Il salario minimo legale e il contratto collettivo liberato

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Il salario minimo legale e il contratto collettivo liberato
Studio Associato Servizi Professionali Integrati
Member Crowe Horwath International
Il salario minimo legale e il contratto collettivo “liberato”
del Prof. Avv. Armando Tursi
Una delle novità di maggiore impatto pratico e sistematico previste dal disegno di legge delega sul lavoro
(cd. “Jobs Act”) approvato dal Senato e attualmente all’esame della Camera dei deputati (AC 2660/2014) è la
previsione di un “compenso orario minimo” legale (rectius, stabilito con decreto legislativo attuativo della
delega), “applicabile ai rapporti aventi ad oggetto una prestazione di lavoro subordinato, nonché ai rapporti di
collaborazione coordinata e continuativa, nei settori non regolati da contratti collettivi sottoscritti dalle
organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano
nazionale, previa consultazione delle parti sociali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”
(art. 1, comma 7, lettera f).
Da tempo si attendeva che l’Italia si allineasse ai Paesi - la stragrande maggioranza nell’UE - che
disciplinano per legge il salario minimo: non solo e non tanto per anelito d’Europa, ma soprattutto perché nel
nostro Paese la necessità di una siffatta misura era divenuta quanto mai acuta e impellente.
Com’è noto, all’attuazione del precetto costituzionale che garantisce ai “lavoratori” una retribuzione “equa”
(ossia, oltre che proporzionale al lavoro svolto, anche “sufficiente ad assicurare al lavoratore e alla sua
famiglia un’esistenza libera e dignitosa”), ha sopperito fino ad oggi la giurisprudenza, facendo diretta
applicazione dell’art. 36 della Costituzione, e individuando l’“equa retribuzione” nei cdd. “minimi contrattuali” o
“minimi tabellari” previsti dai contratti collettivi di categoria.
In tal modo si è realizzata per via indiretta una garanzia costituzionale, ma a prezzo di riversare sulla
contrattazione collettiva un onere improprio: quello di fissare il minimo salariale per tutti i lavoratori della
“categoria”, collocando automaticamente nell’ambito dell’illegittimità lavoristica le imprese incapaci di pagare
detto minimo, e nel contempo comprimendo eccessivamente i salari delle imprese più produttive.
Questo prezzo è stato ben sopportato nelle fasi di espansione della nostra economia, ma oggi non è più
sopportabile, a causa della competizione economica globale, della crisi del modello imprenditoriale italiano
basato sulla piccola impresa, della contrazione e dello sfilacciamento del mercato del lavoro.
Oggi alla contrattazione collettiva competono sfide nuove, che non possono essere affrontate portando il
fardello del “minimo salariale”: la diversificazione dei trattamenti in funzione della produttività del lavoro,
l’attuazione di deleghe legislative miranti a introdurre dosi crescenti di flessibilità del lavoro, la gestione del
welfare contrattuale e aziendale.
Liberato dell’onere di dare attuazione al principio costituzionale dell’equa retribuzione, il contratto collettivo,
anche e soprattutto quello “nazionale”, potrebbe ampliare i propri margini di manovra, operando liberamente
negli spazi vuoti situati al di sopra del minimo legale, sia prevedendo trattamenti di base superiori, sia
scambiando tali incrementi con contropartite in altri ambiti, come la previdenza contrattuale e il welfare
aziendale.
Sarà opportuno, e anzi necessario, rimettere mano alla disciplina vigente della retribuzione minima dei
lavoratori (lato sensu) atipici, in primis i collaboratori coordinati e continuativi e a progetto (ammesso che
sopravvivano al Jobs Act), i soci - lavoratori di cooperative, gli associati in partecipazione con apporto
di lavoro.
Non potrà più pretendersi - come oggi accade - che il minimo salariale per queste categorie di lavoratori sia
individuato con riferimento alla contrattazione collettiva dei lavoratori dipendenti (per i collaboratori coordinati
e continuativi e a progetto e per gli associati in partecipazione), ovvero alla contrattazione collettiva dei
lavoratori dipendenti “tipici” (e si allude soprattutto ai soci lavoratori di cooperative, dipendenti o meno che
siano).
Suscita allora molte perplessità la previsione della legge delega, che confina il salario minimo legale ai
soli “settori non regolati da contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei
datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”.
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Infatti, perché il “minimo legale” esplichi i suoi effetti benefici sulla contrattazione collettiva e, in generale,
sulla disciplina economica del lavoro sia subordinato che economicamente dipendente, esso deve valere
per tutti i rapporti di lavoro, anche quelli a cui si applica un contratto di categoria: esso deve fungere da limite
inferiore per la contrattazione collettiva, e non da surrogato del ccnl nei settori “non contrattualizzati”.
Se così invece fosse, permarrebbe nei settori coperti dalla contrattazione collettiva la funzionalizzazione del
ccnl alla (diversa) finalità della retribuzione minima costituzionalmente garantita, senza peraltro eliminarsi il
dualismo del nostro mercato del lavoro.
Un salario minimo concepito in termini di retribuzione di base universale garantita a tutti i lavoratori
giuridicamente ed economicamente dipendenti, non necessiterebbe di differenziazione territoriale in relazione
al costo della vita o delle condizioni del mercato del lavoro: alle opportune differenziazioni potrà provvedere
la contrattazione collettiva “liberata” dal peso dell’art. 36 della Costituzione, e restituita alla “libertà” sancita
dall’art. 39, comma 1° della Costituzione.
Potrebbe invece essere opportuno prevedere una differenziazione in funzione della diversa natura giuridica
del contratto di lavoro, con specifico riferimento alla distinzione tra lavoro subordinato, lavoro
economicamente dipendente, lavoro accessorio.
Se, come immaginabile e a nostro avviso auspicabile, tali differenziazioni permarranno, non sarebbe affatto
irragionevole, ma anzi sarebbe coerente con la scelta sistematica di fondo (di mantenere tali distinzioni),
consentire che esse si riflettano anche sulla quantificazione del compenso orario minimo. Basti pensare, per
convincersene, alla solo parziale adattabilità del concetto stesso di “compenso orario minimo”, a rapporti di
lavoro il cui oggetto e (conseguentemente) il cui compenso non sono determinati in funzione del tempo di
messa a disposizione delle “energie lavorative”, bensì in funzione della realizzazione dell’opera o del servizio
pattuito.
Pubblicato sul Quotidiano Ipsoa in data 15 novembre 2014