la moresca vocale

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LA MORESCA VOCALE: CARATTERI GENERALI
Gianpaolo Chiriacò
dispensa realizzata per il corso
di Etnomusicologia (prof. Gianfranco Salvatore), a.a. 2010-11
Nella loro forma essenziale, le moresche vocali appaiono come composizioni a più
voci (molto spesso a tre, ma anche a quattro e a sei), diffuse e pubblicate nella
seconda metà del Cinquecento. L’andamento ritmico irregolare, l’assenza di una
forma strofica, l’utilizzo di uno strano linguaggio – che unisce termini del dialetto
napoletano e uno strano pseudogergo africano, nonsense, versi d’animali e imitazioni
di strumenti musicali – sono elementi che rendono assai difficile la formulazione di
un’unica definizione.
Da tutti gli studiosi è stata notata una forte tendenza all’andamento parallelo tra le
voci. Una tendenza che è stata interpretata sia come indizio della parentela esistente
fra la moresca e la villanella sia come prova dell’origine popolare della moresca.
Sebbene la grana musicale delle moresche non spicchi in quanto a varietà melodica,
essa è sostenuta da un’accesa vivacità ritmica, che sorregge alla perfezione il rapido
scambio di battute fra i protagonisti. L’uso frequente di cambi di ritmo e una metrica
assai irregolare sono le risorse più utilizzate dai compositori di moresche. Ma
nonostante la frammentazione del tessuto musicale, le moresche mantengono una
significativa coerenza, strettamente legata ad alcune formule ritmico-melodiche
ricorrenti, e alle rispettive varianti.
Ciò che viene messo in musica – nella moresca vocale – è una rappresentazione di
dialoghi, realizzata attraverso quell’idioma composito ed eterogeneo che ne è una
delle caratteristiche principali. A tali dialoghi partecipano esclusivamente personaggi
che si autodefiniscono negri, e che molto spesso si identificano in esplicita
contrapposizione ai bianchi. La maggior parte di questi dialoghi descrive lo scenario
di una serenata, con uno o due personaggi posizionati sotto il balcone di una donna e
impegnati ad attirare l’attenzione di lei. Non è concepito il lieto fine in questi bozzetti:
i dialoghi possono evolversi in uno scambio di insulti e di invettive fra i protagonisti,
oppure in un canto mesto e solitario, o ancora nella semplice esaltazione della gente
negra, ma mai la donna amata e l’amante si ricongiungono in un quadretto felice. La
sostanza del lessico solitamente utilizzato nelle moresche è alquanto lascivo e volgare,
caratterizzato da un deciso intento parodico. «Tutto questo di una buffoneria intensa,
ma, a dire il vero, assai grossolana, per non dire sboccata1 ».
In estrema sintesi, i personaggi rappresentati nelle moresche sono schiavi (e liberti)
di origine africana. Questo è il dato più ovvio, immediato, nitido e incontrovertibile,
che possiamo desumere dai testi delle moresche vocali: esso viene specificato al di là
di ogni più ragionevole dubbio. Ciò nonostante, l’identità del nero e la sua
rappresentazione costituiscono gli elementi meno affrontati dagli studiosi che si sono
occupati in precedenza di moresche vocali.
LA QUESTIONE DEL “MORO” AFRICANO
Le occorrenze del termine “moro” nei documenti del Cinquecento – il periodo
storico di cui ci occupiamo – sono elusive e contraddittorie al punto che, in assenza
di ulteriori elementi chiarificatori (come ad esempio l’iconografia), identificare con
tale termine un’etnia precisa, o anche solo una generica provenienza culturale, risulta
assai problematico. Vale la pena di affrontare subito una rapida rassegna della
letteratura inerente per dare un’idea della complessità dell’argomento.
Già Paul Nettl, nel saggio che per primo si occuperà di seguire le tracce che dalle
moresche portano ai neri africani, rilevava il problema: «By “morisco” was meant
Negro, Moor, Mohammedan, or even sometimes Turk. And if the educated were
confused, we can understand that the common people made absolutely no
1
Van Der Borren C., Orlando di Lasso, Bocca, Milano, 1944, p. 118.
distinction2 ».
In tempi più recenti, la stessa questione è stata evidenziata da Kate Lowe: «To the
majority of Europeans, the defining feature of Africans was their skin colour, and
nothing else – whether area of origin, religion or previous occupation – mattered, and
consequently nothing else was recorded [...]. It is impossible to find out if the moro
discussed (as it were) in a letter in February 1486 is the same person as the nero
recorded in a will of 14943 »; e da Minnich: «The term mauro or moro could denot an
Arab or Berber, but also an Ethiopian or Sub-Saharan black African; it did not
necessarily apply only to Muslims. The term Aethiops was similarly ambiguous, for
in the Renaissance it could denote someone from Ethiopia proper but could also be
applied to a person living as far west as present-day Nigeria4 ».
Fra gli studiosi italiani, è Elena Ferrari-Barassi che descrive puntualmente la
questione: «Pare che in realtà “moro” e “turco” fossero termini press’a poco
equivalenti, designanti a volte anche i negri, che nel periodo rinascimentale si trovano
non di rado in Italia in qualità di schiavi. A un anonimo marinista accade di chiamare
“mora” una negra color ebano, vista alla finestra accanto a una bella donna5 ».
Dal punto di vista terminologico, quindi, la questione è tutt’altro che risolta, e
probabilmente non è risolvibile – se non caso per caso – in assenza di studi (e di
fonti) in grado di rischiarare il panorama. A dispetto di tale confusione terminologica,
però, è assolutamente certo che la moresca vocale si riferisca al nero africano. È
fuori discussione poiché la questione viene chiarita da ciascuno dei testi; la presenza
della gente negra (così solitamente si etichettano i personaggi delle moresche) diventa
allora un carattere fondativo delle moresche vocali. Fra le tante incertezze, la
moresca vocale offre nei suoi versi una chiave di lettura incontrovertibile: il moro è
un nero africano.
È da notare che in nessun altro contesto artistico, o culturale, del Rinascimento il
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3
4
5
P. Nettl, Traces of Negroid in the “Mauresque” of the Sixteenth and Seventeenth Century, in «Phylon», vol. 5, n. 2,
1944, p. 105.
K.Lowe, Introduction. The Black African Presence in Renaissance Europe, in T. F. Earle, K.J.P. Lowe, Black Africa
in Renaissance Europe, Cambridge University Press, New York, 2005, p. 6.
N.H. Minnich, The Catholic Church and the pastoral care of Black Africa in Renaissance Italy, ibidem, p. 282.
E. Ferrari-Barassi, La tradizione della moresca e uno sconosciuto ballo del Cinque-Seicento, in Lorenzetti R. (cur),
La moresca in aria mediterranea, Forni, Bologna, 1991, p. 59.
termine moro identifica in maniera così inequivocabile il nero africano. E tale identità
viene confermata anche per contrasto, giacché la gente negra viene spesso
contrapposta alla gente ianca. Si può quindi partire dal dato specifico – il “moro”
delle moresche è un uomo dalla pelle nera – come presupposto per una definizione
più ampia della moresca vocale.
MORESCA
VOCALE
E
MORESCA
DANZATA:
L’AMBIGUITÀ
TERMINOLOGICA
La problematica esistenza di due moresche diverse nella storia della musica
complica ulteriormente le ricerche. Una questione alla quale non è stato dato il giusto
rilievo da parte della comunità scientifica internazionale. Eppure risulta piuttosto
eccezionale il caso di una danza e di una forma vocale che portino lo stesso nome e
che però, almeno apparentemente, non condividano nessun elemento, né stilistico né
formale.
Con il termine di danza moresca si intendono almeno tre tipi differenti di danza
armata: una danza individuale, eseguita con l’ausilio di diversi “attrezzi di scena”
come campanellini o armi, e attributi di spettacolarità acrobatica; una danza di coppia,
che si diffuse più ampiamente a partire dalla fine del Quattrocento, e di cui ci dà
conto Baldassare Castiglione6 ; una terza danza “a schiere”, finalizzata alla
rappresentazione dello scontro fra due opposte fazioni. La prima di queste tipologie –
secondo l’interpretazione di Gianfranco Salvatore – sarebbe una forma di danza che,
per l’azione di intermediazione culturale dei giullari, subiva massicciamente chiare
influenze extraeuropee7 . La seconda, invece, come danza di corte ha avuto una
diffusione ampia nel periodo del Rinascimento e del Barocco, per poi però essere
sostituita da altre danze. La terza, infine, è la forma che – nel corso dei secoli – si è
6
Cfr. Baldassare Castiglione, Il Cortigiano, Mondadori, Milano, 2002 (a cura di A. Quondam).
Salvatore G., African Roots and Black Signifying in Renaissance Music and Dance: The “Moresca”,
relazione letta alla sezione chicagoana delle CBMR Serial Conference on the “Black Music Diaspora”, Febbraio, 2008.
7
diffusa in ambienti popolari (o è tornata a essere praticata dal popolo) e si è perciò
conservata in numerose tradizioni, in Italia come in Spagna, in Portogallo come in
Croazia – dove è ancora praticata, in alcune isole dell’arcipelago della Dalmazia –,
trasmettendosi fino a paesi dell’America Latina, come il Messico8 .
In tutte queste tipologie, peraltro assai differenti tra loro in quanto a pratiche
performative e a contesti esecutivi, la moresca porta con sé il suo fascino esotico, il
suo potere di rappresentare simbolicamente una battaglia, e una notevole vivacità
ritmica. Ma, al contempo, nessuna di queste pratiche svela con precisione il mistero
legato alle origini della moresca e ai suoi sviluppi, né chiarisce i diversi interrogativi
connessi al suo nome.
LA MORESCA: TRA MUSICA E CULTURA
Appare chiaro che le implicazioni musicali e culturali che questo genere contiene
sono numerose e difficili da analizzare; per di più le definizioni già esistenti non danno
conto, neppure formalmente, di tale complessità. Come si è visto, una delle
implicazioni che alimenta in maniera particolare la confusione che circonda la
moresca è quella legata all’esistenza storica di due tipi di moresche – l’una danzata e
l’altra vocale –, di solito studiati separatamente. Un’altra implicazione riguarda il
contesto sociale all’interno del quale le moresche sono nate. Ignoriamo, ad esempio,
il grado di interazione che potesse esistere fra il popolo napoletano e gli schiavi
africani operanti nelle case dei nobili. Allo stato attuale, una grande quantità di
interrogativi simili potrebbe essere formulata senza ottenere alcuna risposta.
Si può tuttavia ipotizzare che la visione offerta dalla moresca vocale è – per quanto
stereotipata e parodizzata – la visione del nero africano nel Cinquecento. Questa
visione si estendeva anche alla percezione della musica africana, quale poteva essere
8
Il libro curato da Roberto Lorenzetti, La moresca nell’area mediterranea, Forni, Bologna, 1991, permette di
comprendere la diffusione e l’evoluzione delle moresche popolari. Altri contributi vengono da studiose
contemporanee di danze di tradizione, come Barbara Alge e Ivana Katarinčić, che hanno fatto della moresca danzata
l‘oggetto delle loro ricerche.
occasionalmente eseguita dagli schiavi in Europa. Nulla sappiamo su queste eventuali
performance di musica africana sul territorio europeo e, ovviamente, nulla sappiamo
della musica che veniva suonata nel continente africano più di cinque secoli fa. In
ogni caso, non si può pretendere che la moresca restituisca, attraverso il filtro
tecnico del compositore, e attraverso il filtro della sua cultura di riferimento (quella
europea), elementi di musica africana pura. Per far sì che l’ipotesi risulti efficace
occorre verificare la presenza di tali filtri nelle moresche, e individuare tutti i modi in
cui i suddetti filtri operavano.
I TRATTI MUSICALI DELLA MORESCA
La complessità eterogenea degli elementi che compongono la moresca è data dal
fatto che ciascuna moresca vocale – sottoposta a un approfondito esame analitico –
si mostra come un insieme di differenti componenti, come se ciascun compositore
avesse a disposizione numerosi serbatoi a cui attingere i propri ingredienti, per
giustapporli insieme in una seconda fase. Il carattere di patchwork, così, diventa uno
dei tratti essenziali della moresca. Del resto, utilizzare elementi provenienti da sorgenti
diverse era una tecnica tipica del Rinascimento, come afferma Henke, occupandosi
della scrittura rinascimentale: «Renaissance writer often proceeded by piecing
together ready-made themes, situations and expression9 ». Henke collega questa
tecnica alle pratiche improvvisative: «The relationship between orality and literacy in
Renaissance drama may most frequently be characterized as mutual interaction and
negotiation10 ». Si vedrà in un altro contesto quanto la moresca vocale fosse
connessa a pratiche performative, dotate di un ampio grado di improvvisazione, qui è
importante sottolineare come la moresca vocale – in quanto genere tipicamente
rinascimentale – si caratterizzasse come un genere denso, o densamente informato,
9
10
Henke R., Orality and Literacy in the Commedia dell’arte and the Shakespearean Clown, in «Oral Tradition», Vol.
11, n. 2, 1996, p. 224.
Ibidem, p. 240 (corsivo nel testo).
ovvero ricco di elementi che andavano a costituire un’elaborata intertestualità.
La moresca vocale costituisce pur sempre un genere minore nel vasto panorama
della storia della musica del Rinascimento. Tuttavia, per le caratteristiche evidenziate
finora (la presenza di elementi che riflettono la “visione dell’africano del
Rinascimento”, la composizione di tasselli musicali e culturali eterogenei, etc.), non
può essere considerata semplicemente come un sottogenere (delle villanelle, o di altre
forme popolareggianti del tempo), come sovente è avvenuto finora, ma può – e deve
– essere elevata al grado di preziosa fonte di informazioni. Studiata da questa
prospettiva, la moresca vocale permette di acquisire informazioni significative sui
processi di stilizzazione attivi nel Cinquecento, e su come questi processi venivano
messi in atto nel mondo musicale. Informazioni utilizzabili, d’altra parte, anche per
comprendere meglio lo stereotipo riguardante l’uomo africano.
Gli autori di moresche e le influenze popolari
Analizzando gli spartiti a stampa delle moresche, emerge con chiarezza quanto esse
siano il frutto di una costante dialettica fra gli interessi – e il gusto – del compositore,
e gli input che a lui potevano provenire da più parti. Se, infatti, l’autore poteva
trovare nella rappresentazione del nero africano un interesse tale da giustificare la
realizzazione di uno o più brani classificabili come moresche, doveva comunque
tenere nella giusta considerazione il pubblico (e la finalità) a cui erano destinate le sue
pagine. Cosicché, abbiamo da un lato un’ampia varietà di immagini, idee, spunti
musicali, formule e convenzioni testuali, a cui il compositore faceva riferimento, e
dall’altro la necessità di catturare l’interesse del fruitore finale degli spartiti. Costui
era sicuramente attratto dall’esecuzione polifonica, pertanto la forma in cui le
moresche vocali sono state conservate è senza dubbio conseguenza di questa
necessità.
Di speciale interesse, per la nostra analisi, è invece il serbatoio di idee e di spunti a
cui ciascun compositore di moresche attingeva. Un serbatoio che includeva un certo
grado di originalità e un certo grado di elementi pre-esistenti. Tentare di stabilire il
livello precipuo di ciascuno di questi gradi è esercizio estremamente utile.
Molti studiosi considerano le moresche come una forma musicale di origine
popolare. Questa posizione, tuttavia, solleva un’ulteriore questione ancora tutta da
risolvere: occorre chiedersi, infatti, se le moresche siano nate come brani autonomi,
poi ripresi dalle mani dei compositori. Cioè, in altre parole, occorre domandarsi se
brani come Celum Calia o A la lappia fossero già conosciuti tradizionalmente in una
forma (più o meno) simile a quella poi riportata dai compositori, oppure il genio di
questi ultimi si sia imposto in maniera più netta sugli originali11 .
L’analisi degli spartiti, però, ha permesso di chiarire quanto quest’ultima sia
una falsa questione, dal momento che, come si è già visto, le moresche vocali
appaiono come un insieme di formule e soluzioni – musicali e testuali –, tutte, o in
gran parte, riconducibili a una grande quantità di ambiti differenti. Ma se la moresca
vocale può essere considerata un insieme di elementi eterogenei, dove risiede la
coerenza interna del genere moresco e di ciascun brano all’interno del genere?
Il ruolo del ritmo
Volendo approfondire i tratti tipici della moresca vocale, è subito evidente che il
profilo melodico delle moresche è spesso molto limitato nell’ambito, ripetitivo e
frammentato nella forma. Le frasi melodiche “moresche” sono estremamente brevi e
raramente superano la lunghezza media di un paio di battute. Le ripetizioni di singoli
frammenti melodici sono estremamente frequenti all’interno di uno stesso brano,
tanto che le idee melodiche contenute in ciascun pezzo si possono ridurre a due o tre,
in nome di un’economia di mezzi davvero sorprendente. Le frasi melodiche molto
11
Il saggio di Tullia Magrini, Dolce lo mio drudo: la prospettiva etnomusicologica, è uno strumento indispensabile per
comprendere come elementi tipici della musica popolare possano ritornare in contesti cólti. A questo proposito, è
molto utile anche citare una riflessione di Salvatore. Pur riferendosi, in particolare, ai rapporti fra la civiltà cristiana
e quella araba, essa, in generale, risulta particolarmente adatta a definire alcuni meccanismi operanti quando si
incontrano due diverse culture, qualsiasi esse siano: «le forme musicali vanno e vengono, nel corso della storia,
perché rispecchiano da vicino ideali, modelli e tensioni sociali che possono trasformarsi radicalmente in entrambe le
civiltà. Gli stili performativi (più o meno stridulo, più o meno emotivo, più o meno ornato, etc.) tendono a definire
invece le identità, o porzioni di identità, in maniera molto più costante». In Salvatore G., L’integrazione musicale fra
Europa e Islam (pp.193-233), in Zolo D./Cassano F., L’alternativa mediterranea, Feltrinelli, Milano, 2007.
spesso si attengono anche a un andamento per gradi contigui o, al più, si articolano
sulle triadi, spingendosi solo a volte fin sull’ottava: difficilmente, quindi, si
allontanano dai punti di più forte attrazione accordale, senza troppe “divagazioni”.
L’articolazione melodica diventa, così, talmente ristretta da apparire quasi pretestuosa
per i brani di questo genere. Sembra quasi che i compositori, nello scrivere le
moresche si disinteressino dell’aspetto melodico, spostando la propria attenzione su
qualcos’altro.
Su cosa, quindi, ponevano maggiore attenzione i compositori di moresche vocali?
Su quale elemento delle moresche vocali veniva imperniata la loro efficacia
comunicativa? Esse fondavano la propria capacità espressiva e rappresentativa sul
ritmo. È l’elemento ritmico a fungere da collante interno nel tessuto delle moresche e,
allo stesso tempo, a fornire a esse qualità espressiva: sulla componente ritmica si
regge l’intera cifra stilistica delle moresche vocali12 .
Il ritmo, com’è noto, è la componente musicale che ha a che fare con
l’organizzazione temporale dei suoni. È in questo senso che il compositore di
moresche manteneva un’attitudine prettamente ritmica. Ripetizione, aumentazione,
diminuzione, sono alla base delle moresche; ma sono espedienti utilizzati con
un’attenzione tutta rivolta al ritmo. Al punto che, talvolta, i connotati melodici
rimangono pressoché invariati, e i procedimenti quali la diminuzione vengono
realizzati semplicemente ribattendo la medesima nota, limitando così l’efficacia
espressiva ed esaltando la pregnanza ritmica, percussiva. L’ampio numero di
onomatopee conferma la tendenza evidenziata: esse infatti raramente assolvono a una
funzione melodica, mentre invece molto spesso sono un veicolo per incrementare la
tensione ritmica, o per alludere a un elemento percussivo della trama musicale.
Anche gli incipit dei brani – così importanti nella costruzione delle moresche,
giacché introducono immediatamente il fruitore nel caratteristico scenario sonoro e
teatrale – rivelano una preponderante funzione ritmica. Nelle moresche, cioè, anche la
melodia d’apertura si riduce a un breve ma incisivo motivo melodico, che ha più che
12
Come notava anche Nettl, op. cit.
altro funzione di richiamo (come Oh Lucia o Catalina) o di onomatopea (è il caso di
Tichi Toche): si tratta, infatti, in maniera preminente, di gesti sonori. Il valore ritmico
dell’incipit è confermato anche nello svolgimento del brano, in cui se le parole iniziali
del testo non ritornano mai, è invece estremamente facile ritrovare l’idea ritmica
dell’incipit in diverse sezioni del brano. L’impulso ritmico iniziale – e non quello
melodico – diventa così costitutivo dell’intero pezzo: esso lo apre, ne traccia la forma
sin dalla partenza, e conforma ad esso l’intero pezzo, confermando l’importanza di
tale impulso attraverso una ripetizione letterale eseguita più volte nel corso del brano.
Seguendo questa direzione interpretativa, anche l’assenza di una forma strofica
non fa altro che confermare l’importanza del ritmo nella concezione delle moresche.
Poiché l’elemento melodico non è determinante nella moresca, non sussiste il bisogno
di ripetere una melodia per affermarne l’importanza e ribadirne il significato. La
moresca si fonda sul ritmo, ed è alle reiterazioni di formule ritmiche – o meglio: alle
ripetizioni di formule ritmiche – che dobbiamo guardare per individuare la coerenza
interna delle moresche. Difatti, le ripetizioni di formule ritmiche sono talmente
presenti da costituire il nucleo portante delle moresche. È sulle ripetizioni ritmiche, in
sintesi, che si fonda la coerenza interna delle moresche.
IL MOTTO: DEFINIZIONE E RILEVANZA
Come analizzare, allora, la componente ritmica interna della moresca? Tutte le
moresche sono legate da alcune idee ritmiche comuni, e in particolare a una, la più
ricorrente, la quale – nella sua forma più sintetica e pregnante – è composta da due
semiminime e una minima:
Tale idea ritmica non è una semplice scansione, nel senso che non troviamo un
impulso nel brano che agisce come presenza persistente, come una pulsazione che
principia e termina con il brano stesso. Eppure l’idea ritmica è presente – seppure in
maniera latente – per lunghe parti di ciascun brano. Essa, fatta la propria comparsa
all’inizio del brano, può anche scomparire – per lasciare spazio a altre idee ritmiche –,
ma per riapparire poche battute più tardi, e poi ancora, con una certa frequenza.
È una componente ritmica, o ritmico-melodica, che rappresenta un nucleo centrale
della costruzione delle moresche, e va considerato come un elemento generativo da
cui nascono le variazioni e a cui si ritorna di volta in volta. Va notata inoltre la sua
capacità di informare gran parte del brano, di scomparire e ritornare, nonché di
servire come modello per le variazioni presenti nel testo musicale. Si presenta,
pertanto, come qualcosa di più di un’idea: essa è una formula ritmico-melodica, che
ha nella brevità e nell’incisività i propri principali attributi.
Ognuna di queste formule presenti può caratterizzare sezioni diverse di una stessa
moresca, ma è ancor più rilevante che il suo ritorno segnala sempre i punti più
significativi del testo, o quelli in cui si vuole accrescere la tensione drammaturgica.
Per questo motivo, la formula in questione, definita motto, pare avere un ruolo
significante nella struttura delle moresche. Esso è fortemente connotativo, e la
capacità espressiva e rappresentativa delle moresche si alimenta dei significati che il
motto riesce a veicolare.
Alla formula individuata abbiamo dato il nome di “motto”, perché questo è un
termine che ci aiuta a indicare al contempo la natura formulaica, la sua brevità e la
sua incisività. La funzione primaria del motto è quella di esprimere un gesto sonoro, e
questo ci riporta a (ri)considerare i contesti esecutivi e le pratiche performative della
moresca.
La moresca e le pratiche performative
La comprensione degli aspetti peculiari della moresca vocale non può prescindere
dalle questioni legate al contesto in cui essa veniva eseguita. Gli spartiti che noi
possediamo, con il consueto apparato polifonico, erano di certo destinati a
un’esecuzione privata; ciò nonostante, non può essere esclusa, per la moresca
vocale, l’esistenza di altri contesti esecutivi, anche precedenti alla pubblicazione delle
raccolte che conosciamo.
D’altronde, tanto le fonti critiche quanto la stessa morfologia dei testi delle
moresche rendono concreta l’ipotesi dell’esistenza di una forma scenica parodicorappresentativa dei neri africani, che incorporava la danza, il canto, e – più in
generale – la performance teatrale. Questo aspetto della questione si porrebbe
perfettamente in linea con gli studi pubblicati di recente sulla moresca vocale, e che si
focalizzano sugli elementi performativi desumibili dai versi delle moresche13 . Tutto
ciò induce a riflettere, ma da un punto di vista performativo, sui legami esistenti fra le
moresche danzate e le moresche vocali.
Se, infatti, le presumibili relazioni fra moresche danzate e moresche vocali non
emergono chiaramente dalle fonti dell’epoca, ciò non ci esime dal ricercare eventuali
attestazioni per altre vie. Alla ricerca di tali possibili relazioni, potremmo citare tre
fonti critiche, a cominciare da un passaggio della Galanti, che cita Meschke: «Il
Meschke ricorda una danza della spada pure a Napoli, in cui, durante il Carnevale,
uomini del basso popolo son soliti mascherarsi per danzarla sotto le finestre delle
amanti14 ». In questo breve passaggio abbiamo un riferimento alla pratica della danza
armata, ma allo stesso tempo c’è un rapporto diretto con le moresche vocali, le quali
mettono spesso in scena dei dialoghi «sotto le finestre delle amanti».
Beatrice Premoli, a sua volta, fornisce indicazioni assai interessanti sebbene non
rendano più visibili i crinali fra le differenti forme: «Attingendo al repertorio popolare
o popolareggiante, [la moresca] rappresenta parodie di corteggiamento, carole di
fertilità, scontri tra villani, battaglie di selvatici, mestieri umilmente artigianali o temi
13
14
Cfr. in particolare: Farahat M., Villanesca of the Virtuosi: Lasso and the Commedia dell’arte, in «Performance
Practice Review», Vol. 3, n. 2, Autunno 1990, pp. 121-137; Katritzky M.A., Orlando di Lasso and the Commedia
dell’Arte, in Schmid B., Orlando di Lasso in der Musikgeschichte, Bayerischen Akademie der Wissenchaften,
Monaco, 1996, pp. 133-155; Cardamone D.G./Corsi C., The Canzone Villanesca and Comic Culture: The Genesis
and Evolution of a Mixed Genre (1537-1557), in «Early Music History», Vol. 25, 2006, pp. 59-104.
Cfr. Galanti B.M., in R.Lorenzetti, La moresca nell’area mediterranea, Forni, Bologna 1991, p.15.
erotici; ma questo repertorio si traveste, a volte, di fiaba mitologica, si trasforma,
sulla scorta della filosofia neoplatonica, in allegoria erudita, capace di esprimere le
attese di un ritorno all’Età saturnina, con esiti nel topos encomiastico tipicamente
umanistico15 ».
Anche Michele Rak, inserendo le moresche nel contesto del teatro di strada – il cui
sviluppo massimo avvenne però soltanto nel
XVII
secolo – sembra non fare molta
differenza fra le moresche danzate e quelle cantate. Allo stesso tempo, però, dà conto
di spettacoli in cui agiscono (attori travestiti da) schiave e schiavi neri, laddove la
donna si comporta in maniera assai libertina, divincolandosi fra più amanti16 .
È lo stesso scenario rappresentato dalle moresche vocali di cui ci occupiamo. In
esse, schiavi neri interloquiscono fra loro in diverse modalità: invocazioni, soliloqui
densi di autocommiserazione, dialoghi, e quant’altro. Nei testi delle moresche, inoltre,
si trovano inserite interpolazioni provenienti da altri testi, oppure intermezzi
strumentali di liuti, tamburelli, e a volte anche trombe, tutti rappresentati da
onomatopee piuttosto tipiche17 .
Nondimeno, il riferimento a forme sceniche, coreutiche, o musicali del tempo –
affini per argomento e per destinazione a ciò che conosciamo delle moresche vocali –
non esaurisce del tutto la questione. Occorre, infatti, riflettere sul fatto che quanto
noi conosciamo delle moresche vocali sia frutto di un interesse specifico di alcuni
compositori, nonché del loro pubblico. Tali compositori possono aver attinto l’idea, i
personaggi, gli espedienti umoristici, dalla cultura popolare, ma al contempo hanno
interpretato tutto secondo la loro personale formazione, il proprio gusto, lo stile
peculiare, per dirla in una sola parola: secondo la propria cultura. Sarebbe perciò
inopportuno, si è visto, interpretare il ruolo di questi compositori come quello di
antropologi, che riportano quanto osservato con una più o meno presunta
15
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17
Premoli B., Note iconografiche a proposito di alcune moresche del Rinascimento italiano, in R.Lorenzetti, La
moresca nell’area mediterranea, Forni, Bologna 1991, p. 44 (corsivi nel testo).
Cfr. Rak M., Napoli gentile. La letteratura in «lingua napoletana» nella cultura barocca (1596-1632), Mulino,
Bologna, 1994, pp. 99-134.
Anche in altri generi del Cinquecento, infatti, il liuto veniva interpretato, onomatopeicamente, con una
vocalizzazione sulle lettere “l” e “r”, come in lirun, lirun, lirun, li. Quando, invece, si vuole rappresentare un
tamburo (o un tamburello, nel caso delle moresche), si usano formule simili a quelle che troviamo nelle moresche:
tron, tron, trichi tron, tron tron.
obiettività18 . Essi, al contrario, erano compositori, i quali componevano riportando su
carta la propria creatività, e venivano di conseguenza pubblicati se il frutto del loro
sforzo intellettuale incontrava l’interesse del pubblico. L’obiettivo, quindi, non era
certo riportare quanto osservato ma interpretare degli spunti provenienti da ambienti
differenti (quello popolare, o quello “moresco”) secondo le regole, lo stile, il
linguaggio proprio di chi leggeva, ed eseguiva, la musica al tempo.
In nessun modo, però, questo riduce il nostro interesse nei confronti delle
moresche vocali, e neppure elimina la possibilità di reperire – attraverso lo studio e
l’analisi degli spartiti a stampa del tempo – informazioni utili sulla presenza e sulla
rappresentazione del nero africano nel Cinquecento italiano19 . Per tutte queste ragioni,
è importante inquadrare le moresche nella cornice dei compositori del Cinquecento, e
del loro ruolo sociale e artistico per i compositori di moresche esisteva, infatti, pur
nella necessità di attenersi al gusto e alle richieste del pubblico del tempo, un
ventaglio di scelte musicali, di possibilità stilistiche differenti.
La performance moresca e gli ambienti napoletani
Il primo (e unico) libro interamente dedicato a moresche è stato pubblicato nel
1555 da Barré, editore e prete francese, a Roma. Secondo l’opinione della
Cardamone, nella capitale si era creato un ambiente favorevole alla derisione e alle
parodie dei musulmani20 . Questo per contrastare (o esorcizzare) il potere che in
quegli anni le armate turche detenevano in tutto il Mediterraneo. Esisteva inoltre, nella
capitale, un pubblico in grado di apprezzare ed eseguire le trame polifoniche di cui si
costituivano le moresche.
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In merito ai rischi e ai vantaggi connessi a questo tipo di approccio, sono illuminanti alcune pagine di Ginzburg, cfr.
Ginzburg C., L’inquisitore come antropologo, in Ginzburg C., Il filo e le tracce. Vero falso finto, Feltrinelli, Milano,
2006, pp. 270-280.
Sulla possibilità di utilizzare modelli e metodi delle nuove correnti storiografiche in ambito musicologico, cfr.
Besutti P., Storia, musica e musicologia in Italia nell’età della “rivoluzione” storiografica, in Le discipline
musicologiche: prospettive di fine secolo, volume monografico della «Rivista Italiana di Musicologia», XXXV,
2000-2001, pp. 21-66.
Sulla questione, sono illuminanti tre articoli di Cardamone: The Debut of Canzone Villanesca alla Napolitana; The
Prince of Salerno and the Dynamics of Oral Transmission in Songs of Political Exile; Orlando di Lasso and proFrench Factions in Rome, tutti in Cardamone D.G., The Canzone Villanesca alla Napolitana, testo citato.
Ma se le principali pubblicazioni di moresche ci conducono a Roma o a Venezia, è
nella Napoli del Cinquecento che bisogna ricercare l’animo profondo di questa forma
musicale. Come ci mostra Guido D’Agostino21 , nella città dei viceré era sempre vivo,
almeno dal 1496, lo scontro tra il popolo e la nobiltà cittadina che si contendevano i
maggiori privilegi concessi attraverso i «capitoli». Tra questi privilegi, riconosciuti ai
cittadini di Napoli e non estesi al resto del regno, vi era anche quello di poter praticare
la schiavitù.
Nei quartieri partenopei, peraltro, il popolo – nelle sue componenti più attive come
in quelle più povere – e le stesse classi privilegiate vivevano a stretto contatto, molto
più di quanto non succedesse in altre città del tempo: tale vicinanza portava a
condividere le sorti politiche, ma anche ad alimentare contrasti, invidie e tensioni
sociali. È in un ambiente del genere che si è fatta strada la pratica di inscenare
moresche, come parodia degli schiavi neri già presenti nella città di Napoli22 . La
pratica, che in tutta probabilità si era originata in ambienti popolari, fu imitata dai ceti
superiori di lì a breve. Difatti, la moresca vocale sarebbe forse sconosciuta oggi se
non fosse stata coltivata all’interno delle accademie, nella seconda parte del
Cinquecento. Erano, queste, congreghe che si riunivano per condividere un diletto
che oggi definiremmo “di natura intellettuale”, ma senza trascurare gli interessi
economici, o i legami politici da coltivare. Di certo, non veniva trascurata la pratica
musicale, ovvero l’esecuzione di brani polifonici, intonati dagli stessi appartenenti.
Nelle accademie napoletane, inoltre, prese piede anche una curiosità di tipo
protoantropologico nei confronti della cultura popolare, espressa da un ceto urbano
che si stava affacciando sulla scena politica, oltre che sociale, nella Napoli del tempo.
Del resto, gli ambigui23 intrecci sociali della capitale partenopea tra Quattro e
Cinquecento, riscontrabili fino a tutto il Seicento24 , lasciano intravedere, in questo
interesse che abbiamo definito protoantropologico, un reticolato di fragili alleanze
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D’Agostino G., La capitale ambigua. Napoli dal 1458 al 1580, Società Editrice Napoletana, Napoli, 1979.
Leone A., articolo citato.
Cfr. D’Agostino G., La capitale ambigua. Napoli dal 1458 al 1580, Società Editrice Napoletana, Napoli, 1979.
Un suggestivo quadro della complessità dei rapporti tra i ceti attivi a Napoli ai tempi della rivoluzione, e tra le loro
rispettive espressioni culturali, si ricava dal saggio di P.Burke, La Madonna del Carmine e la rivolta di Masaniello,
in Burke P., Scene di vita quotidiana nell’Italia moderna, Laterza, Roma-Bari, 1988.
unito a un sottile gioco politico, il cui esito era, ovviamente, una notevole interazione
culturale tra ceti opposti. L’esistenza delle accademie contribuì ad alimentare il florido
mercato di pubblicazioni a stampa di brani vocali polifonici: non a caso, anche la
tradizione delle moresche si espresse attraverso l’uso di trame polifoniche (a tre, a
quattro o a sei voci).
Sintetizzando, il generico interesse per il diverso – seppur interpretato in chiave
parodistica – e la pratica del cantare insieme contribuirono in maniera fondamentale
alla formazione di quel terreno fertile che ha permesso la nascita e lo sviluppo delle
moresche vocali.
CONCLUSIONI
La moresca vocale, per concludere con una definizione più ampia, si è sviluppata
in una zona ristretta dell’Europa, in un periodo circoscritto a poco più di
cinquant’anni. Spinti, probabilmente, dal desiderio di cimentarsi in esperimenti esotici
e parodistici, alcuni fra i più importanti compositori del tempo inserirono – in raccolte
destinate a generi vocali più noti come le villanelle, le villotte, i madrigali, etc. – una
manciata di brani definiti (molto spesso da loro stessi) moresche.
Il termine moresca vocale connotò così una forma musicale eteroclita, il cui tratto
caratteristico principale è la messa in musica di un dialogo fra schiavi africani. Nella
maggior parte dei casi, il dialogo si compone di serrati scambi fra due o più
personaggi, scambi la cui natura varia all’interno di un ventaglio che va dal
corteggiamento all’invettiva; talvolta, però, il dialogo incorpora l’espressione di un
incitamento che era prevalente nelle primissime moresche vocali stampate. Un
incitamento rivolto ai mori della genta negra affinché si schierino contro la genta
ianca (il caso più eclatante di quest’ultima categoria è la Bataglia Moresca di De
Reulx). Esiste, quindi, una componente “razziale” della moresca, in cui il nero
africano non si rivolge (solo) alla donna amata ma alla sua gente, alla sua comunità. È
questo un elemento sostanziale della moresca, che apre scenari di indagine molto
vasti – per quanto ardui –, e dall’enorme significato storico-culturale, con cui gli
studi futuri si confronteranno a lungo, nel tentativo di portare maggiormente alla luce
tutti quegli elementi che qui sono stati evidenziati.
Dal punto di vista musicale, la struttura della moresca vocale si regge sull’esistenza
di formule ritmico-melodiche ricorrenti, che hanno valore fondativo, e che sono state
definiti “motti”. La presenza dei motti allarga il campo di indagine in tre direzioni. In
particolare: 1) l’intertestualità di queste formule ritmico-melodiche, ovvero il loro
utilizzo in altri generi e diversi contesti del medesimo periodo, offre la possibilità di
ricostruire la provenienza dei numerosi elementi che andavano a confluire nella
moresca vocale, secondo il gusto e lo stile del compositore; 2) il valore di “gesto
sonoro”, proprio di queste formule, porta a individuare il contesto esecutivo delle
moresche nell’ambito di pratiche performative più complesse; 3) il “motto di
moresca” connota a sua volta una stilizzazione utile a rappresentare la presenza del
nero africano nella cornice sociale del Cinquecento.