo. Ha dato libero accesso a tutti, visibilità a quanti desiderano esercitare il loro diritto all'esistenza, dalla casalinga al poeta locale cui nessuno voleva dare credito letterario. Un oceano popolato da pesci multiformi che si muovono sconnessi alla ricerca di luce. Nel bene e nel male ha sovvertito certi strumenti di potere, egemonia della stampa e della televisione. Una rivoluzione in piena regola. Fioriscono i siti on-line, proliferano i blog. Una miriade di stelle dove la gente sbarca per avere diritto al proprio piccolo raggio di luce. Il 18 Settembre 2006, un ragazzo della provincia di Catania, dai modi raffinati e dai toni garbati, decide di aggiungere la sua stellina in questo sconfinato firmamento: apre un litblog (blog letterario) per il semplice desiderio di comunicare e condividere il suo amore per la letteratura con altre persone. Nasce Letteratitudine. E nasce Maugeri, il fenomeno. L'uomo con la camicia celeste. Sarà proprio il garbo, la signorilità, la professionalità che faranno di questo ragazzo un personaggio di fama nazionale. Ben presto il blog entra a far parte della famiglia dei blog d'autore di Kataweb-Gruppo Espresso. Letteratitudine diventa uno dei salotti letterari più esclusivi d'Italia. Un punto di incontro virtuale dove potersi confrontare, dibattere su argomenti culturali, interagire, polemizzare anche, ma in maniera costruttiva ed evitando risse e sterili polemiche. Tutto ciò a Massimo Maugeri costa energie, impegno costante e duro lavoro. Ma è propria questa la capacità che lo contraddistingue: la buo- Un punto di incontro virtuale dove potersi confrontare, dibattere su argomenti culturali, interagire, polemizzare anche, ma in maniera costruttiva ed evitando risse e sterili polemiche mon e tanti altri ancora. Camon gli na educazione, l'affabilità che il padedica un articolo su Tuttolibri, a drone di casa usa con gli stessi ricui fa seguito quello di Loredana guardi nei confronti dei suoi ospiti, Lipperini su Venerdi di Repubblica. siano essi personaggi famosi o perGli addetti stampa delle maggiori sone qualsiasi. E se qualcuno insiste Case Editrici gli inviano le novità a fare il troll, viene invitato con le (una media di 60 libri al mese) spebuone maniere ad andare a farlo da un'altra parte. Che già di troll è pieno il mondo e non c'è bisogno di riempire anche i siti. Numeri da capogiro, dibattiti culturali di altissimo livello, rubriche affidate ad esperti). Quasi tutti i più famosi scrittori italiani accettano di presentare i loro libri su Letteratitudine. Qualche nome: Dacia Maraini, Paolo Di Stefano, Roberto Alajmo, Beatrice Masini, Catena Fiorello, Rita Charbonnier, Giorgia Lepore, Antonella Cilento, Ferdinando Ca- Massimo Maugeri, a destra la copertina del libro rando in un passaggio su Letteratitudine. Insomma, Maugeri rischia di passare alla storia come l'uomo che ha dato ufficialità e identità alla cultura diffusa attraverso il virtuale. Tutto questo è raccontato in un li- bro pubblicato da Azimut i cui proventi saranno devoluti in beneficenza a la “Casa della famiglia ferita”, una comunità mariana che gestisce un orfanotrofio nella ex Jugoslavia. Letteratitudine, il libro, pagg. 274, € 15,00 Nel “Cerchio infinito” la poesia di Renzo Montagnoli La vita racchiuse in una clessidra di SALVO ZAPPULLA L eggendo questa silloge poetica di Renzo Montagnoli mi è venuto da pensare a un naufrago su una zattera smarrito nell’oceano tempestoso del grande mistero della vita. Riflessioni nichiliste quelle di Renzo? O aperte alla speranza? C’è un Dio che vigila sulla nostra povera esistenza? E se c’è, perché non incide? La parola scritta nel suo evolversi spaziotemporale assume concetti che conducono alla personalità dell’autore, alla sua sofferenza esistenziale, ai molteplici agenti esterni che ne hanno forgiato il carattere. “… Il mio sguardo correva lontano/immaginava oltre orizzonte/s’inerpicava su ripidi pendii/s’aggrappava alle nubi del cielo/correva con l’acqua dei fiumi/indugiava in pozzi nascosti/si spegneva nel dubbio del nulla…”. Le elaborazioni poetiche di Renzo esprimono tematiche di grande fascino e allo stesso tempo insondabili, rimandano a suggestive risonanze impossibili a dipanarsi per la mente umana, mirano al raggiungimento di un ‘aulica ed estetica perfezione di forma e contenuto, e da esse traspare la limpida sin- 27 maggio 2010 cerità del suo intelletto. P. Valéry sosteneva: “La poesia deve essere una festa dell’intelletto”. O forse la poesia è la condanna dell’intelletto, la ricerca continua di ombre da esplorare. “Una luce fugge nel cielo di notte/un arcano mistero solca l’universo/veloce si muove in un cerchio infinito/corre senza posa in un’eterna fatica/ le sue strade son lastricate di stelle/la sua meta è rincorrere se stessa/ in un corrosivo cosmico affanno/.E quando rapida scompare ai nostri occhi/lascia uno sciame di sogni svaniti”. Traspare un senso di ineluttabile nei versi di Montagnoli, come volesse avocare a sé l’incanto e serrarlo dentro la fortezza della propria esistenza, prima che sia troppo tardi, prima che vada in disfacimento sotto le sferzate inclementi dell’oblio. La vita racchiusa dentro una clessidra che inesorabilmente consuma i suoi granelli. Anime che sono transitate fugacemente su questo pianeta senza lasciare tracce. Il poeta è un uomo solo, solo più degli altri, limitato nella sua condizione di essere imperfetto, peregrino che si addentra per un viaggio senza meta, col suo carico di dubbi, in un’odissea di con- Renzo Montagnoli flitti interiori. La sua solitudine è sconfinata, tormentata dal suo incanto e disincanto, dai suoi interrogativi impossibilitati ad avere risposte, Renzo Montagnoli nasce a Mantova l’8 maggio 1947. Laureato in economia e commercio, dopo aver lavorato per lungo tempo presso un’azienda di credito ora è in pensione e vive con la moglie Svetlana a Virgilio (MN). Ha vinto con la poesia “Senza tempo” il premio Alois Braga edizione 2006 e con il racconto “I silenzi sospesi” il Concorso Les Nouvelles edizione 2006. Sue poesie e racconti sono pubblicati sulle riviste Isola Nera, Prospektiva e Writers Magazine Italia, oltre a essere presenti in antologie collettive e in e-book. Ha pubblicato la silloge “Canti celtici” (Il Foglio, 2007). È il dominus del sito culturale Arteinsieme (www.arteinsieme.net). La Voce dell’Isola n. 9~10 Cultura 25 La tipica singolarità del vasto mondo delle costumanze popolari Gocce di umanità gli indovinelli raccolti da Sebastiano Burgaretta di CORRADO PICCIONE L eggendo e riflettendo su questo compendio di cultura popolare che è la raccolta di indovinelli Non è cosa malcreata di Sebastiano Burgaretta, edita da Emanuele Romeo, ci domandiamo: È poesia, poesia vissuta? È una voce misteriosa che ha echi profondi nell’animo umano? Una poesia modulata su sentenziosità vive, che riflettono aspirazioni segrete, mancate o fallite? Sono frammenti o sintesi parziali di espressioni esistenziali? Dipende, certo, dall’angolo visuale del lettore, dell’interprete, ma anche del traduttore da una lingua all’altra. Ma è anche da osservare che la pregnanza concettuale del dialetto dipende dalla sua originaria intensità nella versione del linguaggio comune. Una pregnanza nella quale incide la cadenza tradizionale di una indefinibile interiorità. Ma innanzi a questa raccolta di indovinelli, quale può essere la reazione intellettuale, la posizione psicologica di colui il quale, come chi scrive, non è un cultore di tradizioni popolari, non è un esperto di ricerche etnologiche? Esiste certamente quella che i latini chiamavano dilectatio, che consente d’interpretare come gocce di umanità, gocce di umanità che cadono su un tessuto esistenziale intriso di ironia, di scetticismo e di un impulso, forte impulso, alle interpretazioni allusive della cultura di ambiente. Queste gocce di umanità sono una tipica singolarità del vasto mondo delle costumanze popolari, dense di suggestioni, nelle quali riflettono sorprendenti ancestralità. Nella pregevole introduzione di Sebastiano Burgaretta troviamo la chiave di lettura di questi indovinelli, che da una originaria espressione dialettale vengono resi in un moderno linguaggio italiano. Ivi leggiamo convincenti significazioni del concetto di osceno, che da una primitiva lussuriosità assurge a un principio di naturalità intensamente vissuta. E questa osservazione è meritevole di attenta valutazione. L’osceno, come occasione, come strumento di relazioni sociali, non è un’espressione di relativismo morale, di decadenza di costumanze tradizionali, non è lo sfrenato sensualismo che è indice di negatività; è modernamente divelto dall’etimo latino obscenus, che, secondo glottologi e filologi, equivale a infausto. Ma omnia munda mundis. Così nella moderna prospettiva l’ammirazione del nudo femminile non è volgare ostentazione, non è oscena. Il nudo femminile è l’apoteosi della bellezza come nella universale considerazione della Venere Anadiomene del nostro museo. Questo pensiero nobilita l’angolo visuale di una moderna dimensione della nozione di osceno. Dalle acute osservazioni di Burgaretta può trarsi argomento per una più approfondita lettura della raccolta, una lettura intesa a individuare nelle peculiarità semantiche la natura unidimensionale dell’anima siciliana. Una lettura psico-antropologica della vera anima siciliana, che è avvolta nel velo di una sottile ironia, nel considerare la propria viLa Voce dell’Isola n. 9~10 Sopra: presentazione del libro di Burgaretta ta e la vita altrui. Ma questa ironia conduce a quel senso di solitudine che è tipicamente siciliano. Ricordo quell’indimenticabile relazione che Luigi Pirandello tenne, ricordando Giovanni Verga. Disse, appunto, fra le tante riflessioni indimenticabili, questa: Il siciliano nella profondità della sua anima è un uomo solo, perché è profondamente triste. Ma dove si raccoglie questa tipicità tradizionale della sicilianità? Nella figura classica del contadino del tempo del Pitrè, di Salomone Marino, che definiva il contadino la parte più eletta del popolo, la più ingenua, la più sana, la più onesta. Ma fu sempre così? Il contadino siciliano, oppresso dal dispotismo padronale, dal flagello dell’usura, dalle avversità della vita, viveva con la Sebastiano Burgaretta sua famiglia tradizionalmente in miseria, ma accettava in silenzio il suo destino. Viveva in silenzio e ne beveva questo colloquio silenzioso con il suo animale, quasi sempre un asino, del quale si fidava assai più che dell’ uomo, con il quale aveva peraltro sporadici e occasionali rapporti. Gli indovinelli, così come i proverbi, erano il suo soliloquio, si tramandavano di generazione in generazione, in quanto appropriati ai vari accadimenti della vita. Segnavano le tracce del cammino umano, e la monotonia della sua quotidianità segnava ritmi consueti privi di parole, ma intessuti di gesti significativi, mai insensati. Il contadino non rideva, non piangeva, era dominato da un senso fatalistico, supersensibilmente fatalistico, della vita; in fondo era uno scettico, credo neppure in fondo un credente, pur essendo legato alle tradizionali usanze religiose del suo paese. Conosceva soltanto il lavoro dal- l’alba al tramonto, e l’indovinello, come il proverbio, ritmava la sua cadenza esistenziale, era in fondo la sua pedagogia. Scetticismo ed ironia il suo abito mentale, l’ironia come tendenziale dissoluzione di pregiudizi, di usanze, di miti, ma anche come una istintiva tendenza anarcoide che ha avuto sempre nei contadini imprevedibile e causalmente indecifrabili esperienze. Quali esperienze? Quelle più sorprendenti ritmate dagli indovinelli e dai detti, ma compresi e interpretati, se si riesce a coglierne il profondo. Voglio richiamare, a tale riguardo, una mia sorprendente esperienza personale. Molti anni fa io, confidenzialmente con un contadino della nostra Avola, raccolsi una davvero sor- Da una originaria espressione dialettale resi in un moderno linguaggio italiano prendente singolarità. Censurandosi il comportamento tortuoso, non leale, non corretto di qualcuno, sentii da questo contadino un giudizio assolutamente inatteso, che ripeto in dialetto: Chissu è un macciavellu. Rimasi sorpreso da questo giudizio. Non avrei mai pensato che nel linguaggio di un contadino totalmente analfabeta, del tutto incolto, fosse inserito il nome di una personalità che non conobbe mai la Sicilia, ma che soprattutto riuscisse a raffigurare in quella espressione semantica un giudizio di carattere morale. Ma mi domandavo come fosse possibile nell’animo di un incolto, di un analfabeta questa misteriosa stratificazione culturale che lo conduceva ad acquisire implicitamente ma inconsapevolmente un giudizio di carattere storiografico certamente estraneo alla mentalità di quel contadino. Ma questo rimane sempre un mistero. E se pensiamo che questo giudizio così drastico del contadino in fondo si ricollega a una visione storiografica del Segretario fiorentino desueta, superata da studi più approfonditi, ma che lungamente era diffusa nella mente comune, ci rendiamo conto di come questa misteriosa acquisizione di un linguaggio, di un riferimento di straordinario valore storico fosse acquisito nella mentalità di un incolto, di un ignorante. Ma il contadino tutto questo riusciva a vedere nell’ambito di un detto. E se leggiamo attentamente questi indovinelli, li vediamo tutti come espressione significativa di una visione della vita, di una visione del mondo, ma di una visione del mondo che è sempre riconducibile a quella mentalità che è tipica appunto del contadino: scetticismo e ironia. Era difficile che un contadino di quel tempo dicesse parole banali, insignificanti, irriconducibili a un criterio logico. Tutto aveva un significato. Le parole erano tutte finalizzate a un giudizio, a una valutazione. Mi ricordo anche la triste esperienza di un altro contadino, un padre il quale riceve, dal figlio, che pure ha portato avanti negli studi con sbocco in attività lavorative di un certo livello, l’ingratitudine, l’incapacità di capire che cosa ha fatto il padre per lui. Il contadino non usa parole aspre, giudizi sprezzanti, espressioni tali da offendere quell’ingrato suo figlio. Assomma e riduce tutto a un detto, che io ho colto dalla bocca di molti contadini e che voglio riprodurre anche adesso nell’espressione dialettale: Cu ri nu sceccu fa n cavaddhu,/ u primu càuci u scippa iddhu. A chi genera un figlio e riesce a portarlo ai gradi più alti della vita comune può succedere che il figlio non solo si dimentica del padre, ma i primi calci li dà proprio a quell’infelice genitore che ha sacrificato la sua vita per lui. È tutto un mondo, è tutta una visione della vita che andrebbe studiata, e fa bene Burgaretta a impegnarsi in questo. È tutto un mondo diverso da quello comune, diverso, perché ormai quel contadino non esiste più; non esiste neppure l’asino, suo amico e compagno di lavoro. Tutto è affidato alla memoria, ma direi alla memoria del rimpianto, alla memoria di una nostalgia profondamente vissuta e sofferta. Oggi quel contadino che ripeteva gli indovinelli, e li ripeteva con una pregnanza assolutamente allusiva ai fatti accaduti e accadibili della vita non esiste più purtroppo. Esiste il coltivatore diretto, il piccolo proprietario, il piccolo imprenditore, direi, la mezza cultura, che è peggiore dell’incultura; è sempre meglio l’incultura di quel contadino che non ha studiato, che non ha mai avuto un libro in mano, che non è mai andato a scuola, piuttosto che la mezza cultura di chi è andato a scuola spesso senza frutto. È questo il valore del libro di Sebastiano Burgaretta, quello di farci rivivere questa temperie ideale, questo mondo ornai tramontato sotto i nostri occhi, che però egli è in grado di leggere attentamente, penetrando nel vivo di queste pagine. Ha inoltre, sì, dischiuso un orizzonte straordinario di cultura, di civiltà, la civiltà contadina di cui parlava il Pitrè. Questa civiltà è vissuta tra noi ed è ripresa, compendiata in questi indovinelli. Ecco perché questa è un’opera di alta cultura, che va letta, studiata, meditata, e che in un certo modo deve rappresentare il transito verso una conoscenza più approfondita di esperienze che sono vissute accanto a noi e che spesso non abbiamo considerato, che spesso non abbiamo valorizzato. Eppure erano esperienze dense di una saggezza infinita, che solo l’anima eterna del contadino sapeva dare. Ecco il valore del libro, ecco la necessità di studiare questo libro. Per questo siamo tutti profondamente grati a Burgaretta. La sua è un’opera di cultura, è un’opera di civiltà, perché la civiltà di un popolo è anche nel culto delle sue memorie. E noi, raccogliendo in questo libro il culto delle nostre memorie, facciamo opera di alta civiltà. Così si progredisce, così si va avanti nella vita. Così il senso collettivo della convivenza potrà avere fasi successive più elevate e più nobili. Per questo noi ringraziamo Sebastiano Burgaretta, gli siamo profondamente grati, perché ha dato un grande servizio alla cultura siciliana e alla cultura nazionale, ha dato un grande servizio alla cultura universale, perché, leggendo in tutto il mondo questo libro, si comprenderà qual è il gioiello culturale e storico della nostra Sicilia, questo compendio di universalità, questo compendio di grandezze umane, di miserie umane, di civiltà, di ironia, di scetticismo. È un umanesimo, quello della Sicilia, straordinariamente ricco. Raccogliamolo, non disperdiamolo, tramandiamolo. Questo è il nostro dovere. 27 maggio 2010 26 Cultura Incontro con Bruno Contigiani, autore del gustoso saggio “Chi va piano” La famiglia di una volta e ora la “nuova” famiglia di RITA CHARBONNIER “L’invidia, tra i cosiddetti vizi capitali, è forse quella che ha causato le maggiori sciagure all’umanità” E siste ancora la famiglia? Sì, naturalmente; ma il divorzio, la convivenza, le relazioni omosessuali, i rapporti d’amore senza convivenza, la rivoluzione dei ruoli di mamma e papà hanno creato oggi famiglie di tipologie molto diverse. Come affrontare allora questo nuovo scenario, come aiutare i nostri figli a comprenderlo, come insegnare a noi stessi a coltivarlo? Con questo libro saggiamente allegro Bruno Contigiani ci spiega che il buon senso non va d’accordo con la fermezza e che l’amore per se stessi è l’esatto contrario dell’egoismo. “Chi va piano. Piccole alchimie per grandi sentimenti” (Casa editrice Rizzoli) è un manuale di auto-aiuto unico nel suo genere, un continuo invito ad apprezzare le gioie della nuova normalità. La domanda che l’autore rivolge ai suoi lettori è molto semplice: sei sicuro che le cose che ti tormentano siano davvero dei problemi? Bruno Contigiani è anche il presidente dell’Associazione Onlus “Vivere con lentezza”, che si occupa di educazione e comunicazione sociale sulle politiche del tempo nelle aree del mondo in cui il benessere economico è già diffuso, e che sostiene l’autonomia e lo sviluppo nelle aree povere o con diseguaglianze sociali. È nata alla fine del 2005 da un gruppo di persone immerse nella frenesia della vita di ogni giorno, che hanno iniziato a porsi domande sulla propria insoddisfazione. Lo scopo dell’Associazione è condividere e diffondere idee che possano migliorare la qualità della vita. Per questo organizza eventi culturali (tra i quali la “Giornata Mondiale della Lentezza” e il festival letterario “Leggevamo quattro libri al bar”), dibattiti e convegni nei quali ci si confronta su temi così difficilmente misurabili come il tempo e la felicità. Il primo saggio che hai pubblicato, “Vivere con lentezza” (Orme Editori) è un invito a prendersi i propri tempi, piuttosto che soccombere alla frenesia del quotidiano. In “Chi va piano” (Rizzoli) proponi di applicare questo principio alle relazioni d’amore. Perché hai desiderato scrivere questo libro? Ci sono momenti, nella vita, in cui ci troviamo a un bivio: lì possiamo dare il nostro meglio, oppure il nostro peggio. È una scelta. Quando ci si lascia, ad esempio, come accade sempre più spesso, si può scegliere di dilaniarsi e farsi la guerra, oppure di continuare a rispettarsi reciprocamente. Io racconto una storia, la mia, riflessa negli occhi delle donne. Non pretendo di 27 maggio 2010 insegnare nulla: dico solo come ho fatto, come avrei potuto fare, e come sarebbe stato meglio non avessi fatto. Nel libro affermi che i padri separati “non sanno cucinare, non sanno fare la spesa, non sanno accudire, ma principalmente non sanno riempire il tempo che trascorrono con i figli.” Perché, secondo te, le cose starebbero in questo modo? Potrei incolpare le mamme italiane, ma non sarebbe giusto. Noi uo- mini siamo molto abituati a indicare delle strade; i nostri figli ci guardano, talvolta ci giudicano e controllano se quelle strade le percorriamo anche noi. Certe volte ci chiedono di fare dei tratti insieme a loro: in quel momento dobbiamo ascoltarli e cercare di capire che cosa veramente ci vogliono dire. Senza continuare a porre loro delle domande, che magari ci fanno sentire migliori, ma le cui risposte non arriveranno mai, oppure arriveranno solo nel linguaggio cifrato che tanto ci fa soffrire. Come va? Bene – Dove vai? Esco – Ti piace? Non lo so. Nel tuo libro parli anche dell’invidia che alcuni provano per la felicità degli altri. È un problema che senti in modo particolare? L’invidia, tra i cosiddetti vizi capitali, è forse quella che ha causato le maggiori sciagure all’umanità. Ne “L’Uccello dipinto” di Kosinsky si racconta che nei gruppi di noma- Racconti di Ennio Montesi È nelle librerie pubblicato dall’editore Mursia “Racconti per non impazzire”, una serie di racconti dedicati da Ennio Montesi all’amico Federico Fellini a metà tra psicologia e fantasia, tra il concepibile e l’irrealizzabile, nei quali i protagonisti vengono inghiottiti dalle proprie esistenze. Storie tragiche, surreali e profondamente umane in cui l’autore esercita la sua abilità narrativa inducendo a frugare all’interno delle coscienze e lasciando aperte diverse piste interpretative. Ennio Montesi è autore di romanzi e soggetti per la televisione e il cinema. Significativo il suo scambio epistolare con lo scrittore statunitense Henry Roth, che gli dedicò il racconto “Prosewriter’s Threnody”. Montesi è fondatore, insieme a Luigi Cascioli, di Axteismo, movimento internazionale di libero pensiero, che concentra studiosi, cristologi laici, ricercatori, magistrati, scrittori e persone che non accettano imposizioni e influenze religiose. Fa parte della Segreteria Nazionale del partito politico Democrazia Atea. Ennio Montesi di bisognava stare molto attenti quando si scoppiava a ridere: se il tuo vicino riusciva a contarti i denti mentre eri a bocca aperta, saresti morto entro l’anno. L’invidia fa paura. Mi colpisce che molti, anche amici, non sappiano godere delle tue piccole gioie, fosse anche una vincita minuscola al Gratta e Vinci. Ci sono amici che ti accettano solo quando le cose ti vanno male e non sopportano i tuoi cambiamenti. Io credo che gli amici si vedano molto anche nei momenti felici, non solo in quelli “del bisogno”. Che senso ha per te la famiglia, e in che modo, oggi, ne vedi una possibile? Gira e rigira la famiglia conta ancora tanto, solo che sta cambiando architettura. Resta un nucleo di affetti, di relazioni, di progetti in comune, di rispetto e di regole condivise. Dopodiché, allargata o ristretta, verticale o orizzontale, tradizionale o di genere, su queste basi può funzionare. Ci si può separare, ma il reciproco sostegno non dovrebbe mai mancare. “Per allevare un figlio ci vuole un villaggio”, dice un vecchio proverbio africano. Inoltre la famiglia va vissuta in modo tridimensionale, nel rispetto di sé, degli altri, dell’ambiente e del mondo. La Voce dell’Isola n. 9~10 Cultura 27 Incontro con Mavie Parisi, autrice del romanzo “E sono creta che muta” La cantrice del quotidiano che scava nelle profondità di MARIA LUCIA RICCIOLI L a morte di Salinger ha scatenato una piena di saggi e articoli. Quello scritto da Sandro Veronesi, uscito su Repubblica il 19 febbraio scorso, contiene un riferimento ai diari di Diderot che mi è sembrato illuminante: «[…] ognuno, ha detto Diderot, si costruisce una statua interiore, e lo fa nel momento peggiore della propria vita, l’adolescenza, quando non sa ancora nulla di sé e del mondo, e non ha la minima idea di come si costruisca una statua – e poi passa il resto dei suoi giorni a cercare di somigliarle. Se gli va bene arriva il momento in cui se ne rende conto e comincia a demolirla, ma è impossibile sbarazzarsene del tutto, ed è per questo che nessuno riesce mai a essere felice». Tutto questo mi è venuto in mente (ri)leggendo il libro d’esordio di Mavie Parisi, E sono creta che muta (Perrone Lab, Roma 2009, euro 18). Cos’hanno a che fare Salinger e Diderot con una storia attuale che intreccia telefonate, sms, trascrizioni di incontri in chat, appuntamenti e uscite con le amiche, cene, bagni al mare e nuotate in piscina? Il titolo, tratto da una poesia di Giovanni Pennisi, è evocativo e nello stesso tempo programmatico: la nostra volontà ma soprattutto la vita stessa tendono a demolire o scalfire la statua interiore che con caparbietà ognuno di noi costruisce su più o meno illusorie certezze e vera saggezza forse è proprio quella di lasciarsi mutare come la creta sotto le dita di un’invisibile artefice, senza rimpianti ma con la serenità di chi si adatta alla corrente della vita senza ostacolarla ma assecondandola. La protagonista, Kita Narea, porta nell’animo i segni della recente se- parazione. L’ansia di ricostruirsi una vita – sentimentale ma anche professionale e familiare: l’arte come ridefinizione di sé e una maternità ricomposta e più consapevole – la portano agli incontri virtuali e reali delle chat, ad un alcolismo “domestico” ma non meno pericoloso della dipendenza tossica. L’idea di corrente, di stream come i flussi di informazioni di Facebook, non è solo contenutistica: situazioni e dialoghi scorrono con fluidità e Mavie Parisi è abile nel farci immergere nella liquidità della vita di tutti i giorni. La narrazione si dipana senza strappi o stacchi bruschi, con un linguaggio semplice che però scava nelle psicologie dei personaggi. Kita usa il pc come uno specchio dei propri desideri, delle proprie angosce. Cerca tra le righe delle conversazioni una frase, una parola che dia un nome alla propria ricerca. Come nelle quêtes medievali, il senso del viaggio sta nel viaggio stesso. Alla fine del romanzo, che non è una vera e propria conclusione – proprio come nella vita – ma una tappa, uno stadio incompleto ancora ma più conscio della statua di creta che è la sua esistenza, Kita accetterà il cambiamento come crescita. Il classico romanzo di formazione, il Bildungsroman, qui è un romanzo di trasformazione, di scom- La volontà ma soprattutto la vita stessa tendono a demolire o scalfire la statua interiore che con caparbietà ognuno di noi costruisce su più o meno illusorie certezze posizione e ricomposizione di sé, in cui l’arte è catarsi e conforto, l’amicizia e l’amore sostegni, puntelli. La tecnica utilizzata – alternanza di capitoli in prima e in terza persona – permette al lettore di osservare la vita della protagonista da angolature differenti. Le finestre della Bovary qui sono le finestrelle dei programmi per chattare, schermi che sono difesa oltre che sguardo virtuale sul mondo sconfinato delle solitudini. L’azione qui è tutta interiore e non c’è bisogno di effetti o colpi di scena per appassionarsi alle vicende di Kita, Stefano, Damiano, dei figli di Kita disorientati dalla separazione dei genitori ma pronti a recepire gli umori della madre, delle amiche pronte a dispensare consigli di sopravvivenza pur vivendo al pari di Kita le esistenze complicate del nostro vivere attuale. Il libro è stato presentato nel dicembre 2009 a Palazzo Beneventano, a Catania, a Roma, al Biblios cafè di Siracusa, a Palermo e in varie altre località. Ed ora qualche domanda all’autrice. Come sei riuscita a dar voce – scusa il bisticcio – alla voce interiore di Kita? Cosa ti ha ispirata aiutandoti a trovare la tua voce personale? Penso che ognuno di noi prima di essere uno scrittore sia un lettore, ed in quanto tale abbia dei generi preferiti. Da sempre ho amato leggere romanzi in cui la vicenda esteriore fosse solo un pretesto per dare voce all’interiorità. Qualcosa che desse gli strumenti per compiere uno scavo psicologico all’interno delle relazioni umane, dei sentimenti e della maniera di gestirli. Più che un’ispirazione è stata quindi una necessità, la necessità di scrivere io stessa di cose che mi piaceva Nuova ristampa di “Giorni di mafia” di Roberta D’Aquino Significativo vademecum per non dimenticare di DOMENICO COCO N el deludente panorama della visibilità dell’editoria locale, il libro della ricercatrice Roberta D’Aquino “Giorni di mafia” riesce ad essere una eccezione: migliaia di copie vendute, diverse ristampe. Sorge spontanea la domanda: è soltanto l’argomento “mafia” che attira i lettori siciliani? Riteniamo che non sia così, ma che si tratti, invece, del modo come la questione sia stata affrontata. Innanzitutto c’è da rilevare l’impegno di questa giovane ventiseienne, laureata in Giurisprudenza, che attualmente svolge il ruolo di ricercatrice presso l’ateneo catanese, mentre fa pratica per conseguire l’abilitazione in Avvocatura: Roberta D’Aquino non è solo una studiosa dei fenomeni legati alla grande criminalità organizzata, ma è anche una studiosa interessata a comprendere la questione siciliana nella sua essenza. Non suoni strana la sua prima tesi presentata per conseguire il diploma degli studi superiori, “Sicilianità e Sicilitudine”, e la tesi di laurea, “Una autonomia difficile: genesi e storia dello Statuto Siciliano”. Roberta D’Aquino è scesa in campo con quanti si sono voluti organizzare per lottare la La Voce dell’Isola n. 9~10 mafia: “A pochi giorni dalla commemorazione della strage di Capaci, in cui morirono il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta, mi sono trovata a fare una riflessione che pone al centro, per una volta, l’aspetto psicologico, introspettivo, la considerazione di questi eroi come uomini, con le loro legittime paure che mai però sconfinarono nella vigliaccheria. Tra la fine degli Anni ’80 e gli inizi degli Anni ’90, mentre la città di Palermo, dilaniata dai lutti, si svegliava lentamente dal torpore, iniziavano a vedersi cortei antimafia, attorno alle figure dei Giudici si condensava un’atmosfera intrisa di invidia, malumori, fatta di parole sussurrate, di altre non dette, di corvi che misteriosamente aleggiavano dentro e fuori il Palazzo di Giustizia. In quel clima quegli uomini continuarono a lavorare e a condurre la vera lotta alla mafia in Sicilia”, afferma la ricercatrice. Probabilmente questo senso della consapevolezza verso l’abnegazione di quegli UominiGiudici ha spinto Roberta D’Aquino a scrivere “Giorni di mafia”, ed a procedere nel suo impegno, quale testimonianza, di una Siciliana che non intende sottrarre il suo contributo ad una lotta che, prima o poi, otterrà il suo risultato. Roberta D’Aquino GIORNI DI MAFIA Biesse editrice Pagg. 286 leggere e sulle quali mi piaceva soffermarmi a pensare. Ti ritrovi nella definizione di “cantrice del quotidiano”? Mi calza a pennello perché mi permette di compiere e di far compiere un processo di identificazione che renda empatico il mio rapporto con i lettori. Hai mantenuto per tutto il libro un tono semplice – apparentemente semplice, direi, dato che scava in profondità nelle psicologie dei personaggi –: in che modo il tema del tuo romanzo hanno condizionato il tuo stile di scrittura? Questo ha condizionato molto il mio linguaggio. La sua semplicità deriva dall’esigenza che le parole arrivino al cuore prima ancora che al cervello. So che molti criticheranno questo concetto, ma per me la scrittura è l’arte di emozionare prima e far riflettere poi attraverso le parole. È un’arte che guarda e riflette ciò su cui ha puntato lo sguardo, attraverso la mediazione dello scrittore. Quali libri e quali autori ti hanno ispirata nella tua esplorazione del quotidiano e dell’interiorità? Come ho già avuto modo di dire, ogni autore e ogni autrice che abbia cantato l’epica del quotidiano e di questo quotidiano abbia saputo trovare i risvolti interiori, è stato fonte di ispirazione. Un nome tra tanti, la Wharton tra le autrici del secolo scorso. Anne Tyler nel contemporaneo. Nella quarta di copertina di un libro di quest’ultima si legge che lei riesce a narrare storie tanto comuni quanto irripetibili. E ciò che rende particolare, o appunto irripetibile una vicenda comune è la vita interiore che la percorre e la sottende. Il libro al quale mi riferisco è “Lezione di respiro” con il quale la Tyler ha vinto il Pulitzer nel 1988. Ma avrei potuto citare qualunque altro suo libro, per esempio “Un matrimonio da dilettanti”. A che cosa stai lavorando in questo momento? Hai un nuovo progetto di scrittura? Sto scrivendo un altro romanzo. Questo secondo romanzo, a differenza del primo, avrà come protagonista un uomo. La scelta è stata compiuta da tempo, ma ultimamente è stata rafforzata dai commenti dei lettori che hanno mostrato di apprezzare la mia capacità di penetrare il mondo maschile e di rappresentarlo. Voglio inoltre addentrarmi nelle ossessioni e nei disturbi psicologici. Alla McGrath o alla Mc Ewan, per intenderci, senza però abbandonare l’idea che anche ciò che apparentemente è inusuale, in realtà fa parte del quotidiano di molte storie. 27 maggio 2010