Tempo presente - ASST Rhodense

Transcript

Tempo presente - ASST Rhodense
Emanuele Torreggiani
Tempo Presente
Istantanee da un campo di battaglia
romanzo
Non cercate la resurrezione della carne, ma dalla carne.
Enneadi, Plotino
EMANUELE TORREGGIANI
cronista
Via Cavour 19
Magenta 20013 (MI)
- Quante volte bisogna morire per imparare a vivere?
Così ti sarai mille volte domandato Francesco Tunda davanti ai mille volti che hanno accompagnato la tua
domanda.
E adesso, tu seduto al tavolino di un caffè all'aperto nella piazza dominata dalla Cattedrale, sai dire la
risposta.
La sai, adesso che sei andato incontro alla guerra.
Adesso che hai imparato a stare in ascolto del grande lamento che veniva dal sottosuolo.
La morte aveva affondato le sue mani nella vita dell'uomo.
La guerra.
- Oh, la guerra.
E in questo suono ti sei riconosciuto.
A te, come a tutti quelli della tua generazione, era mancata la guerra.
- Oh, la guerra.
La lunga orazione che ti aveva accompagnato per tutti i tuoi anni. Orazioni e lacrime. Ma quelle lacrime,
che avevi visto scorrere lungo volti ormai antichi, totem davanti al viaggiare della vita, fatti tutti i conti
non erano le tue lacrime.
- Non lo erano ancora. Potrai dire adesso.
E allora tu sei voluto andare.
Vedere la guerra.
Ascoltare il grande lamento.
La guerra.
Un suono fasciato di sangue.
*
Fu verso le nove di sera, vigilia di Pentecoste, una pioggia fredda, violenta, luminosa. Annuncio di bora.
Viaggiò tutta la notte. Ed il mattino appresso le colline già verdi sgelavano il nevischio dentro un cielo
terso. La giornata si annunciava tiepida. Bella da vedere.
Per il lungo tratturo che conduce alla città, ancora non la si avvista là nella valle, una cengia sterrata
ricavata sugli strapiombi del fiume incassato, ti indicano, per accompagnare la via, nitide nere croci.
- Ferro inchiodato col ferro. Ti sei detto.
Le prime che tu avessi mai visto così superbe di morte, campeggiare davanti allo splendido palcoscenico
offerto dalla natura.
- Quante volte bisogna morire per imparare a vivere? Ancora non avevi imparato a domandarti, Francesco
Tunda, riprendendo dall'ultimo posto di blocco, nido di mitragliatori, cavalli di frisia, spirali di filo spinato,
dove hanno controllato i vostri documenti e lasciapassare e scrutato i vostri volti e ammonito.
- Giorno di tregua. E' stato detto.
- Anche ieri c'era la tregua.
- Otto morti e venticinque feriti.
- Questa la tregua, giornalisti.
I soldati sono ragazzi, siedono sui sacchetti di sabbia e fumano. Sorridono ai fotografi e levano le due dita
in segno di vittoria.
Scattano i flash.
- Oh, la guerra.
E adesso, dalla grandiosa corte della tua memoria dove nessuno è mai morto davvero e nessuno vive
davvero si sporge quel soldato, giovane e bello, con gli occhi miti della truppa, occhi inconsapevoli, che si
era alzato per risponderti sulla via da seguire e staccando la mano dall'anca ti aveva indicato, misurando il
silenzio, spazi lontani, verso occidente. Eccola quindi adesso quell'immensità indicata.
L'Occidente, un'immensità priva di promesse. Il silenzio.
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Ti eri detto, per anni, che ti mancava la guerra.
La strada scende nella valle.
Ultimo cartello.
Zona di guerra.
- Sei ancora in tempo a scendere. Ti sei detto.
- Devi dirtelo. In verità l'hai pensato.
La strada curva e sprofonda nella valle.
Luce e silenzio.
- Oh, come ti batte il cuore.
Se vuoi respirare devi farlo a bocca aperta.
- Oh, come ti batte il cuore.
Dunque eccola, la guerra, come ti si è offerta nel suo accecante panorama.
- Oh, come ti batte il cuore.
Bui, dentro un cielo terso che non hai allora esitato a definire di azzurra arroganza, i bianchi grattacieli
del centro direzionale commerciale e turistico ustionati dal fosforo.
Tombe vuote.
E d'intorno, nell'infilata del tuo sguardo, la cascata delle case, le direttrici viarie, i dedali di vicoli e
cortili, gli slarghi, le piazze, gli ampi parchi. Un agguato di pietre e travi e ferri e legni e finestre e porte
spalancate.
E silenzio. E luce. E silenzio.
- Oh, come ti batte il cuore.
Se vuoi respirare devi farlo a bocca aperta.
Nel silenzio il tuo sguardo entra in un soggiorno intonacato a calce che impenna stravolta l'architrave
maestra sorretta dal pallido legno contorto della libreria e già mostra il vasellame tritato della cucina
sfondata dentro la camera da letto dove, davanti all'unica poltrona di marocchino rosso ricevuta in
eredità, l'anta dell'armadio sbatte, aprendosi e chiudendosi, sui ricami rosa di un abito da sposa.
E guizza il ratto.
- Oh, come ti batte il cuore.
Se vuoi respirare devi farlo a bocca aperta.
- Quante volte bisogna morire per imparare a vivere? Adesso saprai dire Francesco Tunda davanti a quella
città dove i soldati attraversavano di corsa gli incroci e rasentavano i brandelli di muro.
- Oh, come battono i cuori.
E sulle loro spalle adolescenti, ingigantite dalle uniformi mimetiche, tra la polvere dei calcinacci, visibile
scorreva il fremito della paura. Respiravano a bocca spalancata. Uomini.
Luce omogenea. Non arretrava negli anfratti, nei corridoi, nei pertugi. Non costruiva zone d'ombra. Luce
accecante.
La città era aperta. Scoperchiata dentro quella luce. Una visione, l'istantanea infilata del tuo sguardo, di
strangolata bellezza. La forma compiuta della distruzione.
La città era lì.
Adesso, a distanza di anni, la vedi in ogni suo luogo.
- Una coppa di luce ricolma di sangue. Potrai dire.
- Oh, come ti batte il cuore.
Se vuoi respirare devi farlo a bocca aperta.
- Dove sei dio? Ti sei domandato.
E adesso tu sorridi, Francesco Tunda, scuotendo il capo, a quella tua banale, sciocca quindi arrogante,
domanda.
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- Dove sei dio? Ti eri domandato.
Era lì. Lì. Davanti ai tuoi occhi. E tu gli stavi andando incontro.
- Dio si mostra sui campi di battaglia, nudo.
Sei entrato nel silenzio della bellezza strangolata di vie dal rigore geometrico. L'angolo retto del lastrico
levigato. Nel silenzio di imperi sconfinati nella polvere.
- Polvere illirica. Polvere romana. Polvere ottomana. Polvere ausburgica.
- Granuli.
Bronzo e pietra macinati con le foglie morte dei tigli trebbiati dalle raffiche.
E silenzio. Luce e silenzio.
Scartando tra il pietrame rotolato sul selciato battuto dalle granate la natura, liberata dagli uomini
consacrati alla guerra, riconquistava terreno. E lì, sull'ingresso di quello che era stato presumibilmente un
asilo, cresceva la rosa canina, il sambuco e il fico selvatico. Avanguardie primordiali che restituivano alla
valle le forme originarie. Le colline brune, le rocce grigie, le rocce bianche, le rocce rosa, i cedri verdi, il
cielo azzurro, l'andare del fiume. Il silenzio delle acque, il silenzio dell'aria, il silenzio del bosco. Forme di
una natura disabitata.
- Oh, non ti batte più il cuore.
Rintanato. Acquattato nella profondità del tuo corpo. La tua bocca spalancata, nuda al respiro.
Nella città scoperchiata dentro quella luce omogenea si mostrava un ordine estraneo ad ogni teologia.
- Un ordine dipinto. Così ti sei detto.
- Un ordine primordiale al respiro, al battito, al movimento. Un ordine nel quale il tempo è sconosciuto.
Un ordine nel quale la vita umana non trova forma. Era stata ripudiata. Uccisa.
- Oh, come ti batte il cuore.
Se vuoi respirare devi farlo a bocca spalancata.
La città mostrava, in quella luce omogenea, il disordine statico della creazione primordiale disabitata dalla
parola di dio che aveva vinto il mondo.
Caverna a cielo aperto.
Nel silenzio del battito del tuo cuore hai percepito l'eco di un grande lamento. Veniva dal sottosuolo.
Visceri.
Caverna di urla senza uscita.
Il suono della guerra.
- Oh, come ti batte il cuore.
Se vuoi respirare devi farlo a bocca spalancata.
- Oh, il colpo del mortaio. Trema la terra. Trema il cielo. E batte il cuore.
- Questa città vive infossata nel suo ventre. Nel suo sottosuolo. Visceri. Così ti sei detto dentro quella luce
accecante. Dentro il silenzio della città dove il battito del tuo cuore era senza respiro, oscurato da una
luce senza sole, senza prospettiva.
Anche gli animali più domestici avevano abbandonato la città. Avevano cercato scampo nel fitto dei boschi
urlando in fuga dai lamenti che non riuscivano più a sopportare degli uomini accecati quindi preda del
terrore.
- Oh, come ti batte il cuore.
Se vuoi respirare devi farlo a bocca spalancata.
- Oh, il colpo del mortaio. Trema la terra. Trema il cielo. E batte il cuore.
- Dove sei? Ti eri domandato.
- Fasciato nel suono della guerra. Ti sei detto.
Erano anni, i tuoi anni, che andavi cercando questo luogo dominato da singoli istanti. L'istante della vita.
L'istante della morte.
Ti accoglieva la guerra, nella sua definizione di tregua, al tocco del mortaio e della mitraglia. Aveva
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bussava al tuo destino.
Eri entrato nella caverna a cielo aperto. Nel tuo sangue scorreva la paura.
- Oh, come ti batte il cuore.
Se vuoi respirare devi farlo a bocca spalancata.
- Oh, il colpo del mortaio. Trema la terra. Trema il cielo. E batte il cuore.
Sul piazzale antistante l'ospedale, dove nell'inverno gli alberi sono stati segati al suolo, un ufficiale con tre
soldati di scorta si è presentato.
- Signori. Mi è stato comandato di accompagnarvi a vedere la guerra. Bene, seguitemi in fila indiana. Ha
detto.
- Oh, come ti batte il cuore.
Batteva il cuore.
*
I blindati, a tutela della tregua, vanno e vengono in uno sventolio di bandiere sudice di fango. E sventolano
lungo il viale dei Tigli le tovagliette dei due caffè occupati da militari smontati dal turno di guardia. Tu e il
Capitano sedete al sole fermo di mezzogiorno, respirate l'odore di grasso minerale e lozione da barba e il
profumo dei cedri. Respirate la polvere. In alto il ronzio di un caccia sorvola circolarmente la caverna a
cielo aperto, a tutela della tregua.
Di là dal palazzo di sei piani che protegge il viale, la linea del fronte cittadino.
Di là dal palazzo ustionato una luce che non conosce tregua radia gli interni delle case, i giardini di peschi
e ciliegi.
Fitto lo sciamare degli insetti.
Di là dal viale la radura di macerie.
Neppure l'eco di un colpo isolato perfora il silenzio.
- Ma adesso andiamo. Così il Capitano.
- Avanti signori, venuti fin qui per vedere.
In un crescendo di macerie hai guadagnato la prima linea. Il Capitano apre in avanguardia di sette passi,
due soldati ti serrano i fianchi. Un altro copre le tue spalle.
Davanti ti si mostra la terra di nessuno.
La zona morta.
Il sole si cristallizza in mille riflessi di vetri e porcellane sbriciolate. Lontananze di secolari abitazioni.
Superba distruzione.
Lì, oltre il terreno minato, a tiro utile, i fortilizi degli altri.
- Oh, gli altri.
- Cosa devo fare io? Cosa devo fare, io ho voglia di vivere ma mi vergogno. Mi vergogno davanti a tutti
questi morti. Mi vergogno. Mi dica lei giornalista, voi che sapete, cosa posso fare io. Io, una vedova di tutti
i suoi figli.
La vestaglietta di cotone le si apre mostrando una carne trasparente dove le vene affiorano e il sangue
pulsa. Lei non ci bada. La donna abita in prima linea.
Annaffia allo scoperto, nel caldo sole, la verdura in un odore di carne morta.
- I pazzi non vengono uccisi. Così il Capitano.
Dal terreno che la donna ha vangato affiorano teschi.
Come un cigolio ha accompagnato le parole della donna che subito ride. Ride. Una gallina beccava nel
cranio spaccato di un sepolto. La donna ride.
- Capitano, passa da me questo calice. Avresti voluto dire ma non hai osato. Quel giorno non hai osato.
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I soldati tacevano guardandosi attorno con apprensione.
*
- Entrare. Ha ordinato il Capitano.
Hai lasciato Il sole del primo pomeriggio. Il silenzio immobile. La risata della donna che prova vergogna.
Sei entriamo in un pertugio tra le macerie. Disceso nel buio. Calato dentro la bocca del sottosuolo. La
torcia all'ingresso illumina debolmente.
- Stare bassi.
- Giù la testa.
Ti viene in faccia subito il puzzo caldo della trincea. L'odore del vomito, della diarrea, del piscio, della
merda, dell'hascisch, dell'alcool. Carponi nella fanghiglia. Cento metri, una torretta di guardia. Un metro
cubo di sacchetti di sabbia, un periscopio dentro una feritoia, un soldato.
Gli altri sono lì davanti. Venti metri. La prima linea.
- Oh, gli altri.
Il soldato di guardia è seduto su una poltroncina di vimini. Il mitragliatore al fianco, bombe a mano,
maschera antigas.
- Nessun problema. Dice il Capitano.
Alla luce che cade nel riflesso degli specchi il soldato sta leggendo. Tu scosti la copertina. Lui non dice
nulla. Scendi Mosè di William Faulkner.
Molto tempo prima, questo soldato di ventisette anni, insegnava inglese in un liceo. Così ti è stato detto
testualmente, tempo dopo.
- Avanti. In silenzio. Così il Capitano.
Si deve risalire. Nello scoperto che acceca. Il respiro è avido.
- Silenzio assoluto.
Tre metri dagli altri.
- Oh, gli altri.
Il respiro è avido.
Dalla postazione hai visto nitidamente i sacchetti di sabbia e le feritoie.
- Oh, gli altri.
L'aria è immobile.
- Piano.
- Uno per uno.
Esegui l'ordine di salire per i gradini di un palazzo. Il corpo dell'edificio è cavo. La scalinata centrale,
qualche brandello di muro portante.
- Stai rovistando in un teschio. Ti sei detto.
Il Capitano conduce dentro la terra di nessuno. Nel mezzo delle linee. Dall'alto, l'ultimo piano, il quarto, i
fotografi scattano sui fronti.
- Aria buona. Dice il Capitano.
- Buona vista. Dice il Capitano.
- Interessante panorama. Dice il Capitano.
Ma non ci sono morti. Non ci sono spari. Non c'è il sangue. Insomma, non c'è la notizia.
Fatti tutti i conti dov'è la notizia?, diranno.
Quale agenzia acquisterà mai il grand'angolo di un campo di battaglia che tace.
Fatti tutti i conti dov'è la notizia?, diranno.
Quale agenzia acquisterà mai il primo piano di un campo di macerie.
Fatti tutti i conti dov'è la notizia?, diranno.
Quale agenzia acquisterà mai il dettaglio di una scarpa da tennis fusa dal fosforo nel cemento.
Fatti tutti i conti dov'è la notizia?, diranno.
Il Capitano ha riposto l'automatica. Si leva in piedi. Mostra il suo corpo.
- Il cadavere? Domanda.
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- Ecco il cadavere. Dice il Capitano.
- Bella casa. Dice il Capitano.
- Ottima costruzione. Dice il Capitano.
- Anche una camera con vista. Dice il Capitano.
- Bella la vita. Dice il Capitano.
- I cecchini? Tu hai domandato.
- Se sparano si muore. Ha detto il Capitano.
- Aspettiamo la granata. Ha detto il Capitano.
- Aspettiamo con fiducia. Ha detto il Capitano.
- Scendi Mosè. Avresti voluto dire al Capitano. Ma non l'hai fatto.
- Eri nella guerra. Ti sarai detto in silenzio.
E ti sei alzato. Il respiro avido nell'aria immobile.
Ti sei alzato. Macerie e macerie e macerie. Scendi Mosè. Macerie a perdita d'occhio. Macerie e silenzio.
Scendi Mosè.
Poi tre colpi, quattro colpi, una raffica. Saranno esplosi a trecento metri. Forse dieci. Forse sul muro del
palazzo cavo. Giù di corsa. Giù nella terra. Giù nell'impasto della natura umana.
- Oh, gli altri.
- Oh, gli altri che quel giorno non hanno voluto uccidere.
- Nessuno è riuscito a fotografare almeno la raffica. Tu avrai sentito dire poi, testualmente.
- Nessuno mai. Così il Capitano.
Siete a ridosso del fiume. Non lo si vede. Si sente l'acqua che va. Dal periscopio della torretta vedi le
vestigia di un ponte.
L'arco proteso nel vuoto.
- La morte di Icaro. Ti sei detto. E hai annotata la tua immagine sul taccuino consapevole che, fatti tutti i
conti, non fa notizia, come ti diranno.
Manovrando il periscopio vedi le vestigia degli alberghi. E sacchi e sacchi e sacchi di sabbia. Scorgi un filo
di fumo.
- Oh, gli altri.
E silenzio.
- Avanti, signori.
Ecco. La postazione collima con quella degli altri. Due metri dividono. Un filo di fumo. E silenzio.
- Avanti, signori.
Si devia nella terra. Dentro la terra si risale, un tratto allo scoperto e si vede il fiume. Otto metri dagli
altri. Respiri a bocca spalancata. Il fiume scorre nella gola. Silenzio. I gabbiani stallano poi nella caduta
cabrano improvvisi, da un lato e dall'altro della prima linea.
- I ragazzi che hai incontrato sono i più belli del mondo. Ti sei detto.
- I combattenti sono i migliori uomini del mondo. Ti sei detto.
- Avanti, signori.
- Stare bassi.
- Giù la testa.
*
- Vuoi far cambio con la mia dannata vita? La voce ti prende alle spalle. Ti volti nell'oscurità.
Scorgi un profilo di un volto rischiarato da una luce che cade, riflessa da un periscopio.
Un giovane soldato, scolpito nella trincea, ti ha posto la domanda.
Ti vede sbigottito e sorride. Forse non si aspettava una tua risposta.
Ma adesso sei tu che non puoi evitartela. La sua domanda è precisa.
- Vuoi far cambio con la mia dannata vita? Ti ha chiesto.
A te, Francesco Tunda.
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- Il mio cuore è con quelli di prima linea. Il mio cuore è con quelli che si fanno uccidere... soldati,
missionari... così avresti voluto dire al giovane soldato.
Ma non l'hai detto. Non lo potevi dire. Non puoi dire nessuna di queste parole.
- Sei un principe davanti al mare della morte. Ti compiaci di dirti.
Tu che ti sei scelto il privilegio di solo vedere. Vedere la morte senza subirne. Dunque non sono tue quelle
parole. Non hai diritto di parola. Quelle parole non sono tue come non erano tue le lacrime che avevi visto
scorrere lungo volti antichi.
Ma la domanda ti è stata posta.
Adesso la tua risposta.
Adesso, davanti a questo giovane soldato, scolpito nella trincea, che ti ha posto la domanda. Adesso non
puoi svicolare. Adesso non hai scampo. Adesso non hai una via di fuga.
- E se fosse lui? Ti sei domandato.
- Ti meravigli che lui possa essere qui? Ti sei detto.
La sentinella sorride.
- Può essere qui e con gli altri. Ti sei detto.
La sentinella sorride.
Devi respirare a bocca spalancata.
Sono sbarrati i tuoi occhi davanti alla domanda.
- Vuoi far cambio con la mia dannata vita?
C'è un prezzo da pagare per entrare nel regno dei morti.
- Non puoi fuggire senza fine. Ti sei detto Francesco Tunda.
Abitare la verità.
Questo il prezzo.
Scendi Mosè.
*
Le hanno conficcato uno spiedo nel sesso.
Il ferro è uscito tra le scapole.
E' stata arrostita sul fuoco.
Dalla nera carne che rimane di lei, lei avrà avuto dodici anni.
Nessuno sa come si chiama.
Non si saprà mai.
Non importa a nessuno.
Oggi lei è carne.
Nera carne da mostrare col ferro.
La si fotografa col ferro.
La si seppellisce col ferro.
Forse vagava per i boschi in cerca di sua madre, di suo padre, dei suoi fratelli, del suo piccolo gatto, del
suo piccolo cane. Di una piccola parola.
Cibo per i suoi assassini, è stata inghiottita.
Nessun nome riconduce questo suo corpo nella lista degli scomparsi.
Lei adesso è lì, nera carne spiaggiata sul marmo bianco, eterno, dell'obitorio. L'unico reparto dell'ospedale
illuminato dalla luce vera del sole.
Nera carne. Il tallone rosa indica una bambina bionda, forse bruna. Davanti al suo corpo si tace. Si tace
sempre dell'assassinio.
Francesco Tunda non hai tentato, e neppure era tuo potere, di allontanare l'infilata del tuo sguardo.
Prepotere delle sequenze.
Istanti.
Hai visto.
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Mani che spogliano. Mani che serrano per aprirla. Potresti riconoscere l'impronta di quelle mani. L'avvio
dello squartamento. Mani e mani, busti senza volto, l'assassinio non ha identità, avanzano col ferro dalla
punta temperata dal fabbro sull'incudine.
Hai visto il ferro che batte sul ferro e udito l'eco di quel suono che rimbomba nella caverna aperta della
città.
Hai visto e respirato l'odore acre del ferro rovente. Il cigolio dello spiedo che ruota. Ruota e ruota. Arde la
carne nella fucina. Ruota e arde, così la terra sul suo asse.
- Solo i morti hanno finito di vedere la guerra. Ti sarà stato detto,
- Spero sia morta subito. Che l'abbiano fatto da morta. Hai detto ad alta voce sapendo che la tua voce
mentiva, mentiva a chi ti ascolta, mentiva a te per affermare una consolazione.
- Ma impossibile. Ti sei detto.
- Adesso è impossibile mentire.
La tua voce, un suono fasciato nel sangue.
Il corpo della bambina è stato rinvenuto giorni fa, nera carne, al termine della notte, nell'abisso della luce.
E' stato rinvenuto così come tu lo vedi adesso. Lungo il viale dei tigli in fiore.
I soldati di ronda non compresero immediatamente cosa fosse. Il cane di pattuglia guaì. Sfuggendo allo
strozzo batté in fuga per i fitti boschi delle colline. Ma la diserzione di un cane da battaglia come il
termine della notte non si può fotografare.
Per giorni le armi tacquero.
Per giorni la morte era fuggita dalla città.
L'agenzia occidentale sborsa diecimila marchi per lo scatto, le indicazioni via GSM sono chiare: primo
piano, primissimo piano, dettaglio dell'ingresso del ferro nel sesso. Diecimila cinquecento marchi se si
ricostruisce il palcoscenico del ritrovamento. I cinquecento marchi, come cifra massima, ma meglio
trattare, meglio risparmiare, in aggiunta al prezzo pattuito si intendano il compenso alle comparse che si
prestano per la recita.
Il Capitano disse di no.
- Nessuna fotografia per favore.
- Per favore. Disse.
La sua voce direttamente sradicata al silenzio del sottosuolo.
- Per favore. Ha ripetuto.
Ma non viene ascoltato.
... Il calcio di noce dell'Ak 47 aderirebbe con naturalezza alla tua spalla sinistra. Il medio destro scorre
sull'otturatore sapientemente oliato. L'arma bilanciata con ironica scienza attende, pronta, che tu
interrompa il respiro per lasciare scorrere, appena l'indice sinistro sfiora il grilletto, la raffica breve. Tre
colpi in linea. Non è necessario aggiustare la mira. Il fotografo alzerebbe le mani al soffitto
indietreggiando d'un passo dalla sua posa, spalle al muro dell'obitorio.
- Spalle al muro.
La sua mano destra armata di macchina fotografica sarebbe più levata della sinistra.
- Spalle dentro il muro.
Quasi le slogherebbe dall'omero aderendo alla ceramica. Il tuo sarebbe stato un gesto voluto, cercato.
Raccolta l'arma appoggiata al tavolo, puntata e armata. Dal sottosuolo... non lo sai da dove e neppure hai
immediatamente riconosciuto la tua voce... due monosillabi precisi... alzate... puntate... geometrie di
una lingua a te estranea. I soldati, la vostra scorta come prescritta dal regolamento, avrebbero
immediatamente obbedito, con sollievo. Il fotografo dentro il tiro rilascia meccanicamente il nervo
dell'indice, il flash acceca le piastrelle bianche del muro. Entrano nell'obbiettivo. L'abbassarsi delle vostre
canne gli consentirebbe, mani e mezzo busto, il deflusso del piscio...
Il Capitano è uscito.
E tu non ha detto neppure una parola. Hai lasciato fare. Hai lasciato che venissero scattate le foto
seguendo i precisi ordini dell'agenzia.
- Quante volte bisogna morire per imparare a vivere? E questa domanda inizia a vestirti, Francesco Tunda.
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Hai dato un nome alla bambina dal tallone rosa.
- Ingeborg. Così l'hai chiamata nel tuo silenzio.
- Provate a fotografare questo nome, Ingeborg. Avresti voluto dire ai fotografi accalcati intorno a quel
corpo che ha fatto fuggire la morte.
- Portala via. Via. Ti sei detto.
- Via. Là, sul grattacielo ustionato dal fosforo. Portala là in alto.
Hai raccolto il corpo conficcato nel ferro.
ll corpo dell'angelo dalla carne nera.
- E' pesante questo corpo da sorreggere con le sole braccia. Pesante.
Avresti voluto portarla via dal palco dell'obitorio dove vengono scattate le fotografie. Mille flash, primo
piano, primissimo piano, dettaglio dell'ingresso del ferro nel sesso, per il mercato dell'informazione.
Avresti voluto portarla via per deporla sull'altare più alto della città.
Avresti voluto che il solo Capitano ti accompagnasse. I giovani soldati sarebbero fuggiti, inseguiti dalla
marea dell'orrore. E correndo sarebbero scivolati sulla polvere, sulle migliaia, centinaia di migliaia di
bossoli, e sarebbero caduti, e caduti si sarebbero rialzati, le mani sanguinanti, e avrebbero abbandonato le
armi, senza più fiato per gridare.
- Nessuna fotografia per favore.
- Per favore.
Avresti voluto il Capitano. Solo lui.
Avreste camminato a lungo tra le grandiose rovine del quartiere universitario, tra le ville e i palazzi e gli
istituti di rigore austrongarico.
Avreste camminato pesantemente sul selciato di macerie. Mattoni, infissi, vetrame, biblioteche,
materassi, abiti, scaffalature.
Avreste camminato, un passo sopra l'altro, su di un tappeto di bossoli indifferenti alla capocchia di una
mina lì in agguato.
Avreste camminato attraversando appartamenti e cortili e sale di riunione e cucine e bagni e camere da
letto e studi medici e uffici commerciali e chiese.
Avreste camminato tra le carcasse di auto, camion, carri blindati, fusti di cannoni.
Avreste camminato tra le macerie dove si aggirano vecchi che alle prime ombre si dividono la cerca del
giorno e rientrano alle loro buche. Vi avrebbero seguito con gli occhi, i vecchi, lo sguardo distante,
perduto in una lontananza mille volte infinita, dentro una voce che nessuno conosce.
Avreste camminato indifferenti all'agguato dei cecchini.
Con le sole braccia non più capaci di sostenere il peso del corpo di nera carne.
Avreste camminato nella città. La caverna a cielo aperto.
- Ecco. Ti saresti detto nel tuo camminare. Andiamo lungo una cattedrale in cui il sacerdote è stato
assassinato. E' stato assassinato ieri, l'altro ieri o appena il giorno appresso e il suo sangue non è ancora
secco. Guardate come è ancora vischioso, come vive, come lascia traccia, ma la memoria di lui assassinato
è già scomparsa. Dileguata. Ed è accaduto ieri, solo ieri. Appena eri. E nessuno che lo conosce più. Che l'ha
mai conosciuto. Che l'ha mai incontrato. Che l'ha mai visto. Che l'ha mai sentito. Nessuno che lo cerca.
Andiamo recando l'unico dono di lutto ad un mondo che vive nel sottosuolo e ovunque tace. Tace.
La città... La caverna a cielo aperto, fatti tutti i conti, per l'infilata del tuo sguardo è una Cattedrale sotto
le cui volte rimbombano i passi dei turisti... e scattano i mille flash delle foto che nessuno andrà mai più a
rivedere.
Avresti desiderato che il Capitano ti avesse domandato, lassù, lassù sull'altare del candido grattacielo
ustionato dal fosforo, nell'andare delle raffiche di bora, avresti desiderato che l'ufficiale ti avesse
domandato.
- Cronista, com'è il volto di dio?
- Questo di Ingeborg è il volto di dio. Così avresti risposto.
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L'avresti detto sussurrando, con la tua voce fasciata di sangue. E nel silenzio della città tutti avrebbero
udito.
Avresti voluto sorreggere Ingeborg, il corpo di nera carne, davanti al mondo. E l'hai fatto. Sul palcoscenico
della tua esistenza, dove non muore mai nessuno, sorreggi Ingeborg.
Ti piace immaginare che gli assassini di Ingeborg, ebbri di orrore, si siano macellati l'un l'altro, a colpi
d'ascia, con autentica ingordigia.
- Ecco chi andate cercando. Guardatela. Guardate il volto di dio. Così ti sei detto.
- Del tutto inutile che mi domandiate chi sia stato. Non so rispondere. Qualcuno impazzisce per un giorno.
Per una notte. Qualcun altro impazzisce per sempre. Così il medico all'obitorio, quando i flash sono placati
Dai lineamenti potrebbero avere cinquant'anni. Trenta, ti diranno. Mentre parla insegue un pensiero che
solo lui conosce. Vi accompagna dai feriti, nel reparto sotterraneo.
Dati clinici.
Ferita di cecchino. Ferita di granata. Ferita d'incidente d'auto.
Ferita di silenzio.
Chiama un'infermiera e ordina che venga lavato via il siero da sotto il letto di un agonizzante.
Nel reparto sotterraneo i giornalisti passano in rassegna i feriti. Nell'afa di eguali respiri della camerata si
vedono scorrere, l'audio azzerato, i cartoni animati trasmessi da un circuito televisivo americano. L'orso
Yoghi, il vil Coyote, la pantera Rosa. Si inumidiscono le labbra nei bicchieri di cartone della Coca Cola.
Scorrono gli umori vitali che colano dai materassi in larghe chiazze sul linoleum. I cadaveri vengono
mostrati ai parenti, agli amici, ai commilitoni, solo quando il rigor mortis ha restituito al volto la serenità
propria di un pomeriggio festivo.
*
I bambini giocano con la neve. I bambini non hanno slittini. Nessuno compra slittini ai bambini. Nessuno
lavora. Non ci sono soldi. C'è la guerra.
I bambini giocano con la neve. I bambini non capiscono le regole di un mercato nero che non procura
slittini. I bambini hanno recuperato un sacco di plastica che riempiono con la paglia trovata nella stalla
dove c'era l'asino e si lasciano scivolare. Un giorno i bambini non hanno più visto l'asino. L'asino era stato
macellato nella notte ma nessuno lo disse ai bambini. Con la venuta della neve i bambini hanno scordato
l'asino.
- Benedetta neve che li fa stare zitti.
- Benedetta neve che li fa giocare.
- Benedetta neve.
I bambini giocano e ridono nella neve che cade. Ridono e scivolano giù. La neve cade e cade. Non si
ricorda a memoria d'uomo che sia mai caduta tanta neve come oggi che c'è la guerra.
- Maledizione alla neve...
- Maledizione alla guerra...
- Maledizione bambini...
Benedizione... maledizione... benedizione... maledizione.
Maledizione...
I bambini non capiscono. Fanno spallucce. Loro vogliono giocare e giocano e giocano, non si stancano mai
di giocare. Si allontanano dalla strada, dal cortile di casa, si avvicinano alle falde della collina. I bambini
giocano. Scivolano, saltellano, si rotolano nella neve. Affondano nella neve che viene.
I bambini giocano e ridono nella neve che cade. E la neve si fa tutta di sangue e terra. Ecco, adesso tutti
sanno che lì sotto c'era una mina. Subito la polizia militare pianta il cartello mine e circonda lo squarcio
con un nastro giallo ma la neve cade e cade. Nasconde.
Oggi i bambini gridano e piangono.
11
Le mamme si strappano i capelli e aprono la bocca in un urlo che non esce. Nelle madri il dolore viene
custodito. Cresce e le accompagna. Sempre e ovunque. Poi un giorno travaglia.
Oggi i bambini gridano e piangono. I papà ritornano sulla linea del fronte decisi più che mai a farla finita.
Si espongono, la bora scompagina il ciuffo rabbioso dei capelli. E cadono colpiti in piena fronte.
I bambini feriti sono pallidi. Il loro sangue si è sciolto con la neve. Il loro papà è stato seppellito e la loro
mamma gira per il deserto delle macerie a cercare un pezzo di legno per il fuoco, a cercare pane e carne
che baratta con un anello d'oro, con un paio d'orecchini, con un Cristo incastonato d'argento che ha
ascoltato cento generazioni dalla sua parete sul muro di pietra intonacato a calce.
Ma quando tutto è finito, ma quando non c'è più nulla, e il Cristo viene osservato di là dai vetri blindati di
una vetrina sulla piazza dell'Occidente, ma quando tutto è finito, ma quando non c'è più nulla... neppure il
guardarsi allungare la mano... neppure un pasto di neve... allora le madri cercano un ramo robusto tra gli
alberi del bosco.
Ti è stato detto che la stagione propizia è la tarda primavera, l'estate e l'inizio dell'autunno quando il legno
è ancora resistente perché elastico. Il gelo dell'inverno lo rende fragile e i rami schiantano con un colpo
secco, da fucilata.
Nelle notti d'inverno gli schianti che venivano dal bosco tenevano in allerta i corpi di guardia ed i soldati
lasciavano partire larghe raffiche nel buio del coprifuoco.
Solo quando sono morte le madri piangono... ecco il compimento del dolore nel travaglio... ma nessuno ci
bada.
Ti è stato detto che quel pianto non è che gelata umidità di una notte sospesa nel bosco.
Oggi i bambini hanno perso una gamba.
Oggi i bambini hanno perso un braccio.
Oggi hanno la mascella fracassata in una gabbia di acciaio.
Sdraiati sui lettini del reparto mentre passano i giornalisti salutano e sorridono. I bambini non sanno più
ridere. I bambini sorridono.
Oggi giocano con un bambolotto di pezza.
Oggi hanno le gambe fasciate, le braccia fasciate, la testa fasciata.
Le infermiere quando arrivano, e arrivano continuamente lungo il minuscolo caldo reparto, carezzano i
bambini e mandano loro baci scartando caramelle.
Oggi i bambini sono ghiotti di baci.
Oggi baci e caramelle per i tutti i bambini.
Nessun bambino parla. Nella camerata il silenzio vive, e un gatto, l'unico gatto della città, tiene
compagnia ai bambini, di letto in letto.
I bambini con le gambe fasciate, le braccia fasciate, le teste fasciate, sorridono. E il gatto fa le fusa con
un raggio di sole.
I giornalisti camminano sul linoleum del piccolo reparto e lasciano grossolane tracce di scarponi.
- La mina è grande come un pacchetto di gauloises. Di plastica, non viene segnalata dai metal detector.
Non scoppia per uccidere ma per mutilare. Una scienza gaia. Così tu, Francesco Tunda, via GSM, al tuo
diretto superiore mille miglia verso Ovest, nella terra dove tramonta il sole.
Tu hai avvertito che la mano del tuo diretto superiore, vestito di piombo e d'oro, batte con violenza sul
mouse. E' l'ora in cui si incomincia a chiudere le pagine.
- Signori si chiude, avrà gridato alla redazione... chiudere... chiudere...
- Ho capito. Ho capito. Mutilare senza uccidere. Ho capito, ma qual'è la notizia? E riattacca.
- Già, fatti tutti i conti, dov'è la notizia?
*
Nel silenzio dei campi di battaglia gli uomini vanno incontro a se stessi.
Caracollano curvi. La testa incassata nelle spalle, gli occhi infossati, la piega amara delle labbra, le guance
ispide di barba, le mani sudicie.
12
Nel silenzio dei campi di battaglia gli uomini vanno incontro a se stessi. Nell'odore del grasso minerale per
le armi, dei corpi sporchi, della polvere di maceria, delle secrezioni in fermento, del gasolio dei blindati al
passo, del lezzo di un corpo in putrefazione sommerso dalle macerie.
C'è sempre un corpo che marcisce solitario. Il suo odore rimane a lungo nelle nari e in gola, sul palato che
una saliva vischiosa lega ai denti. Entra nei vestiti, dentro la pelle. Entra nel respiro.
La sua morte respira con te.
- Così sarà il mio odore. Ti sarai detto Francesco Tunda.
Nel silenzio dei campi di battaglia gli uomini vanno incontro a se stessi e si ritrovano.
*
Tu, giornalista, guardi i bambini in coda per la zuppa con la ciotola tra le mani giunte. Osservi come sono
attenti che neppure una briciola cada al suolo, e quando poi, la dividono con il cagnolino, il passerotto, la
formica.
Tu, con il pass giallo della stampa appuntato al petto, attraversi il campo di battaglia e osservi come ti si
fanno da parte.
- E allora, ti sei detto, sei tu, tu ad essere fuori posto in questo mondo, tra questa gente. Tu che non fai in
tempo ad arrivare che già riparti.
Fatti tutti i conti sei venuto qui solo per andare incontro a te stesso. E ritrovarti.
*
Sull'altopiano, dirimpetto al mare laggiù, nella radura illuminata dal sole calante, dove l'erba è verde e gli
abeti scuri e le betulle bianche e il cielo azzurro e la terra bruna e splendida l'acqua del ruscello,
pascolava il candido gregge.
Al tuo apparire sulla soffice erba della radura ti sono venuti incontro i cani pastori grigi e arruffati
uggiolando e scodinzolando.
Immacolati agnelli belavano al seno delle madri.
I tre ragazzi di pattuglia sciolsero i ranghi.
Il vento veniva dal mare e sapeva di sale, di terra, di ginepro e ancora d'un vago fuoco di bivacco lungo i
dorsali delle colline.
Luminosi e miti gli occhi dei cani. Ti sei inchinato davanti alla loro gioia per una reciproca carezza.
Il Capitano, come sempre al tuo fianco, di spalle alla scoscesa che dava al mare e di là dal mare
all'Occidente, scrutava, l'occhio tutt'intorno, dal gregge al limitare della radura.
Ti sgambetta e tu scivoli sulla terra e i cani rivoltati sulla schiena che stavi carezzando si rizzano col
ringhio in gola e la sua automatica opaca punta al fitto degli abeti scuri.
L'acciaio dei carrelli cadenza e i ragazzi corrono. Le canne alzate.
- Giornalista. Ti ha chiamato.
- Vieni piano. O.K.
Già a metà del gregge ti investe il denso ronzio degli insetti.
Al pastore era stata tagliata la gola e gli insetti andavano e venivano chiamati dall'odore della sua
abbandonata decomposizione che il vento portava dentro il bosco. Da giorni gli insetti andavano e
venivano a sciami e un grande ragno che aveva tessuto la sua tela carica di prede banchettava proprio
sopra il volto del pastore.
- Anche questa è creazione. Ti sei detto.
- Via subito. Così il Capitano.
Ancora la stessa notte, uscendo dal ristorante sulla costa, dove brevi onde, anticipo di mareggiata,
unghiavano le ghiaie hai dato uno sguardo lassù, alla radura dell'altopiano illuminato dalla luna.
13
Ti è sembrato che arrivasse il denso ronzio degli insetti che andavano e venivano anche nel bianco sonno
della notte, insaziabili. Il gregge immobile, mite e candido. Il grande ragno al banchetto. E i due cani
piangevano.
*
L'ottica, non sai se sia, come ti è stato detto, la migliore in commercio.
- Non è per niente questo che ti importa. Ti sei detto.
Ma non ti puoi sottrarre ad una certa enfasi. Dettagli che registri.
- Fatti tutti i conti i dettagli sono significativi. Sempre. Ti dici.
Dettagli tecnici.
L'ottica è montata sul binario di un fucile a colpo singolo. Calibro da 20 millimetri. Canna d'un metro e
settanta in acciaio al manganese brunito antiriflesso. Calcio sagomato in legno con base alla spalla in
gomma assorbente il contraccolpo.
Innesti a baionetta. Razionale la meccanica. Elementare, quindi, la manutenzione. L'unico punto d'ingrasso
svitabile con una moneta.
Il pezzo, equilibrato sul cavalletto in acciaio antiriflesso al carbonio, consente al tiratore un tiro efficace
di mille cinquecento metri.
Dopo l'uso lo si compone in una commisurata valigia d'alluminio antiriflesso satinato.
Dettaglio cronometrico.
Record di montaggio, posizionamento ed esecuzione, centottanta secondi.
Dettagli di un artigianato senza frontiere.
Ottica. Russa su brevetto austriaco.
Cartuccia. U.S.A., stato del Montana.
Canna. Gran Bretagna, stato del Galles.
Corpo e minuteria metallica. Italia, regione Toscana.
Calcio. Spagna, regione della Catalogna.
Valigia. Indonesia su progetto della Corea del Sud.
Assemblaggio. Nuova Zelanda.
Dettagli finanziari.
Il set completo - ottica, arma, cavalletto, valigia, del peso complessivo di dodici chili - viene proposto a
settemila marchi. Cinquemila dollari. Tremila sterline. Dieci milioni di lire.
Dettaglio indiscreto.
- Meglio, molto meglio in marchi. Ti è stato detto testualmente. In subordine i dollari.
Dettagli operativi.
Piazza di pagamento tramite apertura di credito. Confederazione Elvetica. Stato di Israele. Liechtenstein.
Singapore. Svezia. Vietnam.
Dettaglio indiscreto.
- Meglio, molto meglio Singapore. Ti è stato detto testualmente. In subordine Liechtenstein e Vietnam.
- Per un pagamento in contanti, danaro alla mano, direttamente dal rappresentante. Un italiano - unica
lingua parlata il genovese - residente nel Principato. Così, testualmente.
Rappresentanza. Principato di Monaco.
Spedizione. Nuova Zelanda per lo stato di Israele, di Svezia, di Canada.
Consegna. Trenta giorni dal pagamento. Amsterdam. Amburgo. Riga. Tallinn.
Dettagli mancanti.
Non ti è stato detto se si effettuano sconti per acquisti in quantità.
Questa tua curiosità non è stata affatto considerata.
14
Dunque l'ottica ti permette di vedere, in modo chiaro e distinto, i dettagli dell'abitare la caverna a cielo
aperto mille metri avanti.
Hai guardato col tuo occhio miope e messo a fuoco. Limpida la facciata incolore di quella casa, laggiù.
Mille metri. Un mezzo piano, una finestra sfondata. Ecco, sul davanzale un piccione morto. Il cranio e il
corpo svuotati dalle formiche, le penne imporrite, le formiche vanno e vengono. Dentro la stanza aperta
una sedia impagliata. Da mille metri puoi contare le trecce dello schienale. L'impagliatura è sdrucita. Una
casa popolare, deduci sempre per via dell'ottica chiara e distinta.
- Scarta un centimetro ogni mille metri. Afferma, con la soddisfazione propria del progettista, un ragazzo
che hai chiamato Paolo.
Paolo, fiero del suo pezzo, è un cecchino.
- D'accordo adesso ti dici. Tu sbagli a scrivere che Paolo è un cecchino. Corretto sarebbe se tu scrivessi che
Paolo fa il cecchino in quanto Paolo è un ragazzo di ventidue anni. Ma le cose a mezzo metro non sono così
chiare e distinte come a mille.
A mezzo metro Paolo, capelli neri occhi neri e denti gialli, mentre parla ti ghigna sul muso. Gli puzza forte
il fiato, i molari sono marci. Il naso dritto è sporco. Paolo è piccolo e minuto. Il fucile lo sovrasta di una
testa.
Il fucile è suo. Il suo ingaggio comprende anche il noleggio, per così dire, del suo fucile. Se lo porta sempre
con sé. Dappertutto. Non lo lascia mai. Lo maneggia, mani piccole e tozze e unghie sudicie, con
sorprendente agilità.
Nelle sue braccia la forza della determinazione, non dei muscoli.
- Scarta un centimetro ogni mille metri. Un tiro basta. E fumo una sigaretta.
Così Paolo del suo lavoro. Ha detto tutto. Concretamente.
Mentre parla ti si fa sotto. Minuto. Meccanico, quasi immobile nei pochi rapidi movimenti.
La carnagione scura, figlia della canna brunita.
Ti si fa sotto a dieci centimetri e ti immerge nel marcio del suo odore. Anche quando fuma la bocca gli
puzza forte. La carne marcisce.
Tu fai un passo indietro per uscire dall'ondata. Fai due passi indietro e fumi e tiri dentro forte anche se
non ne hai voglia.
Non gli domanderai quanti ne ha uccisi. La sua esistenza operativa testimonia.
Paolo vede, in modo chiaro e distinto, a mille metri come a due metri e mezzo come a dieci centimetri.
Paolo vede. Evidentemente l'ottica aiuta.
Ti lascia un poco di respiro. Non ti viene sotto adesso. Tu te ne stai lì, spalle al muro, braccato.
Lui carezza, per intero, la lunga canna montata sul cavalletto. E ruota di pochi gradi il fucile che ora punta
sulla strada percorsa da ignari pedoni che camminano, i calzoni pencolanti sulle gambe magre, nell'ombra
del sole.
Ancora in marzo larghe pozze profonde un palmo gelano al crepuscolo. Le hai osservate a lungo.
Specchi ovunque dove, con l'ultimo respiro di luce, scorrono le nubi, s'interrogano le macerie,
ammutoliscono gli abitanti. Passa la vita.
Paolo scruta nell'ottica. Sfiora il grilletto. Ma dentro lì, in questa zona dove ora ha ruotato il pezzo, i
passanti non sono bersagli eseguibili. Il contratto non lo prevede.
Paolo è un ragazzo di ventidue anni che ha le idee chiare e distinte. Mentre ti parla ti espone il suo chiaro
punto di vista e meccanicamente ti prende le misure.
Paolo, ovviamente senza proferire parola, ti obbliga a comprendere che tu, per via che lui ha imparato in
modo inequivocabile a distinguere, dovresti morire.
Dovresti essere un tiro.
Per via che questo ragazzo di ventidue anni ha le idee chiare e distinte, sull'immediato Paolo ti uccide.
Tu sei morto. Tu non lo sai il perché, ma lui lo sa. E mentre ti osserva il petto, tu comprendi che lui ti
prenderebbe lì.
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- Oh, come ti prenderebbe.
Lì ti vorrebbe colpire. La testa da una parte, ciondolante, caracollante nella polvere della strada, tra i
bossoli e le foglie morte, le gambe dall'altra, lontano, di là dalla strada tra i rovi, e il tuo petto svaporato
in una nuvola di fuoco. Così il tracciante di Paolo, da mille metri con lo scarto di un centimetro. Nel petto
della vasta pianura dove corre il sangue. E mentre Paolo ti osserva, tu hai compreso che nel suo desiderio
sei la sua preda di oggi.
- Oh, come ti ha preso.
Non ti spara oggi, Paolo. Oggi non può farlo. Ma gli piacerebbe tanto.
- Oh! così tanto.
E' così felice di vederti ucciso che gli cambia, l'ucciderti, l'espressione del viso. Egli, Paolo, adesso sembra
felice. Ha perfino un buon odore, adesso. La feccia marcia del suo alito marcio, adesso che tu sei morto,
tirato da lui, la testa da una parte, le gambe dall'altra e il petto svaporato in una nuvola di fumo acre, tu
che adesso sei niente tra i rovi, carne per cani, carne per volpi, interiora per serpi, ora profuma di buono.
Paolo ti sorride.
Ti ha scaricato dentro il tuo respiro il suo lezzo di marcio. E i suoi denti, all'ombra della sera, sono bianchi.
Denti bianchi, affilati.
Tu lo saresti stato un buon bersaglio per Paolo, se ti fosse capitato di passare dall'altra parte dell'ottica
che serve il suo pezzo.
Quando è venuto il momento di andare, lui ti ha teso la mano sudicia che tu hai stretto con vigore.
Paolo, un ragazzo di ventidue anni.
Dettagli diplomatici.
Ti verranno a dire che Paolo, fatti tutti i conti, è un problema.
Paolo, il ragazzo che a ventidue anni ha idee chiare e distinte è un problema.
- Quando questa guerra sarà esaurita i ragazzi come Paolo saranno un problema. Così ti verranno a dire.
E tu, tu comprendi dentro le tue viscere, in quelle viscere che Paolo avrebbe voluto vedere, ed ha solo
sognato di vedere, fumare lungo i rovi, carne per i cani, carne per le volpi, carne per i topi, carne per le
serpi... tu hai compreso il problema.
Quando, e alla fine, fatti tutti conti, il calibro da 20 millimetri dovrà tacere, ci sarà da risolvere il
problema.
- Cosa ne faremo di questi ragazzi? Si dirà.
E la si cercherà la soluzione ad un tavolo di un caffè, dove, fatti tutti i conti, vengono pianificate le scelte
autentiche della politica di ogni latitudine.
Il gesto delle mani sarà dapprima vago, poi, nel silenzio che conferma l'ipotesi gestuale, semplicemente
sbrigativo.
Fatti tutti i conti la guerra è finita.
- Ecco, adesso vedi anche tu in modo chiaro e distinto. Ti sei detto.
- Oh, Ci sarà segatura e gusci d'ostriche e mozziconi sul pavimento e aria di ristagno nel caffè... lezzo di
acque motose e ferme... lezzo di acque da rigovernatura...
Quell'odore di morte che già gli risciacqua, a Paolo, in bocca.
- Quante volte bisogna morire per imparare a vivere? Ti domandi Francesco Tunda.
- Quante volte?
*
Le campagne sono aperte. Spelate. Disabitate. Marmo.
La terra incolta sino all'orizzonte.
Nude le strade sterrate dove hai camminato. Il passo lento. Il passo cauto, inseguito da un filo di polvere.
Hai camminato nei villaggi deserti.
Case, mattoni, pilastri e pietre annerite, dove ti sei addentrato. Il capo incassato.
Case dove, come ti era stato ordinato, non hai spostato un mattone o raccolto la testolina di una bambola.
Case dove il fuoco ha divorato. Ha mangiato la cucina, ha mangiato il tappeto, ha mangiato il letto, ha
mangiato il quadro, ha mangiato le travi.
16
Case di affreschi di fuoco.
Case senza casa.
Case dove ti sei chinato e in una pozza nerastra di neve sciolta e petrolio hai raccolto la Polaroid di un
matrimonio. Dagli abiti e dalla Ford Capri parcheggiata sullo sfondo della strada davanti alla casa avrai
detto fine anni Settanta.
Lei, il viso sfocato, ha i capelli rossi di henné lunghi e lisci e ride. Ride e ride, come ridono le ragazze
innamorate.
- Nessuno lo sa. Ti dice il Capitano.
Tu, nella loro casa, nella casa dove il fuoco ha affrescato di nero il bianco della calce, hai infilato la foto
della ragazza nella tasca del gilet.
Il capitano ordina di fare piano. La parola d'ordine in questa casa è piano.
- Piano.
Le parole del Capitano sono azioni.
- Correre. Silenzio. Ferma. Lunga ferma. Camminare senza rumore. Piano. Lì davanti problema. Indietro.
OK. Piano.
Il Capitano, voi pronti ad uscire dalla casa degli affreschi del fuoco, ha ordinato con un gesto.
Solo, sulla soglia annerita davanti ad uno spicchio di cielo azzurro, disabitato di voli, suoni e nubi, punta
l'automatica in un luogo che lui solo intuisce.
- Giornalisti. Ha gridato nello scavo disabitato delle macerie.
- Giornalisti. Ha ripetuto.
Qualcuno, da qualche parte, rispose.
- Piano. Ha detto il Capitano.
- Adesso molto piano.
Uno per uno, chini, siete ritornati all'auto. Un soldato, molto più giovane di te, ti teneva la sua mano sul
capo.
Lei, il viso sfocato, avrà avuto i capelli rossi d'henné lunghi e lisci. Lei rideva. La Polaroid ti mostra come
rideva vent'anni fa una ragazza innamorata. Rideva e veniva avanti correndo, il sorriso e le braccia aperte.
Correva lungo la strada in discesa. Alle sue spalle l'insegna al neon di un piccolo ristorante. Azzurra, ampia
e lunga la gonna e il bolero al busto fasciato di bianco. La macchia verde della collina e la strada gialla. Il
muso della Ford tirata a cera.
Puzza il petrolio nella tasca del tuo gilet.
- Nessuno lo sa, ti aveva detto il Capitano.
La puzza del petrolio nella tasca del tuo gilet grava nell'abitacolo.
- Nessuno lo sa. Ha ripetuto il Capitano.
Tu non hai cercato un nome per la ragazza. Nel suo sorriso tu puoi coniugare tutti i nomi.
*
Un'immagine colta di corsa ti ritorna.
Lungo la strada in discesa l'auto, un percorso stretto, infossato, cinto da tozzi muri a secco.
La luce limpida di un sole avviato ad Occidente.
Deserta la campagna delle colline a lievi terrazzi di vite.
Faceva già freddo, ed era l'inizio dell'autunno.
Dietro una curva, sulla scoscesa, il muro di pietra di una casa contadina a filo della strada. Già
oltrepassata dall'auto quando sulla porta ecco un uomo.
Un vecchio.
- Così ti era sembrato, Tunda.
Ma l'avrai rivisto, nell'immagine che ritorna, non poi così vecchio.
Era vestito a lutto come sempre i contadini davanti alla luce del giorno che muore.
Nero e bianco e candidi i capelli.
17
Perdeva lo sguardo sul fianco della sua collina. Non si sarà distratto per l'auto in corsa. Saldo sulla soglia di
pietra osservava lo squarcio dei cingoli che i carri armati nella terra rossa, sbranati i terrazzi, avevano
scorciato la via, di traverso per la collina. Diretti alla valle. Laggiù il villaggio dove a distanza di giorni
ancora un trave fumava lento, denso, dentro un cielo indaco.
- Non lo hai scorto il volto dell'uomo, Tunda.
Trapassati di corsa, nel silenzio d'ansia che anticipa sempre nei luoghi di battaglia la venuta della notte.
Eppure sei certo d'averlo visto mille e mille volte il volto di quell'uomo dallo sguardo fisso e perso nelle
viscere del suo vigneto devastato.
Era il volto del custode della terra cui nulla ha potuto.
Era il volto dell'uomo cui nulla possono più illusioni e desideri.
Era il volto dell'uomo che conosce le nubi dal corso del vento e dice del sole e della luna e del tempo
dell'innesto. E non ha amici. Voci e risse. Ogni giorno per i vigneti rimbocca un terrazzo, sfanga, sotto la
pioggia, un rigagnolo di sassi rotolanti e, l'occhio allenato, li conficca a rinforzo nella secolare muraglia
divisoria, stacca dal vitigno la foglia secca che ombra la tenera, e, semplicemente, chiede a Dio la
puntualità delle stagioni.
L'avevi incontrato mille e mille volte, quell'uomo, nelle tue contrade occidentali. L'avevi incontrato senza
vederlo.
Lo hai visto di corsa quel giorno. E ti fece memoria dei mille e mille altri. Ammutolito sulla soglia contava
ore e giorni e settimane per porre riparo ai solchi dei blindati. Raccogliere i sassi in gerla e ammontonarli,
rimborsare il terrazzo sulla collina, trapiantare i giovani vitigni e legarli col refe al tirso. Riannodare l'unico
legame che conosce con quella terra che lo ha visto nascere e lo vedrà morire.
Ti fu detto che sette giorni addietro tra quelle colline fu improvviso lo scontro tra i carri. Molti soldati
caduti tra le case del villaggio e tutto il villaggio e molti civili e animali e carri incendiati.
E quando tu sei passato, deviando dalla via di ritorno consueta, i soldati avevano ripulito il terreno, come
si dice, e disseminato manciate di mine per le colline.
Non ci doveva essere nessuno tra le colline se non qualche pazzo inamovibile come quel vecchio, che non
era poi così vecchio, ma vecchio di pazzia.
- E non tornate più. Così l'ufficiale al posto di blocco. Un ordine il suo, non un monito.
Molti i soldati caduti, dunque. Ed erano poveri ragazzi come poveri ragazzi erano quelli che stavano ancora
gridando alla vittoria. E il Capitano che ti raccontava come erano accaduti i fatti era anche lui un povero
ragazzo, ma sapeva di esserlo un povero ragazzo. Per questo motivo parlava senza gridare e senza
eccitarsi. Parlava con frasi brevi, precise. Tralasciava ogni aggettivo. Quasi parlasse d'altro.
Avrebbe preferito tacere, come l'educazione ricevuta gli aveva insegnato, di un crimine.
Del villaggio hai memoria del quadrivio. Uno slargo a gomito di piazza. La stazione della posta sventrata.
Una tendina rosa impigliata al ferro dell'architrave. E delle case accartocciate il buio interno.
Proseguendo ad Ovest, verso la strada conosciuta, avete guadato un ruscello dal ponte sbriciolato e sulla
china dolce della collina veniva avanti il cimitero. Un palcoscenico di croci e steli.
Non hai detto, nel silenzio d'ansia che impone la notte nei luoghi di battaglia, di fermare. Era già la notte.
Andavate nel buio scorgendo sulla via i consueti riferimenti, parlando dunque di nessun argomento e
ridendo consapevoli delle vostre voci metalliche.
Avevate lasciato alla notte il villaggio ormai da ore.
La costa. Un ristorante. Luci sul mare.
Ti parve, Tunda, entrando in quell'aria carica di profumo di cibo e tabacco e uomini e donne, ti parve di
cancellare quell'immagine del vecchio pazzo per sempre o di non averlo addirittura mai visto.
- Non avresti mai voluto vederlo. Ti sei detto, Tunda.
- Questa è la verità. Non avresti mai voluto vederlo.
E l'avevi scorto appena... i suoi capelli candidi... scorti appena... simili a lana candida come neve... scorto
appena nella corsa feroce dell'auto, ma non abbastanza da sfuggire alla sua presenza... che ritorna.
Lui, silenzioso custode della terra ferita.
18
*
Un giorno, al limitare di un minuscolo villaggio, presepe di tre case, hai visto entrare nella radura, usciva
dalla foresta, un uomo.
Camminava caracollando tangenzialmente verso di voi.
I soldati, tutti giovanissimi, che ti scortavano, arretrarono d'un passo indurito, aprendo il cerchio
protettivo a copertura della tua vita.
L'uomo che avanzava indossa abiti civili privi di contrassegni, giacca e calzoni impastati di una terra nera,
scavata con le mani nelle profondità del suolo.
Veniva dalla foresta che circonda la radura. Cadenzava l'andare, un passo un metro, sull'erba secca
dell'autunno.
Prima ancora che tu riuscissi a scorgere i lineamenti del suo volto l'odore della carne morta cacciava il
profumo dei cedri mossi dalla lieve brezza del primo crepuscolo di tregua.
Due baionette gli pendevano alla cinta e a tracolla una carabina di precisione. Il volto chiuso in una celata
di terra compatta, così i capelli, lunghi e duri, sulle spalle. Sul petto una collana di orecchi infilzati nel filo
di ferro spinato.
Attraversò il vostro drappello immobile. Ammutolito.
Hai seguito con lo sguardo quell'uomo che indossava un sudario scavato nella terra più profonda.
Quell'uomo capace di attraversare i muri di pietra della case dalle porte sbarrate, dalle finestre sbarrate,
con le madri atterrite contro le pareti con i figli stretti alla vita, gli occhi sbarrati, per consumare i suoi
pasti.
- Il golem. Hai detto al Capitano al tuo fianco.
- Un morto che si aggrappa ai vivi. Ti ha detto.
E, come intuendo una tua plausibile domanda, aggiunse che quando tutto sarebbe finito questi morti
bisognava fermarli.
- Fermarli? Tu hai domandato.
- Abbatterli. Così testualmente il Capitano.
Era stato un falegname, ti fu detto.
Abitava in un paese, di cui si è perso nome, luogo e memoria, tra le valli.
Gli erano stati uccisi la madre ed il padre, la moglie ed il figlio.
Ti è stato detto, testualmente, che per sopportare il dolore delle sue morti, l'uomo, che stava
scomparendo alla vostra vista, si era strappato tutti i denti con una tenaglia.
- Viandante nel nero vento. Disse il Capitano.
- Il mostro. Hai detto.
- Colui che si manifesta senza maschera.
- Ecco il Cristo senza speranza. Ti sei detto.
- Senza fede. Il Cristo che obbedisce alla vendetta.
- L'uomo disperato.
*
Il cobalto della notte era già alle tue spalle e tu hai sentito di amare, amare profondamente quell’uomo
già vecchio che, con mano tremante e voce tremante, la tua paura e la sua paura, ti chiedeva,
l’automatica puntata al tuo petto, un palmo dal tuo cuore, ti chiedeva ragione della tua presenza e tu, le
braccia aperte, orizzontali al suolo, il cielo alto e limpido, ma in quel giorno e in quell’ora non così
distante, tu hai sentito di amare quell’uomo, la voce e la mano armata, estensione del suo spirito immerso
nella paura, tu hai sentito di amarlo mentre lui, gli occhi ingabbiati senza scampo nella paura, lui ti
chiedeva.
E tu hai risposto con l’unica parola della sua lingua che in quel momento hai sentito di dire.
- Va bene. Hai detto.
L'hai detto in faccia a quell'uomo armato. Le sue labbra, un filo estremo, esangui.
19
- Va bene. Hai detto.
- Tu devi ritornare a casa. Ti sei detto mentre quell'uomo ti puntava al petto l'automatica.
- O ritorni subito o mai più. Se non torni dovrai uccidere. Così ti sei detto davanti a quell’uomo che ti
puntava al petto l’automatica.
- Va bene. Hai detto.
O ritorni o ucciderai.
Ucciderai uno come lui, più giovane o più vecchio. Non ha alcuna importanza. Ma ucciderai.
- O ritorni subito a casa o ucciderai. Ti sei detto, e questa era la tua certezza.
Cristo si è lasciato uccidere per non uccidere. O perdonarli o ucciderli. Ucciderli tutti. Estinguerli col
furore di un re. Questa è la verità. Li ha perdonati. Ha lasciato fare. Si è lasciato uccidere per non
uccidere. Se ne avesse ucciso anche solo uno non avrebbe smesso di uccidere. Non sarebbe stato capace
neppure lui, dio, di sopprimere la chiamata del sangue.
- Va bene. Hai detto.
- Fai quello che vuoi. Fa come ti pare. La mia vita non è più mia. Te la offro. Puoi uccidermi se vuoi.
L’immagine di quel momento si è sviluppata nella tua memoria. Adesso la vedi perfetta. L’uomo ti puntava
al petto l’automatica. Tu eri vivo ma fuori dalla tua vita.
- Va bene. Hai detto.
Era quello che andavi cercando. Essere vivo ma fuori dalla tua vita. Fuori dal mondo. Ed hai allargato le
braccia. Non le hai alzate. E’ un gesto automatico alzare le braccia. E’ un gesto di resa. Tu non hai alzato
le braccia. Le hai allargate. Orizzontali al suolo. Terra svangata, aperta, bruna. Hai osservato le zolle,
bellissime di viola. Tutto il campo, dal quale, come per incanto l’uomo armato era sorto, nato dalla terra,
tutto il campo era viola. Tu hai allargato le braccia. E' quel segno, l’allargare le braccia, che fissa
l’immagine per sempre nella tua memoria.
- Va bene. Hai detto.
- Non ti ucciderò, ti sei detto.
Avevi davanti un uomo. Tremava. Un uomo. L'uomo che aveva vangato il campo. E abitava laggiù, in quella
casa di sassi, nel deserto di una valle disabitata. Sassi e terra.
Tremava il suo braccio armato.
Tremavano la sua ispida barba, i suoi denti radi, i suoi occhi, il filo estremo delle sue labbra esangui.
Tremava tenendo l'automatica quasi l'offrisse. A te, suo carnefice.
- Quante volte bisogna morire per imparare a vivere? Ti domandi, Francesco Tunda osservando, nel ritorno
dell'immagine, quell'uomo che tremava.
- Quante volte sei già morto per aver imparato a vivere? Tu gli hai domandato nel tuo silenzio.
Tremava quell'uomo, con la sua mano da lavoro.
- Va bene. Hai detto.
Hai allargato le braccia. Assaporando nel farlo il sapere di sentirti vivo ma fuori dal mondo.
Un gesto eterno, ti sarai detto molto tempo dopo rivivendo quell’immagine portata alla perfezione dal
gesto. L'eterna pietà.
E adesso, adesso sai di avere amato quell’uomo che ti teneva sotto tiro. Hai condiviso e compreso la sua
paura, il suo dolore. Tremava. Una leggera pressione sul cane e l’automatica ti avrebbe sfondato il petto.
Caduto all’indietro di cinque passi. E morto nella terra svangata.
Ma tu hai detto va bene.
20
Eri già fuori dalla tua via. Vivo, ma fuori dal mondo. Ed hai contemplato, completamente fuori dalla tua
vita, l'incanto di quel gesto che conduce l'immagine alla perfezione.
Un uomo, nella pianura occidentale, con le braccia allargate, tenuto sotto il tiro di un’automatica calibro
9, che dice, in un sorriso, va bene.
- Ti ringrazio, signore, per aver vissuto questo privilegio.
Il vecchio aveva già abbassato l'automatica quando è intervenuto il Capitano con parole indiscutibili. Ed
eccolo di corsa verso il suo casolare per ritornare a perdifiato con la bottiglia e nella tasca della giubba i
bicchieri per un brindisi benaugurante di quell'incontro iniziato sotto il segno della tragedia.
Bambini sulla porta del casolare. Osservavano. Figli di figli ai quali il vecchio nascondeva la guerra. Sulla
soglia la sua vecchia li teneva per le spalle.
- Va bene. Avevi detto.
E adesso, adesso, ricordando il tono della tua voce di allora, sai di avere parlato con autorità. Con la vera
autorità che dimostra indifferenza al proprio destino e comprende la possibilità di immediatamente
morire.
*
L'accadere è folle. Folle quindi autentico. Indica un tempo e un luogo di cui tu non hai alcuna memoria se
non un vago, lontano sentire. Di quando la divinità era un poeta, non un geometra.
- Inaudito nella realtà. Inaudito ora e qui. Inaudito folle. Inaudita verità. Così tu, Francesco Tunda, nel tuo
silenzio. Davanti alla collina tutta un bagliore di fuoco.
- La guerra illumina la verità. Indipendente, totalmente estranea la verità dallo spazio e dal tempo. Ed
eccola, la verità, la scandalosa gioia che andavi cercando.
Gli abitanti di là dal fiume migrano. Lasciano i quartieri, le contrade, i paesi, i villaggi. Migrano e si
portano via tutte le tracce della loro secolare permanenza.
Svuotano il loro abitato.
Non solo masserizie, gli oggetti famigliari. Non solo le indicazioni delle vie con i nomi dei loro eroi. Non
solo abbattono gli alberi dei cortili, dei giardini, delle loro strade. Non solo incendiano i loro
appartamenti, le loro case, i cascinali, le cucce dei cani.
Tutta la collina abbaglia di fuoco la notte.
Non solo.
Migrano. Si portano via i morti. Anche i morti. I loro morti.
A colpi di piccone, di scure, di vanga, di pala, la terra del cimitero serrata dall'inverno. La spaccano. La
aprono. La collina rulla di colpi.
E disseppelliscono i loro morti. Raccolgono legna e ossa. Briciole di ossa, briciole di legna, briciole di terra.
Donne, bambini, uomini. E morti. Caricano i carri e se ne vanno. Migrano e cantano. La collina abbaglia di
fuoco la notte.
E le donne anziane salite sulla cima della collina, irrorata dalle fiamme, avvolte in lunghi scialli neri,
maledivano. Le braccia tese e le mani aperte coprivano la valle nel segno della maledizione.
- Scavano i morti, abbracciano i morti, chiamano la morte e la portano via. La strappano alla sua dimora.
Vieni con noi, morte. Vieni con noi morte, ti portiamo alla vita. Così tu, Francesco Tunda, davanti a
quell'autentico, folle, accadere.
- Il fatto che accade oltrepassa la tragedia classica. Ti sei detto.
- Indica un tempo e un luogo di cui non hai alcuna memoria. Se non fosse che è il vero.
21
Tu sei convinto, assolutamente, che solo la letteratura sappia illustrare il destino. E hai cercato,
affannosamente, scavato, il fatto che accade, nella tua memoria. Assolutamente certo che questo
accadere, che precede la nascita della tragedia così testualmente ti sei detto, non fosse senza traccia.
Era là, ne eri certo, in qualche pagina riposta.
E hai chiamato, nell'ansia che anticipa sempre il piacere della conoscenza, amici di collaudate letture.
Anche professionisti, come si dice. Vaghe le parole. ...Si... mi pare... ma non so... non so dire... non so
indicare dove... fatti tutti i conti saranno impazziti...
Nessuna risposta dunque a te che domandavi davanti al cimitero scavato... davanti alla collina di fuoco...
davanti ai carri che vanno... carichi di vivi e morti. Ma la parola di risposta c'era. Da qualche parte c'era.
Li hai visti scavare, estrarre dalla terra i loro morti, caricare le casse, raccogliere le ossa e la terra e tu, tu
Francesco Tunda, tu spettatore, non sai dire quando e dove fosse già accaduto.
Ma ti dici, ne sei certo, assolutamente certo quindi consapevole, che è già accaduto. Che questo accadere,
folle e inaudito, non nasce ora e qui. Ricerchi nella letteratura. Rincorri pagine... pagine... pagine...
davanti alla collina avvolta in una nebbia di fuoco.
Tu, cieco nella nebbia di fuoco in un campo di battaglia che tace.
I carri sono andati. Svanito l'eco delle canzoni. E' notte. E tu sei cieco. Davanti allo scemare dei fuochi,
alle ondate del fumo.
Cieco nella notte. Chiami casa. In diretta dal campo di battaglia chiami laggiù, nell'immensa tranquillità
dell'Occidente.
Laggiù, dove sono consapevoli che sei pazzo. Consapevoli che per te, del resto, va benissimo. La cecità ti
presenta una traccia. Dai un'indicazione sommaria dello scaffale. Ti fai leggere gli autori. I titoli.
- Jorge Louis Borges, Oral.
- Sì. Dici di leggere
- Dall'indice?
- Sì.
- Il libro...
- Ecco, da lì.
- "Fra i diversi strumenti dell'uomo, il più stupefacente è, senza dubbio, il libro... e da laggiù ti leggono...
leggono... e mentre leggono senti che si stanno avvicinando...
- ... la Bibbia... dicono.
- Ecco... Ecco, dici, la Bibbia.
- E' qui. Ti sei detto. L'immagine della conoscenza rischiarava tua cecità davanti alla collina di fumo.
Hai chiamato subito il tuo sacerdote. L'hai svegliato come un ladro nella notte.
- Ma lo sa che ore sono?
- Sì. Hai detto.
- Stanno portando via i loro morti.
Ed è stato come se tu lo vedessi. Stanno portando via i loro morti, gli hai detto, e il sacerdote è balzato,
hai inteso il fruscio delle lenzuola.
- Esodo. Ti ha detto il tuo sacerdote.
L'ha detto immediatamente, Esodo. Ecco la tua certezza che era già stato scritto, che era accaduto.
- Le leggo il passo. Voglio essere un poco pazzo anch'io come lei. Mi detti il suo numero che la richiamo.
- Oh, Esodo. Ecco la parola che ti mancava. Esodo, ecco l'accaduto contrario ad ogni imperativo logico.
Esodo, architrave della storia. Esodo, l'abbandono dell'abitato. Esodo, che precede la nascita della
tragedia. Esodo, la fuga dal tempo. Poi... poi semplicemente l'esodo, che nella tragedia classica indica
l'ultimo canto del coro, il commiato allo spettatore e il suo ritorno nel tempo.
Sul campo di battaglia, davanti al bagliore dei fuochi delle loro case, solo, tu attendevi la chiamata al
cellulare.
- Devo essere davvero pazzo. Ti sei detto d'un fiato, sopraffatto dalla gioia.
22
Al primo trillo la voce del sacerdote.
- Esodo. Leggo testualmente. Esodo, quattordici undici: 'Mosè prese con se le ossa di Giuseppe'. A questo
punto, perché tu comprenda, lo spirito, che ha scritto la Bibbia, dall'Esodo rimanda alla Genesi.
- Lo spirito dall'Esodo rimanda alla Genesi. Dalla fine all'inizio. Spirito folle e autentico. Gli hai detto.
- Si rammenti che queste sono parole sue. Leggo, sempre testualmente, Genesi cinquanta venticinque:
'Giuseppe fece giurare ai figli di Israele così: Dio verrà certo a visitarvi e allora voi porterete via di qui le
mie ossa'. Ora, per chiudere questa telefonata di certo un poco pazza, vado a Giosuè ventiquattro
trentadue: 'Le ossa di Giuseppe, che gli israeliti avevano portato via dall'Egitto, le seppellirono a Sichem,
nella parte della montagna che Giacobbe aveva acquistato dai figli di Camor, padre di Sichem'.
Si sono portati via i loro morti. Anche i morti. Dunque è all'inizio dei tempi che si colloca questo folle
quindi autentico accadere.
Il tempo è venuto, essi si saranno detti. E sono partiti portando con sè tutto di loro. Anche i morti.
Tu, Francesco Tunda, indirizzato da un cieco alla guida di un sacerdote, hai gridato tutta la tua gioia,
scandalosa gioia, sul campo di battaglia al termine della notte. Esodo.
- Sei un principe davanti al mare dei morti. Ti sei detto,
Ovviamente e, fatti tutti i conti, il disseppellimento dei morti e la collina di fuoco e la migrazione, non fa
notizia. Ma per scrupolo professionale hai verificato, dieci i secondi dei telegiornali. Disseppellire i morti
non fa notizia.
- Quante volte bisogna morire per imparare a vivere? Ti domandi, Francesco Tunda.
*
Adam è nato in un villaggio di agricoltori.
Lassù, nella quiete dei boschi, fitti di querce e roveri e pini.
Oggi, anche in questo preciso momento, tu che scrivi e leggi, l'oleografica quinta della quiete è squarciata
dai carri, dall'artiglieria campale, dal tiro dei cecchini appollaiati lassù, in cima ai pini dove nidificavano
gazze.
Adam ha la gamba e l'avambraccio destro fasciati.
E' stato ferito durante il suo primo combattimento. Una scheggia di mortaio gli trancia un nervo del
polpaccio. Subirà due interventi. Gli asportano un nervo dall'avambraccio per innestarlo nella gamba.
- Sta guarendo. Dicono i medici nell'ambulatorio.
Tu gli parli, Hannah traduce, mentre Adam si sottopone alla medicazione quotidiana.
Il volto del ragazzo è adulto.
- Dove c'era la mia casa, il villaggio, adesso cresce l'erba. Così Adam.
Quando compì tre anni nacque la sorella.
Il padre, la madre, la sorella, Adam e il nonno vivevano nella secolare cascina di pietra bianca, calcarea.
Allevavano il maiale e le galline e i conigli, avevano il cane, due capre e quattro mucche. Producevano
burro e formaggio.
Si vede dalle mani che Adam ha sempre lavorato, e da come fuma, non spreca neppure una tirata.
Camminando, la schiena gli anticipa i suoi passi.
Quando è scoppiata la guerra il nonno non ha inteso di andarsene. Ha liberato tutti gli animali che non
sapendo dove andare sono rimasti nella stalla, meno il maiale che era giovane ed è entrato nel bosco e si è
imbrancato con i cinghiali.
23
Il nonno l'hanno ammazzato lì, sulla porta di casa.
- Tu, vecchio sei ancora buono per morire ma non vali il colpo.
Gli hanno infilzato la baionetta nella pancia e il vecchio è morto nel suo sangue sulla soglia bianca di
calcare che le donne lavavano ogni domenica.
Così hanno riferito a Adam due donne che sono riuscite a fuggire. Poi hanno spianato il villaggio con i carri.
I cadaveri degli abitanti sono stati gettati nel fitto del canalone dove s'incassa il fiume che scorre tra le
rocce grigie e azzurre.
- Dove c'era la mia casa, il villaggio, adesso cresce l'erba. Così Adam.
Le guance sagomate sulla gabbia degli ossi e gli occhi verdi.
La sua famiglia abita in un campo per profughi.
Vivono di carità come tutti gli esuli in patria.
Sua sorella è morta da quattro giorni.
Solo per questo motivo Adam sta parlando sottovoce e ti chiede scusa.
- Parlare sottovoce, parlare con la voce monotona è segno di lutto. Aggiunge Hannah alle parole di lui.
Mentre Adam parla l'infermiera gli avvolge le ferite con bende candide. Gli infila la rete elastica che
chiude la fasciatura e gli muove con cura l'articolazione della gamba. E gli carezza i capelli. Gli dice di non
spostare il peso sulla ferita e di camminare con la stampella. Lui annuisce.
Sua sorella era sposata da pochi mesi quando è morta. Dice che l'hanno trovata morta sulla branda nella
tenda che divideva con un altra ragazza sposata.
I mariti sono al fronte.
La sorella di Adam si è tagliata la gola con il rasoio.
Mentre parla le nubi basse e cariche di pioggia passano sui grandi alberghi requisiti dal governo per i feriti
e i profughi più anziani. I più giovani stanno sotto le tende, dentro le roulotte, in carri ferroviari.
Le nubi passano sul mare appena increspato.
- E' bello vedere i vecchi che camminano per i parchi con le palme e passeggiano sulla spiaggia nelle belle
giornate. Dice Adam.
- E' bello. Dice con la sua voce inerte.
- Adesso lo vedono il mare, il desiderio della loro gioventù.
Dice che quando si è rimesso intende tornare lassù. Vuole ritornare tra l'erba verde del suo villaggio per
abbattere i maiali. Dice che i maiali hanno mangiato i cadaveri.
- Bisogna che vada ad abbattere i maiali per seppellirli nel cimitero. Dice Adam.
- Sì. Voglio sparargli. Un solo colpo alla testa. Signore pietà. Dicono che i maiali quando mangiano la carne
umana diventano feroci. Dovrò stare attento. Starò molto attento. Poi li vado a seppellire. Porterò i maiali
al cimitero. Come i cristiani. Signore pietà. Dice Adam.
*
Un giorno avrà perduto le mani, Ernst. Esplode una granata. Scomparse sino all'avambraccio. La gamba
sbranata, dal polpaccio alla coscia.
Sangue, carne, nervi, ossa.
Subito. Subito dicono che è morto. Archiviato.
Morto mentre vive.
Lo trascinano in una infermeria da campo. Morto mentre vive. E lo lasciano lì. Lì sotto una tenda
verderame, il colore delle vigne d'autunno. Il colore di un letargo così simile alla morte.
24
- Morirà. Dicono.
I medici vanno e vengono parlando di lui con una sola parola... morirà.
Morirà hanno detto, chinati di fretta sul suo corpo.
Sangue, carne, nervi, ossa.
E se ne vanno.
Ernst li sente.
Non compie alcun gesto. Non geme. Non parla.
- Si parlava dentro. Così Ernst parla adesso di se stesso. Parla di quel corpo lontano deposto sotto il telo
verderame della tenda. Un corpo che Ernst ha abbandonato.
Ernst che non gemeva. Ernst che non parlava. Ernst già milite ignoto. Pietrificato.
Forse fu allora che un cane da battaglia, sfuggito dallo strozzo al termine della notte, discese dalle colline.
Forse entrò direttamente nella tenda. Entra e abbaia. Abbaia tra i morti accatastati. Abbaia alla sua vita.
Abbaia ai suoi delitti.
E un medico si accorge del cane che abbaia. E si accorge di lui. Ernst. Del suo corpo. Del suo respiro. E
dice che vive. Dice, chinato sul suo corpo, che vivrà.
- Se non è morto sino ad ora vivrà.
E lui lo sente. In quel preciso istante Ernst si incontra con il dolore. E grida. Prime medicazioni. Allora lo
trasportano lontano dal campo di battaglia. L'ospedale, il mare, le infermiere, le operazioni. I commilitoni
che vede guarire. Che vede morire.
Ernst è alto un metro e settanta, ha i capelli neri e gli occhi azzurri nascosti dagli occhiali da sole.
Cammina un poco zoppicando e tiene i moncherini infilati nelle tasche del giubbotto. Fuma. Estrae il
pacchetto dalla tasca facendolo scivolare sulla coscia. Con i moncherini porta il pacchetto alle labbra.
Apre la linguetta di cartone coi denti. Regge il pacchetto coi moncherini e, sempre coi denti, strappa una
sigaretta.
Si sorride soddisfatto.
Poi ringrazia con un cenno del capo chi gli offre il fuoco.
I suoi movimenti, tutti i suoi movimenti, in una sigaretta.
Ernst ha trentotto anni, nessuna famiglia, nessun amore, nessun odio.
- Neppure un desiderio?
Si uno ce l'ha. E' un desiderio nel quale Ernst si riconosce. Da quando ha abbandonato quel corpo, lassù,
sotto la tenda verderame, tra i morti accatastati.
- Da quando la vita ha preso possesso. Così Ernst testualmente.
- Da quando la vita prendendo possesso mi ha reso consapevole della morte.
- Neppure un desiderio?
Ernst lo esprime sorridendo. Un sorriso piccolo. Il sorriso del bambino che ha perso la gamba. Il sorriso del
bambino che ha perso un braccio. Il sorriso del bambino che ha la mascella fracassata in una gabbia di
acciaio.
Ernst lo esprime sorridendo.
Non vorrebbe mai aver ucciso nessuno, Ernst. Ma l'ha fatto. Ha tirato e visto che cadeva.
- Molte volte. Dice.
- Oh, si. Molte volte.
Ernst alza un poco le spalle e allarga i ceppi delle braccia.
Ernst se ne va.
Ernst cammina leggermente ondeggiando sulla banchina del lungo mare.
Ernst cammina da solo, verso l'orizzonte chiuso dalle nubi che entrano dal largo.
- Addio. Tu gli hai detto in silenzio, guardandolo camminare.
- Addio soldato senza mani, senza famiglia, senza amore e senza odio.
- Addio soldato con un desiderio. Piccolo desiderio. Il desiderio di non avere ucciso.
25
- Quante volte bisogna morire per imparare a vivere? Ti domandi Francesco Tunda.
*
Ecco, tu adesso hai ascoltato la sua storia. E mentre Ernst parlava e Hannah ti traduceva tu hai avuto un
pò schifo del tuo mestiere.
La sua storia fatti tutti i conti non fa notizia.
E comunque, qualsiasi parola tu cerchi nel sacco delle parole non è mai la parola che veste quella carne.
Quel desiderio. Suona così lontana la parola. Così indisponente anche.
Tu, mentre lo ascoltavi, saresti voluto essere Lazzaro.
- Lazzaro che ritorna dal regno dei morti per dire tutto e dirà tutto.
- Lazzaro, solo Lazzaro saprebbe dire inconfutabilmente.
- Oh, le parole di Lazzaro dicono cos'è. E le parole di Lazzaro entrano e maturano e sono sangue e sono
carne e nervi e ossa. E allora sappiamo cos'è. Ma Lazzaro non ritorna dal regno dei morti. Se solo tornasse.
Ti sei detto.
- Oh, ma non torna.
- Quante volte bisogna morire per imparare a vivere? Ti domandi Francesco Tunda.
*
Hannah voltava le spalle al mare, guardava le dure colline dirimpetto quando un altro uomo si è seduto
alla poltrona di barberia della parola. Poltrona dove la parola viene sintetizzata.
Fatti tutti i conti perché faccia notizia la parola deve essere ridotta a metastasi del pensiero originario.
Parole estorte.
L'uomo siede e il fotografo cerca la posa.
Tu la vedi la posa. Quest'uomo ha solo il profilo.
- La guerra gli ha lasciato solo il profilo. Ti dici.
Ma il fotografo non vede la posa e gli fa il gesto di guardare dentro l'obbiettivo. L'uomo che ha solo il
profilo, il suo volto affiora dal passato in un presente senza tempo, senza stagioni, è rivolto allo stretto di
mare che apre laggiù al largo e laggiù al largo all'orizzonte chiuso dalle nubi che arrivano.
L'uomo non aveva mai visto il mare.
- Adesso lo vedono il mare, il desiderio della loro gioventù. Così aveva detto Adam, testualmente.
L'uomo era nato dentro una casa. Una casa dentro una valle. Una valle dentro i precipizi delle montagne.
L'uomo era stato raccolto che vagava per i boschi, tra i rami fioriti delle impiccagioni. E quest'uomo, che
non aveva mai visto il mare, era stato condotto al mare.
- Per morire. Ti sei detto.
- Profughi. Solitaria moltitudine.
Il fotografo gli fa nuovamente cenno di guardare dentro l'occhio cieco dell'obbiettivo. Tu cerchi di spiegare
al fotografo che a quest'uomo rimane solo il profilo.
Ma il fotografo ti guarda e non capisce e tu, tu Francesco Tunda comprendi perfettamente perché Lazzaro
non ritorna dal regno. Nessuno ascolterebbe Lazzaro.
- Sì, ecco la verità. La scandalosa gioia generata dalla verità. Ti dici.
26
- Nessuno lo ascolterebbe. Lazzaro non può ritornare perché è già tornato mille e mille e mille volte e
nessuno lo ha ascoltato. Nessuno lo ascolta. Vive con noi Lazzaro e nessuno lo ascolta.
- Siamo senza orecchie.
Devi averlo detto ad alta voce e Hannah, che seguiva il flusso dei tuoi pensieri, ti dice che siamo anche
senza occhi.
- Siamo senza orecchie e siamo senza occhi, ma abbiamo una bocca grande. Dice.
E dice che lei, Hannah, si sfinisce nel tradurre in una lingua non sua parole che le appartengono e che sono
sua carne e suo sangue e suoi nervi e sue ossa. Parole che, lo sa benissimo, fatti tutti i conti non avranno
voce perché sono parole che non fanno notizia.
E lei, Hannah, ti dice che non traduce più finché il fotografo continua a fare il gesto, col medio, di
guardare dentro l'obbiettivo.
E allora tocca a te tradurre per il fotografo e lui dice che sta facendo il suo mestiere. E continua dicendo
che lui è qui, fatti tutti i conti, solo per fare il suo lavoro.
Tu ti lasci prendere dicendogli che, fatti tutti i conti, non c'è nessun lavoro da fare perché non ci sono né
orecchi né occhi. Ma lui, il fotografo, non capisce. Non capisce, come nessuno riesce a capire le parole di
Lazzaro che ritorna e ritorna dal regno dei morti.
Allora fai arretrare il fotografo di due passi e gli dici di fare una foto da lì.
L'uomo che non aveva mai visto il mare e che era stato portato al mare per morire, l'uomo al quale è
rimasto solo il profilo viene fotografato sullo sfondo del mare.
- Oh! Esclama il fotografo.
- Faccio un pò di scatti anche a colori, il panorama è stupendo.
- Sì. Gli dice Hannah.
- Teniamo fermo anche il mare perché tu faccia un pò di foto per le agenzie di turismo.
E grida, dando le spalle al mare, alle onde di non muoversi e di guardare dentro l'obbiettivo.
- Ecco. Dovremmo domandarci perché Lazzaro continua a ritornare dal regno dei morti. Ritorna e ritorna.
E nessuno che lo vede. Nessuno che lo ascolta. Dice Hannah mentre il fotografo scatta.
*
- Prendi la mia vita e dammi la sua. Cristo ha detto andando incontro alla morte.
L'immagine di Cristo che parla con la morte è precisa. Chiunque la può vedere. Accade ogni giorno. Il
tempo è presente.
Cristo parla piano, con la vera autorità di chi è vivo ma completamente fuori dalla sua vita.
- Prendi la mia vita e dammi la sua. Cristo ha detto andando incontro alla morte.
Cristo ha fatto vivere la morte. E la morte si è spaventata.
Nessuno mai si era presentato alla morte.
Nessuno.
Non uno.
- La morte non sapeva se Cristo avesse ragione. Ti sei detto nel tuo silenzio Francesco Tunda.
- Non l'avrà mai saputo. E comunque non importa.
- La morte sapeva che Cristo diceva la verità. Non si poteva sottrarre la morte alle parole di Cristo. Cristo
aveva messo la morte con le spalle al muro. Non le lasciava via di scampo. Questa la verità.
- Io adesso sono Lazzaro. Ha detto semplicemente Cristo alla morte.
- Adesso sono Lazzaro.
La morte temendo di morire ha dovuto accettare.
E Lazzaro è ritornato dal regno dei morti.
27
Lazzaro era già Cristo molto prima che Cristo morisse, e Cristo lo sapeva. E ha sorriso. E ritorna.
L'immagine, che chiunque può vedere, è precisa.
Il tempo presente.
*
Hannah non è bella, e lei lo sa. Se lo dice sempre.
- Non sono buona neppure per fare la puttana, e tu non puoi neppure immaginare quanto aiuti fare la
puttana, anche in guerra. Dice.
Hannah fuma cento sigarette al giorno e quando ride e ti osserva con i suoi occhi neri maturati nella paura
si copre la bocca con le mani. E trema.
Hannah avrà trent'anni. Già bianchi i suoi capelli neri.
Hannah non è bella e lei lo sa.
Ma per te, Francesco Tunda, Hannah è bella. Bellissima.
Una notte tagliata dalla bora avete camminato lungo il viale dei Tigli veramente deserto, nella polvere che
saliva sino al cielo. E lei si è fermata e ha portato le mani al viso.
E allora hai capito che, per quanto Hannah parlasse e ridesse anche, lei era comunque lontana. E alla fine
tanto lontana, in un luogo che solo lei conosce e del quale non aveva mai detto.
In quella notte, dentro il silenzio battuto dalla bora, immersa nella polvere che veniva dalla caverna della
città scavata, Hannah stava incontrando qualcuno sul palcoscenico della sua memoria.
Tu avresti voluto andare subito in casa, essere già in branda dentro il sacco e ascoltare dalle finestre senza
vetri la bora mentre viene il sonno che scalda i piedi e le gambe e le mani, e dormire. Dormire e dormire.
Una notte intera senza sogni.
Hannah piangeva e quando smisero di scendere le lacrime continuava a piangere forte anche se scrollava il
capo come dire che non era niente. Niente. Non era più niente.
- Non ha nessuna importanza. Ti disse giorni dopo quella notte.
- Il suo nome non ha nessuna importanza.
Tu non avevi fatto nessuna domanda. Hannah parlava piano, con una voce dura, monotona. Tu hai capito
che Hannah parlava della notte, della bora che tirava sul viale deserto e di chi si fosse presentato sul
palcoscenico della sua memoria.
Era un medico, le cronache hanno dimenticato.
Era stato il primo osservatore medico della guerra in corso a morire in un'imboscata.
Allora tu hai compreso che durante tutti i giorni che avete trascorso insieme, in auto e nelle strade, nelle
case e lungo i viottoli minati delle colline, per tutto il tempo che Hannah ti ha dedicato lui era stato con
voi.
- E' stato ucciso due anni fa. Così Hannah.
Una delegazione accompagnata da un drappello di soldati saliva per la collina a due miglia dalla città in
fiamme. I lasciapassare e tutte le carte in ordine. Non si saprà mai bene perché accadano certi fatti e a
chi imputarli. La prima raffica ha abbattuto la ronda militare. Due ragazzi, e la seconda, pressoché
simultanea e incrociata alla prima, sul gruppo della delegazione. Lui camminava al fianco di Hannah, le
allacciava la vita. Sono caduti insieme. Lui sopra di lei. Il volto spappolato e il sangue e il cervello che
usciva. Hannah urlava ma non riusciva a muoversi. Hannah deve aver urlato così forte che ha perso
immediatamente e completamente la voce.
Era lì, immobile sotto il corpo di lui, vestita di sangue e cervello e carne, gli occhi aperti. Da morta. Li ha
visti scendere a balzi la collina, finire a colpi di automatica i feriti, Hannah deve essere sembrata morta.
Risalire di corsa e scomparire nella vegetazione.
- Non chiedere chi erano. Chi è stato. Di che banda. Da che parte stavano. La guerra vuole i morti, è una
costante. Così Hannah.
28
- Ho pregato. Ho pregato per tutti i giorni che non avevo pregato. Ho pregato per tutti i giorni che
verranno. Non so se mi sono riconciliata con Dio. Ho solo pregato. Pregato. Pregato. Non c'era alcuna
immagine nella quale potessi rifugiarmi. Tutta la vita passata svaniva con il presente. Di tutto quanto era
stato affiorava solo la preghiera. E pregavo.
Quella notte nevicò. Hannah rimase lì, immobile per ore. Il sangue e il cervello e la carne rappresi. Quando
si volle alzare non fu capace. Prese a muovere prima un dito dei piedi e delle mani, poi, strisciando,
mentre cadeva la neve, sgusciò e si alzò cadendo sul viso.
- Provavo vergogna ad andarmene. Non è giusto, dissi, che io sia viva. Ma non volevo morire.
Si rialzò e ricadde sulle braccia troppo deboli. Il calore del suo sangue scioglieva quello di lui, le colava in
gola. Prese a strisciare carponi. Si alzò sbandando violentemente, scivolando sulla neve. I rovi della
boscaglia le rigarono braccia e gambe. Guadagnò la strada. L'auto con le insegne della delegazione era
ancora lì. Era ancora lì con le chiavi infilate nel cruscotto e partì.
Indifferente di ogni prudenza Hannah scese, gli abbaglianti accesi, nella città assediata col rischio di
essere mitragliata anche dai suoi.
- Vomitavo. Vomitavo il sangue che avevo amato. Mi strappai gli abiti.
Sbandò quasi ribaltando, davanti a un corpo di guardia. I militari, ragazzi spaventati, pronti, a mitra
spianato.
Per dovere, prima di lasciar partire le raffiche, domandarono, e Hannah rispose. L'accompagnarono
all'ospedale.
Camminava nuda nei sotterranei gremiti di feriti e moribondi. Nell'odore dell'urina e del vomito.
L'accudirono un poco. La notte stava finendo.
Hannah tornò a casa. Si lasciò andare sotto la doccia finché l'acqua dello scaldabagno non fu che acqua
gelida. Si lavò i denti per ore. Aveva in bocca il sapore del sangue e del cervello. Beveva acqua e
vomitava... vomitava... vomitava.
Dormì un giorno intero senza chiudere gli occhi. Quando provava a chiudere gli occhi vedeva il volto di lui
saltare via e appiccicarsi al suo.
E le ritornava la vergogna di non aver desiderato - mai, neppure un piccolo istante - il morire.
- Ho imparato a dormire con gli occhi aperti. Così Hannah e non ti ha detto altro.
Quella notte che faceva freddo ma era primavera e tirava la bora ed era bello per quanto pauroso, di
orribile paura, camminare per le strade e i viali deserti nelle folate di polvere che veniva via dalle
macerie, ovunque le macerie e la polvere che nasce dalle macerie, quella notte Hannah lo ha incontrato. E
ti ha detto di lui. E lui è stato con voi per il tempo che avete passato insieme.
Hannah non aveva detto il nome di lui. Quel nome era congiunto al sangue, a quel sangue vomitato. Non lo
disse quel nome. Era di Hannah. Per sempre.
E quando viaggerà la bora, sia tra dieci anni o venti o trenta o cento, o solo domani, lei si fermerà lungo il
viale. I suoi capelli bianchi rivolti al vento. E volgerà le spalle alle strade deserte. E veramente sola
piangerà. E allora saranno soli nell'andare del vento. Allora dirà il suo nome. E lui risponde.
Per questo hai detto che Hannah è bellissima. E Hannah lo sa.
*
- Sequenze devastanti. Hai detto nella hall a bovindo sul mare dell'albergo che risuona dei passi perduti di
ufficiali in festa lungo i corridoi.
- Pornografia. Così il Capitano.
Un soldato lavora al muletto intento a spostare container. Banale occupazione che incontra l'interesse di
un video operatore.
Il soldato viene inquadrato in primo piano e ancora sorride ai suoi pensieri mentre scivola dalla cabina
aperta e cade. Inseguito dalla camera in primissimo piano il soldato dei caschi blu fissa il cielo carico di
nubi con i suoi limpidi occhi azzurri colmi di meraviglia, cristallizzati dalla morte. Grisaglia di pioggia il
suolo.
Mentre il campo si allarga accorrono i commilitoni con la barella. Il soldato è morto sul colpo del cecchino.
29
La sequenza, il soldato al muletto, la caduta e la morte, è stata ripresa in piena luce e viene trasmessa dai
circuiti televisivi di tutto il mondo.
- Pornografia autentica. Così il Capitano.
- Ma tutto ciò che compie l'uomo è umano. Hai detto.
Nella hall a bovindo sul mare dell'albergo che risuona dei passi perduti di ufficiali in festa lungo i corridoi
la tua voce svanisce.
- L'agenzia occidentale sborsa diecimila marchi per lo scatto. Per questa ripresa forse anche centomila. In
ogni caso le indicazioni, via GSM, sono precise. Primo piano, primissimo piano, dettaglio. E' importante la
luce. Fondamentale la luce per una buona ripresa. Sì, centomila marchi ci stanno tutti. Hai detto al
Capitano.
- E nessuno domanderà perché un video operatore si è impegnato a girare minuti di preziosa pellicola
filmando un soldato al lavoro. Se il caso non avesse voluto, quel filmato sarebbe stato invendibile in ogni
mercato. Così il Capitano.
- Il caso. Hai detto.
- Oh sì, il caso. Come il silenzio anche il caso va coperto. Ti sarai detto.
Di quella vita ti rimangono il sorriso da libero animale inconsapevole del suo tramonto. E quegli occhi
azzurri colmi di meraviglia. E la grisaglia del suolo.
Il Capitano, aveva ricevuto un'educazione esemplare, ha suonato un notturno al Bosendorfer abbandonato
nella hall deserta. La musica saliva nei corridoi dove i passi perduti della festa erano svaniti e usciva dalle
finestre spalancate.
Era una calda notte di maggio. Di tregua. Di silenzio.
- Quante volte bisogna morire per imparare a vivere? Ti domandi Francesco Tunda.
*
A te, come a tutti quelli della tua generazione, mancava la guerra. Sei voluto venire a vederla. Eccola. Ti
si offre.
Svangati dal sottosuolo, grassi e ciechi e bianchi i vermi vagano tra le zolle davanti alla madre che urla.
Urla. E quella carne appena discesa seguita a chiamare.
Non hai neppure tentato via GSM, consapevole che fatti tutti i conti l'eco
di questa morte non fa alcuna notizia.
Questa morte... oggi ne sono stati sepolti quindici.
Oggi quindici morti in sepoltura.
- Si può ancora scrivere di martirio senza che se ne irrida? Ti domandi davanti alla madre che urla distesa
sulla terra del figlio appena sepolto.
La madre urla affondando le braccia nella terra del figlio e tu ti domandi se sia ancora possibile scrivere di
martirio senza che se ne irrida.
Suo figlio tu l'hai visto nella cripta. Sei stato accompagnato.
- Giornalista. Ti ha detto il Capitano col cenno di seguirlo e avete attraversato la folla alla quale l'ingresso
era stato vietato.
Sette gradini.
Cera e incenso.
I coperchi di legno verde sgocciolano resina.
L'eterno riposo dona loro Signore e splenda ad essi la luce perpetua riposino in pace amen.
Così tutto d'un fiato il sacerdote.
Conti quindici cadaveri, dai diciotto ai trentatré.
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- Sei voluto venire a vederla, la guerra. Eccola, in offerta.
Quindici le gole aperte. Sono blu. Il taglio chirurgico. Esperta la mano che ha eseguito. Il sacerdote applica
sulle gole bende ricamate immerse in una bacinella di acqua benedetta. Nudi i corpi distesi dentro le casse
di legno grezzo. Nudi, bianchi, prosciugati. Di ciascuno il sesso infantile soffocato dal pelo puberale.
- Oh, come sporge il costato.
- Oh, come sporge il bacino.
- Oh, come sono esili le gambe. E le spalle. E le braccia. E le mani. E come è incassata la testa. Incassata e
reclina. Reclina e così grande sul corpo. Grande e morta.
- Ora le schiere degli angeli li accompagnano, ti piacerebbe poter dire con la certezza con cui conti i
quindici morti. Dai diciotto ai trentatré.
- I corpi sono stati restituiti spogliati, così il Capitano.
L'eterno riposo dona loro Signore e splenda ad essi la luce perpetua riposino in pace amen.
Così tutto d'un fiato il sacerdote.
- Chi sarà dei quindici l'ultimo, quello che ha visto tutto... quale luogo avranno fissato i suoi occhi quando
la mano esperta si è fatta avanti in un'ombra gigantesca... avrà sperato, disperatamente, ma sperato, che
il chirurgo fosse già sazio... chi sarà dei quindici...
Ti è stato detto che tre anziane converse hanno lavato questi corpi nella notte e, sempre nella notte,
accudendo l'opaca carne hanno sciolto il rigore delle palpebre con panni caldi, per ore e ore, per tutta la
notte. Per chiuderle alla rappresentazione dell'ombra gigantesca.
- Si può ancora scrivere di martirio senza che se ne irrida? Ti domandi.
I rami neri dei tigli sono spezzati. Lerci dell'aria che si respira nella caverna a cielo aperto. Hai camminato
e le foglie marce sfiorano il tuo volto, cadono sui tuoi passi. I venti hanno il sapore della pioggia, del mare
di là dal passo, di là dal fiume e dagli alberi. Dell'incenso e della terra vangata. Terra fresca. Del silenzio
del bosco nella notte.
Le madri gridano, le mogli gridano, i fratelli e le sorelle gridano. I padri in silenzio guardano lontano.
Consapevoli della morte i bambini tremano.
Le casse passano sorrette a spalla. I soldati presentano le armi. Il sacerdote recita al microfono una
preghiera. Grida, squarci di voci, sono da eco ai colpi sparati al cielo.
- Sparano al silenzio della divinità. Ti sei detto.
John Lennon canta Imagine mentre le casse scendono.
- No. Sparano per occultare il silenzio di dio.
John Lennon canta Imagine.
- Oh, come sono fonde le fosse.
John Lennon canta Imagine.
- Oh, come scorre la corda.
John Lennon canta Imagine.
- Oh, come bussa la terra sulle assi.
John Lennon canta Imagine.
- Oh, come sono lunghe le radici dell'erba.
John Lennon canta Imagine.
- Oh, come sono grassi e ciechi e bianchi i vermi che vagano tra le zolle.
John Lennon canta Imagine.
L'eterno riposo dona loro Signore e splenda ad essi la luce perpetua riposino in pace amen.
Così tutto d'un fiato, l'ultimo fiato del sacerdote.
John Lennon canta Imagine.
Tra i cipressi e i cedri le tombe. Di là i rami lerci dei tigli spezzati nella caverna a cielo aperto.
Il viso di lei è madido di pioggia diaccia. Di sangue. Di terra. Lei non piange più. In piedi davanti alla terra
smossa. Lo vedi come lo ama.
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- Si può ancora scrivere di martirio senza che se ne irrida? Ti domandi davanti a questa madre.
Tu, Francesco Tunda, hai mandato a memoria ogni passo, gesto, parola, sguardo, le foglie cadenti, la
pioggia, il cielo, le fioche luci nelle case. La musica che riempie di silenzio la caverna. John Lennon che
canta Imagine. Le bandiere flosce, pesanti di pioggia. La marcia lenta dei soldati che riguadagnano le
postazioni della tregua armata.
Oggi quindici sepolti. Dai diciotto ai trentatré.
Lei, sola, in piedi contempla la terra smossa. Lo ama. Bellissima nel suo dolore.
- Uccidila... tu avresti voluto dire al Capitano... Uccidila... uccidila subito... uccidila adesso. Per favore
che qualcuno la uccida.
- Ma dovresti farlo tu. Ti sei detto.
- Il mestiere sporco oggi toccherebbe a te.
- Impossibile non amare questo dolore. Ti sei detto.
- Dolore luminoso. Dolore compiuto.
Le hai sfiorato i capelli, l'impasto di terra e sangue e pioggia.
- Signora. Le hai detto.
- Oh, Signora...
E hai respirato nel suo abbraccio l'odore di lei. Di lei che abbraccia uno sconosciuto.
E si lascia andare contro il tuo corpo senza ritegno. Scandalosamente il suo dolore ti prende.
Il dolore della madre si aggrappa ai vivi.
E ti offre il dolore che ama.
Nel suo urlo senza voce le gengive nude.
- Dolore bellissimo. Ti sei detto.
Tu la tenevi tra le braccia sul terreno aperto e abitato dai morti. Tu la tenevi tra le braccia, circondati
dalla pioggia diaccia.
Il Capitano ti ha detto che era tempo di andare. Annotta. Una notte buia e fonda. Gli assassini si stanno
preparando da qualche parte. In una cantina. In un appartamento. In un cascinale. Al tavolino di un caffé.
Lei, la madre, ti libera. Si lascia scivolare, confondersi con la terra, con la notte, con la pioggia. Con il
silenzio.
Si sarà sparata nella stessa notte.
Era venuto per lei il tempo di raccogliere. Raccoglieva l'amore nella veste della morte.
Era tempo di andare e avete camminato con la cadenza dei soldati, un passo un metro, lungo il viale dei
Tigli. Avete camminato a lungo. Lenti. Le spalle pesanti.
Siete andati per bere. Vodka e champagne. E' straordinario come, anche nel ventre del campo di battaglia,
si trovi sempre il ghiaccio, una bottiglia di vodka e una di champagne.
Straordinario. Ghiaccio, vodka e champagne.
Poi, nella notte, al limitare dell'ultimo bicchiere, hai parlato ad alta voce e parlando dicevi quello che
vedevi. Che avevi visto.
- Si può ancora scrivere di martirio senza che se ne irrida? Senza che lo si riduca a materiale, a foto da
ghigno? Ti sei domandato.
- Si può ancora scrivere dunque di martirio?
- Ma basta. Basta. Questa domanda tormenta. Ti sei detto.
- Un tormento.
- No. Ti sei risposto. Perché barare, perché mentirsi. No, non si può più scrivere di martirio senza che se
ne irrida. La divinità è stata licenziata. L'hai detto tutto d'un fiato, la divinità è stata licenziata.
- Ecco la verità. Così hai detto, incredulo ma già consapevole.
- La divinità è stata licenziata.
L'hai ripetuto ad alta voce, per incidere lo spazio ed il tempo che stavi attraversando. Licenziata.
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E dalla splendida corte della tua memoria dove nessuno era mai morto davvero e nessuno viveva davvero si
è sporto quel soldato, giovane e bello, con gli occhi miti della truppa, occhi ancora inconsapevoli, che si
era alzato, in quel tuo primo giorno d'ingresso nella caverna a cielo aperto, per risponderti e staccando la
mano dall'anca ti aveva indicato, misurando il silenzio, spazi lontani, verso occidente. Eccola quindi
quell'immensità indicata. L'occidente. Un'immensità priva di promesse. Chiusa nel silenzio.
- La divinità è stata licenziata. Hai detto ancora.
- Non si può più scrivere di martirio. Chiunque deriderà.
- Si. Hai detto.
- Come non esserne certi. Essi deridono. Sono maestri nella derisione. Il silenzio, fatti tutti i conti, va
coperto.
Tu, il Capitano al tuo fianco, che ascoltava immobile le tue parole nel vento avete guardato alle stelle.
Fredde.
- Il tuo cuore è ferito. Ti sei detto.
- E' una frase che non si scrive più, oggi. Che non si può scrivere, così ammoniscono i critici. Eppure il tuo
cuore è ferito.
- Questa non è la tua guerra, un giorno ti diranno.
- Tutte le guerre sono la mia guerra. Tu risponderai. E quando tutta l'umanità parteciperà alla guerra non
ci sarà più nessuna guerra.
- Ma comunque la frase non si può scrivere. Si può forse ancora scrivere di martirio senza che se ne rida? Ti
ripeti e nel tuo cuore incontri il silenzio. E sorridi.
- Oh, adesso uno sparo.
Ti è stato detto che lei si è sparata alla nuca.
Lei si è sparata alla nuca. Nel suo attuare il morire ha voluto indicare la modalità dell'assassinio.
Sarà riconosciuta, la madre, dall'occhio sbarrato.
L'eco di quello sparo ha vagato a lungo, implacabile, nella caverna a cielo aperto, tra l'indifferenza
consueta, prima di dissolversi.
Abbi cura, sussurrava la madre alla terra del figlio. Abbi cura, per favore. Per favore. Per favore. E lei
sorrideva. Lei reclinava lieve il capo sul palmo della mano sussurrando e sorridendo. La mano lì, sospesa,
tra la terra e il cielo, dipinta da Michelangelo. Sorrideva appoggiando la guancia. Poi, al termine della
notte, si è sparata.
- Ora le schiere degli angeli l'accompagnano. Tu avresti voluto poter dire.
- Il suo dolore, bellissimo. Ti eri detto.
Il dolore, la verità.
A te, come a tutti quelli della tua generazione, mancava la guerra.
- Oh, la guerra.
Un suono fasciato di sangue.
Sei voluto venire a vederla.
Ecco. Quello che hai visto è vero.
*
Pioggia. Pioggia diaccia e grisaglia la luce e l'acqua del fiume scorre acciaiosa, limpida e violenta, tra
massi ferrigni.
Ore 08,15'
Sulla strada verso Nord. A Est le colline stringono la città. A Ovest il fiume. Pioggia diaccia. Grisaglia il
suolo. Qui ti sei incontrato con una granata alle 08,15'. La granata prende l'auto in piena corsa. Il radiatore
squarciato.
- Nessun ferito.
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- Tutto bene.
Così il Capitano, un miglio appresso.
Dunque, sulla strada, ore 08,14',59". Pioggia diaccia. Grisaglia la luce. L'acqua del fiume scorre acciaiosa
tra massi ferrigni. Le gocce esplodono sul vetro in un'ansia di neve. Nove le case. Le hai fotografate,
stampate nella memoria. Nove le case della frazione, una macchia di giovani querce vetrificate dal
fosforo. Quattro alberi. Nove case.
Nel luogo, che rivedi, cammini, conti i rami vetrificati delle quattro querce. Li carezzi. Appoggi il capo al
legno vetrificato. In quel luogo ti incanti.
A te, come a tutti quelli della tua generazione, era mancata la guerra.
- Oh, la guerra.
Un suono fasciato di sangue.
Dunque, quattro gli alberi, nove le case. Acqua diaccia. Cielo grigio. Grisaglia il suolo. Silenzio a bordo.
Il Capitano tiene l'auto sui cento venti. Scorrono nella luce grigia tre pompe di benzina scheletrizzate,
sullo sfondo un auto grill con la scritta rosa Welcome.
- Tu giornalista osservi la vita e non hai nessuna risposta. Osserva il presente morire e allora comprendi.
Così a te, testualmente, il sacerdote che aveva accompagnato alla sepoltura i quindici morti.
- Nessun ferito.
- Tutto bene.
- Oh, la guerra.
Un suono fasciato di sangue.
La granata ti presenta nudo davanti al mondo. Sei nudo sulla soglia della vita e comprendi tutto ciò che un
uomo vivo può comprendere della morte.
- Devi dirtelo. Senza alcuna reticenza. Senza alcuna omissione. Il suono fasciato di sangue si articola nella
parola. L'hai ascoltata. Non sai dire se Cristo avesse ragione. Sai dire, adesso, che Cristo disse la verità.
L'ingresso della parola di dio nella realtà mostra la vita.
Welcome.
*
Alla fine di agosto di quell'anno, l'anno del tuo incontro con la guerra, tu Francesco Tunda sedevi al
tavolino d'un caffè all'aperto nella piazza della Cattedrale.
La giornata di fine agosto era limpida e tiepida.
Bella da vedere.
Osservavi le ragazze che andavano e venivano.
- Vuoi far cambio con la mia dannata vita? Ti aveva domandato quel giovane soldato scolpito nella trincea.
Osservavi solerti uomini d'affari contraddistinti dalla grisaglia divisa sussurrare, in più lingue, della finanza,
della borsa, dell'economia, del mercato, della politica.
- Vuoi far cambio con la mia dannata vita? Ti aveva domandato quel giovane soldato scolpito nella trincea.
Osservavi giovani mamme badare ai bambini che rincorrevano piccioni sul sagrato.
- Vuoi far cambio con la mia dannata vita? Ti aveva domandato quel giovane soldato scolpito nella trincea.
Osservavi barboni frugare nei bidoni della spazzatura gli avanzi dei turisti.
- Vuoi far cambio con la mia dannata vita? Ti aveva domandato quel giovane soldato scolpito nella trincea.
Osservavi i carabinieri in alta uniforme scrutare, con metafisica autorità, che anche quella giornata
magnifica andasse a compimento.
- No. Non voglio far cambio con la tua vita. Avevi risposto al giovane soldato scolpito nella trincea.
Osservavi il luogo dove risiedi. Al quale tu sei stato destinato. E ti sembrava che anche in quel giorno,
bello da vedere, il folto tribunale dei saggi ti ammonisse.
Ti ammonisse dicendoti che quella guerra, fatti tutti i conti, non era la tua guerra.
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Che quella terra, fatti tutti i conti, non era la tua terra.
Che quella gente, fatti tutti i conti, non era la tua gente.
- Oh, l'eco delle tribù attraversa tutti gli snodi asfaltati delle geometriche strade occidentali.
- Oh, Occidente, terra delle occasioni negate.
- Tutte le guerre sono la mia guerra. Tu hai risposto al tribunale dei saggi e risponderai mille volte e mille
volte ancora.
- Tutte le guerre sono la mia guerra. E quando l'umanità parteciperà a tutte le guerre non ci sarà più
nessuna guerra.
Quel giorno di fine agosto ardeva pacato intorno al proprio asse.
- Oh, siamo così simili.
- Oh, siamo così estranei.
- No. Non voglio far cambio con la tua vita. Adesso sapresti rispondere al giovane soldato scolpito nella
trincea.
- Sono qui per ascoltare, sentinella.
- E fatti tutti i conti, stare in ascolto negli abitati deserti, è solo una questione privata. Ti sei detto.
*
Eri salito lungo tratturi di colline. E da lassù, in alto, appagato il vedere.
Miglia e miglia di strade tagliavano villaggi.
Minuscole case di pietra.
- Oh, guardate laggiù, smaltato, il minareto bianco.
- Oh, guardate laggiù, lungo il parallelo soave azzurro dell'orizzonte, il metallico campanile.
- Oh, come brillano. Guardateli. Brillano!
- Oh, guardateli!
- Oh, l'ultima luce del giorno li sfiora appena ed essi la restituiscono alle valli già nel buio.
- Oh, generazioni e generazioni.
Allevatori. Agricoltori. Pastori e maestri d'ascia e pellai e vinai.
Radiati alla vita.
Polvere.
E nel silenzio l'ondata di un corpo che marciva solitario.
E l'odore di quella sua morte respira con te.
Avevi lasciato la strada asfaltata, dipresso ad un ponte sfondato. Scendendo l'erta delle sponde disseccate
avevi oltrepassato ponti di barche, tra i cavalli di frisia e il filo spinato e la striscia di nastro giallo che
segnala le mine.
Al vicino valico tra due monti innevati eri stato accolto dal riverbero di una raffica di traccianti.
E avanti.
Ancora avanti. Ancora avanti, abbandonando le strade maestre non più percorribili, per salire e
ridiscendere lungo sterrati a strapiombo, lungo un passaggio aperto dai blindati nel mezzo di fitte foreste,
buie.
Abeti e abeti e giovani querce.
Angeli di abitati deserti.
E carcasse. Carcasse di auto. Carcasse di camion. Carcasse di carri. Carcasse di blindati con le torrette
centrate dal colpo del mortaio e cingoli srotolati abbarbicati sulle rocce degli orridi.
E carcasse di cavalli.
E biancospino.
Carcasse e angeli di silenzio.
Non un essere umano, non un animale, non un uccello nel cielo.
E nel silenzio ti eri incantato all'abitato deserto.
Improvvisa una larga radura pianeggiante solcata da un ruscello. Campi di fieno, alto e secco, bruciato
d'abbandono. Quattro case di pietra, la pala divelta di un mulino.
Case aperte, senza porte, senza finestre, senza tetto.
Case squartate.
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Case senza casa.
- Oh, arde, in silenzio, la terra intorno al proprio asse.
Eppure, come in una favola del grande Goethe, incisa sulla trave portante di pietra, ferma la mano dello
scalpellino, ti sembra di leggere, nell'ombra che avanza avida di luce, Dio benedice il visitatore.
- Oh, arde, arde, la terra intorno al proprio asse.
E hai sentito la bocca arida, sete... sete... Hai fermato l'auto. Sei sceso e avanzi di tre passi sino all'acqua
per bagnarti le labbra. Hai bevuto. Arpionata nel letto pietroso del ruscello una camicia da uomo lacerata
sul petto. Sventola bianca, dilavata dal sangue, nell'urna d'acqua, dove nessuno la vede.
- Oh angeli di silenzio. Ti sei detto.
I mille e mille e mille alberi vivono un nome. Il nome di un uomo, di una donna, di un bambino, di un
animale. Cantano a bocca chiusa. Ti potresti sedere su quello spuntone di roccia rosa e ascoltare per giorni
e giorni. Per tutti gli anni.
- Oh angeli di silenzio. Ti sei detto.
- Quante volte bisogna morire per imparare a vivere? Ti domandi, Francesco Tunda.
Ma ecco un motore che arranca a fatica. Un camion stracarico ti scuote, chiedendo il passo.
Riparti, ancora miglia di saliscendi poi lo slargo che segna la fine della foresta. Il battistrada sull'asfalto.
Ancora cavalli di frisia e reticolati in prossimità di un valico, le strisce di nastro giallo. Silenzio. Silenzio.
- Oh, cantano.
Cantano, la bocca chiusa.
- Quante volte bisogna morire per imparare a vivere? Ti domandi, Francesco Tunda.
Poi... poi ecco un passante, due, tre, quattro. Sono una moltitudine. Ecco un gruppo fitto di case,
l'abitato, le finestre illuminate, i camini fumanti. Una banda di bambini all'uscita da scuola che attraversa
la strada. I negozi illuminati.
Sosti.
- Oh, il traffico domestico.
- Oh, una drogheria dove si può comprare un pezzo di carne affumicata e del pane fresco.
- Oh, un caffè.
- Oh, il suono del clacson. E quel poliziotto che ferma le auto inesistenti per far attraversare sulle strisce
pedonali una mamma che spinge la carrozzina.
Hai chiesto indicazioni per il viaggio ad un drappello di soldati a riposo seduti a bere birra.
Il soldato, giovane e bello, gli occhi miti della truppa, si è alzato e ti ha risposto, muto, staccando la mano
dall'anca.
Ti ha indicato spazi indefiniti, verso Occidente. Lontano, in un'immensità priva di promesse.
- Quante volte bisogna morire per imparare a vivere? Ti domandi, Francesco Tunda.
Allora tu sei partito, al rintocco del vespero, per fare ritorno a casa.
E in fondo, alla fine della strada, nella direzione indicata, lunghissimo andare nel mezzo di ampie verdi
campagne coltivate, i cavalli di frisia dell'ultimo posto di blocco.
E carri di fieno, gabbiani, mucche, cavalli, laggiù un trattore.
Il Capitano ha fatto un passo verso di te e con l'abbozzo d'un suo gesto ti invitava a non scendere, non più,
dall'auto.
L'uomo ti ha sorriso.
Ti aveva accompagnato sino al limitare del suo mondo in fiamme. Oltre quella soglia gli era impedito né
poteva, né desiderava, proseguire.
Poco avanti tu saresti entrato negli snodi asfaltati delle strade occidentali.
Tu hai oltrepassato la bruma di fumo del bivacco.
Denso, nello specchio retrovisore.
Occultava le valli, le foreste, le case, i villaggi.
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Ovattava ogni suono.
Strozzava ogni parola.
Negava ogni figura.
- Quante volte bisogna morire per imparare a vivere? Ti domandi, Francesco Tunda.
Sulla porta dell'Occidente svagati doganieri diedero appena un'occhiata ai tuoi documenti.
Eri nuovamente libero di andare e andare, in quell'immensità di occasioni negate.
E mentre guidavi lungo le tue strade occidentali vedevi il Capitano accucciato al fuoco del bivacco con i
suoi soldati in una veglia di sussurri. E nel buio, benché nessuno lo vedrà mai, l'uomo sorride.
*
Adesso nella grandiosa corte della tua memoria dove nessuno era mai morto davvero e nessuno viveva
davvero, Francesco Tunda tu li vedevi tutti i mille volti e tutti li ascoltavi.
Adesso, alla fine di agosto di quell'anno, quel giorno tu sedevi al tavolino d'un caffè all'aperto nella piazza
della Cattedrale.
- Quante volte bisogna morire per imparare a vivere? Così hai imparato a domandarti, Francesco Tunda.
E hai sorriso.
Hai sorriso come avevano saputo sorridere i bambini senza gambe, senza braccia, i bambini con la testa
fasciata.
Hai sorriso come ti avevano mostrato.
Sorridevi, suscitando la meraviglia dei presenti davanti ad un uomo che sorride, solo, senza provare a
nascondersi.
E in quel sorriso il passo definitivo di lasciare alle spalle l'isolana solitudine nella quale ti eri confinato.
Sorridevi ai suoni che avevi ascoltato. Tradotti in parola li avevi mandati a memoria. Per sempre.
Sorridevi.
- Sì, devi iniziare da lì. Dal grande lamento che veniva dal sottosuolo. Ti sei detto.
L'epoca in cui tu vivi non è dissimile fatti tutti i conti dalle precedenti. Il tuo vicino e tu stesso non
dissimili dal primo uomo che ha scavato il suolo e sepolto i suoi morti portati a braccia per infrangere
l'oblio della morte. E di quell'uomo sconosciuto, il cui odore fatti tutti i conti è il medesimo tuo, che ha
scavato la terra e pianto e dato un nome al suo dolore ed entrato nella vita della storia tu ti sentivi di dire
che era stato, una volta e per sempre, tutti gli uomini. Tuo coetaneo.
- Vuoi far cambio con la mia dannata vita? Ti aveva domandato quel giovane soldato scolpito nella trincea.
La sentinella.
- No. Non voglio far cambio con la tua vita. Adesso sapresti rispondere al giovane soldato scolpito nella
trincea.
- Voglio imparare a morire vivendo.
Hai aperto il taccuino sul tavolino del caffè.
La giornata di fine agosto era limpida e tiepida.
Era bella da vivere.
... Fu verso le nove di sera, la vigilia di Pentecoste, una pioggia fredda, violenta, luminosa, la voce della
parola viaggiava con l'annuncio della bora...
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