La contrattazione collettiva del settore agricolo tra passato e futuro

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La contrattazione collettiva del settore agricolo tra passato e futuro
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La contrattazione collettiva del settore agricolo
tra passato e futuro
Gino Rotella*
La contrattazione collettiva del settore agricolo è giunta a un punto cruciale.
Quella attuale rischia di non rappresentare più gli effettivi interessi delle parti e di
muoversi dentro un contesto autoreferenziale sganciato dal processo di modernizzazione che, seppure con notevoli e forti contraddizioni, sta attraversando il settore
agricolo del nostro paese. Perciò, bisogna andare oltre il Protocollo sugli assetti contrattuali firmato dalle parti sociali il 22 settembre 2009, per delineare non più interventi di ordinaria manutenzione, ma una profonda riforma che tenga conto di
quanto sta avvenendo sul piano della ristrutturazione dell’assetto agrario e produttivo, della rappresentazione degli interessi, delle modifiche avvenute nel mercato del
lavoro e del più complessivo quadro riformatore in ambito previdenziale di cui il sistema agricolo ha bisogno.
La ragione risiede in un groviglio di questioni distinte e differenti che vanno affrontate con determinazione per rimettere al centro il valore del contratto collettivo come strumento in grado di assicurare il diritto costituzionale di migliorare le condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori, e di accrescere i livelli di competitività e di produttività in un contesto di debolezza complessiva dell’Italia rispetto ad altri paesi.
Ragioni storiche della contrattazione agricola
È necessario affrontare l’insieme delle questioni, cominciando a porre una prima e pregiudiziale domanda cui va data risposta. La domanda è la seguente. La contrattazione collettiva del settore agricolo, quella per intenderci rilanciata negli anni
Novanta per valorizzare la contrattazione territoriale di secondo livello, è riuscita a
garantire diritti fondamentali omogenei a livello nazionale assicurando, contestualmente, una equilibrata differenziazione dei trattamenti dei lavoratori a seconda delle aziende e dei territori in cui lavorano? Una domanda poco incline alla retorica,
alla quale qui cercheremo di dare (speriamo) utili elementi per formulare risposte il
* Segretario della Flai-Cgil nazionale.
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più possibile accurate, partendo da una sintetica premessa. Il modello contrattuale
agricolo per ragioni storiche risente di talune caratteristiche racchiuse nella cosiddetta specificità agricola, in verità non sempre opportunamente e compiutamente
valutate da quanti vorrebbero assumere quel modello contrattuale a paradigma per
modernizzare il sistema di regole della contrattazione collettiva del nostro paese.
Questi si rifanno a una modernizzazione poggiata essenzialmente su due presupposti: flessibilità e decentramento, ai quali, come dimostra il dibattito pubblico degli ultimi venti anni, si è dato valore strategico per rispondere con il primo ai bisogni di
competitività dell’economia del paese, che ha indotto numerosi cambiamenti nel sistema socio-economico italiano, nell’organizzazione del mercato del lavoro e nei
rapporti tra le parti sociali e, con il secondo, di considerare irreversibile e certa la «riforma in senso federalistico dell’amministrazione e del governo del paese. In questo
contesto di tendenziale spostamento dell’asse centrale dei rapporti, è interessante incentrare l’analisi sugli effetti, positivi o negativi, di un ulteriore decentramento della contrattazione e sull’opportunità di affidare la gestione della materia lavoro alle
succursali del ministero centrale» (C. Serra, 2002).
In verità si tratta, sia nel caso della flessibilità sia del decentramento, di due profili assai poco appropriati nel senso voluto da coloro, analisti e studiosi, ai quali «con
riferimento a tali tematiche appare di elevato interesse l’analisi del settore agricolo da
sempre caratterizzato da elevata flessibilità nell’utilizzazione della prestazione lavorativa (soprattutto dal punto di vista della durata temporale) e da massimo decentramento degli assetti negoziali; l’asse portante del sistema contrattuale agricolo è, infatti, nel secondo dopoguerra, con un breve intervallo nel decennio Ottanta, il contratto provinciale» (C. Serra, 2002). L’analisi e le teorie che questi analisti sviluppano non tengono conto di alcuni elementi essenziali. Basta, qui, citarne due: le origini e le motivazioni di contesto da cui nasce la contrattazione collettiva agricola, molto differente da quella degli altri settori; l’evoluzione e la concreta esperienza maturata nel tempo fino all’ultima – ancora non conclusa – (lunga) fase di rinnovo dei
contratti provinciali degli operai agricoli. Va detto che la contrattazione collettiva –
«cioè l’attività di negoziazione delle condizioni di lavoro svolta da organizzazioni sindacali che rappresentano gli interessi delle parti che stipulano i contratti di lavoro
subordinato – quando l’Italia è stata unificata non esisteva. Viene fatta risalire dagli
storici all’ottobre 1906, data in cui fu stipulato il primo contratto collettivo tra la Federazione nazionale degli operai metallurgici (in futuro metalmeccanici) e la Fabbrica di automobili Italia. Nello stesso anno in cui nasce la Confederazione Generale del
Lavoro, cioè la madre di tutti i sindacati attuali. L’Italia era unita – almeno sulla carta – da quasi 50 anni» (L. Zoppoli, 2011). La contrattazione in agricoltura invece è
molto più antica e, come si sa, viene da lontano: risale al tempo del latifondo e della mezzadria, in cui le caratteristiche contrattuali erano assai variegate, e riguardava-
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V. Daniele, P. Malanima, Svimez, 2012.
L. Bianchi, D. Miotti, R. Padovani, G. Pellegrini, G. Provenzano, Rivista Economica del Mezzogiorno, 2011.
3 A. Lepore, in http://www.academia.edu.
4 A. Altobelli, Congresso Internazionale di Amsterdam 1920.
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no i grandi proprietari terrieri e i feudatari (fino a tempi recenti) da una parte e, dall’altra, figure sociali che vanno dal mezzadro al «contadino povero», al «manente» –
con differenze sostanziali tra Nord, Centro e Sud. Non a caso, a cominciare da
Gramsci, si attribuisce all’alleanza tra i proprietari fondiari meridionali e la borghesia
industriale settentrionale insorta nel Risorgimento il mantenimento degli elementi
feudali presenti nel settore agricolo che impedisce il superamento della «questione
agraria. Un ‘blocco agrario’ che per il Mezzogiorno ha comportato fino ai primi anni Cinquanta ‘il mantenimento di una struttura agraria arretrata, nella quale il monopolio fondiario ed i residui feudali imponevano un contributo enorme al lavoro
contadino’ (R. Villari, 1977). Non è qui il caso di rispolverare un’antica querelle sul
differente livello di produttività esistente tra Nord e Sud in epoca preunitaria. Preme,
invece, considerare che le differenze tra le aree del paese di allora ‘erano, tuttavia, assai minori di quelle esistenti all’interno del Nord e del Sud’. Un vero e profondo divario economico si presentò soltanto dall’industrializzazione del paese, che viene oggi collocata negli anni Ottanta dell’Ottocento»1. Nasce così il «dualismo» italiano; da
allora «Quella che era una normale eterogeneità territoriale dello sviluppo si è trasformata nella «questione meridionale», ovvero nella presenza più importante in Europa di una struttura territoriale dualistica»2.
A ben guardare, dunque, come è stato osservato da diversi studiosi, già da allora il Nord si predisponeva per dare valore alle produzioni, attraverso l’esportazione
sui mercati esteri di beni di derivazione agricolo-industriale; il Sud, al contrario,
continuava a collocarsi in una condizione di arretratezza relativa, che, in assenza di
interventi specifici, vedeva aggravarsi il divario nel contesto dell’apertura ai mercati
internazionali3. La contrattazione collettiva nasce nelle province del regno perché
nel territorio si intrecciano realtà produttive, bisogno di emancipazione, conquiste
di nuovi diritti e soprattutto la necessità di ribellione per rimuovere il «livello di povertà abietta del lavoratore avventizio» (B. King, T. Okey, 1901) nelle campagne la
cui «storia non potrebbe essere più triste in Italia» (S. Jacini, 1885). È in ambito provinciale che nel 1884, nel Mantovano, si riscontrano i primi «movimenti agrari in
Italia» dove, per la prima volta, i lavoratori dei campi effettuano lo sciopero della
mietitura, per poi estendersi via via al resto del paese; in Sicilia, «gli sfruttati della
terra si stringono in fasci»4. Si tratta di movimenti poderosi, soppressi nel 1894 con
la forza reazionaria del governo Crispi, per poi riprendere forza, agli inizi del Novecento, con le «associazioni di resistenza dei lavoratori della terra» e la nascita delle
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prime Leghe di miglioramento. I conflitti insorti furono sempre a livello provinciale:
a Mantova, dove si costituisce la Federazione dei lavoratori della terra del Mantovano, e si insedia la prima Federazione nazionale.
Già da allora ai temi generali dell’estensione ai lavoratori della terra dei diritti previdenziali e delle tutele assistenziali e contro gli infortuni si sommavano da una parte i patti di lavoro dei contadini obbligati con contratto annuo, dei fittavoli, dei compartecipanti, dei mezzadri e coloni, dall’altra, per braccianti e giornalieri di campagna, quelli classici della contrattazione collettiva: il salario (per calcolarlo non più a
giornata ma a ore), l’orario, che non doveva essere più «da sole a sole» (da quando
sorge fino al tramonto), ma di otto ore, l’eliminazione del cottimo, le tariffe salariali, il collocamento.
A quegli anni risale dunque la contrattazione su base provinciale, che si consolida
nel 1947 su una materia molto delicata: il collocamento agricolo, con il ripristino
dell’imponibile di manodopera (successivamente soppresso dalla Corte Costituzionale) il cui governo è affidato alla decretazione prefettizia ed alla gestione delle Commissioni comunali di collocamento per la manodopera agricola.
Specificità del negoziato agricolo
La contrattazione nazionale, invece, è storia recente. Il primo Ccnl viene firmato solo nel 1977 per rovesciare la precedente impostazione basata sulla forza regolatrice preminente dei contratti provinciali a loro volta articolati nei contratti stagionali e nella contrattazione settoriale per il frutteto, l’oliveto, la zootecnia, ecc. Una
situazione contrattuale variegata che, fino a quella data, trovava nel Patto Nazionale un momento di raccordo ex post. La contrattazione agricola quindi da sempre,
tranne una breve parentesi in cui i contratti provinciali divennero integrativi di quello nazionale, chiusa nel 1995, ha trovato nella dimensione provincia-territorio il
punto di connessione per rispondere ai caratteri strutturali del settore produttivo e
alla morfologia del mercato del lavoro.
Come si può evincere da questa sintetica ricostruzione quindi, coloro che guardano
alla contrattazione agricola, invitando le parti sociali ad abbandonare la logica del
confronto di breve respiro e, sulla base di un nuovo progetto per la gestione delle risorse umane e dei rapporti collettivi di lavoro, assumerla a paradigma per modernizzare il sistema delle regole rendendolo sempre più concordato e sempre meno indotto dall’attore pubblico, o sono in malafede o assai poco hanno compreso del sistema contrattuale agricolo che, nonostante le modifiche apportate nel corso degli anni agli assetti contrattuali, continua ad essere basato sullo stretto rapporto tra la contrattazione stessa, il collocamento (fino alla metà degli anni Novanta) e la specifica
previdenza agricola, basata sin dalle origini sulla particolare copertura contributiva
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pensionistica e su trattamenti di disoccupazione riconosciuti non in base al rischio
di periodi di non lavoro ma come ammortizzatore sociale calcolato in rapporto al
numero di giornate lavorate.
Si tratta, com’è evidente, di un sistema che nasce e si consolida in costanza degli effetti prodotti dalla controversa riforma agraria degli anni Cinquanta, con tutte le
contraddizioni dovute alle forti divergenze in seno alla Democrazia Cristiana in tema di latifondo, mezzadria e bonifiche dalle quali sfocerà la scelta di favorire un assetto fondiario essenzialmente basato sulla media e piccola proprietà produttiva in
cui trovano occupazione ben oltre 8 milioni di lavoratori. Sono gli stessi anni in cui
si costruisce il potere democristiano poggiato in buona parte sulla triangolazione
Ministero dell’Agricoltura-Coldiretti-Federconsorzi (la potente federazione dei consorzi agrari) che prospera fino agli anni Novanta del secolo scorso, grazie alle ingenti
risorse pubbliche spalmate senza mai fornire i rendiconti, in parte provenienti dai
primi interventi comunitari disposti per garantire l’autosufficienza alimentare dell’Italia e dell’Europa, di incrementare la produttività delle produzioni agricole, allo
scopo di conseguire approvvigionamenti stabili a prezzi accessibili e di garantire un
adeguato livello di reddito ai produttori.
Da allora molte cose sono mutate. Il settore agricolo ha cambiato forma, dimensione
e struttura. Non è più la principale attività del paese. Al posto dei braccianti ci sono
operai agricoli, spesso specializzati, ridotti dal 40% di allora al 4% circa di oggi. Sono
sparite la colonia e la mezzadria, è scomparso il latifondo. L’agricoltura di oggi rappresenta e si presenta con una pluralità di soggetti: coltivatori diretti, Iap (Imprenditori Agricoli Professionali), soli proprietari, società semplici, contoterzisti, consorzi,
commercianti (che acquistano il prodotto sulla pianta), cooperative (con e senza terra), enti pubblici, banche, assicurazioni, Op (Organizzazioni di produttori cui andrebbe destinata una specifica analisi), ecc. L’Istat a fine 2010 ne ha censiti oltre 1,6
milioni. L’Istituto di statistica dice, inoltre, che diminuisce in modo significativo il numero delle aziende agricole, ma cresce la consistenza dimensionale, avvicinandosi con
la media dell’8% a quella europea. Un altro importante mutamento consiste nelle
nuove forme flessibili di gestione fondiaria che si vanno affermando, verso modalità
di conduzione da parte di società di capitali e verso un’accresciuta utilizzazione di lavoro dipendente. Siamo di fronte a mutamenti strutturali profondi non solo rispetto
agli anni Cinquanta ma finanche, e soprattutto, rispetto ai più recenti anni Novanta.
Mutamenti che comprendono in particolare la complessità di oggi, in cui l’attività
agricola è sempre meno caratterizzata dall’identificazione del settore e sempre più da
quella territoriale. Inoltre, negli anni trascorsi i soggetti economici che operavano nel
settore primario erano classificabili in categorie agevolmente definibili: da una parte i
braccianti (giornalieri di campagna, il cui lavoro era considerato a giornata intera), dall’altra, distinguibili, i coltivatori diretti (a prevalenza di lavoro familiare) e le cosiddet-
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te aziende agrarie capitalistiche. Oggi tale distinzione non esiste più. Certamente, fa
osservare una recente analisi del «Gruppo 2013», anche nel passato «si potevano operare distinzioni nelle varie categorie di agricoltori... Ma quelle distinzioni non impedivano di riconoscere una omogeneità di fondo che si rifletteva (pur nei diversi orientamenti ideologici) in una convergenza complessiva anche nella rappresentanza sindacale e politica degli agricoltori, nonché in una richiesta abbastanza convergente di
politiche agricole». Oggi quella «omogeneità» si è notevolmente affievolita ed è diventata evidente, plastica, dalle contrapposizioni e dalle modalità di rappresentazione
degli interessi sia in termini organizzativi sia in rapporto agli atteggiamenti con le istituzioni. L’unico obiettivo aggregante rimasto, riguarda il mantenimento dello statu
quo in ordine alla specificità del settore per lasciare immutate le agevolazioni fiscali e
contributive. Poco si dice e molto meno si fa, invece, per definire, allo scopo di promuovere proficue e specifiche politiche agricole, strumenti e procedure in grado di distinguere le imprese agricole dalle aziende e dai tanti soggetti che pur operando nell’ambito della produzione agricola hanno però vocazioni, interessi e fini assai differenti, giacché agiscono al di fuori delle dinamiche proprie dell’impresa e dei mercati.
Considerazioni per una riforma contrattuale
La premessa esposta ci consente di entrare meglio nella disamina della contrattazione collettiva del settore agricolo, proprio perché gli elementi in essa richiamati
producono – e stanno producendo – effetti dirompenti sul piano della contrattazione, della strumentazione affine derivante dalla contrattazione stessa, ingenerando criticità che vanno attentamente ponderate a cominciare da quelle insorte nell’attuale fase, non ancora conclusa, del rinnovo dei Contratti provinciali di lavoro,
ponendo due prime domande: siamo sicuri che il sistema produttivo e la morfologia del mercato del lavoro siano ancora quelli di allora? Siamo davvero certi che la
dimensione provinciale rappresenti ancora l’area ideale entro cui si sviluppano le dinamiche economiche e produttive del settore cui connettere la contrattazione? Cerchiamo di dare prime sintetiche risposte, sapendo bene che gli argomenti inducono
a più approfondita analisi.
La morfologia del mercato del lavoro non è più quelle degli anni Cinquanta e
neppure quella degli anni Novanta. Non si tratta di una risposta apodittica ma ragionata, deducibile dai dati forniti dall’Inps. Se nel passato fu necessario agire per
mantenere nelle aree rurali la manodopera agricola, in particolare quella giovanile,
attratta dalla città, dall’industria e dal terziario, negli ultimi anni si sta registrando
un ritorno dei giovani al lavoro subordinato, caratterizzato anche dalla presenza di
immigrati. Se un luogo comune tende a considerare il settore agricolo afflitto dalla
senilità di chi vi opera, i dati dell’Istituto previdenziale dicono esattamente il con-
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trario: oltre il 60% degli operai agricoli – uomini e donne – ha un’età inferiore a 45
anni. E si raggiunge circa l’85%, sommando quelli con età fino a 55 anni. Sul versante di chi assume al lavoro, ossia le aziende, nel 2011 sono state 120.118, un numero di gran lunga inferiore sia a quelle censite dall’Istat, pari a 1.630.420, sia a
quelle registrate dalle camere di commercio.
Per quanto riguarda la riflessione sulla dimensione provinciale in cui sviluppare la
contrattazione, a differenza del passato, sempre meno l’identificazione del settore, se
non per particolari prodotti, conduce a quella territoriale. Prendiamo in esame, ad
esempio, il settore ortofrutticolo e tutto diventa più chiaro: vi operano ormai aziende associate in rete o in cooperativa, con estensioni di terreno consistenti, che presuppongono capacità organizzative di rilievo, la cui dimensione supera i confini
provinciali e addirittura quelli regionali. Sono realtà imprenditoriali che si vanno
consolidando sempre più in tutte le aree del paese, alle quali mal si adatta il contratto provinciale, invece utile alle piccole aziende, per quanto riguarda sia gli aspetti retributivi, con particolare riferimento ai differenti e diversi livelli di inquadramento tra provincia e provincia, sia quelli inerenti all’organizzazione del lavoro. Vi
è poi una questione dirimente, spesso sottovalutata, che lascia intendere come la
contrattazione collettiva territoriale, sorta per sostituire meritevolmente l’impossibilità di considerare l’andamento economico delle realtà produttive aziendali, segua
più lo spirito animale del passato che non la riflessione e la necessità sempre più impellente di connettere la contrattazione medesima al ciclo economico relazionato
non tanto all’ubicazione e alla dimensione territoriale delle aziende, ossia quella rapportata agli ettari ed al luogo, ma alla dimensione economica delle stesse ed ai differenti standard di produttività.
Seguendo tale schema di ragionamento, sarebbe importante ipotizzare un nuovo
modello contrattuale in grado di cogliere e valorizzare i differenti livelli di produttività dati non tanto dall’ubicazione territoriale quanto dalla dimensione dell’azienda
giacché, come diverse fonti ormai attestano, «nelle piccole aziende la produttività del
lavoro agricolo è molto bassa. Un’unità lavoro in un’azienda con meno di 10 mila euro di margine lordo annuo produce meno di un quinto di un’unità lavoro impiegata in un’azienda di medie dimensioni, con un margine lordo di 100 mila euro» (S.
Tarditi, 2006). E se prima era difficile individuare tali indici, ora, dal 2010, da quando in pratica vige il Regolamento comunitario 1242/2008, è possibile ricavarli da
quelli in uso per valutare le «produzioni standard» del settore che sono stimati su base regionale. Avere invece una contrattazione territorialmente ristretta, che non tiene
conto delle effettive dinamiche economiche delle aziende e dei settori specifici, se
non di quelle generali, genera forti elementi di frattura nella stessa capacità di rappresentare gli interessi delle parti contrattuali, indotte a sottoscrivere accordi formali
ma privi di effettività. Vi sono poi alcune criticità e problemi più diretti. L’accordo
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specifico sugli assetti contrattuali del settembre 2009 – nonostante che i nostri interlocutori avessero firmato l’accordo separato del 22 gennaio – riconfermava i due
livelli esistenti, nazionale e provinciale, la durata quadriennale di entrambi, il ruolo e
le funzioni di ciascuno dei rispettivi livelli, assegnando al contratto nazionale «la duplice funzione» di adeguare, per il primo biennio di validità, i salari definiti dai Cpl
e dall’altra di garantire un’idonea valorizzazione dei minimi d’area. Conferendo così
al contratto nazionale il ruolo di centro del sistema di relazioni.
Inoltre, oltre al superamento dei parametri dell’inflazione programmata e dell’Ivc prevedeva che le dinamiche salariali dovessero avere «come obiettivo la salvaguardia del potere d’acquisto delle retribuzioni». In buona sostanza per definire il
salario degli operai agricoli si superarono i vecchi parametri di riferimento, non si
accettettarono quelli dell’accordo separato e si previde, invece, di determinare gli aumenti salariali in ragione «dell’eventuale scostamento tra le dinamiche concordate e
l’inflazione reale» da recuperare in occasione dei rinnovi contrattuali. Come sono
andate sin qui le cose?
Il rinnovo dei Cpl ha messo a nudo, in primo luogo, la poca adattabilità al settore dell’accordo separato del gennaio 2009. In particolare per quanto riguarda
l’Ipca, variato dall’Istat per ben tre volte dalla data di scadenza dei Cpl: dal 3,9% dei
primi dell’anno al 5,4% di maggio, al 5% di agosto, con una variabilità cospicua
subordinata al giorno in cui il contratto si firma. Un indice dunque fallace, poco
adatto a un sistema contrattuale che agisce in modo articolato nel tempo e differente per ciascuna provincia. Avemmo ragione, dunque, a percorrere nel 2009 un’altra strada. Una strada che ci ha portati a seguire indicativamente l’andamento dell’inflazione, per garantire aumenti oltre l’Ipca, tra il 5 e il 6,4%, traguardando l’obiettivo di «salvaguardare il potere di acquisto» dei salari, recuperando ampiamente
l’inflazione reale attestata al 4,5 per il biennio. La tempistica, come criticità, riguarda quindi quelle province dove le parti hanno, per così dire, splafonato. Sono andate, per usare un aforisma giuridico, ultra petita. Definendo trance salariali che maturano dopo il biennio di competenza, addirittura nel 2015. Ciò non è possibile.
Per tanti motivi. Uno per tutti: si tratta del secondo biennio demandato dal Ccnl,
su cui la potestà provinciale si esercita solo per la quantificazione. Non è dato loro
il potere, da nessuna parte, di derogare al biennio di competenza. Ciò chiama in
causa il tema della democrazia. Sappiamo bene che l’argomento riguarda, e meriterebbe ben altro spazio, più vasti ambiti; qui ci limitiamo a ricordarlo per il solo
aspetto inerente a quei territori dove si è andati oltre, giacché chiama in causa i rapporti interni di ciascuna delle parti ma anche la connessione, nel rispetto delle reciproche potestà contrattuali, tra il primo e il secondo livello. Evidentemente riconoscere al Contratto nazionale la funzione di «centro regolatore del sistema di relazioni», come previsto nell’accordo del 2009, non basta più.