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il Lavoro nella giurisprudenza
Sommario
SPECIALE JOBS ACT
Tutele per
i licenziamenti
illegittimi
IL DECRETO LEGISLATIVO N.23/2015: AMBITO APPLICATIVO E PROFILI DI COMPATIBILITÀ
COSTITITUZIONALE
di M. Lavinia Buconi
661
Controlli
a distanza
I CONTROLLI A DISTANZA DOPO IL ‘‘JOBS ACT’’ E LA RACCOMANDAZIONE R(2015)5
DEL CONSIGLIO D’EUROPA
di Andrea Sitzia
671
DOTTRINA
Previdenza
Mansioni
Processo
LA PEREQUAZIONE DELLE PENSIONI: DALLA CORTE COSTITUZIONALE N. 70 DEL 2015
AL D.L. N. 65 DEL 2015
di Domenico Garofalo
680
L’INIDONEITÀ PARZIALE (TEMPORANEA O PERMANENTE) ALLA PRESTAZIONE LAVORATIVA
di Luca D’Andrea e Valentina Casanova
696
RIFLESSIONI DI UN AVVOCATO MODERNO SULL’ORAZIONE DI LISIA CONTRO ERATOSTENE
di Enrico Gragnoli
707
GIURISPRUDENZA
Azione
di regresso
dell’Inail
AZIONE DI REGRESSO DELL’INAIL: LE SEZIONI UNITE SUL DIES A QUO DI DECORRENZA
E SULLA NATURA DEL TERMINE
Cassazione civile, Sezioni Unite, 16 marzo 2015, n. 5160
Commento di Elena Giorgi
719
724
Controversie
previdenziali
LE SEZIONI UNITE FANNO CHIAREZZA SULL’INTERRUZIONE DEL TERMINE DI PRESCRIZIONE
DELLE SANZIONI CIVILI
Cassazione Civile, Sezioni Unite, 13 marzo 2015, n. 5076
Commento di Simone Catini
731
733
Società in house QUALI CONSEGUENZE PER I CONTRATTI A TERMINE ILLEGITTIMI NELLE SOCIETÀ IN HOUSE?
Tribunale di Ancona, Sez. lav., 26 febbraio 2015
Commento di Laura Torsello
741
743
RASSEGNA DELLA CASSAZIONE
a cura di Carlo Alberto Giovanardi, Guerino Guarnieri, Giuseppe Ludovico, Giorgio Treglia
747
RASSEGNA DEL MERITO
a cura di Filippo Collia, Francesco Rotondi
756
NOVITÀ LEGISLATIVE ED AMMINISTRATIVE
a cura di Alessia Muratorio
764
INDICE
AUTORI
CRONOLOGICO
ANALITICO
769
COMITATO PER LA VALUTAZIONE
L. Angiello, A. Boscati, M. Brollo, C. Cester, G. Dondi, V. Filı̀, D. Garofalo, S. Mainardi, M.G. Mattarolo, L. Menghini, R. Nunin, A. Pizzoferrato, A. Topo, M. Tremolada, G. Zilio Grandi
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
659
il Lavoro nella giurisprudenza
Sommario
La Rivista si cita Lav. Giur.
EDITRICE
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il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
Riforme
Speciale Jobs Act
Tutele per i licenziamenti illegittimi
Il decreto legislativo n. 23/2015:
ambito applicativo e profili
di compatibilità costituzionale
di M. Lavinia Buconi - Giudice del Tribunale di Roma, I Sezione Lavoro
Il D.Lgs. n. 23/2015, pubblicato sulla G.U. n. 54 del 6 marzo 2015 ed entrato in vigore il giorno
successivo, ha totalmente ridisegnato il regime delle tutele per i licenziamenti illegittimi, determinando il definitivo superamento dell’art. 18, L. n. 300/1970; il più atteso dei decreti attuativi
della L. n. 183 del 2014 ha dunque introdotto una riforma davvero epocale del nostro ordinamento giuslavoristico.
Attraverso la disamina delle principali questioni relative all’ambito applicativo della nuova disciplina, anche con riferimento ai profili di compatibilità costituzionale, l’Autrice individua i principali aspetti problematici e le possibili soluzioni operative, proponendo riflessioni e valutazioni critiche.
Come è noto, all’approvazione della legge delega
10 dicembre 2014, n. 183, “atto secondo” del Jobs
Act, ha fatto seguito il D.Lgs. n. 23/2015, pubblicato sulla G.U. n. 54 del 6 marzo 2015 ed entrato in
vigore il giorno successivo.
In meno di tre anni si è dunque passati dal regime
di cui previsto all’art. 18, L. n. 300/1970 nel suo
testo originario, che prevedeva l’istituto della reintegra, con le relative conseguenze risarcitorie in
termini economici per i licenziamenti individuali
intimati ai dipendenti non aventi qualifica dirigenziale, qualunque fosse la natura del vizio del recesso
datoriale, purché sussistesse il requisito dimensionale richiesto dalla medesima legge, al regime delle
tutele differenziate previste dall’art. 18, L. n.
300/1970, come riformato dalla L. n. 92/2012, che
ha affiancato alla tutela reintegratoria (piena o attenuata) distinte tutele di tipo indennitario, a seconda della tipologia del vizio del recesso datoriale,
sempre a condizione che sussistesse il requisito dimensionale, per poi approdare al regime delle tutele crescenti di cui al D.Lgs. n. 23/2015 per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015.
La nuova disciplina è stata introdotta al dichiarato
scopo “di rafforzare le opportunità di ingresso nel
mondo del lavoro da parte di coloro che sono in
cerca di occupazione, nonché di riordinare i contratti di lavoro vigente per renderli maggiormente
coerenti con le attuali esigenze del contesto occupazionale e maggiormente coerenti con le attuali
esigenze del contesto occupazionale e produttivo”
(così l’art. 1, comma 7 della legge delega n. 183
del 10 dicembre 2014).
Nell’intenzione del legislatore tali disposizioni,
senza “nuovi e maggiori oneri a carico della finanza
pubblica” (1), dovrebbero rendere più conveniente
per le imprese l’assunzione di lavoratori a tempo
indeterminato, per le quali la Legge di Stabilità ha
altresì previsto notevoli sgravi contributivi; tali valutazioni sono peraltro in linea con quelle della
Commissione Europea, la quale ha da tempo
espresso l’orientamento favorevole a modifiche
strutturali del mercato del lavoro che aumentino la
flessibilità dei contratti (c.d. flexurity), riducendo
le tutele in materia di licenziamenti.
Il legislatore delegante ha dunque ritenuto che il
raggiungimento degli obiettivi indicati sia perseguibile attraverso la limitazione della tutela della reintegrazione nel posto di lavoro alle sole ipotesi di licenziamento nullo e discriminatorio e a specifiche
(1) Cosi l’art. 1, comma 12 della legge delega n. 183 del
2014.
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
661
Riforme
Speciale Jobs Act
fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché attraverso l’esclusione della reintegrazione per i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo e la previsione di un indennizzo economico sottratto alla valutazione discrezionale del giudice, e
collegato esclusivamente alla anzianità di servizio.
In attuazione di tali principi e criteri direttivi, il
D.Lgs. n. 23/2015 ha dunque riproposto l’articolazione del regime delle tutele su quattro livelli secondo il modello di cui all’art. 18, L. n. 300/70, come modificato dalla L. n. 92/2012, ed in particolare una tutela reintegratoria piena con integrale risarcimento del danno per i licenziamenti nulli,
orali, discriminatori o per difetto del motivo consistente nella disabilità fisica o psichica (art. 2), una
tutela reintegratoria attenuata con risarcimento limitato a dodici mensilità, per i soli licenziamenti
disciplinari in cui sia direttamente dimostrata in
giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, a prescindere da ogni valutazione
sulla sproporzione del licenziamento (art. 3, comma 2), una tutela indennitaria forte, dalle quattro
alle ventiquattro mensilità, negli altri casi di insussistenza della giusta causa o del giustificato motivo
(art. 3, comma 1) e una tutela indennitaria debole,
dalle due alle dodici mensilità, per vizi formali o
procedurali (art. 4); la tutela indennitaria è inoltre
dimezzata per le piccole imprese, alle quali non si
applica la tutela reintegratoria attenuata (art. 9).
La nuova disciplina ha dunque notevolmente ridotto l’ambito applicativo della tutela reintegratoria attenuata; ha inoltre introdotto criteri automatici di tipo esclusivamente aritmetico per il calcolo
dell’indennità dovuta al lavoratore.
La riduzione del livello di tutela è significativa anche sotto il profilo quantitativo, ove si consideri
che la misura dell’indennità in caso di vizi sostanziali è di quattro mensilità per il primo anno di servizio, mentre ai sensi dell’art. 18, comma 5, L. n.
300/1970 per la medesima tipologia di vizi la misura minima dell’indennità è di dodici mensilità;
inoltre in forza delle nuove disposizioni occorrono
cinque anni di servizio per arrivare a dodici mensilità e undici anni di servizio per arrivare a ventiquattro mensilità, mentre dopo gli undici anni di
servizio l’indennità non aumenta più.
(2) M. Tiraboschi, Licenziamenti: la disciplina dopo il contratto a tutele crescenti, in Guida lav., 18/2015 evidenzia che le disposizioni del D.Lgs. n. 23/2015 si applicano anche per le assunzioni a tempo indeterminato delle agenzie di somministrazione (anche ove l’agenzia assuma a tempo indeterminato e
somministri a tempo determinato), le quali beneficiano dell’esonero contributivo ai sensi dell’articolo unico, commi 118 ss.,
662
Parimenti ridotta è la tutela minima prevista per i
vizi formali, atteso che la relativa indennità va da
un minimo di due ad un massimo di dodici mensilità, mentre l’art. 18, comma 6 per la medesima tipologia di vizi prevede un’indennità da un minimo
di sei ad un massimo di dodici mensilità; inoltre
per le piccole imprese la misura dell’indennità è ridotta della metà (da un minimo di due ad un massimo di sei mensilità per i vizi sostanziali, e da una
a sei mensilità per i vizi formali).
Poiché l’indennizzo di cui all’art. 9, comma 1 è pari ad una mensilità per ogni anno di servizio e non
può superare le sei mensilità, per i dipendenti da
piccole imprese la crescita della tutela è limitata
ad una anzianità fino a sei anni di servizio.
Pertanto, a fronte del rilevantissimo impatto delle
nuove disposizioni sul regime delle tutele applicabili alle ipotesi di licenziamento illegittimo, assume
un rilievo fondamentale l’individuazione del loro
ambito di applicazione.
Il discrimine temporale
L’art. 1, comma 1, D.Lgs. n. 23/2015 ha delimitato
cronologicamente l’ambito di applicazione della nuova normativa, facendolo coincidere con quello dei
rapporti di lavoro subordinato sorti in forza di contratti a tempo indeterminato (2) stipulati a decorrere
dalla data di entrata in vigore del decreto stesso.
Il discrimine temporale per l’applicazione della
vecchia o della nuova disciplina non è dunque costituito dalla data di intimazione del licenziamento, ma esclusivamente dalla data di instaurazione
del rapporto di lavoro; coesisteranno dunque per
decenni due diversi regimi: quello di cui all’art. 18,
L. n. 300/1970, come modificato dalla L. n.
92/2012 (che si applicherà ai rapporti di lavoro già
in essere), e quello previsto dalla nuova normativa,
che regolerà i rapporti sorti dalla data di entrata in
vigore del decreto legislativo (3).
Pertanto, a fronte di un medesimo recesso datoriale
intimato dopo il 7 marzo 2015, potranno trovare
applicazione tutele differenti (si pensi all’ipotesi di
licenziamento collettivo riguardante lavoratori assunti in parte prima e in parte dopo la entrata in
vigore del decreto legislativo) (4), peraltro con riti
diversi (l’art. 11 del D.Lgs. n. 23 del 2015 prevede
L. 23 dicembre 2014, n. 190.
(3) In questo senso G. Mimmo, La disciplina del licenziamento nell’ambito del contratto a tutele crescenti: il decreto legislativo 4 marzo 2015 n. 23 (attuazione della legge delega 10 dicembre 2014 n. 183), in giustiziacivile.com del 24 aprile 2015.
(4) G. Mimmo, op. cit.
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
Riforme
Speciale Jobs Act
infatti che ai licenziamenti disciplinati dal medesimo decreto non si applicano le disposizioni dei
commi da 48 a 68 dell’art. 1, L. n. 92/2012); sono
stati dunque sollevati dubbi di legittimità costituzionale delle disposizioni che delimitano l’ambito
di applicazione della nuova disciplina ai nuovi assunti, per contrasto con l’art. 3 Cost., sia sotto il
profilo della disparità di trattamento, che sotto
quello della ragionevolezza (5).
Va tuttavia evidenziato che, secondo il costante
orientamento del giudice delle leggi, “non contrasta, di per sé, con il principio di eguaglianza un
trattamento differenziato applicato alle stesse fattispecie, ma in momenti diversi nel tempo, poiché il
fluire del tempo può costituire un valido elemento
di diversificazione delle situazioni giuridiche” (6).
In ordine alle conseguenze determinate dal regime
transitorio, vanno altresì ricordati i parametri indicati dalla medesima giurisprudenza costituzionale,
ed in particolare la “proporzionalità dei mezzi prescelti dal legislatore nella sua insindacabile discrezionalità rispetto alle esigenze obiettive da soddisfare o alle finalità che intende perseguire, tenuto
conto delle circostanze e delle limitazioni concretamente sussistenti” (7); la ragionevolezza è stata
inoltre definita dai giudici della Consulta in termini di “coerenza” (8) e di “non arbitrarietà” (9) rispetto agli obiettivi e alla ragione giustificatrice
della norma sottoposta al vaglio di costituzionalità.
Inoltre, sempre per quanto attiene al parametro
della ragionevolezza, secondo il giudice delle leggi,
è consentita l’emanazione di disposizioni che modifichino in pejus la disciplina dei rapporti di durata,
anche riguardo a diritti soggettivi perfetti, a condi(5) Si veda in proposito M. De Luca, Legge delega sui tipi di
contratti di lavoro: interpretazione costituzionalmente orientata in
funzione delle leggi delegate, in questa Rivista, 4, 2015; C. Celentano, La tutela indennitaria e reintegratoria: compatibilità costituzionale e comunitaria, relazione al Corso di formazione della Scuola Superiore della Magistratura “La disciplina dei licenziamenti: un primo bilancio”, tenutosi a Scandicci dal 13 al 15
aprile 2015, in www.scuolamagistratura.it, evidenzia che la prospettazione di una questione di legittimità costituzionale sotto
il profilo della violazione del principio di ragionevolezza per il
discrimine temporale si esporrebbe a censure di inammissibilità, essendo l’intervento richiesto conseguibile con una pluralità di soluzioni.
(6) Da ultimo: Corte cost. 13 novembre 2014, n. 254; M. De
Luca, op. cit. evidenziando che tale decisione si fonda sul collegamento con nuovi contratti di appalto, si chiede se i principi
enunciati da tale pronuncia possano trovare applicazione alla
disciplina sul discrimine temporale per i nuovi assunti, atteso
che il nuovo regime delle tutele non presuppone una nuova tipologia contrattuale.
(7) Corte cost. 22 dicembre1988, n. 1130.
(8) Corte cost. 20 febbraio1997, n. 43.
(9) Corte cost. 3 giugno 1999, n. 206.
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
zione che le modifiche normative non ledano “l’affidamento dei cittadini nella sicurezza giuridica, da
intendersi quale elemento fondamentale dello stato
di diritto” (10).
In proposito va senz’altro riconosciuto che la scelta
operata nella legge delega ha salvaguardato l’affidamento dei vecchi assunti (11); se i dubbi sulla ragionevolezza della disparità di trattamento che ne
deriva dovessero superare il vaglio di ammissibilità,
andranno comunque risolti tenendo presente che
tutti gli interessi coinvolti sono di rango costituzionale, venendo in rilievo da un lato il principio di
uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., dall’altro il diritto all’occupazione di cui agli artt. 1, 4 e 35 Cost.
Ambito soggettivo
Sotto il profilo soggettivo, l’art. 1, comma 1,
D.Lgs. n. 23/2015 dispone che la nuova disciplina
si applichi solo ai lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati e quadri, con esclusione,
dunque, dei dirigenti.
È stato in proposito osservato che l’esclusione dei
dirigenti dall’ambito applicativo della nuova disciplina comporta quale unico effetto quello di consentire la vigenza dei primi tre commi dell’art. 18,
L. n. 300/1970 (che già si applicavano ai dirigenti)
anche per i contratti stipulati dopo il 7 marzo
2015 (12).
Più in generale, risultano esclusi dall’ambito applicativo del D.Lgs. n. 23/2015 i rapporti di lavoro
per i quali non opera la classificazione di cui all’art.
2095 c.c., come i lavoratori domestici e gli sportivi
professionisti, per i quali è previsto uno speciale regime di tutela (13).
(10) Corte cost., ord. 27 gennaio 2011, n. 31, Corte cost.,
sent. 22 ottobre 2010, n. 302, 24 luglio 2009, n. 236 e 9 luglio
2009, n. 206.
(11) M. Miscione, Tutele crescenti: un’ipotesi di rinnovamento del diritto del lavoro, in Dir. prat. lav., 12/2015, ravvisa nella
fattispecie l’applicazione di un diritto quesito per tutelare l’affidamento: il rapporto di lavoro dei vecchi assunti continua a
soggiacere al regime dei licenziamenti che avevano al momento dell’assunzione, come se l’avessero “acquisito”, mentre la
disciplina delle tutele crescenti si applica ai nuovi assunti; ritiene inoltre che un “arretramento” delle tutele per tutti, non limitato ai nuovi assunti, sarebbe paradossale. Secondo C. Celentano, op. cit. la scelta del diverso discrimine temporale della
data del licenziamento avrebbe potuto comportare la violazione dell’art. 3 Cost. sotto altro profilo.
(12) Con conseguente applicazione del rito specifico introdotto dalla L. n. 92/2012: in questo senso G. Mimmo, op. cit.
(13) M. Marazza, Il regime sanzionatorio dei licenziamenti
nel Jobs Act, in Arg. dir. lav., 2, 2015; in ragione di tale speciale
regime di tutela G. Mimmo, op. cit., non ravvisa particolari problemi nell’esclusione di tali categorie di lavoratori, proprio in
ragione del fatto che soggiacciono ad una propria distinta disciplina, e non a quella generale.
663
Riforme
Speciale Jobs Act
L’art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 23/2015 prevede che
le disposizioni del medesimo decreto si applicano
anche ai casi di conversione, successiva alla sua
entrata in vigore, di contratto a tempo determinato o di apprendistato in contratto a tempo indeterminato.
Il legislatore ha dunque equiparato assunzioni ex
novo a tempo indeterminato alle ipotesi di conversione di contratti a tempo determinato o di apprendistato avvenute dopo tale data, ancorché l’assunzione (con una clausola di limitazione temporale) sia avvenuta in epoca precedente.
Va innanzitutto evidenziato che non è in discussione l’applicazione del regime delle tutele crescenti
alla scadenza di un termine in quanto tale: la Suprema Corte ha da tempo chiarito che la cessazione di un rapporto di lavoro a termine alla data di
scadenza contrattuale non può essere qualificata
come licenziamento, essendo ontologicamente diversa l’apposizione contrattuale di un termine al
rapporto di lavoro all’inizio del medesimo rispetto
ad un atto di recesso datoriale intervenuto in un
rapporto a tempo indeterminato: nei casi di conversione giudiziale di un contratto di lavoro subordinato a tempo determinato per illegittimità del
termine trova infatti applicazione l’art. 1, D.Lgs. n.
368 del 2001, e non si applicano invece le disposizioni di cui all’art. 18, L. n. 300/1970 e di cui all’art. 8, L. n. 604/1966 (18).
Nei contratti di lavoro a tempo determinato viene
dunque in questione un vero e proprio licenziamento solo ove il recesso datoriale non coincida
con la scadenza del termine.
La norma sembra pertanto riferita alle ipotesi in
cui il lavoratore assunto a tempo determinato venga licenziato dopo la conversione del contratto e
alle fattispecie di recesso datoriale ante tempus nei
casi in cui venga riconosciuta in sede giudiziale l’illegittima apposizione del termine, sempre che l’assunzione a tempo determinato sia avvenuta prima
del 7 marzo 2015, mentre la conversione e il licenziamento siano intervenuti in epoca successiva.
Ciò premesso, c’è da chiedersi se il termine “conversione” si riferisca solo ai casi di conversione giudiziale, o anche alle ipotesi in cui le parti concordemente trasformino le suddette tipologie di rapporti a tempo determinato in rapporti a tempo indeterminato.
Se è vero che quella giudiziale costituisce l’unico
tipo di “conversione” in senso tecnico (19), va tuttavia evidenziato che normalmente tale tipologia
(14) M. Tiraboschi, op. cit., evidenzia che gli apprendisti acquisiscono la qualifica solo alla fine del periodo di formazione,
essendo il contratto di apprendistato scandito da una prima fase formativa, in cui entrambe le parti possono recedere solo
motivatamente, ed una seconda fase eventuale a regime ordinario, che si svolge solo se le parti non si siano avvalse del diritto di recesso.
(15) Ha posto la questione in questi termini M. Marazza,
op. cit., evidenziando che la Corte costituzionale con le sentenze n. 96 del 3 marzo 1987 e n. 41 del 17 gennaio 1991 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 10, L. n. 604/1966
(oltre che dell’art. 18 Stat. lav.) nella parte in cui escludeva dall’ambito applicativo della L. n. 604/1966 e dell’art. 18, L. n.
300/1970 il personale marittimo navigante delle imprese di navigazione e il personale navigante delle imprese di navigazione
aerea, mentre con sentenza n. 169 del 22 novembre 1973 ha
dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 10, L. n.
604/1966 nella parte in cui escludeva gli apprendisti dal campo di applicazione della L. n. 604/1966; ha in proposito sottoli-
neato che il presupposto delle richiamate pronunce era l’esclusione di tali lavoratori dalle qualifiche di cui all’art. 2095 c.c.
(16) In senso contrario M. Tiraboschi, op. cit., il quale ritiene
che il contratto di apprendistato sia strutturato in fasi successive scandite da specifici e progressivi regimi di tutela, inconciliabili con quelli di cui al D.Lgs. n. 23/2015, anche a fronte della possibilità di riconoscere all’apprendista un minor trattamento retributivo rispetto a quello del lavoratore qualificato;
evidenzia inoltre che l’art. 1, comma 118, L. n. 190/2014 esclude il contratto di apprendistato dalla misura di esonero del versamento dei contributi previdenziali a carico del datore di lavoro.
(17) In questo senso M. Marazza, op. cit.
(18) Cass., SS.UU., 8 ottobre 2002, n. 14381; Cass. 27 ottobre 2005, n. 20858 e Cass. 27 marzo 2008, n. 7979.
(19) L’istituto della conversione è testualmente menzionato
nell’art. 32, comma 5, L. n. 183 del 2010; secondo M. Tiraboschi, op. cit., il termine “conversione” ha un significato letterale del tutto univoco, che non è sinonimo di “trasformazione”
Stante il tenore letterale dell’art. 1, D.Lgs. n.
23/2015, le nuove disposizioni non sembrano applicabili all’apprendistato (14), al lavoro aeronautico e al lavoro marittimo, atteso che in tali settori
la classificazione dei prestatori di lavoro è diversa
da quella prevista dall’art. 2095 c.c. (15).
Se la questione può ritenersi superabile relativamente ai contratti di apprendistato (16), atteso che
il testuale riferimento all’applicabilità delle sanzioni previste dalla normativa vigente contenuto nell’art. 2, comma 1, lett. l), D.Lgs. n. 167 del 2011
sembra comportare l’adeguamento del regime sanzionatorio applicabile vigente tempo per tempo,
non altrettanto può dirsi per i rapporti di lavoro
del personale navigante del settore marittimo ed
aeronatico, rispetto al quale non sembra possibile
l’applicazione della nuova disciplina, in difetto di
un intervento ad hoc della Corte costituzionale (17).
I contratti a tempo determinato e di
apprendistato convertiti successivamente
al 7 marzo 2015
664
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
Riforme
Speciale Jobs Act
di pronuncia si fonda sulla ritenuta illegittimità del
termine apposto ab initio per iniziativa del datore
di lavoro al contratto di assunzione (nel caso in
cui il giudice accoglie la domanda di conversione,
nel dispositivo della sentenza dichiara la sussistenza
tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato a
tempo indeterminato dalla data di decorrenza del
contratto) e comporta dunque la decorrenza dell’assunzione dalla data della stipula del contratto,
ancorché al medesimo sia stato originariamente apposto un termine.
Pertanto, l’applicazione della disciplina prevista
dal D.Lgs. n. 23 del 2015 alle ipotesi in cui il contratto a tempo indeterminato sia stato stipulato
prima del 7 marzo 2015, ma convertito successivamente in sede giudiziale sembra configurare una
deroga al principio sancito dal comma 1 (la pronuncia di accoglimento della domanda di conversione accerta la sussistenza di un rapporto di lavoro
a tempo indeterminato dall’iniziale decorrenza del
rapporto), comportando l’applicazione di un regime premiale per il datore di lavoro (quello delle
tutele crescenti, più favorevole per il medesimo ris p e t t o a q u e l l o pr e v i s t o d a l l’ art. 18, L. n.
300/1970), ancorché la decorrenza del rapporto sia
anteriore al 7 marzo 2015, a fronte di una sua condotta contra legem, costituita dall’apposizione di un
termine illegittimo.
Tale disposizione sembra comunque presentare un
vizio di eccesso di delega, ove si consideri che la L.
n. 183/2014 ha individuato il discrimine temporale
per l’applicazione della nuova disciplina facendolo
coincidere con la data dell’assunzione (20).
Secondo un’interpretazione costituzionalmente
orientata, la disposizione in commento potrebbe
essere intesa nel senso che la conversione a tempo
indeterminato comporta l’applicazione del regime
delle tutele introdotto dal D.Lgs. n. 23/2015 solo
se il contratto a tempo determinato o il rapporto
di apprendistato siano costituiti dopo la in vigore
del decreto e poi convertiti (21); tuttavia a ben vedere, tale interpretazione renderebbe superflua tale
disposizione nei casi di conversione giudiziale, atte-
so che gli effetti della medesima comportano di per
sé la decorrenza dell’assunzione dalla data di stipula
del contratto.
Secondo altra impostazione, rinvenendosi nel nostro ordinamento giuslavoristico anche ipotesi di
conversione in cui la decorrenza del rapporto non
necessariamente coincide con la stipula del primo
contratto o comunque senza effetti ex tunc, le disposizioni contenute nell’art. 1, comma 2 andrebbero intese come estensione dei principi previsti
dalla nuova disciplina anche ai casi dubbi (22).
L’ipotesi di trasformazione del rapporto per via negoziale (se intesa anch’essa come “conversione”)
non presenta invece particolari criticità: la trasformazione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato alla sua scadenza (in
epoca successiva al 7 marzo 2015), per concorde
volontà delle parti, comporta infatti che l’assunzione a tempo indeterminato sia effettivamente avvenuta dopo tale data; la previsione del comma 2
sembra dunque in questa ipotesi perfettamente
coerente con quella del comma 1, che individua
tra le condizioni per l’applicazione della nuova disciplina l’assunzione delle categorie di lavoratori
ivi indicate “con contratto di lavoro subordinato a
tempo indeterminato”.
Va inoltre verificato se la previsione del comma 2
riguardi solo le due fattispecie ivi previste o anche
i contratti di somministrazione, i contratti a progetto e il patto di prova.
Va in proposito osservato che il contratto a progetto, pur prevedendo un termine, non è un contratto
di lavoro subordinato, mentre il contratto di somministrazione è un contratto di lavoro subordinato
che coinvolge tre soggetti (il lavoratore somministrato, il somministrante e l’utilizzatore).
L’art. 69 del D.Lgs. n. 276/2003 prevede che i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa
instaurati senza l’individuazione di uno specifico
progetto, programma di lavoro o fase di esso, ai
sensi dell’art. 61, comma 1, “sono considerati” rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato
sin dalla data di costituzione del rapporto; l’art. 1,
del contratto a tempo determinato o di “prosecuzione” del
contratto di apprendistato dopo il periodo di formazione; ritiene inoltre che la norma, intesa in senso contrario, si esporrebbe a censure di eccesso di delega, in quanto né le trasformazioni di contratti temporanei né la prosecuzione dei contratti di
apprendistato al termine del periodo di formazione possono
essere considerate “nuove assunzioni”.
(20) Affrontano la questione M. Marazza, op. cit. e C. Celentano, op. cit.
(21) M. Marazza, op. cit.
(22) In questo senso C. Celentano, op. cit., il quale menzio-
na la fattispecie prevista dall’art. 5, commi 3 e 4, D.Lgs. n. 368
del 2001, in cui il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato dalla stipula del secondo contratto, nonché quella
della conversione negoziale; evidenzia comunque che, secondo la consolidata giurisprudenza della Suprema Corte, in caso
di illegittima apposizione del termine, trova applicazione la disciplina vigente all’epoca della stipula del contratto a termine,
secondo il principio “tempus regit actum”. M. Miscione, op.
cit. evidenzia che la deroga non sussiste se si ritiene prevalente l’epoca della conversione.
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
665
Riforme
Speciale Jobs Act
comma 24 della L. n. 92/2012 ha successivamente
previsto che tale disposizione si interpreta nel senso che l’individuazione di uno specifico progetto
costituisce elemento essenziale di validità del rapporto di collaborazione coordinata e continuativa,
la cui mancanza determina la costituzione di un
rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Ai sensi dell’art. 69, comma 2, D.Lgs. n. 276/2003,
qualora venga accertato che il rapporto di lavoro,
formalmente instaurato in forza di un contratto a
progetto, si è concretamente svolto con modalità
proprie della subordinazione, si trasforma nella fattispecie contrattuale corrispondente.
In queste ipotesi, a stretto rigore, non è un contratto a tempo determinato che viene convertito (o
quanto meno non si è in presenza di una conversione diretta di un contratto a termine), ma la tipologia contrattuale (il contratto di lavoro a progetto in contratto di lavoro subordinato), mentre il
termine viene travolto solo di conseguenza (23).
Sembrerebbe pertanto che nei casi in cui, in forza
di una pronuncia emessa dopo il 7 marzo 2015,
venga giudizialmente accertata la sussistenza di un
rapporto di lavoro subordinato tra le parti in relazione ad un contratto formalmente stipulato a progetto in epoca anteriore al 7 marzo 2015, ad un
eventuale licenziamento non dovrebbe trovare applicazione la disciplina prevista dal D.Lgs. n. 23
del 2015, ma quella di cui all’art. 18, L. n.
300/1970 o di cui all’art. 8, L. n. 604/1966, a seconda della sussistenza o meno del requisito dimensionale (24).
In ordine al contratto di somministrazione, va evidenziato che l’art. 27, D.Lgs. n. 276/2003 nelle
ipotesi di somministrazione irregolare ivi indicate,
prevede testualmente la “costituzione” del rapporto
con l’utilizzatore, istituto che tecnicamente non
sembra coincidere la conversione (la quale viene
in rilievo in relazione al rapporto di lavoro tra le
stesse parti).
La Suprema Corte ha tuttavia statuito che, in tema
di somministrazione di lavoro, l’indennità prevista
dall’art. 32, comma 5, L. n. 183/2010 (come autenticamente interpretato dall’art. 1, comma 13, L. n.
92/2012) è applicabile a qualsiasi ipotesi di conversione del contratto di lavoro da tempo determinato
a tempo indeterminato e, dunque, anche nel caso
di condanna del datore di lavoro al risarcimento
del danno subito dal lavoratore che abbia chiesto
ed ottenuto l’accertamento della nullità di un contratto di somministrazione di lavoro, convertito in
contratto a tempo indeterminato tra lavoratore ed
utilizzatore della prestazione (25).
Dall’applicazione di tali principi consegue che la
previsione del comma 2 riguarda anche i contratti
di somministrazione.
È stato inoltre correttamente osservato (26) che il
riferimento alla conversione del contratto di apprendistato in contratto a tempo indeterminato
contenuto nell’art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 23/2015
non sembra tenere conto della circostanza che il
contratto di apprendistato è un contratto a tempo
indeterminato (27).
Va infine evidenziato che, quando al contratto di
lavoro stipulato in epoca anteriore al 7 marzo 2015
è stato apposto un patto di prova, e il datore di lavoro fa dipendere la cessazione del rapporto dal
mancato superamento della prova, la pronuncia
giudiziale di accertamento dell’illegittimità del patto comporta la conversione del contratto (28): valgono pertanto le considerazioni che precedono sulla conversione giudiziale del contratto a termine,
mentre nulla quaestio nel caso in cui la prova venga
superata ed il rapporto tra le parti sia proseguito
dopo la scadenza del relativo periodo, dovendo ritenersi in tal caso che l’assunzione è avvenuta dall’iniziale decorrenza del rapporto.
(23) M. Miscione, op. cit. ritiene che si applichi la regolamentazione previgente ai casi di “conversione” di collaborazioni autonome o contratti di appalto; tali considerazioni si ritengono condivisibili, ove si consideri che anche in queste ipotesi
l’oggetto diretto della “conversione” non è la clausola appositiva del termine.
(24) G. Mimmo, op. cit., non ritiene applicabile la disposizione di cui all’art. 1, comma 2 al contratto a progetto trasformato ai sensi dell’art. 69 del D.Lgs. n. 276 del 2003, non essendo
tale fattispecie assimilabile al contratto a tempo determinato,
né all’ipotesi di conversione; M. Marazza, op. cit. ritiene che le
ipotesi sanzionatorie del primo e del secondo comma dell’art.
69, D.Lgs. n. 276 del 2003 debbano essere tenute distinte.
(25) Cass., Sez. lav., 1° agosto 2014, n. 17540.
(26) In tal senso M. Marazza, op. cit., il quale ha altresì evi-
denziato che la disposizione contenuta nell’art. 1, comma 2,
D.Lgs. n. 23/2015 potrebbe ritenersi viziata per eccesso di delega se interpretata nel senso che la nuova disciplina si applica
anche al rapporto convertito successivamente all’entrata in vigore del decreto ma costituito come contratto a termine o di
apprendistato antecedentemente a tale data.
(27) L’art. 1, comma 1, D.Lgs. 14 settembre 2011, n. 167,
in vigore dal 25 ottobre 2011 ha infatti espressamente qualificato l’apprendistato come contratto a tempo indeterminato.
(28) Costante è l’orientamento della Suprema Corte sul
punto: Cass., Sez. lav., 10 ottobre 2006, n. 21698; Cass., Sez.
lav., 14 aprile 2001, n. 5591; Cass., Sez. lav., 24 dicembre
1999, n. 14538; Cass., Sez. lav., 26 maggio 1995, n. 5811;
Cass., Sez. lav., 19 novembre 1993, n. 11423.
666
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
Riforme
Speciale Jobs Act
Superamento del requisito dimensionale
da parte del datore di lavoro dopo il 7
marzo 2015
questa impostazione, la norma sarebbe conforme
alla legge delega (30).
Ai fini della verifica della compatibilità costituzionale della norma, andrà dunque verificato se la lesione dell’affidamento dei vecchi assunti ingenerata dalla disposizione in commento sia conforme alla delega nel suo complesso, fermo restando che il
legislatore delegante, pur avendo indicato una pluralità di principi e criteri direttivi, che costituiscono espressione di diritti costituzionalmente garantiti, ne ha indirettamente effettuato una sorta di bilanciamento preventivo, disponendo che il nuovo
regime delle tutele debba applicarsi solo ai nuovi
assunti.
È stato comunque osservato che il vizio dell’eccesso di delega avrebbe potuto essere evitato escludendo i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 dal
computo dell’organico utile ai fini del requisito dimensionale di cui all’art. 18, L. n. 300/1970 (31).
L’art. 1, comma 3, D.Lgs. n. 23/2015 prevede
espressamente l’applicazione della nuova disciplina
ai lavoratori assunti precedentemente alla data di
entrata in vigore del decreto medesimo, qualora il
datore di lavoro abbia integrato il requisito dimensionale di cui all’art. 18, L. n. 300/1970 in conseguenza di assunzioni a tempo indeterminato avvenute successivamente alla data di entrata in vigore
del medesimo decreto legislativo.
A fronte di tali disposizioni, che costituiscono un
evidente incentivo ad effettuare nuove assunzioni
con contratto a tempo indeterminato, date le conseguenze premiali per il datore di lavoro, ci si è
chiesti se il requisito dimensionale ivi previsto debba sussistere anche al momento del licenziamento
o se, una volta superato il limite suddetto, la nuova
disciplina sia applicabile anche qualora il numero
dei dipendenti successivamente diminuisca a meno
di sedici unità (in data antecedente al licenziamento) (29); il dato letterale della norma fa propendere
per la soluzione negativa, ove si consideri che la richiamata disposizione condiziona tout court l’applicabilità del regime delle tutele crescenti al conseguimento del requisito dimensionale di cui all’art.
18, L. n. 300/1970, in qualunque momento successivo al 7 marzo 2015 ciò sia avvenga, senza richiedere che tale requisito venga mantenuto.
Anche in questo caso si pone la questione del contrasto della norma, così come formulata con gli
artt. 76 e 77 Cost., in quanto, ai sensi dell’art. 1,
comma 7, lett. c), L. n. 183 del 2014, il Governo è
stato delegato ad introdurre una nuova disciplina
dei licenziamenti illegittimi solo “per le nuove assunzioni”.
È stata tuttavia evidenziata la necessità di tenere
conto degli ulteriori criteri direttivi contenuti nella
L. n. 183 del 2014, e segnatamente di quello indicato nella lett. b), relativo alla promozione del
contratto a tempo indeterminato come forma comune di contratto di lavoro, anche in termini di
convenienza a livello di oneri diretti ed indiretti,
rispetto ad altre tipologie contrattuali; secondo
Assai dibattuta è la questione dell’applicabilità ai
pubblici dipendenti del nuovo regime delle tutele
introdotto dal D.Lgs. n. 23/2015.
Sotto il profilo formale, va in proposito evidenziato
che il Ministero per la semplificazione e la pubblica amministrazione non risulta coinvolto nell’elaborazione e nella sottoscrizione del testo normativo.
Milita inoltre a favore dell’esclusione del pubblico
impiego privatizzato dall’ambito di applicazione
della nuova disciplina l’espresso riferimento alle
categorie di lavoratori previste dall’art. 2095 c.c.,
mentre per i pubblici dipendenti non si applica tale classificazione (32).
È stato infatti evidenziato che la norma non si riferisce alla categoria dei dirigenti, esclusione comprensibile per il lavoro privato (in cui questi ultimi
sono da sempre sottratti alla disciplina di cui all’art. 18 Stat. lav.), ma non per il rapporto di lavoro pubblico privatizzato, in cui i dirigenti sono stati
riportati nell’ambito di applicazione della disciplina da ultimo richiamata dalla giurisprudenza della
Suprema Corte (33); inoltre la finalità di ridurre la
(29) Pone la questione G. Mimmo, op. cit.; C. Celentano,
op. cit. evidenzia che tali disposizioni si prestano ad un uso distorto da parte dei datori di lavoro, che potrebbero effettuare
nuove assunzioni conseguendo il requisito dimensionale, senza poi mantenerlo.
(30) Benché possano residuare dubbi, in ragione della flessibilità anche preordinata del dato occupazionale: in questo
senso C. Celentano, op. cit.
(31) S. Giubboni, Profili costituzionali del contratto di lavoro a
tutele crescenti, in WP CSDLE “Massimo D’Antona”.IT246/2015.
(32) M. Marazza, op. cit., il quale riporta sul punto Cass. 5
luglio 2005, n. 14193, pur ritenendo discutibile la differenziazione del regime delle tutele in materia di licenziamento tra i
lavoratori pubblici e quelli privati.
(33) Così F. Carinci, Un contratto alla ricerca di una sua iden-
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
Pubblico Impiego
667
Riforme
Speciale Jobs Act
disoccupazione, che ha ispirato la L. n. 183/2014, è
estranea al pubblico impiego (34).
La tesi a favore l’applicabilità della disciplina in
esame al pubblico impiego (35) si fonda invece sulla mancanza di un esplicito divieto normativo in
tal senso.
È stato inoltre evidenziato che ai sensi dell’art. 51,
comma 2, D.Lgs. n. 165 del 2001, la L. n.
300/1970 trova applicazione alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal requisito dimensionale, donde l’inapplicabilità ai rapporti di pubblico
impiego dell’art. 8, L. n. 604/1966, ma non di una
normativa che prescinda dal requisito dimensionale (36).
È stato pertanto sostenuto che, in assenza di riferimenti testuali a favore della distinzione delle tutele
applicabili all’impiego privato rispetto a quello
pubblico, fino a che non venga approvata una diversa normativa (attraverso l’espressa esclusione
del pubblico impiego privatizzato dall’ambito di applicazione del D.Lgs. n. 23 del 2015, o attraverso
l’introduzione di una normativa speciale per il pubblico impiego), il regime delle tutele crescenti troverà applicazione anche ai pubblici dipendenti assunti dopo il 7 marzo 2015 (37).
tre ridotto della metà e, in ogni caso, non può superare le sei mensilità.
L’art. 9, comma 1, del decreto in esame ha, dunque, introdotto un arretramento della tutela per i
dipendenti da piccole aziende, in quanto, estendendo il dimezzamento dell’indennità alle sanzioni
per vizi di forma, ha previsto il minimo indennizzabile nella misura di una mensilità, mentre l’art. 8
della L. n. 604 del 1966 prevede come entità minima dell’indennizzo 2,5 mensilità anche per i vizi
formali (38).
Sono stati pertanto prospettati problemi di costituzionalità rispetto alla legge delega (39): considerato
che l’indennizzo di cui all’art. 9, comma 1, è pari
ad una mensilità per ogni anno di servizio e non
può superare le sei mensilità, la crescita della tutela
è limitata ad una anzianità fino a sei anni di servizio, con la conseguenza che un dipendente che abbia sei anni di anzianità viene trattato allo stesso
modo di un dipendente di maggiore anzianità, in
contrasto con i principi e i criteri direttivi dettati
dalla legge delega, che ha previsto l’introduzione di
tutele crescenti con l’aumentare dell’anzianità di
servizio.
Dipendenti di piccole imprese
L’art. 9, comma 2 prevede che il decreto legislativo
si applichi anche ai datori di lavoro non imprenditori senza scopo di lucro e alle organizzazioni di
tendenza: in forza dell’art. 1 del D.Lgs. n. 23/2015,
i lavoratori dipendenti da tali tipologie di datori di
lavoro assunti dopo il 7 marzo 2015 soggiacciono
al nuovo regime sanzionatorio, con la conseguente
applicazione della tutela reintegratoria piena nelle
ipotesi di licenziamenti nulli ed inefficaci a prescindere dalle dimensioni dell’impresa (40).
Per effetto di tali disposizioni, ai neoassunti delle
maggiori organizzazioni di tendenza si applica la tu-
Mentre l’art. 2, in ordine alle conseguenze del licenziamento discriminatorio o nullo o verbale, si
applica anche ai dipendenti delle piccole aziende
(come, del resto, nel sistema introdotto dalla L. n.
92/2012), l’art. 9, comma 1 prevede che per questi
ultimi non si applichi l’art. 3, comma 2, con la
conseguenza che anche per i licenziamenti disciplinari illegittimi per insussistenza del fatto non può
essere disposta la reintegrazione, essendo prevista
solo la tutela indennitaria; l’indennizzo viene inoltità: il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti (‘a sensi della bozza del D.Lgs. 24 dicembre 2014) 2015, in questa Rivista, 2, 2015; l’autore ravvisa inoltre l’impraticabilità nel settore del pubblico impiego privatizzato di un regime di tutela diversificato solo in ragione della data di assunzione, stante il disposto dell’art. 97 Cost.
(34) In questa prospettiva A. Vallebona, Jobs Act e licenziamento, Torino, 2015.
(35) In tal senso Olivieri, Licenziamenti oggettivi economici
nel lavoro pubblico, in I decreti attuativi del Jobs Act: prima lettura ed interpretazioni, 2015 Adapt Labour Studies n. 37.
(36) In questo senso G. Mimmo, op. cit.
(37) Secondo G. Mimmo, op. cit. la circostanza che le nuove disposizioni siano applicabili alle categorie previste dall’art.
2095 c.c. e che riguardino tipologie di licenziamento che non
si rinvengono nel pubblico impiego non determina l’incompatibilità con il pubblico impiego delle norme residue applicabili.
668
Imprese senza fini di lucro o di tendenza
(38) Tranne che per quello relativo all’omessa comunicazione dei motivi: dopo l’entrata in vigore del nuovo testo dell’art.
18 Stat. lav., in assenza di una specifica nuova regolamentazione delle conseguenze sanzionatorie per questa tipologia di
vizio nei licenziamenti intimati da piccoli datori di lavoro, sembrava infatti trovare applicazione il regime della nullità di diritto
comune.
(39) G. Mimmo, op.cit.
(40) E. Barraco, Jobs Act: le tutele crescenti contro i licenziamenti per i neo-assunti, in questa Rivista, 2, 2015 evidenzia il
seguente paradosso: ai lavoratori assunti prima del 7 marzo
2015 dalle grandi organizzazioni di tendenza continuerà ad applicarsi la tutela obbligatoria di cui all’art. 8, L. n. 604/1966 (indennità ricompresa tra le 2,5 e le 6 mensilità), mentre ai nuovi
assunti si applicherà il regime delle tutele crescenti (indennità
ricompresa tra le 4 e le 24 mensilità).
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
Riforme
Speciale Jobs Act
Le nuove disposizioni introdotte dal D.Lgs. n.
23/2015 non esauriscono il loro impatto sul regime
delle tutele applicabili ai singoli lavoratori, ma
hanno una portata ben più ampia, destinata a riverberarsi sul mercato del lavoro nel suo complesso, anche al di là degli obiettivi occupazionali perseguiti dal legislatore.
Infatti uno degli effetti indiretti della riforma sarà
lo scoraggiamento della mobilità degli attuali occupati (44), suscettibile a sua volta di determinare
l’aumento delle somme che i datori di lavoro destinano normalmente all’incentivazione delle non
opposizioni alla collocazione in mobilità nei casi in
cui gli accordi sindacali prevedano quale unico criterio di scelta ai sensi dell’art. 5, L. n. 223/1991
per la risoluzione dei rapporti di lavoro quello della
non opposizione del dipendente (45); è stata inoltre prospettata la necessità di stipulare accordi sia
in sede di contrattazione individuale che collettiva, al fine di garantire per via negoziale condizioni
di tutela superiori rispetto a quella legale (46), con
tutte le questioni che ne deriveranno sulla derogabilità o meno della nuova disciplina (47).
È altresì prevedibile, quanto meno nel breve e nel
medio periodo, una riduzione delle esternalizzazioni
di servizi o di porzioni dell’attività di impresa mediante cessioni di rami di azienda, a fronte della loro minore convenienza rispetto al passato, ove si
consideri che i lavoratori assunti dall’azienda cedente prima del 7 marzo 2015 manterranno il vecchio regime delle tutele, a loro più favorevole (48).
I datori di lavoro saranno inoltre incentivati a motivare il licenziamento dei nuovi assunti solo con il
giustificato motivo oggettivo, atteso che la disciplina generale prevista dall’art. 3 prevede in tale ipotesi una tutela solo economica (49), mentre è presumibile che i lavoratori tenderanno ad invocare
in giudizio la nullità o la discriminatorietà del licenziamento per ottenere la tutela reintegratoria
piena.
Sul piano processuale, la previsione di cui all’art.
11 comporterà inoltre l’aumento dei ricorsi ex art.
700 c.p.c. per le controversie in cui sia richiesta
l’applicazione della tutela reintegratoria piena o attenuata da parte di lavoratori assunti dopo il 7
marzo 2015, atteso che i tempi di definizione dei
procedimenti in cui sia richiesta l’applicazione delle tutele previste dal decreto in commento saranno
quelli ordinari, in assenza di specifiche disposizioni
processuali in funzione acceleratoria, e non essendo nemmeno precluso il cumulo di domande (di-
(41) Secondo C. Pisani, Il nuovo regime di tutele per il licenziamento ingiustificato, Torino, 2015, la differenza rispetto al regime attualmente vigente non sembra giustificabile né compatibile con la ratio della legge delega, che consiste nel favorire
l’occupazione.
(42) A. Vallebona, Jobs Act e licenziamento, cit., evidenzia
che i nuovi assunti sono svantaggiati nelle minori organizzazioni di tendenza, essendo più elevata la tutela indennitaria prevista dall’art. 8, L. n. 604/1966 per i vecchi assunti.
(43) Si veda Cass. 6 novembre 2001, in Dir. lav., 2002, II,
186; in senso favorevole al superamento M. Marazza, op. cit.;
in senso contrario E. Barraco, op. cit.
(44) F. Scarpelli, La disciplina dei licenziamenti per i nuovi
assunti: impianto ed effetti del sistema del d. lgs. n. 23/2015, in
WP CSDLE “Massimo D’Antona”. IT- 252/2015 e M. Marazza,
op. cit.
(45) M. Marazza, op. cit.
(46) F. Scarpelli, op. cit.
(47) C. Pisani, Il regime delle tutele per il licenziamento ingiustificato, in Jobs Act e licenziamento, Torino, 2015 evidenzia
che, a differenza dell’art. 12, L. n. 604/1966, il D.Lgs. n.
23/2015 non fa salve deroghe in melius, le quali sarebbero in
contrasto con la sua ratio, e che pertanto l’eventuale previsione di una sanzione conservativa per un determinato inadempimento del lavoratore sarebbe contraria a norme imperative.
(48) F. Scarpelli, op. cit.
(49) P. Sordi, Il licenziamento discriminatorio, nullo e intimato
in forma orale, cit.
tela reintegratoria attenuata di cui all’art. 3, comma 2, D.Lgs. n. 23/2015 per il fatto materiale insussistente e le tutele indennitarie negli altri casi (41), mentre per i neoassunti delle minori organizzazioni di tendenza si applicano le tutele indennitarie di cui agli artt. 3, comma 1 e 4 (42).
La tutela reintegratoria piena di cui ai primi tre
commi del nuovo art. 18 Stat. lav. trova comunque
applicazione ai vecchi assunti dalle organizzazioni
di tendenza, a differenza delle tutele di cui ai commi da 4 a 7 del medesimo art. 18 (alle relative fattispecie si applica infatti l’art. 8, L. n. 604/1966).
L’art. 4, L. n. 108/1990, nell’escludere dall’ambito
applicativo dell’art. 18, L. n. 300/1970 i datori di
lavoro non imprenditori che svolgessero senza scopo di lucro attività di natura politica, sindacale,
culturale, di istruzione, ovvero di religione e di culto, aveva fatto salva la previsione di cui al precedente art. 3 sull’estensione della tutela reale ai licenziamenti nulli in quanto discriminatori, a prescindere dal requisito dimensionale del datore di
lavoro.
Va dunque verificato se le nuove disposizioni comportano il superamento di quell’indirizzo giurisprudenziale che aveva escluso dall’ambito applicativo
dell’art. 18, L. n. 300/1970 i soli lavoratori adibiti
a mansioni “di tendenza” e non invece quelli che
svolgessero attività non riconducibili a tale categoria (43).
Riflessioni conclusive
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
669
Riforme
Speciale Jobs Act
versamente da quanto previsto dall’art. 1, comma
48, L. n. 92/2012).
Infatti, a fronte della dilatazione dei tempi di definizione delle controversie aventi ad oggetto l’applicazione della tutela reintegratoria attenuata per i
nuovi assunti, il pagamento delle 12 mensilità per
il periodo antecedente alla pronuncia non sarà più
idoneo a ristorare l’intero pregiudizio subito dal lavoratore in quel periodo e costituito dalla perdita
della retribuzione, a differenza di quanto tendenzialmente accade nella vigenza della L. n. 92/2012,
in cui la prima fase del procedimento viene definita in tempi brevi e che, dati i termini di decadenza
fissati dal legislatore, normalmente un pronuncia
di reintegra nella prima fase del giudizio viene
emessa entro l’anno dal licenziamento.
Ne deriverà un aggravio dei costi per il datore di
lavoro nel caso in cui verrà accolta giudizialmente
la domanda di applicazione della tutela reintegratoria piena: come accadeva prima dell’entrata in
670
vigore della L. n. 92/2012, questa tipologia di pronuncia, ancorché limitata ad ipotesi ormai residuali, con il rito ordinario arriverà infatti a distanza di
anni dal licenziamento.
A fronte delle notevolissime ricadute dell’applicazione della nuova disciplina, non solo per i soggetti
coinvolti nel rapporto di lavoro, ma per il mercato
del lavoro nel suo complesso, la corretta individuazione del suo ambito di applicazione assume dunque una rilevanza preminente.
Sarà dunque fondamentale il contributo degli interpreti su tutte le questioni trattate, non ultima
quella dell’applicabilità delle nuove disposizioni ai
pubblici dipendenti.
A fronte della pluralità delle opzioni ermeneutiche
su alcune delle principali questioni, è dunque opportuno un raffronto critico delle argomentazioni
proposte, in attesa dei primi pronunciamenti giurisprudenziali.
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
Riforme
Speciale Jobs Act
Controllo dei lavoratori
I controlli a distanza dopo
il “Jobs Act” e la
Raccomandazione R(2015)5
del Consiglio d’Europa
Andrea Sitzia - Ricercatore di Diritto del lavoro presso l’Università di Padova
L’Autore esamina la delega contenuta nel c.d. “Jobs Act” in materia di controlli a distanza su
impianti e strumenti di lavoro collocandola nel contesto del dibattito sovranazionale ed offre
una prima lettura dell’art. 23 dello Schema di decreto legislativo approvato dal Consiglio dei Ministri l’11 giugno 2015. La proposta di Regolamento europeo sul trattamento dei dati personali
e la recentissima Raccomandazione settoriale del Consiglio d’Europa non consentono di ritenere del tutto libero il margine di manovra del Governo italiano e soprattutto impongono una riflessione molto attenta sul grado di precettività delle regole di prossima introduzione in un settore
dove il livello sovranazionale spinge molto verso una regolazione “soft” con ampi spazi di competenza riconosciuti all’accordo tra le parti sociali.
Premessa: “Jobs Act” e potere di
controllo. L’ambito della legge di delega
C’è stata quiete apparente sul fronte della regolazione del potere di controllo del datore di lavoro
in attesa della scadenza del termine per l’attuazione
della delega contenuta nell’art. 1, comma 7, lett.
f), della L. n. 183 del dicembre 2014. Senza particolari clamori il Consiglio dei Ministri, nella seduta dell’11 giugno 2015 (1), ha inserito nello schema di decreto legislativo recante disposizioni di razionalizzazione e semplificazione delle procedure e
degli adempimenti a carico di cittadini e imprese e
altre disposizioni in materia di rapporto di lavoro e
pari opportunità, una norma (l’art. 23) che intende
sostituire il testo dell’attuale art. 4 Stat. lav. con il
seguente articolato: “gli impianti audiovisivi e gli
altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità
di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori
possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza
del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale
e possono essere installati previo accordo collettivo
stipulato dalla rappresentanza sindacale unitaria o
dalle rappresentanze sindacali aziendali. In alternativa, nel caso di imprese con unità produttive ubicate in diverse province della stessa regione ovvero
in più regioni, tale accordo può essere stipulato
dalle associazioni sindacali comparativamente più
rappresentative sul piano nazionale. In mancanza
di accordo gli impianti e gli strumenti di cui al periodo precedente possono essere installati previa
autorizzazione della Direzione territoriale del lavoro o, in alternativa, nel caso di imprese con unità
produttive dislocate negli ambiti di competenza di
più Direzioni territoriali del lavoro, del Ministero
del lavoro e delle politiche sociali”. Il comma 2
dell’art. 23 dello schema citato stabilisce che la disposizione del primo comma non si applica “agli
strumenti che servono al lavoratore per rendere la
prestazione lavorativa e agli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze”. Il comma 3,
infine, stabilisce che le informazioni raccolte ai
sensi dei primi due commi sono utilizzabili “a tutti
(1) Quando questo articolo era pronto per la stampa il Consiglio dei Ministri ha approvato lo schema di cui si dà atto nel
testo. Le considerazioni conclusive rappresentano, pertanto,
una prima lettura, a caldo, dell’articolato normativo.
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
671
Riforme
Speciale Jobs Act
i fini connessi al rapporto di lavoro” a condizione
che sia data al lavoratore adeguata informazione
delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto di quanto disposto
dal D.Lgs. n. 196 del 2003.
Il testo dello schema di decreto legislativo, immediatamente presentato come un “puro e semplice
aggiornamento della norma” (2), deve essere valutata innanzitutto alla luce della legge di delegazione.
L’art. 1, comma 7, lett. f), della L. n. 183 del 2014
attribuisce, infatti, al Governo la delega ad adottare uno o più decreti legislativi, in coerenza con la
regolazione dell’Unione europea e le convenzioni
internazionali, con riferimento, anche, alla “revisione della disciplina dei controlli a distanza sugli
impianti e sugli strumenti di lavoro, tenendo conto
dell’evoluzione tecnologica e contemperando le
esigenze produttive ed organizzative dell’impresa
con la tutela della dignità e della riservatezza del
lavoratore”.
Questa parte della legge di delega ha un oggetto rilevantissimo - incidendo sulla disciplina attualmente contenuta all’interno di una delle norme
dello Statuto dei lavoratori che sono state efficacemente definite “spirituali” (3) - ma ben delimitato,
il cui campo specifico di applicazione concerne i
controlli a distanza “sugli impianti e sugli strumenti di lavoro”, non, però, il controllo a distanza dell’attività dei lavoratori (4). Confrontando il testo
della legge delega con l’art. 8, comma 2, lett. a)
del D.L. n. 138 del 2011 (conv. in L. n. 148 del
2011) si può registrare una evidente differenza. Se
la contrattazione di prossimità (5) può intervenire
nella “regolazione delle materie inerenti l’organiz-
zazione del lavoro e della produzione con riferimento”, tra l’altro, “agli impianti audiovisivi e alla
introduzione di nuove tecnologie”, il legislatore delegato dovrebbe poter riformare esclusivamente la
disciplina dei controlli a distanza su impianti e
strumenti di lavoro, materia che (disciplinata oggi,
come noto, dal comma 2 dell’art. 4 Stat. lav.) intercetta i controlli sull’attività lavorativa solamente in via indiretta o, come si usa dire, “preterintenzionale”.
La delega, che è stata accusata da più parti di incostituzionalità per violazione dell’art. 76 Cost. (6),
ha, dunque, con riferimento al tema in esame, un
oggetto preciso e ben delimitato. Maggiori criticità
si pongono con riferimento ai principi e criteri direttivi, che appaiono, nella sostanza, meramente ripetitivi del principio costituzionale del contemperamento delle esigenze produttive e organizzative
dell’impresa con la tutela della dignità e della riservatezza del lavoratore. Ora (7), il criterio direttivo
evoca direttamente quanto già stabilito dall’art. 41,
comma 2, Cost., senza nulla aggiungere a livello
normativo. La ripetizione del principio costituzionale si traduce in un richiamo al rapporto fra libertà di informazione e diritto alla riservatezza, che è
costruito, dalla Costituzione, in termini di sotto-ordinazione della prima al secondo. Il paradigma costituzionale impone di ritenere che la libertà di assumere e trattare informazioni finalizzate al lavoro
è immediata e diretta espressione dell’esercizio della libertà di impresa e degli atti di autonomia contrattuale, rispetto ai quali la dignità del lavoratore,
o aspirante tale, funge da espresso limite, introdotto dalla Costituzione e perfezionato dallo Statuto
dei lavoratori (8).
(2) Così si è espresso P. Ichino nell’intervista curata da F.
Riccardi, I nuovi decreti attuativi della delega-lavoro: una prima
valutazione, ne L’Avvenire, 13 giugno 2015.
(3) In questo senso M. Miscione, Dialoghi di Diritto del lavoro, 2 ed., Milano, 2010, 32.
(4) Conforme V. Speziale, Le politiche del lavoro del Governo
Renzi: il Jobs Act e la riforma dei contratti e di altre discipline
del rapporto di lavoro, WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT,
n. 233/2014, 38, in http://www.csdle.lex.unict.it; M. De Luca,
Legge delega sui tipi di contratti di lavoro: interpretazione costituzionalmente orientata in funzione delle leggi delegate, in questa Rivista, 2015, n. 4, 349 ss., spec. 352; V. Deregibus - G.
Machì, Privacy e lavoro: cosa dice l’Europa e cosa prevede il
Jobs Act, in www.bollettinoadapt.it, 6 maggio 2015; si veda
anche, sul tema, C. Tucci, Jobs act, il datore di lavoro potrà
controllare a distanza il lavoratore con pc e telefoni, 24 maggio
2015. Per una approfondita analisi della legge delega in materia di controlli a distanza si veda P. Lambertucci, Potere di controllo del datore di lavoro e tutela della riservatezza del lavoratore: i controlli a “distanza” tra attualità della disciplina statutaria,
promozione della contrattazione di prossimità e legge delega del
2014 (c.d. Jobs act), WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT -
255/2015, in http://csdle.lex.unict.it.
(5) Sia permesso il rinvio ad A. Sitzia, Il diritto alla “privatezza” nel rapporto di lavoro tra fonti comunitarie e nazionali, Padova, 2013, 61 ss. ed ivi ampi riferimenti bibliografici.
(6) Per un esame generale della L. n. 138 del 2014 nella prospettiva costituzionale cfr. R. Russo, La delega in bianco nella
giurisprudenza costituzionale, in www.osservatorioaic.it, gennaio 2015. In relazione al D.Lgs. n. 23 del 2015 cfr. S. Giubboni, Profili costituzionali del contratto a tutele crescenti, WP
C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT, n. 246/2015, in
http://www.csdle.lex.unict.it.
(7) Rispetto a quanto evidenziato nel testo c’è da aggiungere che non si comprende perché la delega restringa il campo
di operatività dell’interesse produttivo/organizzativo alla sola
impresa, escludendo così, in modo del tutto irragionevole, la
sfera di interesse del datore di lavoro non imprenditore.
(8) Al riguardo si veda, in particolare, A. Garilli, Tutela della
persona e tutela della sfera privata nel rapporto di lavoro, in Riv.
crit. dir. priv., 1992, 337 ss., nonché A. Bellavista, La disciplina
della protezione dei dati personali e i rapporti di lavoro, in Diritto
del lavoro, Commentario diretto da F. Carinci, tomo II, Il rapporto di lavoro subordinato: costituzione e svolgimento, a cura
672
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
Riforme
Speciale Jobs Act
Quale strategia di regolazione?
Il criterio direttivo utilizzato dal legislatore delegante (9) ha il pregio di concentrare l’attenzione
intorno al nucleo portante del problema, che consiste proprio nell’individuazione del criterio di bilanciamento tra le garanzie dei lavoratori, da un lato, e le esigenze organizzative, gli obiettivi aziendali, l’interesse alla conservazione dei beni produttivi
e lo stesso interesse potenziale alla riservatezza dell’impresa dall’altro lato. Questo bilanciamento non
trova, ad oggi, una declinazione espressa nell’ordinamento. Rispetto al tentativo operato nel 2011 consistente nel delegare il compito di operare la
predetta declinazione alla contrattazione di prossimità (10), così optando per la soluzione partecipata
del problema, cioè rimessa, seguendo l’auspicio del
Consiglio d’Europa (11), al livello, sussidiario, della
contrattazione collettiva più “prossima” alla sede
degli interessi in conflitto - la legge di delega apre
scenari nuovi che rimandano al dibattito, non risolto, su quale sia il livello e il metodo di regolazione più efficace ed opportuno in materia. Se ad oggi, invero, è mancata una regolamentazione settoriale, il sistema ha comunque offerto un principio
regolatore di fondo, che attribuisce (con riferimento alla questione dell’impiego delle nuove tecnologie in rapporto con la tutela dei diritti fondamentali dei lavoratori) il compito di operare la redistribuzione dei poteri individuali e collettivi sulla base
del criterio della proporzionalità (12) alla contrattazione collettiva ed, in ultima istanza, alla giurisprudenza.
di C. Cester, 2a ed., Torino, 2007, 467 ss.
(9) Resta da rilevare che la norma pone un rilevante problema di compatibilità rispetto all’art. 76 Cost. atteso che occorre
chiedersi se sia o no idoneo e sufficiente un criterio direttivo
che non pone al legislatore delegato altro limite se non quello
imposto dalla Costituzione.
(10) Richiama la contrattazione di prossimità quale strumento inteso a risolvere “la questione per il tramite dello strumento negoziale ritenuto già nella disciplina del 1970 quello
più idoneo ad affrontare le problematiche sul contemperamento fra le misure dell’organizzazione aziendale e la tutela della
dignità e della riservatezza dei lavoratori” anche F. Santoni, La
revisione della disciplina dei rapporti di lavoro, in F. Carinci (a
cura di), Commento al Disegno di legge S.1428 ora C.2660,
consultabile alla pagina http://www.meetingsandcommunication.it/bertinoro/files/B5.pdf, 97 ss., qui 116.
(11) Nella prospettiva della Raccomandazione di carattere
settoriale del Consiglio d’Europa n. R(89)2 del 18 gennaio
1989, il “diritto alla privacy” del lavoratore era legato alla valorizzazione del ruolo delle rappresentanze sindacali, dell’autocontrollo e dell’autodeterminazione dei lavoratori in materia.
Questa prospettiva è, come si vedrà più oltre nel testo, mantenuta nella nuova Raccomandazione del 1° aprile 2015, n. 5,
sostitutiva di quella del 1989.
(12) Sul tema cfr. P. Tullini, Comunicazione elettronica, potere di controllo e tutela del lavoratore, in Riv. it. dir. lav., 2009, I,
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
Il formante giurisprudenziale, in particolare, pur
non sempre traendone le debite conseguenze, ha
ben indicato il principio a mente del quale, in tema di trattamento dei dati personali, l’interesse alla riservatezza (tutelato dall’ordinamento positivo),
dovrebbe recedere quando quest’ultimo sia esercitato per la difesa di un diverso interesse giuridicamente rilevante (ovviamente nei soli limiti in cui
esso sia necessario alla tutela) (13). Ciò in quanto
“in caso di trattamento di dati personali, costituisce un limite alla protezione del diritto alla riservatezza l’esigenza di protezione di altre posizioni soggettive giuridicamente rilevanti” (14).
Questi principi devono essere tenuti presenti nell’attuazione della delega per risolvere la controversa questione relativa ai c.d. “controlli tecnologici” (15).
Il dibattito sovranazionale e la proposta
di regolamento europeo
La questione preliminare da risolvere nella materia
dei controlli sul luogo di lavoro riguarda, dunque,
l’individuazione della fonte di regolazione più opportuna ed efficace. Nell’attuazione della delega il
Governo è chiamato, primariamente, a sciogliere il
nodo circa l’opportunità o no di intervenire con
una regolazione eteronoma. La questione non si
presenta di facile soluzione atteso che la medesima
problematica è attualmente oggetto di ampia discussione a livello europeo.
Si deve ricordare, al riguardo, che, ad oggi, è allo
studio una proposta di Regolamento europeo in
485 ss.; in generale P. Ichino, Il contratto di lavoro, nel Trattato
Cicu-Messineo, III, Milano, 2003, 224; Id., Diritto alla riservatezza e diritto al segreto nel rapporto di lavoro, Milano, 1979.
(13) Cass., Sez. III, 24 maggio 2003, n. 8239, in Mass. giust.
civ., 2003.
(14) Così Cass. 30 giugno 2009, n. 15327, in Nuova giur.
civ. comm., 2010, n. 1, 71 ss., con nota di A. Sitzia, Privacy del
lavoratore, poteri del datore di lavoro ed interessi confliggenti:
un contemperamento è possibile? Questo principio collima con
quanto affermato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nel
caso Copland contro Regno Unito (application number
62617/00), sentenza del 3 aprile 2007, secondo la quale “the
monitoring of an employee’s use of a telephone, e-mail or internet at the place of work may be considered ‘necessary in a
democratic society’ in certain situations in pursuit of a legitimate aim” (punto 48 della motivazione). Le due Corti, in altri
termini, seppure nella reciproca indifferenza (attesa l’assoluta
mancanza di rinvii interni tra le due giurisprudenze), enucleano
entrambe il principio in base al quale occorre ricercare, in subiecta materia, un bilanciamento fra i contrapposti interessi, da
effettuarsi al lume dei criteri fondamentali, che riteniamo di
poter individuare, sostanzialmente, in quelli di necessità, liceità
e proporzionalità.
(15) In argomento cfr. E. Barraco - A. Sitzia, Un de profundis per i controlli difensivi del datore di lavoro?, in questa Rivista, 2013, n. 4, 383 ss.
673
Riforme
Speciale Jobs Act
materia di tutela delle persone fisiche con riguardo
al trattamento dei dati personali (16), destinato a
sostituire la direttiva 95/46/CE, oltre ad una direttiva (17) sulla protezione delle persone fisiche con
riguardo al trattamento dei dati a fini di prevenzione, indagine, accertamento o perseguimento dei
reati e nell’ambito delle connesse attività giudiziarie.
L’obiettivo principale del pacchetto legislativo proposto dalla Commissione europea dovrebbe essere
la creazione di un quadro giuridico più solido e
coerente in materia di protezione dei dati personali, affiancato da efficaci misure di attuazione tali da
garantire congiuntamente sia lo sviluppo dell’economia digitale sia un maggior controllo dei dati
personali delle persone fisiche, rafforzando la certezza del diritto e l’operatività per le autorità pubbliche e le imprese private.
Per quanto concerne la specifica tematica relativa
al trattamento dei dati personali dei lavoratori la
proposta di Regolamento, all’art. 82, prevede esplicitamente che gli Stati possono (ma, si noti, non
devono) intervenire con una normativa specifica
in materia di trattamento dei dati personali nel
“contesto dell’impiego”, con particolare attenzione
al reclutamento del personale ed alla stipula e gestione del contratto di lavoro (18).
Rispetto al testo originario della proposta, è attualmente all’esame un “Compromise amendments” volto ad implementare l’articolato normativo declinando, attraverso il richiamo del principio di proporzionalità, una serie di “minimum standards for
processing data in the employment sector” fra i quali,
per quanto qui interessa, rilievo centrale ha il paragrafo 1c, lett. a), dove si prevede innanzitutto che
il trattamento dei dati personali senza che il lavoratore ne sia a conoscenza non è permesso, salva la
facoltà degli Stati membri di consentire questa pratica introducendo termini appropriati per la cancellazione dei dati e richiedendo la sussistenza di
un sospetto basato su dati di fatto che documentino che il lavoratore abbia commesso un reato o abbia abbandonato il lavoro. La lett. d), inoltre, stabilisce che l’uso di telefono, posta elettronica, internet e altri servizi di telecomunicazione, deve essere permesso anche per usi privati, previa regolazione da parte della contrattazione collettiva, ovvero, in assenza di contrattazione collettiva, previo
accordo con il lavoratore. Nella misura in cui l’uso
privato sia permesso, il trattamento dei dati di traffico accumulati andrà consentito, in particolare,
per assicurare la sicurezza dei dati, la corretta operatività delle telecomunicazioni e dei servizi e per
la fatturazione.
In Europa il dibattito (di cui è espressione la diversa configurazione dell’emendamento rispetto alla
proposta originaria) è chiaramente attestato su
quattro diverse posizioni, schematicamente ricostruite nell’ambito di uno studio elaborato dal
competente Dipartimento del Parlamento europeo
nell’aprile 2013 (19), ove si sottolinea che l’art. 82
riflette un “mix” dei diversi approcci politici e strategici in materia. Il paragrafo 1, infatti, è espressione del punto di vista secondo il quale il livello europeo dovrebbe lasciare libero spazio, per il contesto del lavoro, ai legislatori nazionali, mentre il pa-
(16) La proposta della Commissione di un regolamento generale sulla protezione dei dati personali risale al gennaio
2012. Attualmente, i Ministri europei per la Giustizia hanno deciso di incontrarsi in Lussemburgo a giugno 2015 per il negoziato finale, con l’obiettivo di produrre un testo generale che
sarà la base sulla quale verranno avviati i negoziati con il Parlamento europeo. Per un monitoraggio dello stato della procedura legislativa ordinaria (procedimento COM(2012)11) si veda, oltre al sito http://eur-lex.europa.eu, la pagina dedicata alla
riforma della normativa europea sulla protezione dei dati personali di Confindustria. Sulla proposta di Regolamento si veda,
in generale, S. Schechner, V. Pop, Europe Moves Closer to Setting New Data-Privacy Rules, in Wall Street Journal-Eastern
Edition, 3/14/2015, vol. 265, 60; Kennet A. Bamberger, Deirdre
K. Mulligan, Privacy in Europe: Initial Data on Governance Choice and Corporate Practices, in George Washington Law Review, 2013, 81, n. 5, 1529 ss.
(17) Cfr. Proposal for a Directive of the European Parliament and of the Council on the protection of individuals with
regard to the processing of personal data by competent authorities for the purposes of prevention, investigation, detection
or prosecution of criminal offences or the execution of criminal
penalties, and the free movement of such data,
COM/2012/010 final, consultabile alla pagina web http://eurlex.europa.eu.
(18) L’art. 82 della proposta di Regolamento reca, testualmente, quanto segue: “1. Within the limits of this Regulation,
Member States may adopt by law specific rules regulating the
processing of employees’ personal data in the employment
context, in particular for the purposes of the recruitment, the
performance of the contract of employment, including discharge of obligations laid down by law or by collective agreements, management, planning and organization of work,
health and safety at work, and for the purposes of the exercise
and enjoyment, on an individual or collective basis, of rights
and benefits related to employment, and for the purpose of
the termination of the employment relationship. 2. Each Member State shall notify to the Commission those provisions of its
law which it adopts pursuant to paragraph 1, by the date specified in Article 91(2) at the latest and, without delay, any subsequent amendment affecting them. 3. The Commission shall
be empowered to adopt delegated acts in accordance with Article 86 for the purpose of further specifying the criteria and requirements for the safeguards for the processing of personal
data for the purposes referred to in paragraph 1”.
(19) Cfr. al riguardo P. De Hert - H. Lammerant, Protection
of Personal Data in Work-related Relations, Studio del Policy
Department Citizens’rights and constitutional affairs, aprile
2013, consultabile alla pagina Internet http://www.europarl.europoa.eu/studies.
674
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
Riforme
Speciale Jobs Act
Nel contesto sovranazionale assume sicura rilevanza il recente intervento del Consiglio d’Europa e,
segnatamente, la Raccomandazione del 1° aprile
2015, n. 5. Pur trattandosi di una Raccomandazione, e quindi di uno strumento la cui attuazione rimane affidata alla volontaria e sovrana scelta degli
Stati destinatari (22), occorre tenere conto del fatto che si tratta pur sempre di un atto giuridico formale che, in forma certamente attenuata rispetto
alla immediata precettività delle Convenzioni internazionali, obbliga comunque “programmaticamente” gli Stati. La portata di queste Raccomandazioni è superiore al valore meramente “raccomandatorio” che è tipico delle ordinarie risoluzioni delle Organizzazioni internazionali anche e soprattutto in ragione del fatto che per i diritti economici e
sociali, che hanno trovato ormai la loro consacrazione nei sistemi costituzionali della generalità degli Stati membri del Consiglio d’Europa, la Charte
sociale européenne, firmata a Torino il 18 ottobre
1961 (riveduta il 3 maggio 1996 e ratificata in Italia dalla L. n. 30 del 1999), dopo avere enunciato
il catalogo dei detti diritti, fra i quali si annoverano il diritto al lavoro e quello all’informazione e
consultazione (art. 21), pone dichiarazioni relative
ad una attività di controllo degli adempimenti legislativi in materia affidata al Segretario generale, al
Comitato degli esperti, al Comitato sociale governativo, all’Assemblea del Consiglio d’Europa e al
Comitato dei Ministri. Quest’ultimo ha la facoltà
di raccomandazione allo Stato membro il cui ordinamento relativo ai rapporti di lavoro e alle condizioni economiche e sociali non sia conforme al
contenuto della Carta stessa (23).
Autorevole dottrina internazionalistica sottolinea,
inoltre, come il “soft law” (categoria nell’ambito
della quale possono essere ascritte le Raccomandazioni del Consiglio d’Europa) possa contribuire in
vario modo alla creazione di diritto, in primo luogo
attraverso la progressiva creazione di consuetudini
internazionali, nel senso che le risoluzioni possono
contribuire al consolidarsi dell’opinio iuris; in secondo luogo ritenendo che il “soft law” possa costituire la fonte materiale di diritti ed obblighi giuridici anche in ragione delle pressioni sociali che
comporterebbe un comportamento non conforme (24).
(20) Così P. De Hert, H. Lammerant, Protection of Personal
Data in Work-related Relations, cit., 7.
(21) Cfr. De Hert, H. Lammerant, Protection of Personal Data
in Work-related Relations, cit., 22 ss.
(22) Il potere di Raccomandazione è previsto dagli artt. 1 e
15, lett. b), dello Statuto del Consiglio d’Europa del 5 maggio
1949; le Raccomandazioni non producono effetti vincolanti per
gli Stati contraenti, anche se diverse normative, a livello nazionale, internazionale e comunitario, rendono giuridicamente
vincolanti tali Raccomandazioni mediante espliciti rinvii ad esse, come avviene nel caso italiano, attraverso il particolare
meccanismo di cui all’art. 12 del Codice Privacy (D.Lgs. n. 196
del 2003), che, nell’attribuire al Garante Privacy il potere di
promuovere la sottoscrizione di codici di deontologia e buona
condotta, ne prescrive l’adozione “tenendo conto dei criteri direttivi delle raccomandazioni del Consiglio d’Europa sul trattamento dei dati personali”.
(23) Così M. Miele, Diritto internazionale, 3a ed., Padova,
1972, 270 s.
(24) Si veda al riguardo N. Ronzitti, Introduzione al diritto internazionale, Torino, 2013, 148 e T. Treves, Diritto internazionale. Problemi fondamentali, Milano, 2005, 262 ss., il quale, a p.
267, afferma che “non può non rilevarsi come il confine tra l’adempimento ‘spontaneo’ delle norme di soft law e il processo
di consolidamento di norme consuetudinarie sia talora difficile
da percepire”. Si tenga conto, infine, con riferimento al diverso, ma assimilabile, problema dell’efficacia delle raccomandazioni della Commissione europea, della sentenza della Corte di
giustizia del 13 dicembre 1989 nel procedimento C-322/88
(causa Salvatore Grimaldi c. Fonds des maladies professionelles), a mente della quale gli atti di cui trattasi “non possono essere considerati privi di qualsiasi effetto giuridico. Infatti, i giudici nazionali sono tenuti a prendere in considerazione le raccomandazioni ai fini della soluzione delle controversie sottoposte al loro giudizio, in particolare quando esse sono di aiuto
nell’interpretazione di norme nazionali adottate allo scopo di
ragrafo 3, attribuendo alla Commissione la possibilità di introdurre regole delegate, introduce un metodo di “extra armonizzazione” nel contesto del lavoro, ciò che rappresenta “an expression of doubt
about the option taken in article 82 §1 and functions
as an emergency procedure to act when the national
patchwork creates too many problems” (20).
Le opzioni possibili, si diceva, sono quattro. La prima mira ad una completa armonizzazione del settore lavoristico del trattamento dei dati personali attraverso strumenti europei di “hard law”; la seconda
ritiene che sia necessario, invece, puntare sul negoziato sociale, attraverso il dialogo sociale a livello
europeo; la terza, opposta alla prima, guarda con
favore al “soft law”, al c.d. “metodo aperto di coordinamento”, attraverso il quale i partners sociali e
le autorità nazionali vengono interessate nello sviluppare linee guida o accordi e scambio di pratiche; la quarta, infine, ritiene che non sia necessario (né opportuno) intraprendere alcuna azione per
completare la regolamentazione della materia nel
contesto del lavoro. Rispetto allo scenario così sintetizzato si deve tenere conto del fatto che le parti
sociali ritengono preferibile il ricorso ad un telaio
di principi generali flessibili e adattabili a più contesti (21).
Le Raccomandazioni R(89)2 e 2015(5) del
Consiglio d’Europa
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
675
Riforme
Speciale Jobs Act
Le premesse sopra svolte consentono di comprendere appieno la delicatezza della scelta politica di
un intervento normativo nella materia dei controlli in ambito lavoristico in un momento di grande
incertezza rispetto alle prospettive di modifica delle
fonti sovranazionali. La Raccomandazione del
Consiglio d’Europa esplica, del resto, i propri effetti
anche nei confronti del legislatore europeo, donde
il Governo deve necessariamente tenere conto dei
contenuti della Raccomandazione perché questi ultimi, assai verosimilmente, confluiranno nell’articolato dell’ormai prossimo Regolamento europeo.
La Raccomandazione del 2015, nel dettaglio, interviene per sostituire, aggiornandola, la precedente
Raccomandazione settoriale del 1989, la n.
R(89)2. L’esigenza di riformare la Raccomandazione del 1989 è nata dalla presa d’atto, tra l’altro,
delle grandi innovazioni tecnologiche intervenute
nel corso degli ultimi anni, della nuova dimensione internazionale del lavoro e soprattutto del fatto
che il lavoratore, sul posto di lavoro, può essere
controllato assai agevolmente attraverso l’uso di
svariati meccanismi, alcuni dei quali estremamente
invasivi e capaci di incidere nella sfera della protezione della salute fisica e psichica del lavoratore (25).
Nella prospettiva della Raccomandazione n.
R(89)2 il diritto alla “privacy” del lavoratore è legato alla valorizzazione del ruolo delle rappresentanze sindacali, dell’auto-controllo e dell’auto-determinazione dei lavoratori in materia.
Il testo della Raccomandazione del 1989 si apre
con un richiamo del principio fondamentale del rispetto della vita privata e della dignità umana dei
lavoratori con particolare riferimento “alle relazioni sociali ed individuali sul luogo di lavoro” (paragrafo 2). Il successivo paragrafo 3 costituisce il perno intorno al quale ruota l’intera struttura portante
della Raccomandazione.
Questa norma introduceva, con largo anticipo rispetto alla direttiva comunitaria del 2002 (26), un
principio generale di informazione e consultazione
dei lavoratori, in forza del quale gli Stati membri
sono chiamati a prevedere garanzie di natura collettiva, rivolte in particolare ad un controllo preventivo “circa l’introduzione o la modifica di un sistema automatizzato per la raccolta e l’utilizzazione
dei dati a carattere personale che riguardano i lavoratori”.
Il meccanismo partecipativo previsto in termini generali dalla Raccomandazione del 1989 presentava,
dunque, una forte assonanza con il sistema procedimentale di cui all’art. 4, comma 2, Stat. lav., anche
garantire la loro attuazione, o mirano a completare norme comunitarie aventi natura vincolante”.
(25) In termini molto espliciti si esprime il punto 2 dell’introduzione al Memorandum esplicativo alla Raccomandazione n.
5, ove il Comitato dei Ministri afferma: “twenty five years have
passed since the Recommendation was adopted. Work per se
has changed a lot (in terms of subject matter, form, duration
and intermediaries), as have the places where it is performed
and the way in which it is organized. Employers, employees
and their needs have changed, and due to the increasing use
of new technologies, the spectrum of personal data that is
handled has become broader (IP addresses, log files and location data, for example). The necessity to review the Recommendation thus become clear”. Il Memorandum è consultabile
alla pagina web https://wcd.coe.int. Analoghe considerazioni
si rinvengono nello studio sulla Raccomandazione n. R(89)2 redatto nel dicembre 2010 dall’apposito ufficio del Consiglio
d’Europa (G. Buttarelli, Study on Recommendation No. R(89)2
on the protection of personal data used for employment purposes and to suggest proposal for the revision of the above-mentioned Recommendation, Strasburgo, 1° dicembre 2010, consultabile alla pagina web http://coe.int/t/dghl/standsetting/dataprotection/T-PD%20BUR%282010%2911%20EN%20FINAL.pdf). Anche l’attenzione della stampa per il tema in argomento è particolarmente elevata a livello internazionale. Si veda, di recente, Jobs Act, l’occhio della Ue su microchip e braccialetti per controllare i lavoratori, 7 aprile 2015, in
http://www.ilfattoquotidiano.it; Telecontrollo, una mina sul Jobs
Act, ne L’Espresso, 4 maggio 2015, che riprende un precedente articolo apparso sul New York Times il 21 giugno 2014 (Unblinking Eyes Track Employees) ove si richiama un interessante
studio dell’Università di St. Louis relativo agli effetti dei controlli sui lavoratori (cfr. L. Pierce, D.Snow, A. McAfee, Cleaning
House: The Impact of Information Technology Monitoring on
Employee Theft and Productivity, 24 agosto 2013, in apps.olim.wustl.edu/faculty/pierce/cleaninghouse.pdf.
(26) Ci si riferisce, nel testo, alla Direttiva 2002/14/CE (basata sull’art. 137 del Trattato CE), che individua il quadro generale in materia di diritto all’informazione ed alla consultazione
dei lavoratori nelle imprese o nelle unità produttive situate in
ciascun Paese membro dell’UE. La direttiva n. 2002/14/CE,
che è stata preceduta dalla direttiva del Consiglio n. 45/45 del
22 settembre 1994 (riguardante l’istituzione di un comitato
aziendale europeo o di una procedura per l’informazione e la
consultazione dei lavoratori nelle imprese e nei gruppi di imprese di dimensioni comunitarie), e, a breve distanza, dalla direttiva del Consiglio n. 2001/1986 dell’8 ottobre 2001 (che
completa lo statuto della società europea per quanto riguarda
il coinvolgimento dei lavoratori), è stata indotta dalla constatazione che l’esistenza di quadri giuridici intesi a garantire il coinvolgimento dei lavoratori nella gestione delle imprese non ha
sempre impedito “che decisioni gravi che interessavano dei lavoratori fossero adottate e rese pubbliche senza che fossero
state preventivamente osservate procedure adeguate di informazione e di consultazione” (considerando n. 6 della direttiva).
Le istituzioni comunitarie, inoltre, considerano i diritti di informazione e consultazione anche come strumenti fondamentali
per contribuire alla realizzazione di un’efficace strategia per
l’occupazione (cfr. considerando nn. 8 e 10 della direttiva). Per
un esame dei diritti di coinvolgimento dei lavoratori nella politica sociale europea si veda M. Napoli (a cura di), L’impresa di
fronte all’informazione e consultazione dei lavoratori, Commentario sistematico al d.lgs. 6 febbraio 2007, n. 25, in Nuove Leggi
civili commentate, Padova, 2008, n. 4, 843 ss.; F. Alias, L’attuazione della direttiva n. 2002/14/CE: il quadro europeo e il caso
italiano, in Dir. rel. ind., 2007, n. 3, 915 ss.
676
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
Riforme
Speciale Jobs Act
se la portata del principio fatto proprio dalla Raccomandazione è molto più estesa rispetto alla norma interna del 1970.
Il controllo collettivo previsto dalla Raccomandazione non opera, infatti, solamente con riferimento
alle “apparecchiature di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori”, ma in ordine alla ben più
ampia ed onnicomprensiva categoria dei sistemi
automatizzati per la raccolta e l’utilizzazione dei dati a carattere personale concernenti i lavoratori. La
Raccomandazione attribuiva chiaramente, a favore
dei dipendenti o dei loro rappresentanti, un diritto
di informazione e consultazione “precedentemente
all’introduzione o alla modificazione di sistemi
automatizzati per la raccolta e l’uso di dati a carattere personale riguardanti i lavoratori”, imponendo
altresì al datore di lavoro di ricercare un accordo
con i predetti soggetti, prima dell’introduzione o
modificazione di tali sistemi, allorché la procedura
di informazione e consultazione riveli la possibilità
di ledere il diritto al rispetto della vita privata e
della dignità umana dei lavoratori (punto 3.2 della
Raccomandazione (27)).
La nuova Raccomandazione tiene fermo ed, anzi,
intende rafforzare l’impianto fatto proprio nel
1989. Nello studio preliminare, invero, è stato
chiarito che la Raccomandazione può incoraggiare
una posizione più comune fra gli Stati membri in
ordine al tema del monitoraggio sui lavoratori, ed
una maggiore armonizzazione delle prassi e legislazioni nazionali con una prospettiva globale che
possa anche prendere in considerazione la segretezza della corrispondenza ed il possibile esonero dalla
stessa, così come i poteri di informazione e codecisione che le organizzazioni rappresentative dei lavoratori esercitano sulla base della legge o dei contratti collettivi (28).
La Raccomandazione, che dedica ampio spazio ai
profili relativi alle modalità di acquisizione e conservazione delle informazioni personali sui lavoratori (principio n. 5), alla necessità che i datori di
lavoro adottino “policies”, regolamenti o altri stru-
menti interni in materia di trattamento dati personali dei lavoratori che siano coerenti con i principi
della Raccomandazione (principio n. 6), ai dati
sensibili e genetici (principio n. 7), alla trasparenza
dei processi (principio n. 10), al diritto di accesso,
rettificazione e opposizione (principio n. 11), reca,
nella parte II, le regole speciali in materia di controlli.
In particolare, il principio n. 14 interviene con riferimento all’uso di internet e delle comunicazioni
elettroniche sul posto di lavoro, ribadendo il principio in virtù del quale i datori di lavoro devono
evitare interferenze ingiustificate ed irragionevoli
nella sfera della privacy dei lavoratori. La norma
estende espressamente questo principio a tutti gli
apparecchi elettronici usati dai lavoratori (affermazione questa ribadita più volte dalla Corte europea
dei diritti dell’uomo in applicazione dell’art. 8 CEDU), precisando che deve ritenersi preferibile l’adozione di misure preventive, come l’uso di filtri
capaci di prevenire determinate operazioni piuttosto che l’accesso diretto alle comunicazioni elettroniche, possibili soltanto quando effettivamente necessario in presenza di ragioni legittime. Questa
norma della Raccomandazione è di fondamentale
importanza nella prospettiva della possibile attuazione della delega di cui si è detto all’inizio. Se è
vero, infatti, che la Raccomandazione non sembra
precludere al datore di lavoro, previa informazione
dell’interessato ed in presenza di un ragionevole
motivo, l’accesso ai dati relativi al traffico internet
dei propri dipendenti (29), è anche necessario considerare che il principio n. 21, nell’introdurre alcune “additional safeguards” prevede espressamente
che per ogni forma particolare di trattamento regolato dalla parte II della Raccomandazione è necessario procedere all’informazione preventiva dei lavoratori ed alla consultazione delle rappresentanze
collettive, prima di introdurre qualsiasi tipologia di
sistema di monitoraggio; qualora, poi, nel corso
della procedura di consultazione emerga la possibilità di violazione del diritto dei lavoratori al rispetto della privacy o della dignità umana, deve essere
raggiunto un accordo con le rappresentanze dei lavoratori.
(27) Su questo tema si veda A. Bellavista, Le prospettive
della tutela dei dati personali nel rapporto di lavoro, in AA.VV.,
Scritti in onore di Giuseppe Suppiej, Padova, 2005, 39 ss., qui
spec. 52 ss.; M.P. Aimo, Privacy, libertà di espressione e rapporto di lavoro, Napoli, 2003, 349 s.; P. Chieco, Privacy e lavoro. La disciplina del trattamento dei dati personali del lavoratore,
Bari, 2000, 109; C. Faleri, Autonomia individuale e diritto alla riservatezza, in Riv. it. dir. lav., 2000, I, 322 ss.; S. Simitis, Reconsidering the Premises of Labour Law: Prolegomena to an Eu-Re-
gulation on the Protection of the Employees’Personal Data, in
Scritti in onore di G. Giugni, II, Bari, 1999, 1581 ss., qui spec.
1600 s.; F. Douglas Scotti, Alcune osservazioni in merito alla tutela del lavoratore subordinato di fronte al trattamento informatico dei dati personali, in Dir. rel. ind., 1993, 235 ss.
(28) Così G. Buttarelli, Study on Recommendation No.
R(89)2, cit., 12.
(29) Così V. Deregibus - G. Machì, Privacy e lavoro: cosa dice l’Europa e cosa prevede il Jobs Act, cit., 2.
I contenuti della nuova Raccomandazione
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
677
Riforme
Speciale Jobs Act
Il perno dell’impostazione adottata dalla Raccomandazione poggia su questa regola di principio,
valida in termini generali e di chiusura rispetto alle
norme di dettaglio della parte II, tra cui giova richiamare, oltre al già citato principio 14, il principio n. 15, relativo ai sistemi informativi e tecnologie di monitoraggio dei lavoratori, inclusa la videosorveglianza.
Il principio n. 15 presenta forti assonanze con l’attuale art. 4 Stat. lav., vietando l’introduzione e l’uso di sistemi informativi e tecnologie con lo specifico e diretto scopo di monitorare l’attività dei lavoratori e prevedendo che “where their introduction
and use for other legittimate purpose, such as to protect
production, health and safety or to ensure the efficient
running of an organization has for indirect consequence
the possibility of monitoring employees’activity, it
should be subjected to the additional safeguards set out
in principle 21, in particular the consultation of employees’representatives”.
Dall’esame della parte II della Raccomandazione
esce confermato un impianto di tutela basato sulla
regola della trasparenza e proporzionalità, aperto
ad una regolazione “soft” imperniata sulla predisposizione di codici aziendali/“policies” (30) seguite, o
meglio affiancate, da informazione e consultazione
delle rappresentanze sindacali. La differenza rispetto all’impianto attuale dello Statuto dei lavoratori
risiede nell’attribuzione alla contrattazione collettiva gestionale di un ruolo di chiusura non imposto
a priori, ma solamente qualora se ne ravvisi la necessità nel corso (e per effetto) della procedura di
consultazione. I controlli tecnologici, in altri termini, sono ammessi in presenza di ragioni e finalità
legittime (il principio n. 14.3 parla di “legittimate
reason”, mentre il 15.1 di “legittimate purposes”):
l’individuazione di quali esse siano in concreto è
lasciato alla dialettica tra le parti sociali, il cui ruolo strategico risulta ampiamente confermato, con
(30) L’opportunità di adottare disciplinari aziendali interni è
stata da tempo sottolineata anche dal Garante Privacy italiano,
come opportunamente ricorda F. Santoni, La revisione della disciplina dei rapporti di lavoro, cit., 115.
(31) Quanto evidenziato nel testo supporta l’opinione
espressa in dottrina circa la permanenza del controllo sindacale come “essenziale presupposto per evitare possibili abusi nei
confronti dei lavoratori” (così V. Speziale, Le politiche del Governo Renzi: il Jobs Act e la riforma dei contratti e di altre discipline del rapporto di lavoro, cit., 39). Per una efficace analisi
delle potenzialità della procedura prevista dall’art. 4 St. lav. nel
testo attualmente vigente si veda A. Bellavista, Gli accordi sindacali in materia di controlli a distanza sui lavoratori, in questa
Rivista, 2014, n. 8-9, 737 ss.
(32) Le primissime valutazioni sul testo hanno evidenziato
una netta distanza tra chi legge nella norma un “colpo di ma-
678
un chiaro effetto d’indirizzo nei confronti del Governo italiano (31).
L’art. 23 dello schema di decreto delegato
approvato l’11 giugno: prime
considerazioni
Il testo dell’art. 23 dello schema di decreto delegato approvato dal Consiglio dei Ministri l’11 giugno
2015 si presta, ad una prima lettura (32), ad almeno tre ordini di considerazioni.
Occorre riflettere, in primo luogo, in ordine al
nuovo impianto complessivo della limitazione del
potere di controllo. L’art. 23 ci consegna un art. 4
Stat. lav. privo di uno specifico comma dedicato
alla posizione di un divieto generale di installazione e uso di (impianti audiovisivi e altre) apparecchiature finalizzate al controllo a distanza dell’attività dei lavoratori: all’interno di un unico comma
(il primo) vengono concentrati i contenuti degli
attuali commi uno e due. L’impianto sostanziale,
però, non sembra mutare in quanto l’accorpamento
testuale, nell’affermare la legittimità dell’impiego
di impianti audiovisivi e di altri strumenti dai quali
derivi anche la possibilità di un controllo (a distanza dell’attività dei lavoratori) esclusivamente
per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio
aziendale, implica, di fatto, la preclusione di qualsivoglia diversa finalità, ivi compreso, evidentemente, il controllo sull’attività dei lavoratori, con una
sostanziale perfetta sovrapposizione rispetto alla
normativa attuale. Neppure l’abbandono del termine “apparecchiatura” per il ricorso alla parola “strumento” sembra avere alcun effetto significativo atteso che, letteralmente, il nuovo termine continua
ad avere un significato generico, riferibile, come
prima, a qualsiasi arnese, congegno o dispositivo
necessario per compiere una determinata operazione o svolgere una qualche attività. Lo schema di
no” rispetto alle tutele dei lavoratori subordinati in materia di
controlli a distanza (cfr. in questo senso Jobs Act, controlli a distanza su Pc e telefonini. La Cgil: “Un colpo di mano”, in Repubblica.it, 18 giugno 2015; G. Pogliotti, Sul monitoraggio effettuato a distanza scoppia la rivolta dei sindacati, in Lex 24, 18 giugno 2015) e chi, per contro, esprimendo una valutazione positiva, sottolinea come il Governo, rispetto a testo vigente dell’art. 4 Stat. lav., intenda mutare “la filosofia complessiva della
norma, che non ruota più intorno a un divieto generale” (in
questo senso G. Falasca, Meno vincoli sui controlli, in Lex 24,
18 giugno 2015). Questa prospettiva, come si dirà immediatamente nel testo, non sembra condivisibile. Sul testo dell’art.
23 si veda anche il Comunicato stampa del Ministero del Lavoro del 18 giugno 2015 consultabile sul sito istituzionale del Ministero.
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
Riforme
Speciale Jobs Act
decreto delegato, dunque, specificando attraverso
un elenco tassativo le finalità di carattere oggettivo
in relazione alle quali, solamente, può farsi impiego
di strumenti (quali che siano), si pone in continuità con la disciplina vigente e pare rispettoso della
legge di delega.
Il secondo punto concerne la procedura codeterminativa, che lo schema di decreto delegato intende
far confluire sempre nel primo comma del nuovo
art. 4 Stat. lav., che subordina ad un previo accordo collettivo (o, in mancanza, ad autorizzazione
della direzione territoriale del lavoro) l’installazione degli strumenti potenzialmente idonei alla realizzazione di un controllo a distanza dell’attività
dei lavoratori. Anche in relazione a questo profilo
le differenze rispetto alla disciplina vigente non
sembrano determinanti se non con riferimento alla
eliminazione del riconoscimento all’Autorità ministeriale del potere di specificare, ove occorra, modalità d’uso alla parte richiedente l’autorizzazione.
Il nuovo comma 2 dell’art. 4, ed è questa la terza
notazione, reca la novità più significativa dello
schema di decreto delegato. La norma intende esonerare dai limiti sostanziali e procedurali contenuti
nel comma 1, gli “strumenti che servono al lavoratore per rendere la prestazione lavorativa” e gli
“strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze”.
La norma introduce una eccezione (una deroga) rispetto alla regola generale posta dal comma 1 e
sembra giustificata da un intento di semplificazione. Allo stato attuale, infatti, una interpretazione
letterale dell’art. 4 Stat. lav. sembra imporre il ricorso alla procedura di codeterminazione in qualsiasi caso di installazione di strumenti (segnatamente - e qui sta il problema - informatici) dai
quali possa derivare un controllo anche solamente
per effetto della raccolta, da parte dell’applicativo
informatico, di file log. Il testo dell’art. 23 dello
schema, la cui interpretazione dovrà essere di stretto diritto, trattandosi appunto di norma eccezionale, consentirà di evitare un tale irragionevole effetto con riferimento esclusivamente a quegli (e solo
quelli) strumenti utilizzati per l’esecuzione della
prestazione. L’ambito di applicazione della norma è
ben delimitato: strumenti “che servono al lavoratore per rendere la prestazione lavorativa” sono solamente quelli strettamente necessari (serventi, secondo la procedura organizzativa predisposta dall’imprenditore) a tale scopo, non quelli che servono per realizzare diverse funzioni quali, in particolare, l’esercizio di diversi poteri datoriali. In particolare, se certamente servente all’esecuzione della
prestazione da parte del lavoratore può dirsi l’installazione e l’uso di un qualsivoglia applicativo informatico amministrativo-gestionale, un tanto non
può dirsi per un programma che, per ipotesi, abbia
una funzione di controllo o monitoraggio (come
nel caso dei ben noti programmi “Super Scout” o
“Blues” (33)) perché questi non possono dirsi necessari per rendere la prestazione, ma funzionali all’esercizio del potere di controllo, che è cosa diversa. Resta, poi, in ogni caso, il limite generale della
liceità, correttezza, pertinenza e non eccedenza del
trattamento dei dati personali rispetto alle finalità
perseguite. L’operare di questi limiti, ben chiarito
dalla Corte di Cassazione con una importante sentenza della prima Sezione civile, del 2013 (34),
consentirà sempre di verificare se lo strumento serva veramente al lavoratore per rendere la prestazione lavorativa (nel caso affrontato dalla Corte il lavoratore non era risultato avere la necessità di accedere ad internet per svolgere le proprie prestazioni, donde l’esorbitanza dei controlli operati dal datore di lavoro sull’uso di tale sistema da parte del
lavoratore medesimo.
(33) Si vedano, al riguardo, le sentenze di Cassazione n.
4375 del 2010 e n. 16622 del 2012 (in questa Rivista, 2013, n.
4, 3833 ss.); in ordine a queste sentenze si veda M. Miscione,
I controlli intenzionali, preterintenzionali e difensivi sui lavoratori
in contenzioso continuo, in questa Rivista, 2013, n. 8-9, 761 ss.
nonché A. Sitzia, Il diritto alla “privatezza” nel rapporto di lavoro
tra fonti comunitarie e nazionali, cit., 139 ss.; sul tema dei controlli difensivi si veda, da ultimo, P. Lambertucci, Potere di controllo del datore di lavoro e tutela della riservatezza del lavoratore, cit., spec. 9 ss.
(34) Il riferimento è a Cass. 1° agosto 2013, n. 18443, su
cui cfr. A. Sitzia, Il diritto alla “privatezza”, cit., 146 ss.
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
679
Dottrina
Previdenza
Pensioni
La perequazione delle pensioni:
dalla Corte costituzionale n. 70
del 2015 al D.L. n. 65 del 2015
di Domenico Garofalo - Professore ordinario di Diritto del lavoro nell’Università
degli Studi “Aldo Moro” di Bari
Il contributo commenta la sentenza della Corte costituzionale n. 70 del 2015 che, invertendo rotta rispetto alle precedenti pronunce in materia (2001 e 2010), ha dichiarato illegittima la norma
del D.L. n. 201 del 2011 (riforma Fornero), che aveva disposto il blocco della perequazione delle
pensioni superiori a tre volte il trattamento minimo per gli anni 2012 e 2013. Viene altresì esaminato il D.L. n. 65 del 2015, emanato, a dire del Governo, per dare attuazione ai principi enunciati
dalla Consulta.
Premessa
La qualificazione giuridica dei diritti sociali è stata
da sempre controversa e multiforme (1), come dimostrano le varie tesi che li ascrivono in alcuni casi ad interesse legittimo (2), o semplice (3), in altri
a diritti individuali a soddisfacimento collettivo (4), in ragione della non azionabilità a livello
individuale delle sottostanti pretese, in quanto for-
temente interconnesse alla posizione degli altri individui caratterizzati dallo stesso status sociale (5).
Altri ancora hanno evocato il concetto di diritti
condizionati o imperfetti (6), poiché la realizzazione dell’intervento protettivo dipende nell’an, nel
quantum, e nel quomodo da scelte politiche, di politica economica (7) e dalla discrezionalità del legislatore (8), deprimendosene il grado di effettività (9).
(1) S. Lener, Lo Stato sociale contemporaneo. Lineamenti di
dottrina generale, Roma, 1966, spec. 228.
(2) S. Gambino, Cittadinanza e diritti sociali fra neoregionalismo e integrazione comunitaria, in Quad. cost., 2003, 67 ss.,
spec. 68, evidenzia come tra le categorie giuridiche dei diritti
sociali e degli interessi legittimi vi sia più un’assimilabilità per
le forme giurisdizionali di tutela, tipiche di questi ultimi, che
non una sovrapponibilità in termini di qualificazione giuridica
vera e propria. Infatti, “fra il relativo esercizio e la previsione legale opera un facere amministrativo, che coinvolge la pubblica
amministrazione con la sua supremazia speciale”.
(3) G. Corso, I diritti sociali nella Costituzione italiana, in Riv.
trim. dir. proc. civ., 1981, 757 ss., spec. 762 ss.; A. Baldassarre, Diritti sociali, in Enc. giur., IX, 1988, 3; M. Ainis, I soggetti
deboli nella giurisprudenza costituzionale, in Pol. dir., 1999, 25
ss., spec. 35. In relazione ad alcuni diritti sociali, P. Biscaretti
di Ruffìa, Diritti sociali, in Noviss. Dig. it., V, Torino, 1960, 759
ss.
(4) F. Pergolesi, Appunti su alcuni lineamenti dei “diritti sociali”, in Quad. cost., Milano, 1953, I, 7 ss.
(5) F. Pergolesi, Introduzione al diritto del lavoro, in Trattato
Borsi - Pergolesi, Padova, 1955, I, 127 ss., spec. 128; G. Cicala,
Diritti sociali e crisi del diritto soggettivo nel sistema costituzionale italiano, Napoli, 1966; L. Micco, Lavoro ed utilità sociale nella
Costituzione, Torino, 1956, spec. 84 - 90; N. Bobbio, Sui diritti
sociali, in G. Neppi Modona (a cura di), Cinquant’anni di Re-
pubblica italiana, Torino, 1966, 116; E. Ghera, Flessibilità: variazioni sul tema, in Riv. giur. lav., 1996, I, 121 ss., spec. 136; Id.,
Diritto del lavoro, Bari, 2000, 524; L. Mengoni, I diritti sociali, in
Arg. dir. lav., 1998, 1 ss., spec. 2 (sub specie di diritti di ripartizione); contra M. Mazziotti, Diritti sociali, in Enc. dir., 1964, XII,
802 ss., spec. 804.
(6) E. Ales, Diritti sociali e “discrezionalità” del legislatore nell’ordinamento multilivello, Relazione al congresso dell’Aidlass,
Foggia 28-30 maggio 2015, versione provvisoria; ancor prima
C. La Macchia, La pretesa al lavoro, Torino, 2000, 115; e con riferimento specifico a Corte cost. n. 70 del 2015, M. D’Onghia,
Sostenibilità economica versus sostenibilità sociale nella legislazione previdenziale. La Corte costituzionale, con la sentenza n.
70 del 2015, passa dalle parole (i moniti)... ai fatti (dichiarazione
di illegittimità), in Riv. dir. sic. soc., 2015, in corso di pubblicazione.
(7) Così S. Gambino, op. cit., 69, che sollecita a non dimenticare i problemi legati al costo dei diritti sociali; allo stesso
modo, P. Olivelli, Diritti sociali e “metodo di coordinamento
aperto” in Europa, in Arg. dir. lav., 2002, 313 ss., spec. 319.
(8) S. Gambino, op. cit., 87.
(9) M.P. Monaco, Mercato, lavoro e diritti fondamentali, in
Arg. dir. lav., 2001, 299 ss., spec. 312 - 313, precisa che non è
la struttura, ma il fatto che per la sua realizzazione sia necessario il conseguimento di una prestazione a deprimerne il grado
di effettività.
680
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
Dottrina
Previdenza
diritti sociali, elemento imprescindibile in quell’equilibrio delicato rappresentato dalla separazione
dei poteri, ma ciò non toglie il diritto/dovere della
Corte di verificare la legittimità costituzionale delle misure adottate, attraverso le lenti dei principi
di ragionevolezza, di sicurezza giuridica e di certezza
del diritto (16).
Sostanzialmente, come dimostrato proprio con la
recente sentenza n. 70 del 2015 della Corte costituzionale, e mutuando le parole di Ales (17), è al
“quomodo della garanzia dei mezzi adeguati dell’art.
38, comma 2” (nella parte relativa al calcolo della
prestazione) che la Corte guarda strabicamente,
quando sottopone a prova di resistenza costituzionale le disposizioni che i giudici a quibus sospettano
di illegittimità.
Nella sentenza n. 70 del 2015, l’irrazionalità della
scelta del legislatore risiede nella decisione di rimodulazione della spesa pubblica, insensibile ai
precedenti moniti della Corte costituzionale.
La necessità di mobilitazione finanziaria (10) è un
dato tendenzialmente imprescindibile in materia di
diritti sociali, e uso il termine “tendenzialmente”
perché esistono diritti sociali incondizionati (11),
da garantire comunque, come si evince dalla giurisprudenza costituzionale più attenta in materia di
tutela della disabilità (Corte cost. 80 del 2010, inerente l’annosa questione del sostegno scolastico
agli alunni disabili) e da ultimo sul blocco della
perequazione automatica dei trattamenti pensionistici superiori a tre volte il trattamento minimo infra); per non parlare degli effetti delle sentenze di
condanna in sede Cedu per violazione dei diritti
umani (su tutti basti pensare a quelli tuttora derivanti dalla c.d. sentenza Torreggiani in materia di
sovraffollamento carcerario) (12).
In sintesi, si vuol dire sin da ora che, a fronte della
vulgata ricorrente secondo cui le esigenze finanziarie e di bilancio piegano il diritto, divenuto quasi
servente rispetto alle necessità degli economisti e
della politica, permangono situazioni dove il piano
valutativo si ribalta, dovendo essere questi ultimi a
ricercare soluzioni diverse, per assicurare la tutela
di diritti sostanzialmente incomprimibili e la connessa copertura di bilancio.
È il caso di Corte cost. n. 70 del 2015 (13) che costituisce l’“esempio più rilevante e incidente della
rinnovata capacità di resistenza dei diritti fondamentali dei lavoratori (in pensione, in questo caso)
rispetto alle esigenze di bilancio che, questa volta,
risultano esse stesse recessive e, quasi, defilate rispetto al cuore dell’argomentazione dei giudici costituzionali” (14).
Indubbiamente, come affermato da Ales (15), e come ribadito dalla giurisprudenza costituzionale proprio in materia di perequazione automatica dei
trattamenti pensionistici, un ruolo importante in
questa partita è giocato dalla discrezionalità del legislatore in ordine alle modalità di attuazione dei
Utilizzando la definizione della perequazione automatica fornita dalla Corte costituzionale, essa “è
uno strumento volto a garantire nel tempo il rispetto del criterio di adeguatezza di cui all’art. 38,
secondo comma, Cost.” che “si presta contestualmente a innervare il principio di sufficienza della
retribuzione di cui all’art. 36 Cost., principio applicato, per costante giurisprudenza di questa Corte,
ai trattamenti di quiescenza, intesi quale retribuzione differita (fra le altre, sentenza n. 208 del 2014 e
sentenza n. 116 del 2013)” (18), adeguando le pensioni alle variazioni del potere di acquisto della
moneta.
L’istituto è stato disciplinato per la prima volta
dall’art. 10, L. 21 luglio 1965, n. 903 ed ha conosciuto numerose modifiche (19).
(10) E. Ales, op. cit.
(11) Tra i diritti sociali c.d. originari e incondizionati si annovera il diritto all’equa e sufficiente retribuzione sub art. 36
Cost., in quanto posizione giuridica attiva scevra da necessari
condizionamenti legislativi. Sul tema vedi P. Loi, La sicurezza.
Diritto e fondamento dei diritti nel rapporto di lavoro, Torino,
2000, 29 ss. e ancor prima, F. Modugno, I “nuovi diritti” nella
giurisprudenza costituzionale, Torino, 1995, 71. Esistono, poi,
diritti sociali di natura procedurale (c.d. Teilnahmerechte), intesi
come diritti a far parte di un procedimento decisionale, per i
quali vedi L. Mengoni, op. cit., 2 e Loi, op. cit., 31. In merito e
a titolo meramente esemplificativo, si potrebbe far riferimento
al diritto alla partecipazione al procedimento amministrativo, il
cui profilo attuativo è stato implementato a livello regionale
prima della riforma del Titolo V (così Gambino, op. cit., 72).
(12) V. Cedu 8 gennaio 2013, ricorsi nn. 43517/09,
46882/09, 55400/09, 57875/09, 61535/09, 35315/10 e
37818/10 - Torreggiani e altri c. Italia, reperibile sul sito della
Corte Europea dei Diritti Umani. Per un commento G. Tamburino, La sentenza Torreggiani e altri della Corte di Strasburgo, in
Cass. pen., 2013, 11 ss.
(13) Corte cost. 30 aprile 2015, n. 70 - Pres. Criscuolo Red. Sciarra. Per il testo della sentenza si rinvia al sito ufficiale
della Corte costituzionale www.cortecostituzionale.it.
(14) Così, testualmente, P. Chieco, Crisi economica, vincoli
europei e diritti fondamentali dei lavoratori, Relazione al congresso dell’Aidlass, Foggia 28-30 maggio 2015, versione provvisoria, 52.
(15) E. Ales, op. cit.
(16) In dottrina v. A. Cerri, Ragionevolezza delle leggi, in
Enc. giur., XXV, 1994, 1 ss.
(17) E. Ales, op. cit.
(18) V. Corte cost. n. 70 del 2015, § 8.
(19) V. l’art. 19, L. 30 aprile 1969, n. 153 (Revisione degli
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
Il quadro normativo di riferimento
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Dottrina
Previdenza
Si tratta di uno strumento che, secondo Persiani,
risente degli effetti del tempo, tanto da ipotizzarsi
la sua desuetudine (20), la cui disciplina, oggetto
di vari interventi normativi, specie in funzione di
blocco del meccanismo, “vero e proprio evergreen
delle manovre finanziarie” (21), pregiudica la congruità dei trattamenti pensionistici medio-alti, visto che si applica con un sistema a scaglioni (22),
tale per cui decresce proporzionalmente al crescere
del trattamento previdenziale (23). A ciò si aggiunga che il legislatore sovente incide sui trattamenti
più elevati anche con altri strumenti di natura solidaristica (si pensi ai ricorrenti contributi di solidarietà).
A partire dalla crisi economica degli anni ’90, il legislatore inizia ad intervenire a stillicidio sulla fattispecie, ampliando la cadenza temporale degli aumenti perequativi, elevata da sei mesi ad un anno,
al fine di compensare l’eliminazione dell’aggancio
alle dinamiche salariali e di collegare il meccanismo con l’evoluzione del livello medio del tenore
di vita nazionale e prevedendo che ulteriori aumenti potessero essere stabiliti con legge finanziaria, in relazione all’andamento dell’economia (24).
A partire dal 1° gennaio 1999, la rivalutazione delle pensioni si applica ad ogni singolo beneficiario
in funzione dell’importo complessivo dei trattamenti corrisposti a carico dell’assicurazione generale obbligatoria e l’aumento della rivalutazione
automatica opera in misura proporzionale all’ammontare del trattamento da rivalutare rispetto all’ammontare complessivo (25).
Gli effetti di tale meccanismo vengono, però, parametrati dal legislatore all’entità del trattamento
minimo Inps, per cui la perequazione viene riservata al 100% solo alle prestazioni previdenziali con
importo fino a tre volte il citato trattamento minimo; al 90% per cento per i beneficiari di trattamenti con importo da tre a cinque volte il trattamento minimo INPS ed ulteriormente al 75% per
i trattamenti eccedenti il quintuplo del predetto
importo minimo (26).
Quest’ultima scelta normativa di graduare il meccanismo perequativo in modo inversamente proporzionale all’entità del trattamento, non è rimasta
isolata, ma al contrario costituisce il leit-motiv della
gran parte degli interventi legislativi in materia (27), ivi compreso il D.L. n. 65 del 2015, emanato per dare attuazione “ai principi enunciati”
nella sentenza n. 70 del 2015 (infra), con la evidente finalità di tutelare integralmente i trattamenti pensionistici più bassi dalle dinamiche infla-
ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale) che, nel prevedere in via generalizzata l’adeguamento
dell’importo delle pensioni nel regime dell’assicurazione obbligatoria, ha agganciato gli aumenti delle pensioni in misura
percentuale all’indice del costo della vita calcolato dall’ISTAT,
ai fini della scala mobile delle retribuzioni dei lavoratori dell’industria.
(20) In tempi non sospetti, M. Persiani, Commento all’art.
38, in Branca G. (a cura di), Commentario della Costituzione,
AA.VV., Art. 35 - 40. Rapporti economici. Tomo I, Bologna - Roma, 1979, 250 ss.
(21) Cfr. M. Cinelli - C.A. Nicolini, Legislazione previdenziale.
I debiti del Super - Inps e i contenuti previdenziali della legge di
stabilità per il 2014, in Riv. it. dir. lav., 2014, III, 39 ss., spec. §
2, secondo i quali “quando i conti non tornano, puntualmente
il legislatore interviene sulle prestazioni, innanzitutto con quello che può ormai considerarsi un vero e proprio evergreen delle
manovre finanziarie: e cioè il parziale blocco della perequazione delle pensioni. Il comma 483 della L. n. 147 elimina la previsione dell’art. 2, comma 236, primo periodo, L. n. 228 del
2012, che per il 2014 escludeva dalla rivalutazione le fasce di
importo dei trattamenti superiori a 6 volte il trattamento minimo dell’INPS. Ora si dispone che - fermo il criterio dell’art. 34,
comma 1, L. n. 448 del 1998, per il quale, in caso di godimento di più pensioni, la perequazione viene calcolata considerando l’importo complessivo dei trattamenti - per il triennio 20142016 la variazione del costo della vita verrà assicurata nelle seguenti misure: a) al 100% per i soli trattamenti pari o inferiori a
3 volte il trattamento minimo INPS (per il 2014 le prime, provvisorie stime fissano il relativo importo mensile in € 501,38
mensili); b) al 90% per i trattamenti pensionistici complessivamente superiori a 3 volte e inferiori a 4 volte detto importo minimo; c) al 75% per i trattamenti superiori a 4 volte e inferiori a
5 volte detto importo minimo; d) al 50% per i trattamenti pen-
sionistici di ammontare superiore; e) per il solo anno 2014, viene, inoltre, totalmente esclusa la rivalutazione con riferimento
alle fasce di importo superiori a 6 volte il trattamento minimo.
Salva l’ipotesi indicata sub lettera e), le percentuali decrescenti
non vengono più applicate, come in passato, sulle singole fasce di importo, bensì sull’intero ammontare dei trattamenti. Rimane comunque in vigore la disposizione del citato comma
236 della legge n. 228, che, per il 2014, esclude la rivalutazione dei vitalizi percepiti da coloro che hanno ricoperto o ricoprono cariche elettive regionali e nazionali”.
(22) Per una critica alla combinazione degli effetti derivanti
dall’applicazione degli scaglioni e del blocco della perequazione v. M. Gambacciani, “Blocco” della perequazione automatica
delle pensioni di importo più elevato e sospetti di illegittimità costituzionale, in Arg. dir. lav., 2009, 819 ss., spec. 823 - 824.
(23) V. l’art. 69, comma 1, L. n. 388 del 2000 secondo cui,
a decorrere dal 1° gennaio 2001, l’aumento automatico spetta
per intero solo per i trattamenti pensionistici non superiori al
triplo del t.m.; nella misura del 90% per quelli compresi tra il
triplo e il quintuplo del t.m. e del 75% per quelli superiori a
quest’ultimo limite. In argomento v. P. Boer, La perequazione
automatica delle pensioni ed il relativo contenzioso, in Inf. prev.,
1993, 1013 ss.; Id., Perequazione automatica delle pensioni, in
M. Cinelli - M. Persiani (a cura di), Commentario della riforma
previdenziale. Dalla legge “Amato” alla finanziaria 1995, Milano,
1995, 288 ss.
(24) Art. 11, comma 1, D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 503.
(25) Art. 34, comma 1, L. 23 dicembre 1998, n. 448.
(26) Art. 69, comma 1, L. 23 dicembre 2000, n. 388.
(27) V. in tal senso l’art. 5, comma 6, D.L. 2 luglio 2007, n.
81, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della L.
3 agosto 2007, n. 127, che, per il triennio 2008-2010, prevede
la perequazione al 100 per cento per le fasce di importo tra tre
e cinque volte il trattamento minimo INPS.
682
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
Dottrina
Previdenza
zionistiche o, in generale, dal ridotto potere di acquisto delle pensioni.
Parallelamente alla perequazione gradualizzata corrono i ricorrenti provvedimenti di sospensione o
blocco della perequazione (tecnicamente diversi
tra loro in relazione agli effetti che ne conseguono), sottoposti già per ben tre volte all’attenzione
della Corte costituzionale, rispettivamente nel
2001, 2010 e 2015 (infra).
Un primo intervento, adottato nel 1992 con decretazione d’urgenza, ha determinato la sospensione
della perequazione fino al 31 dicembre 1993, disponendosi la sospensione dell’applicazione di ogni
disposizione di legge, di regolamento o di accordi
collettivi, che introducesse aumenti a titolo di perequazione automatica delle pensioni previdenziali
ed assistenziali, pubbliche e private, ivi compresi i
trattamenti integrativi a carico degli enti del settore pubblico allargato, nonché aumenti a titolo di
rivalutazione delle rendite a carico dell’INAIL (28).
Differente dalla forma meno gravosa di raffreddamento parziale della dinamica perequativa, rappresentata dalla sospensione, è quella del blocco (parziale) vero e proprio della perequazione automatica, introdotto nel 1997 per accompagnare il passaggio dal sistema pensionistico retributivo a quello
contributivo, e sottoposto nel 2001 al vaglio della
Corte costituzionale (infra), prevedendosi per il
1998 l’azzeramento della perequazione per i trattamenti pensionistici di importo superiore a cinque
volte il trattamento minimo e per il 1999 l’applicazione della perequazione nella misura del 30 per
cento per le fasce di importo dei trattamenti pensionistici comprese tra cinque e otto volte il trattamento INPS e l’azzeramento per i trattamenti previdenziali superiori a otto volte il predetto trattamento minimo (29).
A distanza esattamente di dieci anni dal primo
blocco (30), il legislatore prevede nuovamente l’azzeramento temporaneo della rivalutazione dei trattamenti particolarmente elevati, e cioè superiori a
otto volte il trattamento minimo INPS, così da
consentire il concorso solidaristico al finanziamen(28) V. l’art. 2, D.L. 19 settembre 1992, n. 384.
(29) V. l’art. 59, comma 13, L. 27 dicembre 1997, n. 449.
(30) V. l’art. 1, comma 19, L. n. 247 del 2007.
(31) V. l’art. 24, comma 4, L. 28 febbraio 1986, n. 41, confermato dall’art. 11, D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 503.
(32) Così G. Leone, Progressività e ragionevolezza nella recente giurisprudenza della Corte costituzionale: prime riflessioni
sulla sentenza n. 70/2015, in Riv. it. dir. lav., 2015, § 2 (in corso
di pubblicazione).
(33) V. P. Bozzao, L’“adeguatezza retributiva” delle pensioni:
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
to di interventi sulle pensioni di anzianità, per effetto dell’introduzione dal 1 gennaio 2008 del c.d.
“scalone” pensionistico, ad opera della L. 23 agosto
2004, n. 243.
Anche questo ennesimo blocco della perequazione
è sfuggito alla censura della Corte costituzionale,
che nel 2010 ha rigettato le questione di legittimità costituzionale (infra), ma ammonendo il legislatore a non reiterare lo strumento, per non collidere
con gli invalicabili principi di ragionevolezza e proporzionalità, atteso che “le pensioni, sia pure di
maggiore consistenza, potrebbero non essere sufficientemente difese in relazione ai mutamenti del
potere d’acquisto della moneta”.
Come si vedrà nel prosieguo, sordo a tale invito
della Corte costituzionale, il legislatore con l’art.
24, comma 25, D.L. n. 201 del 2011, ha previsto
che “In considerazione della contingente situazione
finanziaria, la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, in base al già citato meccanismo stabilito dall’art. 34, comma 1, della L. n. 448
del 1998, è riconosciuta, per gli anni 2012 e 2013,
esclusivamente ai trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il trattamento
minimo INPS, nella misura del cento per cento”,
senza alcuna graduazione per fasce di importo, come invece previsto in passato (31), nel rispetto del
principio di progressività (32).
Successivamente all’art. 25, comma 24, D.L. n.
201 del 2011, il legislatore “riassesta il tiro”, come
afferma Bozzao (33), prevedendo, per il triennio in
corso 2014-2016, una rimodulazione nell’applicazione della percentuale di perequazione automatica
sul complesso dei trattamenti pensionistici, secondo il meccanismo di cui all’art. 34, comma 1, della
L. n. 448 del 1998, con l’azzeramento per le sole
fasce di importo superiore a sei volte il trattamento
minimo INPS e per il solo anno 2014 (34).
La giurisprudenza costituzionale sul
blocco della perequazione delle pensioni
Alla luce del quadro normativo testé tracciato, che
costituisce il c.d. tertium comparationis (35), la pubblicazione della sentenza n. 70 del 2015 a ridosso
meccanismi perequativi e contenimento della spesa nella recente lettura della Corte Costituzionale, in www.federalismi.it, 20
maggio 2015, 4.
(34) V. l’art. 1, comma 483, lett. e), L. 27 dicembre 2013, n.
147.
(35) Sul punto v. G. Leone, op. cit., § 3, che definisce il tertium comparationis come l’elemento in base al quale la Corte
misura “la “distanza” che dalla stessa separa la norma censurata, ma al tempo stesso la Corte valuta il precetto normativo
del 2011 nella sua autonomia, valutandone la congruità e la
683
Dottrina
Previdenza
del congresso 2015 dell’Aidlass ha validato la scelta del tema individuato dal direttivo dell’Associazione, e cioè quello della importanza del diritto e
dei valori sottostanti a fronte delle ragioni dell’economia e delle logiche di bilancio.
Invero, già nei primi commenti si legge di una sentenza annunciata (36). Infatti, il Giudice delle leggi si era già occupato del blocco della perequazione
automatica, rispettivamente in un’ordinanza del
2001 ed in una sentenza del 2010, ingenerando la
ragionevole opinione che la Corte abbia voluto
mandare più di un invito al Governo ad osservare
maggiore equilibrio allorquando procede alla ripartizione dei sacrifici economici (37).
Proprio dall’esame dell’andamento della giurisprudenza costituzionale in materia, emerge che “La disciplina della perequazione automatica in più occasioni è stata piegata ad esigenze di contenimento
della spesa pubblica o di politica economica generale, anche a rischio di pregiudicare il livello di
adeguatezza della prestazione” (38), con particolare
riferimento a quelle medio - alte (39).
In pratica, la Corte ha ragionato in questo modo:
alla prima ti perdono (l’ordinanza 17 luglio 2001,
n. 256); alla seconda ti condono (la sentenza 11
novembre 2010, n. 316) (40) ed alla terza ti bastono (la sentenza n. 70 del 2015).
I principi dai quali muove la Corte costituzionale
per valutare la conformità o meno dell’intervento
legislativo rispetto alla Carta Fondamentale nel caso di specie sono i seguenti:
1) adeguatezza delle prestazioni previdenziali rispetto alle esigenze di vita dei destinatari, ai sensi dell’art. 38, comma 2, Cost., anche in considerazione
dell’allungamento della vita media che espone i
trattamenti previdenziali ad un maggiore
stress (41);
2) proporzionalità delle pensioni erogate rispetto alle retribuzioni percepite dal pensionato durante la
vita lavorativa, in virtù del collegamento tra gli
artt. 36 e 38 Cost. (42), e del correlato principio,
pacificamente riconosciuto dalla giurisprudenza costituzionale, dell’aggancio dei trattamenti previdenziali agli stipendi (cfr. Corte cost. n. 62 del
1999) (43), legame attualmente meno intenso (almeno all’apparenza) in virtù delle riforme pensionistiche degli ultimi vent’anni che hanno esaltato
la dimensione contributivo-assicurativa dei trattamenti previdenziali AGO, in luogo della precedente valenza para-retributiva delle prestazioni pensionistiche (44), tanto da indurre la Corte costituzio-
coerenza interna rispetto allo scopo che esso si prefissava”.
(36) V. P. Sandulli, La “telenovela” costituzionale della perequazione pensionistica, in WP C.S.D.L.E., 15 maggio 2015.
(37) Diversa l’opinione di G. Leone, op. cit., § 2, secondo la
quale “la sentenza in commento idealmente si ricollega proprio con la ricostruzione normativa operata, non già in un atteggiamento punitivo di un legislatore sordo ai suoi avvertimenti, bensì per declinare quel monito e ‘pesarlo’ nel suo sviluppo nel tempo, quasi a voler porre il legislatore ‘anche’ dinanzi alla responsabilità politica delle sue reiterate scelte di
contenimento della spesa sociale difronte ai vincoli imposti
dalla crisi”.
(38) M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, Torino, 2012,
207.
(39) Favorevole al blocco delle pensioni medio-alte è P.
Cro, Anche i ricchi piangono. Per le pensioni di importo elevato
la perequazione annuale non è costituzionalmente necessitata,
in Riv. it. dir. lav., 2011, II, 438 ss.; di opinione contraria è M.
Cinelli, La riforma delle pensioni del “Governo Tecnico”. Appunti
sull’art. 24 della legge n. 214 del 2011, ivi, 2012, I, 385 ss.,
spec. § 3.b., che evidenzia l’incoerenza tra la tecnica dei contributi di solidarietà e il blocco della perequazione, “rispetto alle peculiarità che possono distinguere tra loro i singoli rapporti
intercorrenti tra carriera retributiva e trattamento pensionistico”.
(40) Per un commento si rinvia a R. Pessi, Perequazione
automatica delle pensioni medio-alte e discrezionalità del legislatore: il difficile tema del bilanciamento tra istanze di solidarietà
ed esigenze di contenimento della spesa pubblica nella giurisprudenza costituzionale, in Giur. it., 2011, 877 ss.
(41) Sulla c.d. questione demografica e sugli effetti del miglioramento delle prospettive di vita sul sistema pensionistico
v. da ultimo M. D’Onghia, op. cit.
(42) V. M. D’Onghia, Diritti previdenziali e compatibilità economiche nella giurisprudenza costituzionale, Bari, 2013, 135 ss.
Decisa a questo riguardo è la critica di E. Ales, op. cit. che parla di “immedesimazione funzionale” tra le due norme costituzionali, che finisce per essere anche “osmosi strutturale”.
(43) In tema v. G. Zangari, Perequazione automatica e adeguamento costante della pensione al metro monetario: profili costituzionali, nota a Corte cost. 13 marzo 1980, n. 26, in Riv. dir.
lav., 1980, II, 303 ss.
(44) Ritiene che il citato principio non sia insormontabile,
sulla scorta della giurisprudenza costituzionale in materia, nonché sulla base della discrezionalità del legislatore, che deve rispettare il solo limite della “garanzia irrinunciabile delle esigenze minime di protezione della persona”, P. Cro, op. cit. Sul
punto si è espresso anche E. Ales, op. cit., evidenziando che
“in assenza di un’indicazione costituzionale circa il quomodo,
la riflessione sull’art. 38 comma 2 risenta, tuttora considerevolmente, del dominio del metodo retributivo o, meglio, della sua
vulgata in termini di generica continuità tra retribuzione e pensione, dalla quale deriva, almeno nella giurisprudenza costituzionale, una assolutizzazione della prospettazione di quest’ultima in termini di ‘retribuzione differita’, prospettazione che ha
fuorviato quella riflessione, facendole perdere di vista quello
che avrebbe dovuto essere il suo nucleo centrale ovvero il
quid del diritto. Il rischio insito nell’inversione logica dei piani
(quid et quomodo), è emerso con tutta chiarezza al mutare del
quadro normativo realizzatosi negli anni Novanta, nel quale il
metodo contributivo prende il posto di quello retributivo, modificando radicalmente i termini della questione, se non altro
quella relativa al rapporto tra artt. 36 comma 1 e 38 comma 2,
ed evidenziando la necessità e, direi, l’urgenza, di una riflessione sul (quantum del) quid (cioè i mezzi adeguati), posta a monte di quella sul quomodo (sistema retributivo o contributivo,
ma anche previdenza sociale sicurezza sociale)”. Altrettanto
critica verso il collegamento è P. Bozzao, op. cit., secondo la
quale la qualificazione della pensione come retribuzione differita operata molte volte dalla Corte costituzionale riguardi i trat-
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il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
Dottrina
Previdenza
nale ad auspicare che sia scongiurato il verificarsi
di “un non sopportabile scostamento” fra l’andamento delle pensioni e quello delle retribuzioni,
col rischio di eludere il limite della ragionevolezza (45).
3) ragionevolezza della soluzione normativa adottata, nel senso che l’intervento legislativo deve determinare un trattamento differenziato di situazioni
obiettivamente disomogenee.
Le critiche mosse all’indirizzo dell’organo decisore,
anche da parte di chi fino a qualche tempo prima
ne faceva parte, appaiono totalmente non condivisibili; si allude a Sabino Cassese che, in un articolo
comparso il 12 maggio scorso sulle pagine del Corriere della Sera (46), ha sostenuto che la Corte costituzionale “aveva molte alternative. Avrebbe potuto ripetere il monito (la messa in mora che la
Corte fa quando non vuole produrre effetti immediati e traumatici che derivano da un annullamento), già fatto in precedenza in materia di pensioni”,
ovvero avrebbe potuto emanare una sentenza additiva di principio, ma comunque, sostiene Cassese,
non avrebbe dovuto “comportarsi come Giove pluvio, facendo trovare gli organi di spesa dinanzi al
fatto compiuto”.
Orbene, indiscussa l’autorevolezza dell’Autore di
tale opinione, quest’ultima non può essere condivisa per una serie di ragioni, tanto giuridiche, quanto
di opportunità (47). Principiando da queste ultime,
giova evidenziare che l’ennesimo monito della
Corte costituzionale avrebbe consentito di scansare
il giudizio di illegittimità ad una disposizione palesemente illegittima, forse per evitare al Governo
Renzi la gestione di un problema creato da uno dei
suoi predecessori; ciò però avrebbe prodotto un
evidente deficit di credibilità della Corte costituzionale, che di fatto avrebbe dovuto abdicare alle sue
prerogative in nome di quell’equilibrio di bilancio
che il Governo deve salvaguardare, ma con misure
razionali (48).
Il ricorso a sentenze-monito ha senso se effettuato
una tantum, ma il suo rinnovo determina lo scadimento dello strumento, per cui all’ammonizione,
attingendo al gergo calcistico, deve seguire l’espulsione, pena la perdita di credibilità dell’arbitro.
Inoltre, come affermato da alcuni commentatori, la
Corte ha preferito ripristinare la coerenza dell’ordinamento giuridico, eliminando la norma ingiustificatamente difforme rispetto alle regole utilizzate sia
prima che dopo, piuttosto più che sovrapporre le
proprie scelte a quelle del legislatore (49), evitando
quell’invasione di campo che paradossalmente le
viene contestata per palese partito preso da taluni (50). La Corte, così facendo, ha esercitato le
proprie prerogative, evitando una pericolosa opera
di supplenza che avrebbe suscitato, probabilmente,
critiche anche più feroci e al contempo fondate, di
quelle ricevute all’indomani della decisione n. 70
del 2015 (51).
Un’analisi degli orientamenti della Corte costituzionale sul blocco della perequazione automatica
delle pensioni va effettuata anche strabicamente,
verificando quale fosse la compagine politica in
quel momento al Governo e che avrebbe dovuto
eventualmente adottare misure straordinarie di tipo finanziario per porre riparo agli effetti di una
decisione analoga alla n. 70 del 2015.
Ebbene, appare abbastanza curioso notare che in
occasione sia dell’ordinanza 17 luglio 2001, n. 256
(estensore Massimo Vari), sia della sentenza 11 novembre 2010, n. 316 (estensore Luigi Mazzella) il
Presidente del Consiglio fosse Silvio Berlusconi,
suscitando l’impressione di una Corte sensibile alla
“ragion di Stato” (52).
Nella prima occasione la Corte si è sostanzialmente collocata sulla scia di quella giurisprudenza che
tamenti dei dipendenti civili e militari dello Stato. Ma anche
sotto questo profilo - afferma Bozzao - ai primi anni 90 il legislatore ha omogeneizzato la disciplina pensionistica di questi
lavoratori a quella del settore privato. Esclusa la natura di retribuzione differita, e quindi il nesso tra gli artt. 36 e 38 Cost., va
a messa in discussione la sussistenza di un diritto al costante
adeguamento della pensione al mutevole potere di acquisto
della moneta.
(45) V. Corte cost. n. 226 del 1993.
(46) S. Cassese, Pensioni, le strade possibili della Corte costituzionale, in Corriere della Sera, 12 maggio 2015.
(47) Sul punto v. M. D’Onghia, Sostenibilità economica versus sostenibilità sociale nella legislazione previdenziale, cit., § 7;
adde, S. Giubboni, Le pensioni nello Stato costituzionale, in Menabò di Etica ed Economia, n. 23 del 2015, 3.
(48) Preferisce parlare di deficit di legittimità M. D’Onghia,
Sostenibilità economica versus sostenibilità sociale nella legislazione previdenziale, cit., § 7.
(49) In tal senso v. M. D’Onghia, Sostenibilità economica
versus sostenibilità sociale nella legislazione previdenziale, cit., §
5.
(50) G. Cazzola, Pensioni: se la Consulta bombarda il quartier
generale, in www.bollettinoadapt.it, 7 maggio 2015.
(51) Per un giudizio positivo su Corte cost. n. 70 del 2015,
che “si presenta giuridicamente corretta (nel merito e nel metodo) tanto più perché caratterizzata da una esaustiva chiarezza esplicativa nella motivazione”, v. M. D’Onghia, Sostenibilità
economica versus sostenibilità sociale nella legislazione previdenziale, cit., § 4; nello stesso senso v. G. Leone, op. cit., § 1 e
S. Giubboni, Le pensioni nello Stato costituzionale, in Menabò
di Etica ed Economia, op. cit.
(52) Sebbene riferita a decisioni rese a margine di altre questioni di legittimità costituzionale, una riflessione analoga è
stata avanzata tempo fa anche da E. Longo, I diritti sociali al
tempo della crisi. La consulta salva la social card e ne ricava un
nuovo titolo di competenza statale, in Giur. cost., 2010, 164 ss.
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
685
Dottrina
Previdenza
rimetteva alla discrezionalità del legislatore l’individuazione “della misura dei trattamenti di quiescenza e le variazioni dell’ammontare delle prestazioni, attraverso un bilanciamento dei valori contrapposti che tenga conto, accanto alle esigenze di
vita dei beneficiari, anche delle concrete disponibilità finanziarie e delle esigenze di bilancio (sentenza n. 372 del 1998)”.
La Corte illo tempore ha posto due limiti e cioè
quello della palese irrazionalità della scelta legislativa e quello delle risorse disponibili, che Governo
e Parlamento devono gestire anche con interventi
correttivi (sentenza n. 99 del 1995).
La questione di legittimità costituzionale portata
all’attenzione del Giudice delle leggi nel 2001 riguardava una disposizione contenuta nella legge finanziaria per il 1998 (supra) (53), di sospensione
della perequazione automatica per le pensioni di
importo più elevato, questione ritenuta infondata
proprio perché i limiti predetti non erano stati superati (54).
Nello specifico, la disposizione portata all’attenzione della Corte incideva variamente sulla perequazione delle pensioni, qualificabile, secondo la definizione di Cinelli, come “espediente tecnico prescelto in concreto dal legislatore (in luogo di altri
possibili) per assicurare il necessario mantenimento
nel tempo della condizione di adeguatezza delle
prestazioni previdenziali” (55).
È evidente come nel primo caso esaminato dalla
Corte costituzionale la disposizione scrutinata presentasse una gradualità nel blocco della perequazione, che ha consentito al Giudice delle leggi di
emanare addirittura un’ordinanza, dichiarativa della manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata dal giudice a quo,
esaltando in quella sede la discrezionalità di un legislatore, invero abbastanza superficiale nella indicazione della ratio della norma oggetto del giudizio
di legittimità costituzionale, inserendosi nel più
ampio e complesso provvedimento di stabilizzazione della finanza pubblica e quindi nella generalizzata salvaguardia degli equilibri di bilancio.
A distanza di quasi un decennio dall’ordinanza n.
256 del 2001, la Corte costituzionale torna ad oc-
cuparsi del blocco della perequazione automatica
dei trattamenti pensionistici, non più con ordinanza ma con sentenza (Corte cost. 336 del
2010) (56), a seguito della questione di legittimità
costituzionale dell’art. 1, comma 19, della L. 24 dicembre 2007, n. 247, sollevata dal Tribunale di Vicenza con ordinanza del 17 aprile 2009, con riferimento agli artt. 3, 36 e 38, comma 2, Cost. (57).
La norma scrutinata stabiliva che per le pensioni
superiori a otto volte il trattamento minimo non
venga concessa per l’anno 2008 alcuna perequazione automatica.
Diversamente da quanto accaduto nel 2001, non
v’è alcuna graduazione nel blocco della perequazione e si incide su trattamenti previdenziali di medio
- alto importo, con effetti non limitati al solo
2008, ma incidenti anche sul futuro, in ragione del
c.d. effetto trascinamento della disposizione, atteso
che “le successive rivalutazioni non sono calcolate
sul valore reale originario, ma sull’ultimo importo
nominale della pensione che ha già sofferto non
solo della svalutazione monetaria ma anche della
precedente riduzione” (58).
Anche in questo caso generica si presentava la ratio della norma esaminata. Infatti, lo scopo dichiarato dell’art. 1, comma 19, L. n. 247 del 2007, è
quello di “contribuire al finanziamento solidale degli interventi sulle pensioni di anzianità, contestualmente adottati con l’art. 1, commi 1 e 2, della
medesima legge”, compensando “l’eliminazione
dell’innalzamento repentino a sessanta anni, a decorrere dal 1° gennaio 2008, dell’età minima già
prevista per l’accesso alla pensione di anzianità in
base all’articolo 1, comma 6, della legge 23 agosto
2004, n. 243 (…), e l’introduzione, in sua vece, di
un sistema più graduale e flessibile delle “uscite”,
basato sul raggiungimento di quote risultanti dall’età anagrafica e dall’anzianità contributiva” (59).
Il “quomodo della garanzia dei mezzi adeguati dell’art. 38, comma 2”, assente in quest’ultima disposizione come evidenzia Ales, non è intaccato dalla
norma della L. n. 247 del 2007, in ragione della limitazione del blocco al solo 2008 e dell’importo
elevato delle prestazioni previdenziali travolte dagli
effetti della disposizione in questione. L’estempora-
(53) V. l’art. 59, comma 13, L. 27 dicembre 1997, n. 449.
(54) Sul tema v. C.A. Nicolini, La perequazione automatica
delle pensioni prima e dopo la manovra finanziaria per il 1998,
in Mass. giur. lav., 1998, 783.
(55) M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, cit., 206.
(56) Sul differente peso specifico del provvedimento adottato nel 2010 rispetto a quello del 2001, v. P. Cro, op. cit., che
evidenzia la manifesta accresciuta importanza della questione,
meritevole, appunto di una sentenza.
(57) A commento di Trib. Vicenza 17 aprile 2009 (ord.), v.
M. Gambacciani, op. cit.
(58) M. Gambacciani, op. cit., 820.
(59) Per una critica alla pessima prassi legislativa di differire
l’entrata in vigore di norme necessarie, ma impopolari, facendo ricadere sui governi futuri la responsabilità della concreta
attuazione dei provvedimenti v. ancora P. Cro, op. cit.
686
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
Dottrina
Previdenza
neità dell’intervento evita, altresì, di ledere il principio di proporzionalità tra retribuzioni e trattamenti previdenziali, lasciando ancora margini al legislatore per bilanciare i valori in campo e le connesse esigenze strumentali. Inoltre, l’intervento su
trattamenti medio-alti evita alla Corte costituzionale di qualificare la disposizione scrutinata come
irragionevole, poiché la copertura decrescente,
man mano che aumenta il valore della prestazione,
quindi non secondo la logica dei tagli lineari, ma
valutando il “peso” della prestazione, è sintomatico
di quel trattamento differenziato necessario per
sfuggire alla lesione del principio di uguaglianza
sub specie di ragionevolezza della soluzione adottata (a situazioni uguali soluzioni uguali - a situazioni
diverse soluzioni diverse). In termini di ragionevolezza, infine, la Corte costituzionale ha evidenziato
nel 2010 l’importanza della ratio manifesta dell’intervento i cui effetti, però, non vanno sottostimati,
specie in relazione a quello di trascinamento, amplificato dall’eventuale reiterazione di disposizioni
che ad una certa distanza ripropongano il blocco
della perequazione danneggiando in misura più che
proporzionale i percettori di trattamenti previdenziali meno elevati, e quindi più sensibili ai mutamenti del potere d’acquisto della moneta.
È evidente il monito lanciato dalla Corte costituzionale all’indirizzo del Governo e del legislatore,
invitando entrambi ad evitare il ricorso a strumenti
che di fatto sterilizzino le dinamiche perequative,
individuando per il futuro altre soluzioni economiche.
Di conseguenza, il sospetto di legittimità costituzionale adombrato dal Tribunale di Vincenza e
contestato dalla dottrina prima ancora della pronuncia del giudice della leggi (60), viene negato
dalla Corte costituzionale con la citata sentenza n.
316 del 2010, che opera un bilanciamento dei valori in campo, secondo alcuni squilibrato a danno
dei percettori di trattamenti pensionistici medioalti, peraltro colpiti da una tassazione più elevata,
e quindi incisi in modo più che proporzionale rispetto ai restanti (61).
Alla soluzione adottata dal legislatore del 2007 e
validata dalla Corte costituzionale, avrebbe potuto
ovviarsi attraverso un diverso modus procedendi e
cioè, distribuendo meglio i sacrifici, mediante una
riduzione progressiva della perequazione e non con
un azzeramento netto, come suggerito peraltro dalla dottrina (62), che ha stigmatizzato la disponibilità della Corte ad accordare un’ulteriore chance al
legislatore ed al Governo, ritenendosi che la soluzione adottata da ultimo da Corte cost. n. 70 del
2015 potesse sopraggiungere sin dalla prima rimessione della questione di legittimità costituzionale,
delibata negativamente con l’ordinanza n. 256 del
2001, ritenendo irragionevoli e irrazionali tutte le
disposizioni di sospensione o blocco della perequazione pensionistica (63).
Invero, all’indomani di Corte cost. n. 316 del 2010
l’opinione della dottrina sull’operato del legislatore
non appariva poi così chiaro, atteso che secondo
alcuni la decisione, nonostante il monito, sembrava presumere il conferimento di un “imprimatur di
legittimità costituzionale alle politiche di risparmio
sulla spesa previdenziale attuate mediante il blocco
della perequazione automatica delle pensioni, alla
duplice condizione che il provvedimento sia solo
temporaneo e riguardi solo i trattamenti di importo
più elevato” (64); secondo altri, invece, il provvedimento della Corte è apparso sin troppo clemente
nei confronti del Governo (65).
Rispetto alla giurisprudenza fin qui esaminata,
quindi, la questione delibata da Corte cost. n. 70
del 2015 assume le fattezze della “goccia che fa traboccare il vaso (…) oramai colmo”, di cui parlava
la dottrina in occasione di Corte cost. n. 316/2010.
Come anticipato, numerose e anche serrate sono
state le critiche mosse alla recente decisione della
Corte costituzionale, ma inforcando le lenti della
giurisprudenza costituzionale si coglie la pretestuosità, e sovente anche la gratuità, di una critica che
appare più politica, che giuridica.
Certo, Corte cost. n. 70 del 2015 è una decisione
annunciata, dopo il monito di Corte cost. n. 316
del 2010, rimasto palesemente inascoltato.
L’intervento del Giudice delle leggi deriva da più
questioni di legittimità costituzionale, sollevate rispettivamente dal Tribunale sezione lavoro di Palermo (ord. 6 novembre 2013), dalla Corte dei
(60) V. S. Giubboni, Il blocco temporaneo della perequazione
automatica, in M. Cinelli - G. Ferraro (a cura di), Lavoro, competitività, welfare. Commentario alla legge 24 dicembre 2007, n.
247, Milano, 2008, 663 ss., spec. 666.
(61) V. M. Gambacciani, op. cit., 828 ss.
(62) Così ancora M. Gambacciani, op. cit., 829.
(63) V. M. Gambacciani, Perequazione automatica e provvedimenti di “blocco” tra principio di solidarietà, esigenze della fi-
nanza pubblica e tutela dei diritti dei pensionati, in Giur. cost.,
2011, 829 ss.
(64) V. P. Cro, op. cit.
(65) V. M. Gambacciani, “Blocco” della perequazione automatica delle pensioni di importo più elevato e sospetti di illegittimità costituzionale, cit.; Idem, Perequazione automatica e provvedimenti di “blocco” tra principio di solidarietà, esigenze della
finanza pubblica e tutela dei diritti dei pensionati, cit.
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
687
Dottrina
Previdenza
conti, sezione giurisdizionale per la Regione Emilia
- Romagna (ord. 13 maggio 2014) e per la Regione
Liguria (ord. 25 luglio 2014), in riferimento agli
artt. 2, 3, 23, 36, comma 1, 38, comma 2, 53 e
117, comma 1 Cost., quest’ultimo in relazione alla
CEDU, ratificata e resa esecutiva con L. 4 agosto
1955, n. 848, nei confronti dell’art. 24, comma 25,
D.L. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della L. 22 dicembre 2011, n. 214, nella parte in cui, per gli anni
2012 e 2013, prevede la rivalutazione monetaria
nella misura del 100 per cento, esclusivamente per
le pensioni di importo complessivo fino a tre volte
il trattamento minimo INPS.
Partendo dall’ultima delle questioni di legittimità
costituzionale sollevate dai giudici a quibus, la Corte evidenzia che l’asserito vulnus, ipotizzato dalla
Corte dei conti emiliana, è insussistente, in ragione dell’erronea indicazione del parametro normativo di riferimento, in quanto il richiamo alla CEDU
si accompagna a disposizioni riconducibili alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea,
fonte avente lo stesso valore giuridico dei trattati,
ai sensi dell’art. 6, comma 1, TFUE. Poiché dall’esame dell’ordinanza di rimessione la Corte costituzionale non riesce a comprendere quale sia la compromissione subita dalle norme CEDU a causa dell’applicazione dell’art. 24, comma 25, citato, la
questione di legittimità costituzionale viene dichiarata inammissibile per manifesta carenza argomentativa, il che sta a significare che i dubbi di legittimità costituzionali sono esposti in modo troppo generico per essere esaminati.
Una seconda questione sollevata dai giudici a quibus e dichiarata questa volta infondata nel merito,
attiene alla supposta violazione degli artt. 2, 3, 23
e 53 Cost., in ragione della presunta riconducibilità del blocco della perequazione alle prestazioni di
natura tributaria e come tale, lesivo del principio
di universalità dell’imposizione a parità di capacità
contributiva, poiché posta a carico unicamente dei
pensionati, e quindi prevedendo in violazione del
principio di eguaglianza un onere sganciato dalla
capacità contributiva del singolo.
Anche questa supposta violazione viene, però,
esclusa dal Giudice delle leggi, posto che la disposizione in oggetto non riveste natura tributaria “in
quanto non prevede una decurtazione o un prelie-
vo a carico del titolare di un trattamento pensionistico”, elemento indefettibile secondo la giurisprudenza della stessa Corte costituzionale per ricondurre una fattispecie nell’alveo delle prestazioni tributarie, unitamente al fatto che “la decurtazione
non deve integrare una modifica di un rapporto sinallagmatico” e che “le risorse, connesse ad un presupposto economicamente rilevante e derivanti
dalla suddetta decurtazione, devono essere destinate a sovvenire pubbliche spese”.
Se ciò non bastasse, la Corte evidenzia l’assenza di
un’acquisizione di risorse a bilancio dello Stato, in
quanto l’art. 24, comma 25, determina solo un risparmio di spesa, elemento questo che corrobora la
natura non tributaria della fattispecie.
Così sfrondato il novero delle eccezioni, la Corte
costituzionale entra in argomento ed esamina il
supposto contrasto tra l’art. 24, comma 25, e gli
artt. 3, 36, comma 1, e 38, comma 2, Cost., ritornando quindi sulla questione già delibata rispetto
ad altre norme di contenimento della perequazione, nel 2001 e nel 2010 (supra), ma questa volta
dichiarandola fondata.
La Corte costituzionale fa precedere la decisione
sulla norma censurata da una analitica e puntuale
ricostruzione del quadro normativo in tema di perequazione (supra), dalla quale emerge che soltanto
le fasce più basse sono integralmente tutelate dall’erosione indotta dalle dinamiche inflazionistiche
o, in generale, dal ridotto potere di acquisto delle
pensioni, obliterando il progetto di eguaglianza sostanziale al fondo dell’istituto, funzionale ad evitare disparità di trattamento in danno dei pensionati,
specie alla luce dell’allungamento della vita media,
che riduce nel lungo periodo la possibilità di mantenere il tenore di vita standard, a causa anche degli scarti tra inflazione programmata, quella reale
ed effettivo adeguamento dei trattamenti previdenziali, con il rischio che il pensionato non possa
condurre quell’esistenza libera e dignitosa, prevista
dall’art. 36 Cost., innervato a sua volta dall’art. 38,
comma 2, Cost.
Infatti, come evidenziato dalla Corte costituzionale, il legame tra trattamenti previdenziali successivi
alla cessazione della carriera lavorativa e retribuzione percepita in costanza di attività è proprio di
quell’adeguatezza degli emolumenti (66), che taglia
trasversalmente le due disposizioni costituzionali
(66) Il legame tra carriera lavorativa e retributiva del lavoratore e trattamento previdenziale successivo alla cessazione del
rapporto di lavoro è ben evidenziato da M. Cinelli, I livelli di garanzia nel sistema previdenziale, in Arg. dir. lav., 1999, 53 ss.,
spec. 58, secondo il quale “è da escludere che il livello della
prestazione previdenziale “adeguata” (…) possa ignorare del
tutto la posizione economica e sociale (quindi il tenore di vita)
raggiunto dal soggetto direttamente interessato: il trattamento
pensionistico adeguato, in sostanza, non può non essere di
consistenza idonea a riflettere, in qualche misura, quella posi-
688
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
Dottrina
Previdenza
ed i trattamenti ad esse sottesi, secondo una lettura
sistematica di esse, risalente agli inizi degli anni
80 (67).
In ogni caso, trattandosi di fattispecie caratterizzata
da risvolti finanziari di non poco momento, il vaglio di costituzionalità deve essere condotto “alla
stregua delle risorse finanziarie attingibili e fatta
salva la garanzia irrinunciabile delle esigenze minime di protezione della persona” (68).
Il limite delle risorse finanziarie, o meglio la necessità di rastrellare tutte quelle possibili per affrontare la pesante crisi economica che affligge l’intera
economia capitalistica dal 2008 (69), ha indotto
nel 2011 il c.d. Governo tecnico a riproporre per
l’ennesima volta il blocco della perequazione automatica (70), con un effetto trascinamento anche
più incisivo di quelli realizzatisi precedentemente,
a causa sia dell’assenza di meccanismi di proporzionalità nell’intervento di blocco, sia per la natura
stessa della misura, che non opera come sospensione con recupero una tantum, alla stregua di quella
del 1993, ma come vera e propria sterilizzazione
delle dinamiche inflazionistiche.
Proprio tale aspetto ha indotto la Corte a ritenere
lesi i principi di proporzionalità e adeguatezza del
trattamento pensionistico e violati quei limiti di
ragionevolezza e proporzionalità sui quali già aveva
ammonito il legislatore ed il governo nel 2010, affinché non si riproponessero misure che pregiudicassero il potere di acquisto dei trattamenti previdenziali con “irrimediabile vanificazione delle
aspettative legittimamente nutrite dal lavoratore
per il tempo successivo alla cessazione della propria
attività” (71), esaltando in modo implicito l’importanza del principio di certezza del diritto e sicurezza
giuridica alla base di ogni ordinamento democratico fondato sul diritto, principi dei quali si è già
ipotizzata la violazione in relazione alla normativa,
anch’essa del 2011, sugli esodati, alla luce di numerose pronunce costituzionali e della Corte europea
dei diritti dell’uomo (72).
Sicuramente, il principio di proporzionalità tendenzialmente inversa tra retribuzione e pensione,
evocato da Gino Giugni nel congresso di Bari dell’Aidlass di trent’anni fa, e fatto proprio da Prosperetti, in un recente commento alla decisione della
Corte costituzionale, non potrà che tormentare il
sonno dei giovani lavoratori, ed essere affrontato si spera adeguatamente - dal legislatore, contemperando le esigenze in campo. Ciò non toglie, però,
che le critiche mosse all’indirizzo della sentenza
della Corte costituzionale da parte dell’accademia
hanno il sapore del c.d. “fuoco amico”. Infatti, viene scambiata la ricentralizzazione dell’analisi giuridica, operata dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 70 del 2015, per “analisi microinterpretativa” (73), lasciando “la valutazione dei problemi
macro agli economisti e agli attuari” (74)!
Viene scambiato, quindi, il primato del diritto (del
lavoro e della previdenza sociale) (75), demolito
dagli economisti in nome del supposto super-principio del pareggio di bilancio (76), con una sorta di
autoreferenzialità.
zione”.
(67) V. Corte cost. n. 26 del 1980, secondo cui proporzionalità e adeguatezza non devono sussistere soltanto al momento
del collocamento a riposo, “ma vanno costantemente assicurate anche nel prosieguo, in relazione ai mutamenti del potere
d’acquisto della moneta”, senza che ciò comporti un’automatica ed integrale coincidenza tra il livello delle pensioni e l’ultima retribuzione, poiché è riservata al legislatore una sfera di
discrezionalità per l’attuazione, anche graduale, dei termini
suddetti (ex plurimis, sentenze n. 316 del 2010; n. 106 del
1996; n. 173 del 1986; n. 26 del 1980; n. 46 del 1979; n. 176
del 1975; ordinanza n. 383 del 2004). Nondimeno, dal canone
dell’art. 36 Cost. “consegue l’esigenza di una costante adeguazione del trattamento di quiescenza alle retribuzioni del
servizio attivo” (sentenza n. 501 del 1988; fra le altre, negli
stessi termini, sentenza n. 30 del 2004). Critica il ricorso anche
all’art. 36, Cost., frutto di una visione tralaticia della pensione
come forma di retribuzione differita, potendo essere sufficiente
l’“applicazione dei soli artt. 3 e 38, comma 2, Cost.”, S. Giubboni, Le pensioni nello Stato costituzionale, cit., 4.
(68) V. Corte cost. n. 316 del 2010.
(69) In tema v. M. Persiani, Crisi economica e crisi del Welfare State, in Dir. lav. rel. ind., 2013, 641 ss.
(70) Sul punto piace citare un passaggio di una breve nota
di commento a Corte cost. n. 70 del 2015, per cui “Se pensiamo che la norma censurata è stata proposta da un Governo
tecnico c’è da stare allegri” (P. Rosa, La perequazione automa-
tica delle pensioni e le responsabilità del legislatore, in D&G,
2015, fasc. 18, 1).
(71) V. Corte cost. n. 349 del 1985.
(72) V. M. Cinelli, D. Garofalo, G. Tucci, “Esodati”, “salvaguardati”, “esclusi” nella riforma pensionistica Monti-Fornero, in
Dir. lav. rel. ind., 2014, 337 ss.
(73) G. Prosperetti, Alla ricerca di una ratio del sistema pensionistico italiano, in Mass. giur. lav., 2015, 419 ss.
(74) G. Prosperetti, op. cit.
(75) Per una critica a tale primato v. A. Morrone, Crisi economica e diritti. Appunti per lo stato costituzionale in Europa, in
Quad. cost., 2014, 79 ss.
(76) Sul valore e significato costituzionale del principio di
pareggio di bilancio, sub art. 81 Cost., che pone le premesse
per “un nuovo modo di essere delle decisioni di bilancio nell’ordinamento costituzionale” v. A. Morrone, Ragionevolezza a
rovescio: l’ingiustizia della sentenza n. 70/2015 della Corte Costituzionale, in www.federalismi.it, 2015, 15. Evidenzia il diverso atteggiamento assunto dalla Corte costituzionale in occasione della decisione n. 10 del 2015, con la quale è stata sancita l’illegittimità costituzionale della c.d. Robin Tax, affermandosi che “l’applicazione retroattiva della presente declaratoria di
illegittimità costituzionale determinerebbe anzitutto una grave
violazione dell’equilibrio di bilancio ai sensi dell’art. 81 della
costituzione”, con una manifesta sentenza pro futuro, E. Morando, La sentenza n. 70 del 2015 sulle pensioni, in www.federalismi.it, 7. Sull’impossibilità per la Corte costituzionale di
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
689
Dottrina
Previdenza
Le esigenze correlate a risparmi di spesa ed il principio del pareggio di bilancio, pur fondamentali
per la tenuta del Sistema Paese, non possono essere
utilizzati, quindi, a mò di salvacondotto per superare qualunque possibile censura di illegittimità costituzionale (77), non condividendosi, neanche in
minima parte, le critiche indirizzate all’Avvocatura
dello Stato, colpevole secondo alcuni di non aver
adeguatamente evidenziato i riflessi contabili di
una potenziale sentenza di accoglimento delle questioni di legittimità (78); meglio sarebbe a questo
punto affidare la difesa dello Stato alla Ragioneria
Generale, sicuramente in grado attraverso i “numeri” e non il diritto di contrastare qualsiasi questione di legittimità costituzionale che abbia ricadute
sui conti dello Stato.
Cristallizzati i principi e i valori costituzionali da
bilanciare, il quomodo non può condurre all’obliterazione di uno in danno dell’altro, ma deve necessariamente prevedere un contemperamento; diversamente, non si parlerebbe di bilanciamento dei
valori in campo, ma di tutela del valore contingente più importante, affidando al legislatore una discrezionalità che travalica la stessa separazione di
funzioni sancita dalla Carta costituzionale.
Astraendo per un attimo dalla vicenda della perequazione, l’intervento della Corte costituzionale ha
l’indubbio merito - e in ciò traspare la notoria sensibilità sul tema del suo estensore - di riportare al
centro del sistema la Costituzione, sovente piegata
alle esigenze del momento ed ai capricci di un legislatore spesso poco attento alla forma ed alla sostanza dei provvedimenti che adotta e ad un Governo che si sostituisce al primo, quando vuole raggiungere in modo rapido i propri obiettivi.
L’invito alla moderazione avanzato da Cassese e
fatto proprio da Prosperetti in un recente commento alla decisione della Corte costituzionale e di cui
abbiamo dato conto poc’anzi, non poteva essere
accolto anche per questi motivi (79).
Troppe volte il Governo e il Legislatore sono rimasti sordi agli inviti della Corte, paradigma di quel
“tormentato rapporto” tra organi costituzionali di
cui parla la dottrina (80), e a riguardo è sufficiente
ricordare i plurimi e reiterati appelli del Giudice
delle leggi, che alla fine hanno condotto a dichiarare costituzionalmente illegittima l’odiosa prassi
dei decreti legge reiterati e non convertiti, in barba
ai principi di necessità ed urgenza sottesi all’adozione di questo importante strumento di normazione!
È evidente allora che l’invito di Ales a rispettare il
ruolo e le competenze del decisore politico (81), in
astratto totalmente condivisibile, in concreto va
tarato su un decisore politico sotto ogni aspetto di
basso profilo, che può essere fronteggiato solo dalla
Corte costituzionale: oltre quest’ultima c’è il nulla.
Tornando al tema, si è trattato, come evidenziato
dalla stessa Corte costituzionale, di un “inevitabile
intervento correttivo”, determinato dalla povertà
argomentativa alla base della disposizione, ivi invocandosi genericamente la “contingente situazione finanziaria” (82), senza specificare “la necessaria
prevalenza delle esigenze finanziarie sui diritti oggetto di bilanciamento, nei cui confronti si effettuano interventi così fortemente incisivi” ed in assenza, altresì, di “documentazione tecnica circa le
attese maggiori entrate”, come previsto dalla “Legge di contabilità e finanza pubblica” (83).
Insomma, la dichiarazione di incostituzionalità è
sopraggiunta, come si suol dire, di default, sia per
l’impossibilità, come giustamente evidenziato, di ripristinare l’art. 18, comma 3, D.L. n. 98 del 2011,
abrogato dal D.L. n. 201 del 2011 (84), sia per la
ritenuta lesione del diritto ad una prestazione previdenziale adeguata, ma anche perché il Governo
non ha saputo esplicitare quelle esigenze finanziarie che hanno condotto al sacrificio imposto ai
adottare una sentenza pro futuro, in ragione della permanenza
degli effetti, v. G.M. Salerno, La sentenza n. 70 del 2015: una
pronuncia non a sorpresa e da rispettare integralmente, in
www.federalismi.it. In critica alla dottrina che esalta la portata
del principio di equilibrio di bilancio, v. S. Giubboni, Le pensioni
nello Stato costituzionale, cit., che stigmatizza la tesi di chi assume il principio predetto quale vincolo a priori, in grado addirittura di derogare alla retroattività, ex art. 136 Cost., delle sentenze della Corte costituzionale, con un sostanziale affievolimento della garanzia dei diritti fondamentali.
(77) Sul punto si rinvia alle riflessioni di G. Zagrebelsky,
pubblicate su “Repubblica” del 9 maggio 2015, e ripubblicate
anche in www.libertaegiustizia.it.
(78) Si veda in proposito E. Morando, op. cit., 11.
(79) G. Prosperetti, op. cit.
(80) A. Morrone, Ragionevolezza a rovescio: l’ingiustizia della
sentenza n. 70/2015 della Corte costituzionale, cit.
(81) Cfr. E. Ales, op. cit.
(82) Appare abbastanza singolare la difesa dell’operato del
governo Monti, da parte dell’attuale vice ministro Morando, il
quale sostiene che la drammaticità della “contingente situazione finanziaria” sarebbe sufficientemente provata dai titoli dei
quotidiani dell’epoca! (E. Morando, op. cit., 6). Sulle difficoltà
economiche al fondo del D.L. n. 201 del 2011 assurte addirittura a “fatto notorio” v. anche A. Morrone, Ragionevolezza a
rovescio: l’ingiustizia della sentenza n. 70/2015 della Corte costituzionale, cit., 8. Una prova fornita attraverso articoli di giornale e supposti fatti notori qualifica sufficientemente lo spessore
di tali critiche.
(83) V. l’art. 17, comma 3, L. 31 dicembre 2009, n. 196. In
giurisprudenza v. Corte cost. n. 26 del 2013, che interpreta
questa disposizione come “puntualizzazione tecnica” dell’art.
81 Cost.
(84) Cfr. P. Sandulli, op. cit.
690
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
Dottrina
Previdenza
pensionati (85), sul quale è intervenuta la Corte,
rea, a parere di taluni, di aver minimizzato la portata del nuovo art. 81 Cost., mai citato nel corpo
della decisione (86).
Sul punto una parte dei commentatori ha ritenuto
che così argomentando la Corte costituzionale ha
messo in discussione, in nome di una ragionevolezza politica alternativa, la scelta operata dal decisore politico con riferimento all’allocazione delle risorse, rispetto ad una singola disposizione, estrapolandola dal contesto sistemico, in tal modo finendo
con il privilegiare l’interesse di un singolo o di un
gruppo rispetto a quello generale (87), alla cui valutazione il decisore politico è vincolato dal principio democratico, minando altresì il patto intergenerazionale ed il sistema a ripartizione che regge il
nostro sistema previdenziale (88). Ciò induce tali
commentatori a ritenere che il Giudice delle leggi
si sia sostituito arbitrariamente al decisore politico
nella determinazione del livello qualitativo e quantitativo di benessere, sostanzialmente invadendone
il campo e non salvaguardandone le prerogative
istituzionali e costituzionali.
Alla luce della decisione della Corte costituzionale
e ragionando a contrario, se l’impianto normativo
fosse stato meglio strutturato, non si può escludere,
quindi, che anche questa volta l’ennesimo intervento di blocco sarebbe passato indenne, ovvero
che possano essere riproposti, meglio motivati, interventi analoghi (89).
A ben guardare, però, si può affermare che tale risultato intanto sarebbe stato possibile, in presenza,
ad esempio, di una situazione finanziaria talmente
grave da porre a rischio la stessa esistenza o tenuta
dello Stato, rendendo indispensabili, ad esempio,
misure analoghe a quelle richieste alla Grecia di
gran lunga più aggressive e draconiane rispetto all’art. 24, comma 25, D.L. n. 201 del 2011.
In questa ipotesi sono gli stessi presupposti per l’esistenza e la permanenza in vita del c.d. “nucleo indefettibile di garanzie per gli interessati” ad essere
minati, per cui simul stabunt simul cadent, nel senso
che la dichiarazione di illegittimità costituzionale
di disposizioni simili sarebbe una sorta di suicidio
istituzionale (90).
Quindi tutte le critiche, per lo più politiche, sollevate nei confronti della sentenza n. 70, vanno respinte al mittente, in quanto tutte le argomentazioni da essa addotte hanno un solido ed inattaccabile ancoraggio al dato normativo costituzionale.In
primis, la norma censurata costituisce negazione dei
livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, la cui tutela rientra nella competenza, esclusiva, dello Stato ex art. 117, comma
2, lett. m), della Costituzione: il mancato adeguamento delle pensioni ha configurato una lezione di
tali livelli essenziali.
In secondo luogo, il nesso tra gli artt. 36, e 38
Cost., invocato dalla Corte e ampiamente criticato
da una parte della dottrina lavoristica, è stato reiteratamente confermato dal decisore politico, che
oggi strumentalmente lo (rin)nega. Al decisore politico, e a chi gli fa eco, si rammenta che l’assimilazione del trattamento pensionistico alla retribuzione trova uno specifico precedente normativo nel
T.U.I.R., in materia di reddito imponibile ai fini fiscali, ove si assimila la pensione alla retribuzione,
prevedendo lo stesso meccanismo di prelievo. Inoltre, si ritiene fuorviante lo stesso richiamo al metodo di calcolo, strumentalizzato da chi afferma che
la pensione calcolata con quello contributivo sarebbe totalmente sganciata dalla retribuzione, in
quanto il punto di contatto tra le due norme costituzionali è costituito dal meccanismo di imposizione contributiva, basato sul reddito percepito dal lavoratore (art. 12, L. n. 153 del 1969) (91). Peraltro
sempre il legislatore ha stabilito che per garantire
l’equilibrio finanziario del sistema previdenziale,
unica deve essere la base di calcolo delle prestazioni come della contribuzione (ultimo comma dell’art. 12, L. n. 153 del 1969), così esplicitamente
rafforzando il nesso tra retribuzioni e trattamenti
pensionistici.
Se fosse fondata la tesi avanzata da Ales, critico
sul nesso tra l’art. 36, comma 1 e l’art. 38, comma
2, Cost., e quindi sulla valutazione dell’adeguatezza
delle prestazioni pensionistiche, alla stregua della
“storia retributiva” del lavoratore (92), si potrebbe
ritenere legittimo un intervento legislativo funzionale allo sganciamento dalla retribuzione di tutte
(85) V. interrogazione parlamentare 8 agosto 2013, n. 3 00321, presentata al Senato della Repubblica.
(86) V. A. Barbera, La sentenza relativa al blocco pensionistico: una brutta pagina per la Corte, in www.rivistaaic.it, 15 maggio 2015.
(87) Così A. Morrone, Ragionevolezza a rovescio: l’ingiustizia
della sentenza n. 70/2015 della Corte Costituzionale, cit., 6.
(88) In tema v. M. D’Onghia, Sostenibilità economica versus
sostenibilità sociale nella legislazione previdenziale, cit.
(89) V. M. Cinelli, Illegittima la reiterazione del blocco della
perequazione delle pensioni: le ragioni, in Riv. dir. sic. soc.,
2015, n. 2, in corso di pubblicazione, spec. 4.
(90) M. Luciani, L’equilibrio di bilancio e i principi fondamentali: la prospettiva del controllo di costituzionalità, in www.cortecostituzionale.it, 22 novembre 2013, p. 33.
(91) Ha condiviso tale riflessione anche G. Leone, op. cit., §
3.
(92) V. E. Ales, op. cit.
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
691
Dottrina
Previdenza
le prestazioni riconducibili all’art. 38, comma 2,
Cost., ivi comprese quelle erogate a tutela della
malattia, dell’infortunio, della malattia professionale e della disoccupazione.
Certo al legislatore è consentito tettificare la prestazione (si pensi ai trattamenti di disoccupazione
o a quelli connessi all’insolvenza), mantenendo l’adeguatezza, ma ciò non esclude che la tutela previdenziale ex art. 38, comma 2, Cost. debba essere
collegata al reddito percepito dal lavoratore, sia
durante il rapporto, sia nella fase in cui per qualsiasi ragione manchi o cessi l’attività lavorativa, dissentendosi quindi in modo deciso da quei costituzionalisti che criticano il nesso tra le due disposizioni (93), forse non avendo ben chiari i principi
che governano, nella materia previdenziale, il nesso tra retribuzione, contribuzione e prestazione (94).
Sicché, mettere in discussione tale nesso per inficiare la soluzione della Corte costituzionale, significa mettere in discussione il parametro costituzionale dell’adeguatezza.
Conclusivamente, non possono che condividersi le
riflessioni di Cinelli quando afferma che “Alla sentenza, piuttosto, è da riconoscere il pregio di aver
avvertito il problema, e, pur tuttavia, di aver ritenuto giusto richiamare con forza l’attenzione sui
‘diritti’ e sull’esigenza di uno scrupoloso, equilibrato bilanciamento tra due obiettivi - quello della sostenibilità economica e quello della sostenibilità
sociale - che, in nessun caso, possono essere apprezzati e vissuti come obiettivi antagonisti. Un segnale, questo, particolarmente significativo in un
periodo, come l’attuale, nel quale sempre più spesso - troppo spesso - il settore previdenziale diviene
bersaglio privilegiato delle manovre di politica finanziaria, e i diritti risultano pesantemente conculcati dalle ‘ragioni’ dell’economia” (95).
Si condivide, altresì, la critica avanzata da Prosperetti nei confronti del legislatore, che ha avuto la
responsabilità “di non chiarire adeguatamente l’intento macroeconomico dell’operazione, ancorandola ad un problema contingente, ciò che ha, appunto, indotto la Corte ad individuare una contraddit(93) Così A. Morrone, Ragionevolezza a rovescio: l’ingiustizia
della sentenza n. 70/2015 della Corte costituzionale, cit., 7.
(94) Condivide tale impostazione R. Pessi, Ripensando al salario previdenziale: la sentenza n. 70/2015 della Corte Costituzionale, in Mass. giur. lav., 2015, 400 ss.; si condivide in toto
l’affermazione di Roberto Pessi secondo cui: “Anzi, è proprio il
contesto di un dibattito, spesso superficiale e comunque in genere affidato ai non addetti ai lavori, a spingere la Corte ad
una ricostruzione puntuale dell’istituto” (402).
(95) V. ancora M. Cinelli, Illegittima la reiterazione del blocco
692
torietà tra le finalità e lo strumento utilizzato”. Infatti, la maggiore responsabilità del legislatore in
questione è quella di essere letteralmente passato
sui valori e sull’impianto costituzionale con un’indifferenza istituzionale che non ha eguali: oggi chi
scorge la pagliuzza nell’occhio altrui, dovrebbe prima guardare il trave che offusca il proprio sguardo.
Le misure attuative di Corte cost. n. 70
del 2015
All’indomani della pubblicazione della sentenza n.
70 del 2015, è divampato il dibattito sulla natura
autoapplicativa o meno della decisione, interrogandosi se occorreva un intervento dell’Esecutivo
che ne disciplinasse gli effetti economici, come peraltro stabilito dall’art. 17, comma 13, L. n. 196
del 2009 (96).
Il Governo all’evidente scopo di tentare di evitare
che la sentenza n. 70 del 2015 producesse il contenzioso teso al recupero della perequazione negata
per gli anni 2012 e 2013, ha sostituito con il D.L.
n. 65 del 2015, il comma 25, dell’art. 24, D.L. n.
201 del 2011 dichiarato incostituzionale (97).
Nella disposizione che precede il testo del nuovo
comma 25 il Governo dichiara di voler dare attuazione “ai principi enunciati” nella sentenza n. 70;
già questa dichiarazione appare alquanto discutibile, in quanto la pronuncia della Consulta non ha
enunciato principi, bensì dichiarato illegittima una
norma. Ma superando l’assoluta improprietà dell’affermazione del Governo, dal quale non ci si può
aspettare di più sul piano tecnico-giuridico, va evidenziato che l’attuazione dei principi avviene “nel
rispetto del principio dell’equilibrio di bilancio e
degli obiettivi di finanza pubblica” (98), dal che è
dato ricavare come l’attuazione dei suddetti “principi” è dichiaratamente parziale, ma su tale aspetto
si tornerà.
La giustificazione di tale parziale attuazione viene
fornita attraverso il richiamo alla tutela dei livelli
essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, il che conferma il rinvio che si è prima fatto a tale disposizione costituzionale a supporto di Corte cost. n. 70 del 2015.
della perequazione delle pensioni: le ragioni, cit., 6-7. Di parere
opposto è ovviamente A. Morrone, Ragionevolezza a rovescio:
l’ingiustizia della sentenza n. 70/2015 della Corte costituzionale,
cit., 8.
(96) Sul punto v. M. D’Onghia, Sostenibilità economica versus sostenibilità sociale nella legislazione previdenziale, cit., § 7.
(97) V. l’art. 1, comma 1, D.L. 21 maggio 2015, n. 65.
(98) Sul peso del principio di equilibrio di bilancio in materia
v. S. Giubboni, Le pensioni nello Stato costituzionale, cit.
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
Dottrina
Previdenza
La sostanzializzazione di tale disposizione non esonera, ovviamente, l’Esecutivo dal rispetto dell’art.
38, comma 2, Cost.
L’operazione di supporto alla disciplina introdotta
con il D.L. n. 65 del 2015, si completa attraverso
la seconda giustificazione di tale parziale attuazione, mercé il richiamo della “salvaguardia della solidarietà intergenerazionale”, ritenendo che il fine
solidaristico possa giustificare la compressione di
un diritto sociale.
Quindi le argomentazioni a supporto della nuova
disciplina sono ben tre.
La nuova disciplina in tema di perequazione si affida al criterio della rivalutazione a scaglioni, ma
tettificata, garantendosi una perequazione che decresce al crescere del trattamento pensionistico,
comunque entro un tetto prefissato.
Non v’è alcuna perequazione per i trattamenti pensionistici complessivamente superiori a sei volte il
trattamento minimo INPS con riferimento all’importo complessivo dei trattamenti medesimi, implicitamente ammettendo che i percettori di tali prestazioni “non hanno assolutamente nulla da temere
dall’aumento del costo della vita” (99).
Poiché, come segnalato dalla sentenza n. 70 del
2015, l’azzeramento della perequazione per gli anni
2012 - 2013 ha prodotto effetti anche per gli anni
successivi, il Governo, sempre allo scopo di evitare
la proliferazione di un contenzioso per il recupero
della perequazione negata, ha previsto un sistema
di restituzione di quanto non percepito dagli aventi
diritto, anch’esso a scaglioni e tettificato, prevedendo che la rivalutazione automatica, relativa agli
anni 2012 e 2013, nella misura determinata dal
nuovo comma 25, viene riconosciuta negli anni
2014 - 2015 nella misura del 20% e a decorrere dal
2016 nella misura del 50%.
Quindi, su una rivalutazione a scaglioni e tettificata, si innesta in funzione ulteriormente riduttiva
un riconoscimento di quanto maturato nelle misure testé indicate.
Ancora e sempre in funzione riduttiva, si prevede
che tutte le disposizioni del D.L. n. 65 del 2015 si
riferiscono a ciascun beneficiario in funzione dell’importo complessivo di tutti i trattamenti pensionistici in godimento, inclusi gli assegni vitalizi derivanti da uffici elettivi.
Questo sistema, che sostituisce l’azzeramento dichiarato incostituzionale, dovrebbe, nelle intenzio-
ni governative, rispondere ai criteri che avevano
consentito alle norme sul blocco della perequazione, precedenti, ma anche successive alla norma
censurata, di superare il vaglio di costituzionalità
così recependo “i principi” enunciati dalla sentenza
n. 70 del 2015.
È legittima tale nuova disciplina alla stregua degli
artt. 36, comma 1, e 38, comma 2, Cost.? Si esprime la propria opinione richiamando quanto diceva
Gino Giugni a proposito delle trattenute retributive in caso di scioperi brevi o articolati, e cioè che
“pertanto più corretto sarebbe riconoscere che al
lavoratore nulla spetti non quando il creditore della prestazione abbia trovato poco utile l’effettuazione di quest’ultima, bensì quando la prestazione, in
conseguenza dello sciopero breve, sia scesa al di
sotto di quel livello di normalità tecnica mancando
la quale essa viene a perdere la sua stessa identità
originaria” (100); tra gli esempi fatti dal Maestro
c’era quello dell’interruzione della cottura degli
spaghetti che non può essere ripresa al punto di
cottura cui si era giunti: ebbene, gli spaghetti somministrati ai pensionati dal Governo Renzi sono
cotti o stracotti? Fuor di metafora, le disposizioni
adottate con il D.L. n. 65 del 2015 sono assimilabili alle norme in tema di perequazione, dichiarate
in passato legittime dalla Corte costituzionale o
non piuttosto a quella censurata dalla sentenza n.
70 del 2015? Quando - com’è lecito ipotizzare - la
Corte costituzionale verrà investita della questione, ci si augura che adotti una pronuncia che tranquillizzi ancora una volta il cittadino nei confronti
di un decisore politico che parla oramai sempre
con la mano davanti alla bocca, tanto è trasparente!
(99) Così A. Morrone A., Ragionevolezza a rovescio: l’ingiustizia della sentenza n. 70/2015 della Corte costituzionale, cit.,
6, con riferimento alla platea dei titolari di pensioni non basse
(recte, pensioni d’oro…).
(100) V. G. Giugni, Diritto Sindacale, Bari, 1980, 205.
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
Osservazioni conclusive
L’analisi del trend della legislazione previdenziale
degli ultimi vent’anni conferma l’esistenza di uno
stretto collegamento tra le prestazioni pensionistiche e la contribuzione versata, andando oltre il
semplice status di lavoratore che in passato ha legittimato di fatto l’erogazione dei trattamenti.
È stata la L. n. 335 del 1995 ad avviare questo
trend, consolidato poi con il ricorso al bilateralismo
e alla previdenza complementare, e da ultimo ulteriormente rafforzato con il D.Lgs. n. 22 del 2015.
In sintesi, il file rouge di questa evoluzione risiede
nell’abbandono del solidarismo con emersione del-
693
Dottrina
Previdenza
la logica corrispettiva o sinallagmatica, sia per i
trattamenti pensionistici (grazie al passaggio al metodo contributivo con la L. n. 335 del 1995), sia
per i trattamenti di disoccupazione (con il D.Lgs.
n. 22 del 2015).
A fronte di ciò è doveroso interrogarsi sulla legittimità di questi interventi e dei connessi tagli alla sicurezza sociale (101), al cospetto di un atteggiamento del decisore politico che non riduce in modo altrettanto drastico le spese di altri settori, si
pensi alla difesa o allo stesso costo, lato sensu, della
politica, di fatto attingendo in modo discutibile,
continuo e sistematico al settore previdenziale,
senza apportare alcun miglioramento alle connesse
prestazioni (102).
A chi teme una neutralizzazione delle decisioni politiche inerenti i diritti fondamentali, con l’emersione di una “preoccupante concezione individualistica e spoliticizzata dei diritti fondamentali” (103)
occorrerebbe ricordare che la Repubblica è fatta
anche di formazioni sociali, di lobby, di stake-holders, il cui peso specifico politico sovente condiziona le scelte di politica economica in un senso o in
un altro, e che troppo spesso il legislatore ha preferito tutelare alcuni di questi, in danno di altri (in
questo caso i pensionati), in ragione delle conseguenze politico-sociali derivanti dall’impopolarità
delle scelte.
Sicuramente v’è discrezionalità del decisore politico, ma questa incontra il limite della coerenza delle scelte fatte in passato dallo stesso legislatore e
del principio di ragionevolezza, così come declinato dalla Corte costituzionale nella propria giurisprudenza (104).
Al fondo della sentenza n. 70 del 2015, emerge il
fondamentale problema di individuare il grado di
resistenza del nostro sistema di welfare, non potendo che condividersi l’opinione di Giulio Prosperetti quando afferma che il vero problema è l’incerta
ratio del sistema pensionistico italiano, o meglio
dell’intero sistema di welfare italiano, e quindi il
difficile equilibrio tra il soddisfacimento dei diritti
fondamentali ed i connessi vincoli economico-finanziari, ovvero, come afferma Madia D’Onghia il
“tentativo di tenere assieme gli obiettivi di sostenibilità economica (e, quindi, equilibri finanziari e
riduzione della spesa) e di sostenibilità sociale” (105). Apparentemente, il problema appare di
facile soluzione, invocandosi la cosiddetta tecnica
del bilanciamento, sebbene la ricerca del punto di
equilibrio non sia proprio così agevole, alla stregua
dei principi invalicabili di ragionevolezza e proporzionalità, richiamati della Corte costituzionale ogni
qualvolta v’è da valutare la legittimità di norme
che in nome dei secondi (i vincoli) determinano il
sacrificio o la compressione dei primi (i diritti fondamentali).
Piace chiudere questa riflessione citando l’opinione
di Roberto Pessi che, concludendo il commento a
Corte cost. n. 70/2015 testualmente ha scritto: “È
una scelta difficile riformare il Welfare e rimodulare i valori costituzionali. Nutro ancora forti dubbi
che sia necessaria ed opportuna. Penso, in ogni caso, che la civiltà di una Nazione si misuri sulla trasparenza del messaggio in ordine alla persistenza o
meno del salario previdenziale e delle utilità presenti e future che da esso discendono” (106).
(101) Sui continui tagli al welfare, determinati dalla disastrosa situazione economico-finanziaria in cui versa l’economia mondiale dal 2008 ad oggi v. R. Pessi, op. cit., 406 - 407.
(102) Ancora una volta sul punto v. M. Cinelli, Riordino delle
pensioni: tetto e contributi di solidarietà (opinioni di), in Dir. lav.
rel. ind., 1986, 186.
(103) A. Morrone, Ragionevolezza a rovescio: l’ingiustizia
della sentenza n. 70/2015 della Corte costituzionale, cit., 7.
(104) In argomento v. E. Cheli, Stato costituzionale e ragionevolezza, Napoli, 2011.
(105) V. M. D’Onghia, Sostenibilità economica versus sostenibilità sociale nella legislazione previdenziale, cit.
(106) V. R. Pessi, op. cit., 407.
694
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
RIFORMA DEL PROCESSO CIVILE
Processo civile:
le novità del decreto
degiurisdizionalizzazione
Il volume fornisce al professionista un primo commento del d.l. 12 settembre 2014, n. 132, convertito con modificazioni in legge 10 novembre 2014, n. 162, recante misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed
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Nel descrivere le singole modifiche introdotte dal legislatore, si è
cercato di privilegiare l’aspetto pratico nell’ottica dell’avvocato, senza
tralasciare naturalmente il necessario rigore scientifico, evidenziando
anche pregi e difetti e, quindi, le possibili criticità.
01/12/14 13:43
Dottrina
Lavoro subordinato
Mansioni e inidoneità sopravvenuta
L’inidoneità parziale
(temporanea o permanente)
alla prestazione lavorativa
di Luca D’Andrea e Valentina Casanova - Avvocati in Ancona (*)
La dibattuta ma sempre attualissima questione, riguarda le conseguenze giuridiche connesse alla fattispecie in cui al lavoratore, in sede di visita, nell’ambito della c.d. “sorveglianza sanitaria”
da parte del medico competente, ai sensi dell’art. 41, D.Lgs. n. 81/2008 e s.m.i., ovvero in altra
sede, venga attestata un’inidoneità parziale, temporanea ovvero permanente, allo svolgimento
della specifica mansione assegnata e svolta, con conseguente idoneità allo svolgimento di altre
mansioni.
In particolare si deve indagare se e in quali termini sussista o meno, un obbligo del datore di lavoro di assegnare il lavoratore alle mansioni per le quali risulta idoneo, ovvero se, per effetto
dell’impossibilità allo svolgimento delle mansioni assegnate, sia legittimo il licenziamento ovvero altra misura incidente sullo svolgimento del rapporto di lavoro.
La questione è annosa, controversa, e risolta in modo difforme nel corso degli scorsi anni.
Tanto è vero che, per dirimere il conflitto è stato necessario l’intervento delle Sezioni Unite della
Cassazione che ancora a tutt’oggi rappresenta il riferimento più seguito.
Inidoneità sopravvenuta definitiva alla
mansione assegnata: le soluzioni in
giurisprudenza
Il ragionamento della Suprema Corte, che si è pronunciata con la sentenza n. 7755 del 7 agosto
1998 (1), ha assunto le mosse dalla riconducibilità
della fattispecie, nell’ambito delle ipotesi di impossibilità totale o parziale della prestazione dedotta
in contratto, previste dagli artt. 1463 e 1464 c.c.,
che danno luogo alla risoluzione del contratto.
Secondo detta ultima norma, in particolare, la risoluzione è ammissibile in caso di impossibilità parziale della prestazione, solo quando la residua prestazione possibile non riveste un apprezzabile interesse per la parte adempiente.
L’applicabilità delle citate norme codicistiche, è
stata ritenuta coerente con lo specifico ed inderogabile sistema normativo del recesso dei rapporti di
lavoro, incentrato sugli artt. 1 e 3 della L. n.
604/1966, che costituiscono - a parere delle Sezioni Unite - specificazione e non deroga delle norme
generali del codice civile sopra richiamate in tema
di risoluzione del contratto.
L’art. 3 della L. n. 604/1966 in particolare, secondo
la Cassazione, consente il licenziamento per grave
inadempimento agli obblighi del lavoratore, il quale potrebbe derivare da una impossibilità non imputabile allo stesso, come disciplinato appunto dall’art. 1464 c.c. (in realtà, poiché l’inadempimento
deve essere pur sempre “colpevole” ai sensi dell’art.
1218 c.c., è preferibile e più coerente ricondurre
(*) Il presente contributo è stato sottoposto, in forma anonima, al vaglio del Comitato di valutazione.
(1) Cfr. Cass., SS.UU., 7 agosto 1998, n. 7755: “In caso di
sopravvenuta infermità permanente del lavoratore, l’impossibilità della prestazione lavorativa quale giustificato motivo di recesso del datore di lavoro dal contratto di lavoro subordinato
(art. 1 e 3 l. n. 604 del 1966 e art. 1463 e 1464 c.c.) non è ravvisabile per effetto della sola ineseguibilità dell’attività attual-
mente svolta dal prestatore di lavoro, perché può essere esclusa dalla possibilità di adibire il lavoratore ad una diversa attività che sia riconducibile - alla stregua di un’interpretazione del
contratto secondo buona fede - alle mansioni attualmente assegnate o a quelle equivalenti (art. 2103 c.c.) o, se ciò è impossibile, a mansioni inferiori, purché tale diversa attività sia
utilizzabile nell’impresa, secondo l’assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall’imprenditore”.
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il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
Dottrina
Lavoro subordinato
questa ipotesi, come in realtà fa la stessa Cassazione nelle conclusioni, nell’ambito del giustificato
motivo oggettivo di licenziamento, non potendosi
ravvisare nella fattispecie alcun inadempimento
imputabile al lavoratore - salvo casi limite - bensì,
appunto, una impossibilità non imputabile).
Ciò posto, la Suprema Corte ha precisato cosa debba intendersi per “prestazione impossibile” e prima
ancora, per “prestazione lavorativa” e quindi, più
tecnicamente, per “mansione assegnata”.
Richiamando diritti ed interessi di rango e tutela
Costituzionale (2) e principi attinenti all’interpretazione (3) e all’esecuzione (4) del contratto, il Supremo Collegio ha sostanzialmente affermato, con
un salto logico, invero non del tutto lineare, che la
mansione (assegnata), alla luce del potere conformativo e determinativo del datore di lavoro - nell’esercizio del suo potere direttivo e di specificazione delle attività richieste al lavoratore, limitato dai
confini di cui all’art. 2103 c.c. - deve intendersi
estesa a tutte le attività non solo ricomprese nella
stessa qualifica attribuita al lavoratore, ma anche a
tutte le mansioni da considerarsi “equivalenti” rispetto a quella svolta, ove per equivalenza si intende armonizzazione e coerenza della “professionalità” fino a quel momento acquisita dal lavoratore,
nonché di quella suscettibile di potenziale accrescimento e sviluppo.
Ciò risulterebbe da un obbligo di “collaborazione
attiva” incombente sul creditore - finalizzato a consentire al lavoratore di fornire effettivamente la
prestazione lavorativa - unito alla considerazione
che la prestazione non è già una mera e fredda opera o servizio, ma involge l’intera personalità umana. Tale obbligo si risolverebbe quindi nel dovere
accettare e ricevere l’intera capacità e attitudine
professionale del lavoratore, quindi nell’“utilizzare
appieno le capacità lavorative del dipendente, nei
limiti dell’oggetto del contratto, cioè nei già detti
limiti posti dall’art. 2103 c.c.” (5).
In sostanza la Cassazione, partendo da un limite legale all’esercizio di un potere del datore di lavoro,
il potere direttivo, che consiste nel modificare nel
modo più confacente alle proprie esigenze organizzative l’attività assegnata al dipendente, fatta salva
la ridetta “equivalenza delle mansioni” (art. 2103
c.c., e quindi la salvaguardia del patrimonio professionale acquisito), è giunta ad individuare addirit(2)
(3)
(4)
(5)
Cfr. artt. 2, 4, 32, 36 Cost.
Cfr. artt. 1362 e 1366 c.c.
Cfr. artt. 1175, 1375 e 1206 c.c.
Cfr. S. Bellomo, Autonomia collettiva e clausole generali,
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
tura un obbligo in capo al datore di lavoro, è cioè
quello di accettare tutte le possibili attività svolgibili dal lavoratore all’interno del recinto dell’“equivalenza”, quando ciò sia necessario per imporre un
ulteriore limite ai poteri datoriali, tra i quali quello
al diritto di recesso dal rapporto - di cui ci stiamo
occupando - altrimenti legittimo.
Grazie a questa estensione concettuale, la mansione assegnata comprende anche tutte le mansioni
“assegnabili” ai sensi dell’art. 2013 c.c., cioè quelle
equivalenti.
In ciò viene individuato quell’“apprezzabile interesse” all’adempimento parziale, che il datore di lavoro avrebbe, e che escluderebbe appunto la legittimità della risoluzione del contratto ai sensi dell’art.
1464 c.c. e quindi, mutatis mutandis, del licenziamento ai sensi dell’art. 3 della L. n. 604/1966.
In realtà il salto logico è notevole, perché, come
emerge da quanto si è già accennato, l’equivalenza
delle mansioni, è un limite al legittimo esercizio
dello jus variandi del datore di lavoro, posto dalla
legge nell’interesse esclusivo del lavoratore: imporre al datore di lavoro l’obbligo di accettare le mansioni equivalenti, tutte le volte in cui non sia possibile pretendere lo svolgimento delle mansioni
originarie, significa capovolgere sia la logica di regola-eccezione insita nell’attribuzione al datore
dello ius variandi, sia la natura dello stesso, in
quanto, in questa fattispecie, di fatto si esclude tale
potere, il cui esercizio non sarebbe più riconducibile ad una scelta discrezionale - anche se limitata del datore di lavoro (diritto potestativo), bensì ad
una “necessità”, cioè quella di ricevere ed accettare
le prestazioni compatibili con lo stato di salute, pur
nel “recinto” rappresentato dall’“equivalenza”, a
prescindere dalla - percepita o valutata - utilità o
redditività della stessa, secondo l’organizzazione
d’impresa, trasformandosi così il diritto potestativo
nella contrapposta, mera, soggezione o comunque,
più esattamente, in un obbligo.
Di fatto, in questa ipotesi, lo ius variandi viene negato.
Ma tanto ha disposto la Cassazione a Sezioni Unite.
Che è andata purtroppo oltre: applicando infatti il
principio giurisprudenziale della legittimità del patto di demansionamento, nei casi in cui costituisce
l’ultima ratio per evitare il licenziamento per motiRelazione, Giornate di Studio AIDLaSS su Clausole generali e
diritto del lavoro, Roma, Università La Sapienza, 29 e 30 maggio 2014, 16 ss.
697
Dottrina
Lavoro subordinato
vi aziendali, ha statuito che anche nel nostro caso,
poiché si tratta di evitare un licenziamento, il datore di lavoro è tenuto ad accettare, con il consenso del lavoratore, anche lo svolgimento di mansioni inferiori a quelle da ultimo svolte.
In questo caso, quindi, non si tratta più dell’“individuazione di un contenuto esteso della mansione
contrattuale” nei limiti imposti dall’art. 2103 c.c.,
ma dell’assegnazione della patente di “regola generale” della presente fattispecie, a quella che nell’ipotesi da cui è stata tratta, al contrario, costituisce
l’eccezione dell’eccezione (la regola è il potere di
variazione, la deroga/limite è la mansione equivalente, la deroga della deroga è la mansione inferiore pur di scongiurare il licenziamento).
Solo che in quel caso almeno esiste un bilanciamento di interessi contrapposti (il datore non ha
più posti di quella tipologia da occupare, e allora le
parti si accordano per l’assegnazione a un posto di
livello inferiore).
E soprattutto, in quel caso, il fatto che dà origine
all’impossibilità non imputabile della prestazione
(meglio, della obbligata ricevibilità della prestazione) afferisce alla sfera del datore di lavoro e alle
sue “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento
della stessa” (art. 3, L. n. 604/1966).
Nel presente caso, al contrario, l’interesse tutelato è
solo quello del lavoratore, nella cui sfera si produce
l’impossibilità, pur non imputabile, della prestazione, e in favore del quale viene comunque attribuito
il diritto alla stabilità del posto di lavoro: è infatti
chiaro che in questo caso, non può ragionevolmente ritenersi per nulla esistente quell’“apprezzabile interesse” all’adempimento parziale in capo al datore
di lavoro, cosicché viene contraddetta l’argomentazione sopra sintetizzata delle Sezioni Unite.
L’unico strumento riconosciuto e assegnato al datore di lavoro dalla Cassazione, per arginare tale
sbilanciamento di contrapposti interessi, è rappresentato dal potere organizzativo aziendale, che la
Costituzione riconosce ed eleva al rango di diritto
di libertà, con la previsione di cui all’art. 41, ed è
riconosciuto come insindacabile e incomprimibile
da parte del Giudice.
Infatti l’interesse del datore di lavoro, viene qui
posto in rilievo nel senso che l’obbligo del datore
di lavoro di adibire il lavoratore, colpito da inido-
neità alla mansione, a mansioni equivalenti o anche inferiori, deve coordinarsi ed essere compatibile con il diritto dello stesso datore di lavoro di organizzare liberamente la propria compagine aziendale, e quindi di stabilire il numero e la tipologia
delle attività da svolgersi, e a scegliere il personale
da impiegare.
Pertanto “tutto ciò sta a significare che l’assegnazione del lavoratore, divenuto fisicamente inidoneo all’attuale attività, ad attività diverse riconducibili alla stessa mansione, o ad altra mansione equivalente
o anche a mansione inferiore, può essere rifiutata legittimamente dall’imprenditore se comporti aggravi
organizzativi e in particolare il trasferimento di singoli colleghi dell’invalido” (ovvero, si può tranquillamente aggiungere, se comporti la creazione di funzioni prima inesistenti e non utili all’organizzazione,
già altrimenti completa e operativa).
“In conclusione, rilevata la permanente e parziale
infermità del lavoratore, il datore di lavoro soddisferà l’onere impostogli dall’art. 5 della L. 604/66,
di provare il giustificato motivo di licenziamento,
dimostrando che nell’ambito del personale in servizio e delle mansioni già assegnate, un conveniente
impiego dell’infermo non è possibile o comunque
compatibile con il buon andamento dell’impresa.
Al lavoratore, al contrario, rimarrà l’eventuale
onere di indicare specificamente le mansioni esercitabili e provando la sua idoneità ad esse”.
Ovviamente a tale pronuncia delle Sezioni Unite
si sono uniformate tutte le successive sentenze di
legittimità tanto da formare un indirizzo univoco e
consolidato (6).
Alla fine, può dirsi che il suddetto impianto interpretativo è ricondotto a coerenza dalla previsione
della clausola di “salvaguardia” in favore del datore
di lavoro, rappresentata dalla possibilità del legittimo
licenziamento, laddove l’inserimento del lavoratore
invalido, nelle mansioni cui è residualmente idoneo,
è incompatibile con l’attuale e complessiva organizzazione imprenditoriale, cioè a dire, con la scelta
(già) esercitata dall’imprenditore, di individuazione
e strutturazione delle tipologie di lavorazione ai fini
del risultato perseguito (divisione astratta delle mansioni) e di individuazione della copertura di tali tipologie mediante assegnazione di un lavoratore per ciascuna di esse (attribuzione dei “ruoli” professionali, o
divisione concreta delle mansioni) (7).
(6) Cfr. Cass. nn. 9700/2010, 2427/2005, 4827/2005,
1591/2004, 6378/2003 e 12362/2003. Cfr., nello stesso senso,
anche App. Bologna, Sez. lav., 18 aprile 2007, in Pluris.
(7) Vedasi la convincente ricostruzione della nozione di
“mansione” proposta da C. Pisani, L’oggetto e il luogo della
prestazione, in A. Vallebona (a cura di), I contratti di lavoro, I,
Padova, 2009, 418 ss.
698
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
Dottrina
Lavoro subordinato
È del tutto evidente che la similare fattispecie dell’inidoneità parziale temporanea, prevista esplicitamente dall’art. 41, comma 6, lett. b), D.Lgs. n.
81/2008, debba essere ricompresa come un minus
rispetto al plus, nella più ampia fattispecie dell’inidoneità parziale permanente, appena sopra diffusamente trattata.
Ciò è condiviso dalla prevalente dottrina (8), che
intende applicare la norma di cui all’art. 1464 c.c.,
sull’impossibilità parziale della prestazione, anche
al caso della impossibilità temporanea, come quello
di cui ci stiamo occupando, in quanto - si argomenta - nei contratti a prestazioni continuative o
periodiche (c.d. di durata), l’impossibilità della
prestazione che ne coinvolge un segmento temporale, è valutabile pur sempre come impossibilità
che coinvolge una parte rispetto all’intero periodo,
quindi parziale.
Le stesse Sezioni Unite citate, ai fini dell’applicazione dell’art. 1464 c.c., equiparano, con argomento reso in via generale, l’impossibilità parziale - in
senso oggettivo/contenutistico - della prestazione,
all’impossibilità temporanea - in senso cronologico
- quindi coerenza argomentativa imporrebbe di
trattare anche questo caso come quello dell’inidoneità permanente parziale.
Va rilevato per inciso, che il comma 7 dell’art. 41
citato, impone al medico competente di individuare espressamente il periodo di inidoneità temporanea, con conseguente “presa di beneficio” per il datore di lavoro, in termini di previsioni organizzative circa l’eventuale ripresa lavorativa.
La giurisprudenza, peraltro, non si è occupata né
diffusamente, né nel dettaglio, della vicenda specifica, pertanto non ha espresso rinvenuti principi o
indirizzi univoci cui far riferimento.
Recentemente, ad ogni buon conto, la Cassazione
si è pronunciata su un caso specifico di inabilità
temporanea, e, pur non affermando un principio di
diritto che costituisse precedente, ha deciso in senso non favorevole al licenziamento.
In particolare nella vicenda decisa con la sent. n.
26112/2014 (9), era stata invocata la riforma di
una sentenza della Corte d’Appello di Venezia che
aveva “…rimarcato che la sopravvenuta impossibilità fisica della lavoratrice di svolgere le mansioni,
cui era in concreto destinata, non aveva il carattere della permanenza e della imprevedibilità della
durata e che su tale punto la datrice di lavoro non
aveva dedotto o provato”.
La Corte Suprema ha ritenuto corrette le risultanze
della Corte Territoriale affermando che la stessa
“…nel caso di specie ha fatto corretta applicazione
del richiamato orientamento giurisprudenziale,
dando conto delle risultanze documentali e peritali, riconoscendo, proprio sulla base di tali risultanze, la non idoneità lavorativa temporanea e non definitiva della lavoratrice a svolgere le mansioni affidatele.
Del resto, aggiunge la Corte, la stessa M. appena
due mesi dopo il licenziamento aveva reperito nuova occupazione, con ciò confermandosi la non definitività e la non permanenza della patologia in
esame (nel certificato medico in data 7 aprile 2004
si parla di lombosciatalgia dx)”.
(8) M.V. Ballestrero, L’estinzione del rapporto, in A. Vallebona (a cura di), I contratti di lavoro, II, Padova, 2009, 1922, ove
espressamente si osserva che: “l’impossibilità temporanea viene ricondotta infatti ad impossibilità parziale ratione temporis,
poiché le opere colpite da impossibilità temporanea sono irrecuperabili, e la prestazione risulta ridotta dalle opere che non
possono più essere compiute…”; M. Tatarelli, Il licenziamento
individuale e collettivo, Padova, 2012, 208; P. Ichino, Il contratto di lavoro, in Trattato Cicu-Messineo, III, Milano, 2003, 449;
A. Torrente, Appunti sull’impossibilità temporanea del lavoratore, in Riv. giur. lav., 1950, 110 ss.
(9) Cfr. Cass., Sez. lav., 11 dicembre 2014, n. 26112.
In termini ancora più semplici, l’inserimento del
lavoratore invalido è incompatibile con l’organizzazione aziendale quando non vi sono ruoli “vacanti”
inerenti a funzioni che il lavoratore è idoneo a
svolgere.
Tale clausola di salvaguardia, che costituisce un limite insuperabile al reinserimento dell’infermo, afferisce quindi alle ragioni “inerenti …all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa
…” e quindi alle ragioni che supportano il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ex art. 3,
L. n. 604 del 1966, con il ché l’impostazione della
giurisprudenza citata assume, alla fine, nonostante
qualche salto logico, una sostanziale coerenza di
fondo tra premesse e conclusioni.
Coerenza sostanziale, infatti, perché “l’apprezzabile
interesse alla prestazione parziale”, che è rinvenuto
solo grazie ad una fictio iuris consistente nel considerare come prestazione sempre esigibile, quella
che in realtà, sarebbe tale (la mansione equivalente) solo in conseguenza del legittimo esercizio del
potere conformativo del datore di lavoro (lo ius variandi), riemerge anche se compresso, allorquando
tale obbligata esigibilità della prestazione, viene a
cadere nel confronto con l’architettura generale
dell’organizzazione aziendale, sulla quale l’imprenditore mantiene una certa sovranità.
Inidoneità sopravvenuta temporanea
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
699
Dottrina
Lavoro subordinato
Quindi si può ritenere implicitamente e deduttivamente applicato il principio che la inidoneità temporanea, quando è stabilito un termine certo e ragionevole per la ripresa lavorativa, non costituisce
giustificato motivo di licenziamento, ravvisandosi nei suddetti limiti - quindi quell’apprezzabile interesse del datore di lavoro a ricevere la prestazione
parziale ai sensi dell’art. 1464 c.c.
Viceversa, una temporanea inabilità parziale che si
esaurisca in poche settimane e non richieda alcuno
stravolgimento organizzativo, ben potrebbe imporre al datore di lavoro l’adibizione (temporanea)
dell’invalido alle mansioni per cui è momentaneamente idoneo, specificandone dettagliatamente i
contenuti, i tempi e le finalità nell’ordine di assegnazione; e parimenti, potrebbe imporre la copertura temporanea della mansione lasciata vacante
dall’infermo, utilizzando altri colleghi, nel rispetto
e nei limiti temporali, per ognuno, dell’art. 2103
c.c. (tre mesi o il diverso termine previsto dal contratto collettivo) onde evitare eventuali richieste
di superiore inquadramento, ribadendosi sempre
che nel bilanciamento dei contrapposti interessi, la
libera scelta nell’organizzazione imprenditoriale,
costituisce il limite insindacabile e insuperabile.
A tale indirizzo si è evidentemente uniformato anche il legislatore con l’art. 42 del D.Lgs. n.
81/2008 e s.m.i. in materia di sicurezza del lavoro (10).
Prima della modifica di detto articolo, intervenuta
nel 2009, l’obbligo del datore di lavoro era genericamente limitato a rinvenire, nella propria organizzazione, mansioni compatibili con lo stato di salute
del lavoratore divenuto non idoneo alla mansione.
Ora, l’aver il legislatore specificato che l’obbligo di
repechage del datore di lavoro si riferisce alle mansioni “equivalenti” a quelle prima svolte, o addirittura, in difetto di queste, alle mansioni inferiori,
sta a significare che il legislatore ha recepito e codificato in toto l’indirizzo giurisprudenziale citato,
anche - invero piuttosto implicitamente e sinteti-
camente - nella parte in cui controbilancia tale obbligo con le legittime esigenze e istanze del datore
di lavoro di non modificare l’assetto organizzativo
esistente, come risulta (in modo abbastanza chiaro)
dall’utilizzazione dell’inciso “ove possibile”.
Nella norma appena citata, viene richiamata un’altra normativa speciale, e cioè la L. 12 marzo 1999,
n. 68, che seppure dettata con finalità diverse, impatta e reca delle inferenze con la presente questione, posto che già nelle preliminari definizioni, all’art. 1 descrive, quali persone disabili, ad esempio:
a) Le persone in età lavorativa affette da minorazioni fisiche, psichiche o sensoriali e i portatori di
handicap intellettivo, che comportino una riduzione della capacità lavorativa superiore al 45% (accertata dalle Commissioni per il riconoscimento
dell’invalidità civile)...;
b) Le persone invalide del lavoro con un grado di
invalidità superiore al 33% (accertata dall’Inail (11)).
È chiaro che si tratta di concetti che, se non addirittura coincidenti, sono o possono essere sovrapponibili e comunque intersecabili, con i concetti
di “inidoneità sopravvenuta alla prestazione (parziale o totale)” di conio giurisprudenziale, di cui ci
siamo occupati sopra, nonché con quelli di “inidoneità totale, parziale, temporanea, permanente, alla
mansione specifica” di cui all’art. 41, D.Lgs.
81/2008, in tema di Tutela della salute e sicurezza
nei luoghi di lavoro.
In sostanza, anche se si tratta di normative dettate
per finalità diverse, non si può non riconoscere
che i fattori sono comuni e consistono nella sussistenza di una menomazione od infermità psicofisica
del lavoratore, idonea ad impedire, totalmente o
parzialmente, permanentemente o temporaneamente, lo svolgimento di tutte o solo di alcune tra
le mansioni assegnate allo stesso: pertanto non si
può non tenere in debito conto anche questo scenario normativo.
Ebbene, già l’art. 1, comma 7, L. n. 68 del 1999 dispone in via generale che: “I datori di lavoro, pubblici e privati, sono tenuti a garantire la conservazione del posto di lavoro a quei soggetti che, non essendo disabili al momento dell’assunzione, abbiano ac-
(10) Cfr. art. 42 del D.Lgs. n. 81/2008 e s.m.i.: “Il datore di
lavoro, anche in considerazione di quanto disposto dalla legge
12 marzo 1999, n. 68, in relazione ai giudizi di cui all’articolo
41, comma 6, attua le misure indicate dal medico competente
e qualora le stesse prevedano un’inidoneità alla mansione specifica adibisce il lavoratore, ove possibile, a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori garantendo il trattamento
corrispondente alle mansioni di provenienza.” (Comma così
sostituito dall’art. 27, comma 1, lett. a, D.Lgs. 3 agosto 2009,
n. 106). Significativamente va osservato che il testo dell’art. 42
previgente alla modifica del 2009, recitava: “Il datore di lavoro,
anche in considerazione di quanto disposto dalla legge 12
marzo 1999, n. 68, in relazione ai giudizi di cui all’articolo 41,
comma 6, attua le misure indicate dal medico competente e
qualora le stesse prevedano un’inidoneità alla mansione specifica adibisce il lavoratore, ove possibile, ad altra mansione
compatibile con il suo stato di salute”.
(11) Cfr. circ. Ministero Lavoro n. 41 del 26 giugno 2000.
Le soluzioni adottate dalla legislazione
speciale
700
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
Dottrina
Lavoro subordinato
quisito per infortunio sul lavoro o malattia professionale eventuali disabilità”.
Va subito chiarito che è assolutamente dubbio che
tale diritto debba essere inteso in senso assoluto, e
cioè che comunque debba essere garantito a prescindere dalle esigenze di organizzazione aziendale.
A conferma di ciò, la stessa Legge ha introdotto il
successivo art. 4, comma 4 (12), che è stato interpretato in dottrina (13) con valenza di specificazione e limite contenutistico del diritto generale affermato all’art. 1, comma 7.
La circ. 26 giugno 2000, n. 41/2000 del Ministero
del Lavoro, precisa che tali lavoratori, invalidati
per infortunio o malattia professionale, per aver diritto alla conservazione del posto di lavoro, devono
aver acquisito una invalidità pari o superiore al
33%.
Si tratta, come rilevato, di una fattispecie particolare, ma sicuramente non inusuale nella gestione
dei rapporti di lavoro, specie di natura tecnica, e
cioè della inabilità alla mansione conseguente a infortunio sul lavoro o a malattia, indipendentemente dal fatto che tali eventi siano imputabili a condotte inadempienti del datore di lavoro in tema di
obblighi sulla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.
La soluzione prescelta dal legislatore è nella sostanza, anche questa volta, un recepimento dei principi
affermati dalla giurisprudenza, in prima battuta dalle SS.UU. n. 7755/1998, in ordine al diritto del lavoratore ad essere “ripescato” in mansioni - anche
inferiori - compatibili con la sua infermità, al quale
va comunque sempre controbilanciato il diritto del
datore di lavoro a non assumere oneri organizzativi
e finanziari eccessivi, e quindi a non modificare il
suo assetto organizzativo e la divisione concreta
del lavoro già stabilita: ciò è evidente, dall’utilizzo,
anche in questo caso, del concetto di “possibilità”
dell’adibizione a mansioni equivalenti od inferiori
da parte del datore di lavoro.
Si ponga attenzione, in questo ultimo caso di assegnazione a mansioni inferiori, che, mentre la sen-
tenza delle Sezioni Unite del 1998 faceva richiamo
al “patto di demansionamento” di elaborazione giurisprudenziale, e quindi alla conseguente legittimità dell’erogazione di una retribuzione inferiore, corrispondente alla qualifica assegnata, la legislazione
speciale fa salvo e impregiudicato il trattamento retributivo conseguito dal lavoratore, che non può
essere quindi ridotto o depauperato.
Dal testo di tale norma (art. 4, comma 4, L. n.
68/1999), non è stato ritenuto possibile dedurre,
nonostante la lettera della stessa si presti ad un’interpretazione difforme, che i lavoratori divenuti invalidi a seguito di infortunio o malattia, in misura
uguale o superiore al 60% siano soggetti a licenziamento per giustificato motivo oggettivo, senza alcun obbligo di repechage da parte del datore di lavoro
Infatti la giurisprudenza recentemente affermatasi,
ha ritenuto che il secondo periodo della norma
evocata richiami, “con l’espressione ‘i predetti lavoratori’, tutti i lavoratori indicati nel primo periodo, senza distinguere tra gli stessi in relazione alla
percentuale di invalidità; ne consegue che la norma della seconda parte della disposizione si applica
a tutti i lavoratori divenuti disabili, quale che sia il
grado di invalidità, avendo tutti il diritto al mantenimento del posto di lavoro solo nella misura in
cui vi siano mansioni equivalenti o inferiori disponibili” (14).
Tale interpretazione si pone nel solco dell’impostazione qui esaminata e sostenuta, e cioè nel senso
che solo il mancato rinvenimento in concreto, nell’ambito dell’organizzazione aziendale, di una mansione compatibile con lo stato di salute del lavoratore divenuto invalido, individua il superamento di
quell’apprezzabile interesse a ricevere una prestazione parziale, previsto dall’art. 1464 c.c., giustificando quindi il recesso per motivo oggettivo.
Va appena soggiunto, quindi, per completezza, che
il superamento della misura di invalidità del 60%
indicata nella norma, non spiegando effetti sul venir meno del diritto alla conservazione del posto,
(12) Cfr. art. 4 della L. n. 68 del 1999: “I lavoratori che divengono inabili allo svolgimento delle proprie mansioni in conseguenza di infortunio o malattia non possono essere computati nella quota di riserva di cui all’articolo 3 se hanno subìto
una riduzione della capacità lavorativa inferiore al 60 per cento
o, comunque, se sono divenuti inabili a causa dell’inadempimento da parte del datore di lavoro, accertato in sede giurisdizionale, delle norme in materia di sicurezza ed igiene del lavoro. Per i predetti lavoratori l’infortunio o la malattia non costituiscono giustificato motivo di licenziamento nel caso in cui
essi possano essere adibiti a mansioni equivalenti ovvero, in
mancanza, a mansioni inferiori. Nel caso di destinazione a
mansioni inferiori essi hanno diritto alla conservazione del più
favorevole trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza. Qualora per i predetti lavoratori non sia possibile l’assegnazione a mansioni equivalenti o inferiori, gli stessi vengono avviati, dagli uffici competenti di cui all’articolo 6, comma
1, presso altra azienda, in attività compatibili con le residue capacità lavorative, senza inserimento nella graduatoria di cui all’articolo 8”.
(13) Così, S. Giubboni, Il licenziamento del lavoratore disabile tra disciplina speciale e tutela antidiscriminatoria, in Working
Papers Massimo D’Antona, 2008, 67/08, 1-25; A. Topo, Il licenziamento del lavoratore malato e del lavoratore disabile, in Giur.
it., 2014, 2.
(14) Cass. 23 ottobre 2014, n. 22533.
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
701
Dottrina
Lavoro subordinato
come appena detto, opera solo nella direzione di
reimmettere i lavoratori che versino in tale ipotesi,
nel computo della quota di riserva per l’assunzione
obbligatoria ai sensi dell’art. 3, altrimenti detta distinzione non avrebbe più alcun senso e funzione.
Ricordiamo appena che tale norma, e i limiti al licenziamento che la stessa prevede, sono richiamati
dal nuovo testo dell’art. 18, comma 7, L. n. 300
del 1970 (Statuto Lavoratori), come modificato
dalla L. n. 92 del 2012 (c.d. Legge Fornero), che
prevede espressamente, in caso di violazione dei
suddetti limiti al recesso, la sanzione della reintegrazione nel posto di lavoro e la corresponsione di
una indennità pari alla retribuzione fino a 24 mensilità.
Inoltre essa è parimenti richiamata anche dall’art.
2 del D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23 (“Contratto a tutele crescenti”), quale - residuale - ipotesi di reintegrazione conseguente a licenziamento ingiustificato, oltre a risarcimento pari alle retribuzioni maturate fino alla reintegrazione con un minimo di 5
mensilità.
Stessa sanzione l’art. 18 e l’art. 2 citati prevedono
per la violazione dei limiti di recesso previsti da
un’altra norma in materia di diritti dei disabili,
cioè l’art. 10, comma 3 della stessa L. 68/1999.
Tale art. 10 è interessante anche per un’altra ragione, e cioè perché è l’unica norma che disciplina,
pur nell’ambito dello specifico presupposto di disabilità sussistente al momento dell’assunzione obbligatoria, l’ipotesi di aggravamento del disabile, tale
da produrre una inabilità temporanea alla mansione eventualmente destinata a risolversi, ovvero la
parallela ipotesi di significative variazioni nell’organizzazione aziendale che producono la stessa incompatibilità temporanea alla mansione.
La norma, in questi casi che devono essere accertati da parte delle Commissioni mediche costituite ai
sensi dell’art. 4 della L. n. 104 del 1992 (Commissioni mediche presso le ASL), su richiesta del lavoratore o del datore di lavoro, stabilisce come soluzione, in attesa della ripresa delle condizioni di salute e di idoneità alla mansione, la “sospensione
non retribuita del rapporto fino a che l’incompatibilità persista…”.
Inoltre la norma prevede che in questi casi “... Il
rapporto può essere risolto nel caso in cui, anche attuando i possibili adattamenti all’organizzazione del lavoro, la predetta commissione accerti la definitiva
impossibilità di inserire il disabile all’interno dell’azienda”.
Ebbene, anche queste norme da ultimo citate, sono
in linea con il principio affermato dalla giurisprudenza sopra analizzata, e cioè che esiste il diritto
del lavoratore inidoneo ad essere assegnato a mansioni (anche inferiori) compatibili con la sua inidoneità, ma tale diritto incontra sempre il limite
del potere e delle scelte del datore di lavoro in ordine all’organizzazione della forza lavoro, in ossequio alla libertà d’iniziativa economica prevista
dall’art. 41 della Costituzione.
L’art. 10, comma 3, L. n. 68 del 1999, prescrive in
realtà una forma di compressione (sostenibile) di
tale diritto datoriale allorché impone, al fine di
evitare il licenziamento che costituisce quindi assolutamente l’estrema ratio, di rinvenire le mansioni
compatibili previa attuazione dei “possibili adattamenti” all’organizzazione del lavoro.
Si tratta, è vero di concetti elastici e variamente
valutabili in caso di contenzioso, ma, si è ritenuto
in letteratura (15), che tali “possibili adattamenti”
possono estendersi - al massimo - fino ad una diversa ripartizione di mansioni tra lavoratori (ovviamente entro il recinto dell’art. 2103 c.c.), operazione che peraltro era stata esclusa e ritenuta non necessaria da Cass., SS.UU., n. 7755/1998, ma in
ogni caso non possono estendersi fino a “creare”
ruoli altrimenti inesistenti, ovvero a modificare
l’organizzazione con pregiudizio all’economia, alla
finanza ovvero ai processi produttivi dell’azienda,
che ovviamente il datore di lavoro dovrà dimostrare nel caso intenda adottare un licenziamento dell’invalido ritenuto impossibile da ricollocare.
(15) S. Giubboni, op. cit., 13 s.; F. Bianchi D’urso – G. Vidiri,
Luci e ombre sulla nuova disciplina delle assunzioni obbligatorie,
in Mass. Giur. lav., 733; App. Firenze 8 settembre 2001, in D. &
L. Riv. crit. dir. lav., 2002, 349, con nota di G. Tognazzi.
702
Il panorama normativo e
giurisprudenziale europeo
Sull’impianto giurisprudenziale e normativo appena descritto si sovrappone la normativa comunitaria.
In particolare, la ricostruzione della vicenda e le
relative soluzioni devono essere interpretate anche
alla luce dei principi affermati dalla recente sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea
del 4 luglio 2013, causa C-312/11 che in una procedura promossa contro la Repubblica Italiana per
l’omesso integrale recepimento dei principi e dei
dettati della Direttiva CEE N. 78/2000 del 28 novembre 2000 in materia di parità di trattamento,
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
Dottrina
Lavoro subordinato
ha evidenziato che il nostro ordinamento - di cui
in sede di motivazione della sentenza, sono state
esaminate tutte le norme speciali sopra indicate e
in più il D.Lgs. n. 216/2003 in materia di parità di
trattamento - che ha, per la verità, portata solo
classificatoria e descrittiva - ha concluso per l’insufficiente tutela apprestata da parte dell’ordinamento italiano in favore dei disabili ovvero dei lavoratori colpiti da handicap in punto di loro discriminazione sotto i profili delle condizioni di accesso, svolgimento, progressione e conservazione del
lavoro, sostanzialmente per due ordini di motivi.
Il primo, per una ingiustificata restrizione solo ad
alcune ipotesi di disabilità (e solo ad alcuni datori
di lavoro, individuati dimensionalmente), mentre
al contrario, la Corte Europea riconosce la tutela
ad ogni tipo di “limitazione risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature che, in interazione con barriere di diversa
natura, possono ostacolare la piena ed effettiva
partecipazione della persona interessata alla vita
professionale su base di uguaglianza con altri lavoratori” (16).
Di conseguenza le tutele devono applicarsi a tutte
le persone affette da una disabilità corrispondente
alla definizione appena enunciata.
Per inciso, si osserva fin d’ora che deve trattarsi di
menomazioni durature, quindi tendenzialmente
permanenti, con esclusione di quelle temporanee.
In secondo luogo la Corte ha ravvisato che l’ordinamento italiano non abbia dato compiuta attuazione al disposto dell’art. 5 della Dir. CEE del 27
novembre 2000, n. 2000/78/CE (17).
L’ordinamento italiano avrebbe quindi omesso di
prevedere tali specifici obblighi per i datori di lavoro in funzione antidiscriminatoria.
La Corte in particolare afferma che: “… Dal testo
dell’articolo 5 della direttiva 2000/78, letto in
combinato disposto con i considerando 20 e 21, risulta che gli Stati membri devono stabilire nella
loro legislazione un obbligo per i datori di lavoro
di adottare provvedimenti appropriati, cioè provvedimenti efficaci e pratici, ad esempio sistemando
i locali, adattando le attrezzature, i ritmi di lavoro
o la ripartizione dei compiti in funzione delle esigenze
delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di
accedere ad un lavoro, di svolgerlo, di avere una
promozione o di ricevere una formazione, senza imporre al datore di lavoro un onere sproporzionato” (18).
Nella cennata individuazione delle tipologie di obblighi da imporre al datore di lavoro, la Sentenza
riproduce pedissequamente il “considerando n. 20”
(si tratta delle premesse motivazionali del dettato
normativo, tipiche, come noto, della tecnica legislativa comunitaria) della Dir. n. 78/2000.
Prosegue la Corte sostenendo che tale obbligo deve
riguardare tutti i datori di lavoro, con il solo limite
di evitare loro l’imposizione di un onere sproporzionato, ove per valutare l’esistenza di tale sproporzione, ai sensi del richiamato “considerando n. 21”,
“Per determinare se le misure in questione danno
luogo a oneri finanziari sproporzionati, è necessario
tener conto in particolare dei costi finanziari o di altro
tipo che esse comportano, delle dimensioni e delle risorse finanziarie dell’organizzazione o dell’impresa e della possibilità di ottenere fondi pubblici o altre sovvenzioni”.
Va soggiunto che ulteriore limite e contro-bilanciamento a tale obbligo “attivo” del datore di lavoro è prospettato dalla stessa Dir. n. 78/2000, nel
punto in cui dispone, sempre in funzione di bilanciamento tra interessi contrapposti: “La presente
direttiva non prescrive l’assunzione, la promozione o
il mantenimento dell’occupazione né prevede la formazione di un individuo non competente, non capace o
non disponibile ad effettuare le funzioni essenziali
del lavoro in questione, fermo restando l’obbligo di
prevedere una soluzione appropriata per i disabili” (19).
Esaminata quindi anche, la normativa Europea, va
premesso che la stessa influisce immediatamente
sul regime giuridico del licenziamento ovvero della
tutela del lavoratore affetto da inabilità, non già in
virtù di una immediata e diretta applicazione della
Direttiva nei rapporti tra i privati, ma in ragione
del vincolo imposto al Giudice nazionale di interpretare il diritto interno in modo coerente, orientato e armonizzato con quello comunitario, circostanza che risulta del tutto attualizzabile nelle ipo-
(16) Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sent. del 4 luglio 2013, n. 312/11, Punto 56.
(17) Cfr. art. 5, Dir. CEE del 27 novembre 2000, n.
2000/78/CE: “Per garantire il rispetto del principio della parità
di trattamento dei disabili, sono previste soluzioni ragionevoli.
Ciò significa che il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete,
per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o
di avere una promozione o perché possano ricevere una forma-
zione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del
datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato. Tale soluzione non è sproporzionata allorché l’onere è compensato in
modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica
dello Stato membro a favore dei disabili”.
(18) Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sent. del 4 luglio 2013, n. 312/11, Punto 60.
(19) Considerando n. 17 della Dir. CEE del 27 novembre
2000, n. 2000/78/CE.
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
703
Dottrina
Lavoro subordinato
tesi di cui stiamo trattando, in cui i concetti elastici di “giustificato motivo oggettivo” di cui all’art. 3
della L. n. 604 del 1966 e di “apprezzabile interesse
all’esecuzione parziale” di cui all’art. 1464 c.c. citato, ben si prestano ad essere integrati e riempiti di
contenuto con nozioni e concetti mutuate dall’ordinamento europeo (20).
In particolare, sintetizzando e tornando alla fattispecie concreta che ci occupa, la Direttiva e l’interpretazione di essa fattane dalla Corte di Giustizia Europea non spostano di molto i risultati interpretativi cui erano già pervenuti la giurisprudenza
e il Legislatore italiano.
Quindi, a fronte del diritto alla conservazione del
posto del lavoratore divenuto (totalmente o parzialmente) inabile alla mansione e al suo reinserimento con mansioni compatibili, sussiste pur sempre il diritto - contrapposto - del datore di lavoro a
verificare se alla luce della sua attuale organizzativa
aziendale, siano presenti ruoli vacanti ovvero mansioni “libere”, equivalenti a quelle di provenienza
ovvero anche inferiori, compatibili con l’attuale
stato di salute del lavoratore.
Si ritiene che al datore di lavoro, ora, rispetto al
passato (21), alla luce dell’indirizzo espresso dalla
Corte di Giustizia Europea, possa essere richiesto,
di ripartire diversamente le mansioni esistenti, in
modo tale da reperire le mansioni compatibili da
assegnare all’infermo (22).
Tale obbligo come già accennato, era già peraltro
rinvenibile, in via interpretativa, dal dettato normativo dell’art. 10, comma 3, della L. n. 68/1999
nella parte in cui, al fine di evitare il licenziamento al disabile “aggravato”, imponeva l’adozione di
“possibili adattamenti nell’organizzazione del lavoro”, che già la giurisprudenza nazionale aveva rinvenuto in comportamenti datoriali consistenti in
una “redistribuzione delle mansioni già affidate ai
lavoratori presenti in azienda”, con il limite tuttavia invalicabile di escludere che ciò possa “esigere
di apportare sostanziali modifiche all’organizzazione
produttiva” (23).
Ovviamente tale ripartizione di mansioni, per poter essere richiesta al datore, non deve comportare
lesioni dei diritti di qualificazione professionale degli altri lavoratori coinvolti nel processo o, al contrario, l’insorgenza di diritti al superiore inquadra(20) Cfr. CGUE 7 settembre 2006, Causa n. 81/2005 e 5 ottobre 2004, Causa n. 397/2001.
(21) Cfr. Cass., SS.UU. civili, sent. n. 7755 del 1998.
(22) Cfr. CGUE, sent. del 4 luglio 2013, n. 312/11, Punto 60:
“la ripartizione dei compiti in funzione delle esigenze delle situazioni concrete”; considerando 20 della Dir. CEE del 27 no-
704
mento da parte degli stessi, con ingiustificato ed
aggiuntivo onere economico aziendale a titolo, rispettivamente, di danno da dequalificazione ovvero di retribuzioni superiori.
Al contrario non è richiedibile al datore di lavoro
né una “creazione” di ruoli o mansioni inesistenti
in organico, né l’eliminazione dei medesimi, comportando ciò quella modifica sostanziale alla struttura organizzativa che è ravvisata quale limite del
diritto alla ricollocazione.
Né ovviamente sono richiedibili al datore di lavoro, in conseguenza di tale operazione, oneri finanziari aggiuntivi.
La disciplina contrattuale nazionale
La questione che ci occupa è stata fatta oggetto di
analisi e disciplina da parte di alcuni contratti collettivi nazionale.
Il Contratto Collettivo per l’Igiene Ambientale e
la raccolta rifiuti, ad esempio, regola la materia in
modo sostanzialmente conforme alle soluzioni qui
sostenute e già elaborate dalla giurisprudenza esaminata.
In primo luogo, si attribuisce al datore di lavoro il
diritto di accertare in ogni momento l’idoneità psico fisica del lavoratore a svolgere le mansioni per
le quali è stato assunto o successivamente adibito.
La legittimità di tale pattuizione collettiva è riconosciuta dalla recente giurisprudenza che ne ha dato pacifica applicazione (24).
All’esito delle visite, che devono essere compiute
dal medico competente, salvo il sindacato e la revisione da parte delle Commissioni mediche pubbliche nominate ai sensi dell’art. 4, L. n. 104/1992
richiamata dagli artt. 4 e 10 della L. n. 68/1999, i
lavoratori potranno risultare:
definitivamente e totalmente idonei;
definitivamente e totalmente inidonei a qualsiasi
mansione;
parzialmente o temporaneamente inidonei alla
mansione, con residua idoneità allo svolgimento di
una mansione diversa da quella assegnata.
Nei primi due casi, nulla quaestio, il lavoratore viene riassegnato alla mansione già assegnata, ovvero,
nel secondo, viene licenziato per inidoneità alla
mansione ai sensi dell’art. 3, L. 604/1966.
vembre 2000, n. 2000/78/CE.
(23) Cfr. App. Firenze del 8 settembre 2001, in Riv. crit. dir.
lav., 2002, 349, cit.
(24) Cass., Sez. lav., 18 giugno 2012, n. 9967, in Dir. prat.
lav., 2013, 26, 1678.
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
Dottrina
Lavoro subordinato
Per le ipotesi di accertata inidoneità definitiva, ma
parziale, ovvero di inidoneità temporanea, con residua idoneità in entrambi i casi allo svolgimento
di mansioni diverse, il CCNL Sevizi Ambientali
prospetta un procedimento endo-aziendale, finalizzato a verificare la sussistenza, nell’organizzazione
del datore di lavoro, di mansioni, anche inferiori,
compatibili con il modificato stato di salute del lavoratore, in modo da soddisfare l’interesse del datore di lavoro a non modificare la propria organizzazione lavorativa, così come divisato dalle Sezioni
Unite del 1998.
Tale procedura prevede il coinvolgimento della Direzione Aziendale, delle RSA delle OO.SS. stipulanti il CCNL e del lavoratore stesso, con redazione e sottoscrizione, da parte di tutti i partecipanti,
di un verbale, nel quale il lavoratore dichiarerà di
accettare le mansioni compatibili, anche inferiori,
eventualmente rinvenute dall’accertamento.
Nel caso di accettazione di mansioni inferiori, il lavoratore manterrà il precedente trattamento retributivo, come già esposto.
Ove non vengano rinvenute mansioni compatibili,
ovvero il lavoratore non accetti quelle rinvenute,
si potrà procedere al licenziamento per giustificato
motivo oggettivo, con eventuale applicazione delle
norme contrattuali in materia di esonero agevolato, che prevedono la corresponsione di un’indennità una tantum alle condizioni e misure definite dal
contratto.
La giurisprudenza già citata (nt. 20), ribadisce che
l’indennità spetta sia nel caso di mancato rinvenimento di mansioni adeguate nell’ambito dell’organizzazione aziendale, sia nel caso di rifiuto delle
stesse da parte del lavoratore.
Notazioni conclusive
In conclusione, sulla specifica questione, si può
convenire che il lavoratore che, alla visita del medico competente - o della Commissione medica di
cui all’art. 4, L. n. 104/1992 accessibile anche al
datore di lavoro - risulti definitivamente inidoneo
alla mansione assegnata con residua idoneità ad altra mansione, potrà essere licenziato per giustificato motivo oggettivo solo alla condizione che il datore di lavoro provi e dimostri che, alla stregua dell’attuale organizzazione e suddivisione di compiti o
ruoli lavorativi, magari previo tentativo di spostamento di altri lavoratori e ripartizione di compiti
(in ossequio al nuovo indirizzo comunitario), non
(25) Cfr. Cass. n. 26112/2014.
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
sussiste nell’organigramma attuale dell’azienda una
mansione compatibile con l’attuale stato di salute
del lavoratore.
Ovviamente la strutturazione dell’organigramma e
la ripartizione delle funzioni e dei ruoli è terreno
proprio dell’insindacabile libertà dell’imprenditore
del datore di lavoro, che potrà lamentare la determinazione di un pregiudizio economico o all’attività produttiva da parte del datore di lavoro, che osti
alla conservazione del posto.
Opportunamente l’accertamento delle mansioni disponibili sarà effettuato congiuntamente con il lavoratore o con le OO.SS. cui conferisce mandato,
al fine di pervenire ad un “accertamento negoziale”
che precluda il ricorso all’azione giudiziaria, così
come propone la disciplina collettiva esaminata.
Per completezza di esposizione, si aggiunge che tale
licenziamento, annoverato tra le cessazioni del rapporto “oggettive”, dovrà essere preceduto, solo nel
regime anteriore alla data di entrata in vigore del
“Contratto a tutele crescenti” (7 marzo 2015), dal
tentativo di conciliazione presso la Direzione Territoriale del Lavoro ai sensi dell’art. 7, L. n.
604/1966, come modificato dalla L. n. 92/2012.
Per quanto riguarda, invece, la questione afferente
l’inidoneità temporanea alla specifica mansione,
con idoneità residua per altre mansioni, il fattore
della temporaneità dell’inibizione alla prestazione
convenuta, come abbiamo visto in base alla giurisprudenza citata (25) - peraltro in modo non condivisibile - non consente di operare il legittimo licenziamento, specialmente nei casi in cui la cessazione dell’impedimento è diagnosticata a breve.
Tuttavia, poiché un eventuale reiterarsi delle proroghe delle temporanee inabilità, attestate dai medici competenti, comporterebbe di fatto l’interruzione di quel bilanciamento tra i contrapposti interessi che, come abbiamo visto, costituisce il centro
argomentativo sia dell’impianto normativo nazionale che di quello comunitario, la soluzione che
appare più ragionevole, sarebbe quella di operare
secondo uno strumento già previsto, sia, in via generale, dall’ordinamento civilistico (art. 1256,
comma 2, c.c.), e ritenuto applicabile anche ai rapporti di lavoro (26), sia, in via di interpretazione
analogica e sistematica, dalla normativa speciale in
tema di tutela del lavoro dei disabili “aggravati”
(art. 10, comma 3, L. 68/1999): la unilaterale sospensione non retribuita del rapporto di lavoro per
tutto il periodo di accertata inidoneità alla mansione.
(26) Cfr. Cass. n. 12249/1991.
705
Dottrina
Lavoro subordinato
Tale soluzione è ritenuta in generale, ammissibile
dalla giurisprudenza nelle ipotesi di impossibilità
sopravvenuta e temporanea della prestazione contrattuale per cause non imputabili al debitore (lavoratore); essa, in ogni caso, potrà protrarsi non oltre i limiti dell’interesse del creditore (datore di lavoro) al conseguimento della prestazione, senza responsabilità del debitore per il ritardo (27).
Oltre questi limiti, permane la possibilità della risoluzione del contratto. Abbiamo già ampiamente
visto peraltro, quanto restrittivamente venga inteso l’interesse del datore di lavoro, a ricevere una
prestazione inferiore.
Si ravvisa che questa soluzione combini e armonizzi - in ossequio ai principi giuridici sopra esaminati
- gli interessi del lavoratore alla conservazione del
posto, e del datore di lavoro a non stravolgere l’or-
ganizzazione aziendale, costringendo cioè l’imprenditore ad adibire l’infermo ad attività inutili per
l’azienda e soprattutto assoggettando la stessa ad
una inaccettabile precarietà organizzativa, inizialmente definita nel tempo (prima prognosi del medico competente, ex art. 41, comma 7, D.Lgs. n.
81/2008), ma poi di fatto indeterminata, per effetto
delle successive proroghe delle attestazioni di inabilità.
D’altro canto tale soluzione risulterebbe, per il lavoratore, più favorevole perfino di quella prospettata dalla contrattazione collettiva esaminata, la
quale, in ipotesi di mancato rinvenimento congiunto delle mansioni concretamente compatibili
con lo stato di salute del lavoratore, prevede addirittura la risoluzione del rapporto di lavoro.
(27) Cfr. Cass. n. 1037/1995 e n. 5496/1982.
706
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
Dottrina
Processo
Processo nella storia
Riflessioni di un avvocato
moderno sull’orazione di Lisia
contro Eratostene
di Enrico Gragnoli - Professore ordinario di Diritto del lavoro nell’Università di
Parma (*)
L’autore rilegge l’orazione di Lisia contro Eratostene traendone una guida per l’avvocato moderno. Nell’orazione il processo stesso si impone come punto nodale dell’esperienza umana. Lisia
rappresenta il simbolo della difesa e della professione o vocazione dell’avvocato e, nonostante
la sua magistrale arringa, Lisia è consapevole che perderà. Parlando di questa vicenda di molto
tempo fa, l’autore finisce per discorrere del disagio dell’avvocato moderno di fronte all’incertezza, all’approssimazione e alla sofferenza del processo.
La difesa delle ragioni della dignità e
della famiglia contro la tirannide, non
solo quella dei Triakonta
Questa non è una opera di storia della letteratura,
né del diritto. Non ci sarebbero le competenze, né
è più tempo per costruirle. È una riflessione da avvocato sul lavoro più affascinante di un logografo
famoso, vissuto a cavallo fra il quinto e il quarto
secolo avanti Cristo; l’orazione rimane impressa
nella memoria (anche degli studenti) per molte ragioni. Lo stile è perfetto, a cominciare dalla magistrale invocazione finale: “cesserò di argomentare.
Avete ascoltato, avete visto, avete sofferto, lo avete, decidete” (1). La ricostruzione dei comportamenti definisce con poche battute i caratteri e pone il lettore in grado di comprendere e valutare situazioni drammatiche, al punto da richiamare non
tanto la vivacità di Menandro, quanto il senso della dimensione tragica della vita, proprio di Sofocle.
Il tema è noto; a seguito dell’uccisione del fratello
Polemarco, fra il 404 e il 403, da parte dei Trenta
tiranni, dei Triakonta, e della sua stessa fuga a Megara, rocambolesca e fortunata, ritornato in Atene
Lisia accusa Eratostene, uno dei Triakonta, dell’o(*) È il testo dell’intervento tenuto il 25 febbraio 2015 presso il Dipartimento di giurisprudenza dell’Università degli Studi
di Parma. Questo lavoro è dedicato agli insegnanti di un liceo
di tanti anni fa, che hanno spiegato Lisia e come e perché
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
micidio, che ha provocato una grave serie di sciagure, familiari e patrimoniali. Per ottenere la condanna, deve affrontare il ritrovato clima di concordia, almeno apparente, fra le fazioni politiche nelle
quali era stata divisa la città durante l’oligarchia.
Di fronte alla pacificazione fra “‘quelli della città’,
cioè i cittadini della lista dei Tremila rimasti in
Atene (…), e ‘quelli del Pireo’, cioè i democratici
vincitori che rientravano”, il compito di Lisia era
di notevole difficoltà. Le prima pagine del discorso
rimangono impresse negli anni in chi le legge, come, a maggiore ragione, deve essere accaduto a coloro che le udirono, giudici o spettatori.
Ai pochi sfortunati che vogliono fare pratica presso
il mio studio legale, chiedo o, sarebbe meglio dire,
impongo la lettura almeno di questa dodicesima
orazione del corpo di Lisia; una giovane, la quale
aveva affrontato la prova, mi disse che aveva compreso lo scopo, da ravvisare nelle lucide parole che
fanno emergere le tesi dell’accusa. Esse seguono i
fatti come inevitabile conseguenza del loro svolgersi, sulla base di una razionale e, allo stesso tempo,
vivace illustrazione della condotta, al fine del suo
inquadramento nella storia e secondo le regole di
amarlo, in una scuola ora scomparsa. Hanno anche consigliato e persuaso a studiare la giurisprudenza e non le lettere.
(1) L’Autore ha tradotto i soli brani di Lisia.
707
Dottrina
Processo
diritto. Non è questo il motivo; esso è dato dal fatto che Lisia perse.
In qualche modo, all’inizio del senso stesso dell’argomentazione processuale (o, almeno, degli atti difensivi sopravvissuti e noti), il concetto di difesa si
mostra in questa orazione in una scultorea complessità morale, tanto articolata, quanto pacata nel
suo riemergere dal nostro passato, come i bassorilievi del Partenone, composti e completi nel fornire l’immagine della vita. Se l’abilità e la sagacia di
Lisia traspaiono dalle sue stringenti affermazioni, il
processo stesso si impone come punto nodale dell’esperienza umana, per quanto esso mostra nella
ricerca della dike e per il rischio costante dell’insuccesso. Lisia non è il simbolo solo della difesa e
della professione o della vocazione dell’avvocato,
ma, prima di tutto, spiega che cosa sia il conflitto,
nella dialettica delle tesi e delle pretese, ma anche
nel pericolo di naufragio al quale sono sempre
esposte le argomentazioni, con una ansia maggiore
se la posta in palio è alta, come era per la decisione
sul significato della morte di Polemarco, della fuga
di Lisia e della rovina della sua famiglia.
Non mi avvio a una riflessione storica, ma volta a
ricavare da questo frammento una qualche illuminazione giuridica o etica, sul valore esistenziale del
processo e della contrapposizione di fronte a un giudice fra la propria ricostruzione del significato della
vita e l’opposta idea. Le indagini storiche sono portate, con dovizia di suggestioni, a dare una lettura
politica del tentativo di Lisia e del suo discorso. Forse qualche scopo di tale genere poteva essere alla
base della sua iniziativa e sarebbe eccessivo negarlo.
Tuttavia, agli occhi di un difensore e, cioè, di chi
ogni giorno si cimenta nel processo ed è abituato a
vivere nella relativa angoscia, pochi profili del ragionamento di Lisia portano verso la dimensione
della politica, seppure intesa nel significato greco
dell’espressione. In questa orazione, Lisia non si pone affatto il problema di “vivere da democratico” in
Atene (per richiamare il titolo di una nota opera
contemporanea), ma cerca di trovare una soluzione
processuale a una tragica esperienza personale e familiare e propone la dimensione degli affetti e del
valore della dignità e del rispetto per la vita, contro
qualunque logica di interesse.
Proprio l’illustrazione dei fatti e la perorazione sulle
motivazioni della responsabilità di Eratostene sono
incompatibili con il perseguimento di una diretta
utilità politica, sebbene nel senso più nobile del termine. Questo traspare se alla ricerca storica si contrappone una verifica sulla strategia, e in questa sede può non essere irrilevante il contributo (non da
708
conoscitore della storia del diritto o della letteratura) di un … collega successivo di qualche secolo.
Poi, se anche non sapessi aggiungere nulla alla spiegazione del senso ultimo dell’orazione o se sbagliassi
nel comprenderla, spero di essere perdonato, perché,
parlando di questa vicenda di molto tempo fa, finisco per discorrere del disagio di oggi, di fronte all’incertezza, all’approssimazione e alla sofferenza del
processo. I valori che esso invoca sono sproporzionati rispetto alle risorse culturali e morali che difensori e giudici riescono a mettere in campo.
Il richiamare la giustizia a guardare alle vicende
umane e il non riuscire a tradurla in decisioni conformi suscitano una tensione irrisolta, la quale tocca la vita di tutti i protagonisti dei giudizi, siano
essi simili più alla tragedia di Sofocle o alla commedia di Menandro, se non a quella di Aristofane.
Se anche non riuscissi a discorrere con proprietà e
con competenza di Lisia, parlerei comunque di me
stesso e, per usare una felice espressione di uno
scrittore parmense, vi sarebbe poco da obbiettare,
perché sarebbe un “affare interno”.
Avendo riflettuto a lungo sulla sua iniziativa, Lisia
doveva presagire molto del suo destino, e ciò rende
la sua figura più intensa rappresentazione del senso
drammatico della vita. Indicata sempre come
esempio dell’intensità e dell’incisività della pura
prosa attica, la perorazione finale lascia un dubbio
immediato … a un avvocato: “cesserò di argomentare. Avete ascoltato, avete visto, avete sofferto, lo
avete, decidete”. Perché “lo avete”? Un giudice ha
sempre o quasi nelle sue mani l’imputato. Se questi
è contumace, ha nelle sue mani il suo onore.
A differenza di quanto si ricava dalle interpretazioni abituali, volte a sottolineare che Eratostene era
fra i pochi dei Triakonta a non essere fuggito, così
che i giudici lo avevano in Atene, e a prescindere
dalla natura del processo nel quale era coinvolto,
la parola è invero singolare, nell’assoluta sintesi
della perorazione, e un minimo distonica rispetto
al suo andamento lineare. Tale locuzione può sottolineare la difficile decisione di proporre l’azione,
così che il termine può essere letto come un indice
della complessità della scelta di Lisia di affrontare
il giudizio e quale presagio della sconfitta. Se anche la parola “echete” non dovesse essere vista così,
come credo, Lisia era certo avveduto conoscitore
delle dinamiche ateniesi e non gli può essere sfuggito quanto fosse alto il pericolo della soccombenza. Tale consapevolezza è il primo tassello dal quale
muovere nella comprensione del valore dell’orazione, vera spiegazione del raccordo tracciato con
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
Dottrina
Processo
maestria fra i fatti e il loro significato, fra i comportamenti e la loro qualificazione.
Sapendo di affrontare un cimento dal quale, con
ogni probabilità, sarebbe risultato sconfitto, Lisia
non deve averlo fatto né per obbiettivi politici, né
per scopi di interesse immediato, tanto meno patrimoniale; se fosse stato così fiducioso nelle sue capacità o così ingenuo, non avrebbe argomentato in
modo tanto sottile e non sarebbe stato ricordato
nei secoli. Al contrario, Lisia ha avviato la sua battaglia perché ha valutato che la giustizia imponesse
lo sforzo, nonostante tutti i pronostici fossero sfavorevoli e, in fondo, questa è la dimostrazione della più alta fiducia nel processo, quasi visto come
apportatore di una catarsi in sé, a prescindere dall’esito, se non altro per la possibilità di una illustrazione della vicenda umana, affinché essa sia sottratta all’indistinto scorrere dei fatti e sia vista nel
suo dipanarsi, sia narrata e sia qualificata, sia colta
nella sua individualità, quale frammento significativo e distinto della vita.
L’esito finale sfavorevole nulla toglie all’importanza di questa dimostrazione di fede nel processo e,
se mai, proprio perché manca il lieto fine, la fa risaltare in misura maggiore, come se la difesa in sé
potesse avere un valore e assurgere a coronamento
del dramma delle vittime. Il concetto ritorna in diversi processi dell’epoca, veri o letterari, così che il
caso di Lisia può essere messo in relazione con altri, non meno famosi. In qualche modo, nell’accettare e nel provocare il suo destino giudiziale, Lisia
ha reso se stesso e la sua orazione modelli dell’ironia tragica, tanto cara al suo concittadino Sofocle.
La principale ragione per la quale si deve
ritenere provata la soccombenza di Lisia
Lisia e Polemarco sono personaggi di una opera letteraria celeberrima (se così può essere definita),
con una posizione diversa, poiché il primo assiste
silenzioso ai ragionamenti altrui, mentre il secondo
è parte attiva della discussione. Gli studiosi contemporanei sono portati a non dare troppo spazio
all’analisi della Repubblica di Platone nel commento dell’orazione Contro Eratostene, e ciò meraviglia. È impossibile attribuire a Platone il minimo
intento di ricostruzione storica o filologica, ma, come avverte Proclo, ciò nulla toglie all’importanza
indiretta del dialogo, perché “nel caso dei discorsi
di ciascun personaggio l’imitazione si costruisce nel
modo più accurato: da un lato, per quelli che parlano come persone anziane, dall’altro, per quelli che
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
parlano ricorrendo alle favole, per quelli che parlano come dei sofisti”.
Per quanto sia difficile la datazione sia della Repubblica, sia dell’orazione Contro Eratostene, non ci sono dubbi realistici sul fatto che questa ultima sia anteriore, di pochi o di molti anni, ma in misura tale
da rendere evidente che Platone conosceva con precisione non solo la tragica fine di Polemarco, ma
anche la successiva vicenda processuale. Lisia non
aveva certo sentimenti di avversione nei confronti
di Socrate, se è stato tramandato che abbia scritto e
gli abbia regalato senza esito una apologia, del tutto
diversa da quella poi pronunciata dallo stesso Socrate, perché attenta alla dimensione processuale e alla
ricerca del relativo successo, se si vuole prestare fede
(e non vi è motivo per non farlo) a una tradizione
giunta fino a Cicerone e ripresa da un controverso
passo di Senofonte, nel quale questi racconta di una
ulteriore apologia preparata in difesa di Socrate.
Salvo pensare che queste si moltiplicassero (forse ve
ne è stata persino una di Critone, oltre a quella dello stesso Senofonte), è plausibile che Senofonte si
riferisse proprio al testo di Lisia.
Quando Platone richiama nella Repubblica Cefalo,
Lisia e Polemarco e, cioè, una famiglia colpita dall’oligarchia dei Triakonta, lo fa con uno scopo preciso (e i brani del citato commentario di Proclo sul
ruolo di Polemarco non ci sono stati tramandati).
Il primo quesito è posto dal silenzio di Lisia, triste
destino per un logografo o, se si consente la sovrapposizione di concetti moderni, per un difensore professionista, non a caso chiamato in causa con
uno spazio molto maggiore nel Fedro, nel quale è
centrale una sua pretesa orazione. La presenza di
Lisia e del padre Cefalo, che, come ricorda Proclo,
ragiona da persona anziana, si collega al ruolo assunto da Polemarco e non è irrilevante il fatto che
Lisia sia un testimone silenzioso della conversazione nella quale spiccano il padre e il fratello. La …
riga nella quale si richiama Lisia è di interpretazione difficile, anche se la sua menzione non può essere casuale. A maggiore ragione, non è occasionale il suo tacere, tanto più sorprendente se si considera l’ampio spazio dedicato a Lisia nel Fedro e la
sua vocazione di oratore, che avrebbe suggerito un
suo intervento, proprio in relazione a quel criterio
di coerenza della posizione assunta nella discussione con la natura e il carattere dei personaggi.
Per quanto sia complessa la comprensione del pensiero di Platone (e lo conferma l’orientamento
quanto mai diffuso nel secolo scorso sul valore criptico e simbolico di molti suoi passi), il silenzio di Lisia suggerisce due possibili letture complementari;
709
Dottrina
Processo
per un verso, se mai ve ne fosse stato bisogno, esso
sottolinea il fatto che la figura di Polemarco non
deve essere vista in connessione solo con la sua
morte, ma anche con la successiva vicenda processuale, come, peraltro, si ricava dalle parole dello
stesso Polemarco e da quelle di Socrate. Per altro
verso, il tacere di Lisia suona come una sorta di preciso allontanamento dell’idea di giustizia discussa da
Platone, in particolare nel primo libro, dalla dimensione processuale, tanto più importante se si considera il tentativo di Lisia di ottenere la condanna di
Eratostene. In questo modo, si riprendono temi dell’Apologia di Socrate e, in particolare, del Critone,
a maggiore ragione se si presta fede al fatto che Lisia
abbia scritto una orazione a favore di Socrate, come
è plausibile, nonostante l’opposta idea di buona parte degli studiosi moderni, e come ha creduto Cicerone, il quale ha sottolineato che, se avesse seguìto
i consigli di Lisia, Socrate avrebbe avuto possibilità
di successo del tutto differenti.
Il silenzio di Lisia sottolinea che l’analisi del tema
della giustizia e la sua stessa configurazione non
passano attraverso la dimensione processuale,
estranea al complessivo approccio non solo del libro primo, ma dell’intero dialogo, orientato su una
visione aliena rispetto al giudizio, quasi contrapposta. Questa posizione di Lisia è una premessa al
ruolo assunto da Polemarco. A Platone non può
essere sfuggito che l’orazione Contro Eratostene
contiene un richiamo e, in fondo, un elogio a Socrate, poiché, nella parte più dura della perorazione
sulla responsabilità di Eratostene, si legge: “voi siete pieni di ira nei confronti di tutti coloro che
vennero nelle case, le vostre, facendo ricerca o di
voi o dei vostri. Però, se occorre, a causa della salvezza di loro stessi, avere comprensione per coloro
che hanno provocato la rovina di altri, per quelli
avreste una comprensione più giusta”. Al contrario, aveva scritto, poche righe prima: “ora, da chi
mai otterrete giustizia se ai Triakonta è lecito dire
che compivano gli ordini ricevuti dai Triakonta?”.
Come ricorda un Autore contemporaneo, i “Trenta,
per consolidare la loro posizione, avevano cercato
di coinvolgere nelle loro iniziative illegali molti cittadini in vista, obbligati ad arrestare altri cittadini o
a perquisirne le case. È noto il caso di Socrate, che
rifiutò di partecipare all’arresto di Leone di Salamina”, come ricorda la stessa Apologia di Socrate e,
quindi, come Platone aveva scritto. Pertanto, non è
per nulla casuale la scelta di Polemarco per la discussione sul senso della giustizia e per il commento
a un verso di Simonide, se si considera come, vittima di un crimine di Stato, lo stesso Polemarco di-
710
scuta con colui che ha rifiutato di compierne uno
analogo e, di fatto, seppure in modo implicito e indiretto, è lodato dall’orazione di Lisia. Né può sfuggire come Polemarco veda Socrate per la strada e,
anzi, lo faccia raggiungere da uno schiavo, il quale
lo trattiene in attesa dell’arrivo dello stesso Polemarco. L’incontro sembrerebbe disegnato in modo
alquanto singolare da Platone, se non sapessimo che
lo stesso Polemarco era stato fermato sulla via da
Eratostene: “e (…) non nella sua casa, ma sulla strada (…) avendolo raggiunto lo condusse via”.
Dopo questo incontro (il cui significato, in difetto,
non si comprenderebbe), Socrate e Polemarco
giungono proprio a quella dimora del secondo che
aveva attirato l’avidità dei Triakonta. Qui discutono della giustizia, in un significato che potremmo
chiamare distributivo, alla luce di una premessa
molto evidente per Platone e per i suoi lettori.
Due vittime di crimini commessi in nome dello
Stato dibattono sullo Stato e sulla giustizia, fermo
il fatto che Socrate si era trovato in una condizione simile a quella che aveva portato alla morte di
Polemarco e non aveva nuociuto ad alcuno e, se si
presta fede alla tradizione, fermo il fatto che il fratello di Polemarco aveva cercato di recare aiuto a
Socrate, seppure senza esito. Quali migliori protagonisti si potrebbero immaginare per un dialogo
sulla giustizia e sullo Stato di due perseguitati in
modo iniquo dallo stesso Stato, fuori da ogni ipotesi di collusione che riguardasse entrambi?
La presenza di Lisia avverte che il valore simbolico
della discussione non si ferma a questo stadio, perché, seppure in modo implicito (e forse neppure
troppo), resta sullo sfondo il tema del processo. Il
parallelo destino di Socrate e di Polemarco deve
avere riguardato anche l’esito dei rispettivi giudizi,
poiché, in difetto, il quadro tracciato da Platone
perderebbe molto del suo significato. Socrate e Polemarco sono chiamati a discutere di giustizia non
solo perché deceduti per scelta dello Stato, ma anche perché il loro destino è analogo al punto che
essi non hanno avuto successo nei loro processi.
Come Socrate non perde la sua fiducia né nella
giustizia, né nello Stato nonostante la sua morte,
come risulta dal Critone, così si può dire di Polemarco, a sua volta soppresso per mezzo della cicuta.
Perciò, fermi i temi dello Stato e della giustizia, ai
quali (tra gli altri) non è dedicato il solo primo libro, ma l’intero dialogo, la costruzione del loro significato non deve portare allo scontro processuale, ma su un altro livello, come l’intera riflessione
di Platone cerca di dimostrare. Non è l’opinione di
chi ha accusato Eratostene e, con ogni probabilità,
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
Dottrina
Processo
si è offerto di difendere Socrate e, non a caso, Lisia
rimane in silenzio, poiché non ha argomenti per
contribuire alla ricerca.
Se si condivide questo punto di vista (il quale è
avvalorato dalla specifica discussione intercorsa fra
Polemarco e Socrate), si può immaginare che …
per un avvocato l’orazione Contro Eratostene sia
molto più promettente della Repubblica. Anzi, a
dire il vero, si dovrebbe muovere dall’Apologia di
Socrate e, cioè, dall’esasperata difesa delle proprie
ragioni teoriche fuori dalla ricerca della persuasione e contro l’idea stessa del tentativo di stimolare
la benevolenza dei giudici; la Repubblica conferma
l’avversione di Platone per il processo quale discussione e, in fondo, sottolinea quella dimensione di
relatività del dibattito e della verità processuale
che i difensori e i giudici di ogni epoca avvertono.
Il ragionamento di Socrate e di Polemarco
nel primo libro della Repubblica e le
motivazioni per le quali si deve ritenere che
Eratostene sia stato assolto
La massima di Simonide chiamata a costituire lo
spunto del dialogo fra Socrate e Polemarco può essere tradotta così: “è giusto rendere a ciascuno ciò
che gli è dovuto”, e la relativa discussione mette in
qualche modo in campo il tema della distribuzione,
come è avvertito da Aristotele, nel volgere di qualche anno e in un contesto argomentativo diverso.
Socrate provoca Polemarco: “‘credi che ai nemici
si debba restituire quello che è dovuto?’ ‘Di certo!
Si deve loro proprio quanto si è tenuti a rendere e,
fra nemici, io credo, questo solo si deve dare, il
male’”, secondo una argomentazione non solo abituale nel pensiero comune, ma non estranea alla
fondazione di qualunque ordinamento positivo, in
particolare se imperniato sull’azione o, comunque,
sull’iniziativa di parte volta a promuovere l’esercizio dell’attività giurisdizionale. Non a caso, continua Socrate, “‘dunque (…), parrebbe proprio che
Simonide, sia pure in forma poetica, avesse per
cenni definito il giusto, in quanto come risulta, egli
lo interpretò come un dare a ciascun quello che gli
spetta. E proprio questo intendeva dicendo ‘il dovuto’. ‘Perché, non sei d’accordo?’”
Come è tipico dei dialoghi platonici, da questa apparente condivisione del punto di vista proposto come spunto per la riflessione, nuove il ragionamento
di Socrate, a dire il vero molto meno serrato e incisivo che in altre occasioni. Peraltro, esso esula dal
tema di questa ricerca, se non per quello che può
servire a illuminare la sorte di Polemarco, il quale,
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
in un primo tempo, dopo varie battute, afferma: “‘e,
allora, in quale senso, ovvero a vantaggio di chi diresti che la giustizia è utile anche in pace?’ ‘Nel
campo delle attività, Socrate’. ‘Intendi i rapporti
personali, o che altro?’ ‘Proprio i rapporti personali’”.
Dopo una protratta discussione, Socrate chiede:
“‘sarà davvero da uomini giusti il recare offesa a
qualcuno, chiunque esso sia?’ ‘Non c’è il minimo
dubbio; ai malvagi e ai nemici non si può fare altro
che recare offesa’”. Poco sotto: “‘E per gli uomini,
amico mio? Non dovremmo sostenere lo stesso,
che, cioè, se li trattiamo male, peggiorano proprio
in rapporto alla loro specifica virtù di uomini?’ ‘Di
certo’ (…). ‘E allora? Renderemo forse con la giustizia ingiusti i giusti? Insomma, faremo malvagio
chi è buono, addirittura ricorrendo alla virtù?’ ‘Ma
questo è assurdo’ (…). ‘E il giusto non è forse un
bene?’ ‘Assolutamente’. ‘E, dunque, Polemarco,
non può essere una prerogativa del giusto il recare
danno, né a un amico né a chiunque altro; lo sarà
semmai del suo contrario, ossia dell’ingiusto’. ‘Sono
proprio convinto del fatto che tu sostenga il vero,
Socrate’ disse. ‘Non è dunque saggio chi sostiene
che la giustizia consiste nel rendere a ciascuno quel
che gli spetta, e con ciò intende che l’uomo giusto
deve restituire male per male ai nemici, e bene per
bene agli amici. Costui però non dice la verità,
perché a noi è risultato chiaro che in nessun caso è
giusto fare del male a qualcuno’. ‘Sono del tuo stesso avviso’, riconobbe egli. ‘E, dunque’, lo incalzai,
‘ci batteremo insieme, tu e io, se qualcun altro attribuisse questo principio a Simonide o a Biante o
a Pittaco o a qualcun altro di quegli uomini sapienti e beati?’ ‘Da parte mia’, affermò, ‘sono pronto a
fare la mia parte nella lotta al tuo fianco’”.
Questa ultima espressione è quanto mai indicativa,
poiché Socrate e Polemarco non raggiungono solo
una conclusione di carattere ricognitivo e di natura
critica, ma dichiarano, nella prassi dei loro comportamenti, una sorta di impegno attivo, così sottolineando una assunzione di responsabilità operativa rispetto alla convinzione raggiunta nella giustizia. In larga misura, se non nella sua netta maggioranza, questa parte del dialogo non è correlata
alla personalità e al carattere dei due protagonisti,
ma vale la conclusione opposta per quanto attiene
al risultato finale, nel quale essi dichiarano non solo di condividere la stessa idea, ma di volere “lottare”, addirittura l’uno al fianco dell’altro. Se uno è
l’autore della sua sfortunata Apologia, che Cicerone ritenne qualche secolo dopo priva della minima
possibilità di successo sul piano giudiziale e, anzi,
votata a provocare il martirio, l’altro è il fratello
711
Dottrina
Processo
stesso del logografo e, cioè, di colui che aiuta nell’azione o nella difesa in giudizio e, seppure dopo la
sua morte, è il protagonista di una orazione dal dichiarato intento processuale.
Perché abbia un senso e non sia troppo enfatica o
persino eccessiva, questa immagine di lotta comune si deve collegare alla sorte dei due uomini, così
che persino le vittime di atroci illiceità, oltre tutto
commesse in nome dello Stato, riconoscano come
la giustizia non suggerirebbe di “rendere a ciascuno
quel che gli spetta, e con ciò si intende che l’uomo
giusto deve restituire male per male ai nemici, e
bene per bene agli amici”, “perché a noi è risultato
chiaro che in nessun caso è giusto fare del male a
qualcuno”. Perché il ragionamento si scolpisca nell’animo del lettore con l’icastica incisività che ha
(a prescindere dal fatto che esso sia convincente
nel suo sviluppo argomentativo), il parallelismo fra
Socrate e Polemarco deve essere pieno, sia per
quanto attiene alla tragedia esistenziale e, cioè, alla
loro morte, sia per lo sviluppo processuale. Non a
caso, non potendo condividere questa prospettiva,
Lisia tace e assiste allo spettacolo di Polemarco
che contesta la giustizia del suo tentativo, come
fratello, di giungere a una decisione giudiziale, visto che l’iniziativa processuale di Lisia implica il
desiderio (a dire il vero, per nulla disprezzabile sul
piano etico, nonostante le opposte perorazioni di
Platone) di “fare del male” a Eratostene.
Perché possa essere un credibile “combattente” al
fianco di Socrate in questo impegno nell’affermazione di un concetto di giustizia estraneo a qualunque dimensione processuale, Polemarco non deve
essere solo in dissenso da Lisia, ma, prima di tutto,
deve essere, come Socrate, non soltanto morto in
modo riprovevole, per una iniziativa dello Stato,
ma anche (e, forse, prima di tutto) il testimone
dell’inutilità dell’affermazione di una giustizia basata sul tentativo di “restituire male per male ai nemici, e bene per bene agli amici”. Polemarco è il
simbolo non solo di una morte iniqua (e ce ne devono essere state molte altre, anche di più persone
illustri, al tempo dei Triakonta), ma di un insuccesso processuale e dell’inesistenza di un criterio distributivo efficiente nella vita cittadina. In questa
logica, egli è il personaggio ideale del dialogo, scelto a distanza di anni perché vittima dell’uccisione
a scopo di rapina e, poi, protagonista di un giudizio
concluso con la sconfitta di Lisia. Se così non fosse
stato, non si vede perché Platone avrebbe dovuto
proprio richiamare Polemarco.
Non a caso, non si ravvisano nella letteratura di oggi credibili spiegazioni alternative della scelta (di
712
certo non casuale, come tutte quelle inerenti alla
struttura dei dialoghi platonici) di invocare proprio
Polemarco, e sono insufficienti i rapporti di amicizia
suoi e della sua famiglia con Socrate. Polemarco sta
alla sua pari come vittima dello Stato e del processo, ed essi sono accomunati come sconfitti nell’agone giudiziale, eppure in grado di indicare la via della
perfetta giustizia, in una dimensione che, proprio
per il modo nel quale è enunciata la teoria, si pone
in una dichiarata e completa contrapposizione con
l’iniziativa processuale. Questa conferma indiretta
dell’insuccesso di Lisia rende la sua orazione ancora
più cara all’animo di un avvocato moderno, perché
essa è il simbolo non solo dell’impegno professionale, ma della relatività completa della dimensione
giudiziale. L’insuccesso è toccato persino al più illustre dei logografi, nel suo più sofisticato lavoro.
Poiché Lisia non poteva condividere l’idea che non
si debba “restituire male per male ai nemici, e bene
per bene agli amici” (in difetto, l’orazione Contro
Eratostene non esisterebbe), non gli deve essere piaciuto il commento di Platone, a volere ammettere
che Lisia fosse vivo quando la Repubblica fu redatta.
Con una ironia invero poco caritatevole (se si accetta di usare questa espressione per il mondo greco),
Platone ha voluto sottolineare che neppure un discorso di Lisia può garantire il buon esito del processo, così che Socrate avrebbe corso gli stessi rischi, se
avesse cercato di convincere, invece di adottare la
sua strategia di semplice testimonianza del senso ultimo del suo insegnamento. Senza volere togliere
nulla all’Apologia di Socrate, Cicerone risponde
che, almeno, Lisia avrebbe tentato di vincere. In
questa contrapposizione di obbiettivi e, perciò, di
scelte esistenziali sta la professione di avvocato.
Seppure su posizioni opposte, nel loro rifiuto completo della logica forense, Platone e i commentatori moderni di Lisia non comprendono il senso etico
della sua orazione, non solo dimostrazione della
volontà di difendere il suo punto di vista in contrasto con quello della maggioranza, ma anche della convinzione dell’esistenza di uno spazio per la
decisione giudiziale, quale ripristino di una legittimità violata. Platone fa dire a Socrate che sarebbe
iniquo “restituire male per male ai nemici, e bene
per bene agli amici”, poiché non vi sarebbe spazio
per la sanzione, nella convivenza umana. I lettori
moderni di Lisia ne ricercano strategie politiche alle quali sarebbe ispirata la sua orazione, che perseguirebbe una scelta complessiva di modificazione
degli assetti della cittadinanza ateniese. Forse condizionato da un punto di vista soggettivo, credo
che il tentativo di Lisia debba essere preso per
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
Dottrina
Processo
quello che è, cioè la disperata ricerca di affermare
il diritto contro lo Stato e la sua degenerazione,
pure nella consapevolezza dell’ostilità generale. In
questa ricerca dello scontro dialettico non sta solo
la manifestazione della fiducia nel processo, ma,
prima ancora, quella della dignità del diritto. Per
la lucidità della sua difesa e per l’accettazione dei
suoi rischi, Lisia è il simbolo stesso dell’avvocatura.
I fatti e il diverso destino di Lisia
e di Polemarco
Lisia doveva affrontare un clima di generale insoddisfazione per una iniziativa processuale chiamata a
mettere in discussione la condotta dei Triakonta e
dei loro fiancheggiatori, a fronte di una apparente
concordia, ritrovata dopo la fine dell’oligarchia e,
comunque, davanti al desiderio generale di evitare
una valutazione critica sui crimini commessi. Di
tale diffuso stato di animo, i moderni danno atto
in modo ampio e convincente e, prima di tutto, esso traspare dalla stessa impostazione dell’orazione,
che dedica tutta la seconda parte al tentativo di suscitare sentimenti di giustificato risentimento per
le determinazioni e le azioni dei Triakonta. Se il citato scenario era più che sufficiente per destare
preoccupazione (e per spiegare la sconfitta, se si
condividono le considerazioni proposte fino a ora),
la difesa di Eratostene è nota, se si deve prestare fede al riepilogo fornito dallo stesso Lisia; né vi è
motivo di dubitare dell’attendibilità di tale sintesi,
se si considera come queste siano le argomentazioni alla cui confutazione Lisia si dedica per circa
una metà della sua analisi.
Interrogato da Lisia, Eratostene ammette il fatto
materiale: “‘uccidesti Polemarco o no?’ ‘Per paura
compivo quanto mi era ordinato da coloro che
avevano il potere’. ‘Eri nella sala del consiglio,
quando avevano luogo i discorsi intorno alla nostra
sorte?’. ‘Ero lì’. ‘Eri d’accordo con coloro che ordinavano di ucciderci o ti opponevi?’ ‘Mi opponevo’.
‘Affinché fossimo uccisi?’ ‘Affinché non foste uccisi’. ‘Pensando che noi avremmo sopportato azioni
giuste o ingiuste?’ ‘Ingiuste’”.
Accertati al di là di ogni ragionevole dubbio sia la
decisione di assassinare Lisia e Polemarco, sia la diretta partecipazione di Eratostene al momento deliberativo, sia la successiva esecuzione del disegno,
con il rapimento di Lisia e l’omicidio di Polemarco
e, di fatto, identificato lo stesso movente, visto che
appare indiscutibile il desiderio (coronato da successo) dei Triakonta di impossessarsi del patrimonio familiare, la difesa di Eratostene doveva puntare sul
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
riconoscimento di una sorta di stato di necessità, se
si vogliono usare espressioni moderne, o, se si preferisce, di qualcosa di simile all’adempimento di un
ordine dell’autorità. Sebbene ciò desti sorpresa, buona parte dei moderni commenti letterari sottolinea
come una simile prospettazione sarebbe stata forte.
Queste posizioni corrispondono all’esito ultimo del
processo e riepilogano lo stato di animo del popolo
ateniese, se si accetta la tesi della sconfitta di Lisia.
Peraltro, alla stregua di criteri attuali di valutazione
dei comportamenti sono di assoluta evidenza l’inconsistenza delle tesi di Eratostene e il loro contrasto con sentimenti di giustizia. Vi è da chiedersi (e
non ho la competenza per rispondere) quanto essi
fossero compresi e condivisi dalla disciplina positiva
di Atene, anche se non poteva sfuggire l’assurdità
dell’idea per cui uno di coloro che avevano deliberato sulla morte di Polemarco si potesse difendere
sostenendo di avere eseguito un ordine.
Identificato il punto decisivo nella linea di Eratostene, la strategia di Lisia è di piena coerenza con i
principi elaborati nei millenni successivi e, in buona parte, le sue argomentazioni concordano con
l’ordinamento oggi vigente, nel quale Eratostene
non avrebbe avuto nessuna possibilità di successo,
nonostante l’eccezionale situazione determinata
dalla fine del regime oligarchico e dal desiderio di
pacificazione cittadina. Poi, ci si può chiedere
quanto fosse facile per un meteco mettere in discussione un crimine di Stato, quale, comunque,
era quello commesso. Se mai, sorprende come una
parte dei commenti di questi anni sia propensa a
considerare significativa l’argomentazione di Polemarco, nonostante, in situazioni non meno drammatiche del secolo scorso, sia apparso evidente e
sia stato riconosciuto in processi noti come la solo
parziale partecipazione all’assunzione delle determinazioni illecite non possa avere rilevanza ai fini di
escludere la responsabilità per l’esecuzione delle
decisioni stesse.
Dimostrata con l’interrogatorio di Eratostene la sua
presenza al momento della deliberazione sull’uccisione della famiglia di Lisia, questi si dilunga a ragionare della sua sorte e, in modo sorprendente, vari
studi ritengono superflua tale pretesa digressione, la
quale avrebbe solo voluto suscitare lo sdegno degli
ascoltatori. Al contrario, il ragionamento di Lisia è
molto più sofisticato. Lasciando a un momento successivo la confutazione dell’intrinseca razionalità del
punto di vista di Eratostene, egli mette in luce il
suo destino non tanto per sollevare commozione,
ma per chiarire la complessità e la natura odiosa
dell’iniziativa assunta, volta allo sterminio della fa-
713
Dottrina
Processo
miglia per la sottrazione delle ricchezze e, soprattutto, per sottolineare come non vi fosse alcuna stringente necessità, alcuna effettiva coazione alla realizzazione della decisione dei Triakonta. Infatti, raggiunto da un altro di costoro, Lisia si è salvato, seppure a prezzo della perdita del patrimonio. L’opposta
sorte di Lisia e di Polemarco è sufficiente alla completa confutazione della difesa di Eratostene, a tacere di ogni altra più sottile considerazione giuridica,
sull’infondatezza interna delle sue tesi.
La sintesi e lo stile pacato con i quali sono illustrati i fatti è di rara incisività, anche se ciò non è stato compreso da vari commentatori, i quali avrebbe
preferito l’enfasi delle Catillinarie o delle Verrine.
Proprio l’approccio lineare e oggettivo della narrazione prepara ai successivi attacchi, in un clima
sfavorevole, quale doveva essere quello nel quale
lo straniero Lisia ha iniziato le sue argomentazioni.
“Teognide e Pisone dicevano tra i Triakonta a proposito dei meteci che ve ne erano alcuni con sentimenti contrari al vigente regime; e che, dunque, vi
era un eccellente pretesto da un lato per simulare
la loro punizione e dall’altro per arricchirsi; e che,
per un verso, la città aveva una completa mancanza di risorse e che, per altro verso, il governo aveva
bisogno di ricchezze. E persuadevano senza difficoltà coloro che li ascoltavano; infatti, da un lato essi
consideravano di nessuna importanza uccidere uomini, dall’altro lato stimavano di grande significato
il prendere ricchezze. Dunque, decisero di catturare
dieci meteci, ma di questi due poveri, affinché
avessero nei confronti di tutti gli altri la possibilità
di addurre a loro difesa il fatto che non a causa
delle ricchezze erano state assunte queste decisioni,
ma che esse erano nell’interesse della città, come
se mai avessero effettuato qualcuna di tutte le altre
loro iniziative in modo opportuno”.
Da queste battute introduttive, appaiono i due temi fondamentali, la dimostrazione della piena partecipazione di tutti gli oligarchi alla deliberazione
e, per altro verso, la confutazione della possibilità
di riportare la loro azione, seppure in via indiretta,
alla ragione di Stato. Fino da questa parte iniziale,
le questioni sono viste nel loro intrecciarsi, e si
mettono in relazione la posizione personale di Eratostene e la discussione su quanto lo Stato possa
pretendere e ottenere e del limite nel quale i comportamenti di coloro che hanno potere meritino di
essere messi in discussione in sede processuale. Il
tema non era per nulla estraneo alla cultura ateniese, come dimostra l’esistenza dei giudizi di rendiconto e, in fondo, la dimostrazione era il potere da-
714
to a Lisia di convenire Eratostene, in quanto componente dei Triakonta.
In poche parole, la descrizione giunge al cuore e,
cioè, al destino dello stesso Lisia, coinvolto al pari
del fratello nella determinazione degli oligarchi, ma
salvo. “E mi sorpresero mentre avevo a cena ospiti,
che allontanano, e mi consegnano a Pisone; gli altri
invece andati nel laboratorio facevano l’inventario
degli schiavi. Io chiedevo a Pisone se mi volesse salvare ottenendo denaro; egli rispondeva che sarebbe
stato possibile, se fosse stato molto. Dunque, dissi
che ero pronto a consegnare un talento di argento;
egli rispose che avrebbe eseguito quanto convenuto.
Sapevo che non riconosce né dei, né uomini, ma,
comunque, credevo in quelle circostanze che fosse
per me del tutto necessario ottenere da lui un giuramento. Dopo che ebbe giurato, invocando la sciagura su stesso e sui suoi figli, che mi avrebbe salvato
in cambio di un talento di argento, entrato in camera apro la cassaforte; accorgendosene, Pisone arriva a sua volta e, visto il contenuto, chiama due dei
suoi servitori, e ordinò di prendere quello che era
contenuto nella cassaforte; dopo che ebbe non
quanto convenuto, o giudici, ma tre talenti di argento, quattrocento ciziceni, cento darici e quattro
fiale di argento, gli chiedevo di darmi il necessario
per la fuga, ma rispondeva che sarei stato soddisfatto
se avessi salvato la vita”.
Nella sua oggettività, il brano è tra i più impressionanti della prosa attica, per la descrizione sintetica
dello stato di animo di Lisia e per le sue reazioni
rapide alla minaccia incombente. Separato da Pisone e portato a casa di Damnippo, dove questi era
con Teognide, Lisia cambia strategia, visto l’insuccesso del tentativo di corruzione. “Chiamato Damnippo, gli dico: ‘accade che tu sia mio amico, sono
giunto a casa tua, non ho commesso ingiustizia, a
causa del denaro sono rovinato. Tu dunque a me
che sono in questa tragedia metti a disposizione le
tue risorse per la mia salvezza’. Egli rispose che lo
avrebbe fatto; ma gli sembrava che fosse più opportuno parlare a Teognide. Infatti, riteneva che questi avrebbe fatto di tutto, se gli fosse stato offerto
del denaro. Mentre Damnippo era a colloquio con
Teognide (infatti, capitava che fossi a conoscenza
della casa e sapevo che aveva due porte), mi sembrava opportuno cercare di salvarmi uscendo per la
seconda, poiché pensavo che, se fossi passato inosservato, mi sarei salvato, invece, se fossi stato sorpreso, ritenevo che, se Teognide fosse stato persuaso da Damnippo a ricevere denaro, mi sarei comunque salvato, in difetto sarei morto comunque.
Valutate queste contingenze, fuggivo, mentre quel-
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
Dottrina
Processo
li facevano la guardia all’altra porta. Poiché erano
tre le porte che occorreva che attraversassi, per
ventura accadde che fossero tutte aperte”.
La morte di Polemarco e le ragioni della
responsabilità di Eratostene
Senza una parola di troppo, l’incalzare degli eventi
è illustrato nel drammatico intrecciarsi di illusioni,
speranze e occasioni di fuga; solo alla fine, quando,
in modo fortunoso, Lisia giunge in salvo presso la
casa di un amico, entra in scena Polemarco. “Arrivando a casa di Archeneo l’armatore, lo mando in
città, a chiedere informazioni su mio fratello; giunto
di ritorno, diceva che Eratostene, avendolo sorpreso
sulla strada, lo aveva condotto in carcere. E io,
avendo appreso queste circostanze, la notte successiva mi imbarcai per Megara”, mentre, bevuta la cicuta, Polemarco fu sepolto a spese degli amici e, al
momento stesso del funerale, alla moglie furono
strappati gli orecchini. Non servono troppe parole,
né invocazioni teatrali, né esclamazioni ripetute, né
lamenti particolari per mostrare il dramma della famiglia di Lisia, il quale, se mai, impressiona per la
semplicità e la lucidità con le quali descrive il dolore. Al tempo stesso, se mai non fosse stata causa sufficiente della diretta responsabilità di Eratostene la
partecipazione alla deliberazione sull’uccisione dei
meteci (a prescindere dal voto espresso), a Lisia è
facile mostrare che, in esecuzione di tale determinazione, non era impossibile consentire almeno la fuga
dei prescelti, come era capitato a lui e come gli era
stato promesso sia da Pisone, sia da Damnippo.
Il movente del delitto è chiaro, l’acquisizione brutale e coatta delle ricchezze dei meteci, con la loro
soppressione fisica, affinché non potessero contrastare questa confisca, e con evidenti ritorni personali, come traspare dallo svolgersi dei fatti, se non
dall’oltraggio finale alla moglie di Polemarco. L’orazione piace a un lettore moderno non solo perché incalzante nella sintesi efficace, ma in quanto
essa parte dall’oggettiva allegazione dei comportamenti per la loro valutazione giuridica, senza troppi
tentativi di catturare la facile simpatia degli ascoltatori, almeno nella prima metà. Chiariti i fatti e
spiegato il comportamento, è inevitabile per Lisia
giungere alle sue conclusioni, e vi è da chiedersi
come l’incisività delle sue tesi non colpisca gli storici moderni. “Eratostene uccise mio fratello, come
dissi anche prima, senza subire un torto in forma
privata da Polemarco e senza vederlo commettere
un crimine nei confronti della città, ma lasciando
spazio solo, senza ritegno, alla sua violenza”.
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
Eratostene ha preso parte alle deliberazioni dei Triakonta e non ne è un destinatario, ma un artefice, a
tacere del fatto che, in qualunque contesto regolativo con un minimo di sofisticazione, non si dovrebbe
neppure discutere del rilievo giustificativo di un ordine per sua natura illecito; “invero per gli altri
Ateniesi mi pare una difesa sufficiente per i crimini
accaduti attribuire la responsabilità ai Triakonta, ma
per quanto riguarda gli stessi Triakonta, qualora cerchino di rigettare verso loro stessi la responsabilità,
come è possibile che voi lo assolviate?” Chi è stato
partecipe del disegno criminoso e, a prescindere da
un eventuale dissenso, è stato componente della
struttura che lo ha ordito e, poi, suo realizzatore, come può invocare un ordine di una autorità del quale
era componente e con poteri decisionali? Lisia non
avrebbe potuto dire meglio, alla stregua della moderna coscienza giuridica, salvo aggiungere che ordini di evidente e brutale illiceità non possono essere
in alcun caso portati a esecuzione. “Se ci fosse stata
in città una autorità sovraordinata, dalla quale fosse
stato ordinato a Eratostene di uccidere uomini contro il giusto, forse voi potreste avere per lui comprensione; ma ora, a chi applicherete la pena, se è
possibile ai Triakonta dire che eseguivano gli ordini
dei Triakonta?”.
Se ciò non basta, Lisia aggiunge ulteriori considerazioni. Però, proprio il fatto che, con ogni probabilità, questo primo, icastico, livello di conclusioni
sia stato ritenuto insufficiente, mostra quanto lunga fosse la strada della civiltà e della capacità dello
Stato di mettere in discussione le condotte assunte
da coloro che avevano responsabilità di governo o,
se si preferisce, di riconoscere la responsabilità di
chi avesse rivestito posizioni di particolare autorità.
In qualche modo, la perorazione di Lisia arriva al
suo momento decisivo quando invoca un qualche
principio nella valutazione delle decisioni delle
massime istanze politiche e cerca di fondare l’idea
originaria dello Stato di diritto, il confrontarsi dei
governanti con la domanda di rispetto dei sudditi e
di tutela della loro sfera individuale. In queste poche parole, del tutto persuasive per gli uomini moderni, sta il fascino di un tentativo ancora più nobile, perché iniziato contro ogni pronostico.
Come qualunque difensore, a rischio di indebolire
la sua tesi fondamentale, Lisia ne introduce una subordinata, sottolineando che, se anche non si volesse riconoscere l’intrinseca illiceità della condotta di Eratostene, perché componente di un organismo che decideva la morte dei meteci per strappare
le loro ricchezze, non di meno lo stesso Eratostene
avrebbe potuto cercare di salvare la vita di Pole-
715
Dottrina
Processo
marco, come Damnippo e Pisone fecero, l’uno per
simpatia, l’altro, con minore convinzione, per desiderio di arricchimento personale. A Eratostene sarebbe stato possibile negare di avere incontrato Polemarco, visto per la strada, o egli avrebbe potuto
comunque cercare di allontanarlo e farlo fuggire;
né vale l’obiezione di molti commentatori secondo
cui Lisia cadrebbe in questo punto in contraddizione, poiché Eratostene sarebbe stato in difficoltà a
evitare di eseguire l’ordine dei Triakonta, in quanto
questi lo avrebbero fatto seguire e avrebbero controllato la sua fedeltà.
È facile rilevare che Lisia fuggì e non sarebbe stato
certo impossibile fare in modo che lo stesso accadesse a Polemarco, se si riflette sul fatto che Lisia
fu condotto in una abitazione di un amico e a lui
nota, della quale conosceva la struttura, e fu lasciato solo, forse non a caso. “O Eratostene, se fossi
stati onesto, avresti dovuto avvertire coloro che
stavano per morire in modo ingiusto molto più che
catturare delle persone perseguite in modo ingiusto”, con una incisiva insistenza sul concetto di
“ingiusto”, a rimarcare l’intrinseca illiceità della
condotta e le sue conseguenze drammatiche.
Qui Lisia giunge a una affermazione fra le più affini
alla sensibilità contemporanea, perché collega la
valutazione assiologia del comportamento a una interpretazione non riferita all’apparenza, ma alla sostanza, alla ricerca degli eventi e alla loro analisi
storica, affinché essi mettano in luce le scelte individuali. Meglio, forse, dei moderni teorici dell’interpretazione, si legge: “ora le tue azioni sono state
chiaro indicatore del fatto che tu non ti dolevi, ma
ti compiacevi per quegli eventi”, dei quali eri protagonista, “così che bisogna che questi giudici a
partire dalle tue azioni piuttosto che dalle tue parole deliberino il loro voto, prendendo come prova
delle affermazioni che tu rendesti allora le circostanze oggettive che sanno accadute, dal momento
che non è possibile addurre testimoni intorno a tali
eventi”.
Ricostruito il fatto, visto nella sua completezza,
dalla prudente comprensione delle condotte occorre risalire, in via induttiva e secondo i canoni della
prova logica, a comprendere l’effettiva intenzione
e le posizioni assunte, “dal momento che non ci
era possibile non solo partecipare alle riunioni dei
Triakonta, ma neppure rimanere nelle nostre case,
così che a coloro che hanno commesso ogni sorta
di crimini è lecito affermare con riguardo al loro
comportamento qualunque tesi per loro positiva”.
Non si potrebbe dire molto meglio, per porre due
capisaldi della moderna coscienza giuridica, la ne-
716
cessaria allegazione e comprensione dei fatti e la
loro identificazione quale base di qualunque ragionamento, il quale deve ricostruire il comportamento, la sostanza, non la forma, e chiamarla a presupposto della conclusione dell’analisi giudiziale. Con
maggiore ironia, aggiunge in questo senso Lisia:
“ma non sfuggo su questo punto, anzi sono d’accordo con te, se vuoi, sul fatto che ti sei opposto agli
arresti. Mi chiedo con meraviglia che cosa allora
avresti fatto se fossi stato consenziente, visto che,
affermando ora di essere stato contrario, uccidesti
Polemarco”.
Così si conclude la prima, serrata e, in qualche modo, travolgente, parte dell’orazione, con un lucido
tentativo di portare l’ascoltatore dal certo al verosimile, dalla comprensione dell’accaduto alla sua
interpretazione, dalla ricerca di quanto è provato o
incontestato alle sintesi complessive sulla natura
della condotta. Non si può convenire con la tesi di
Platone, secondo cui sarebbe comunque da scongiurare il tentativo di “restituire male per male ai
nemici, e bene per bene agli amici”. A differenza
forse di Socrate, Polemarco non aveva desiderio di
diventare un martire e, per converso, il ragionamento processuale apporta un qualche spiraglio di
verità, nei limiti concessi agli uomini, meritando
così il suo spazio originario nella dimensione pratica della nostra vita, come riflessione sull’accaduto
per la sua considerazione critica e, perché, nell’accertamento giudiziale, si trovi, se possibile, una più
elevata comprensione dei fatti e una loro classificazione, sulla base dei criteri espressione di qualunque società e dell’anelito al giudizio etico presente
in ognuno di noi. Non a caso, a dire il vero in una
altra orazione, Lisia richiama una celeberrima
espressione di Sofocle e fa riferimento a leggi non
scritte, a quelle collocate nella nostra coscienza e,
a prescindere dalla loro origine, volte a qualificare
e, ancora prima, a fare capire che cosa sia accaduto
e a dare ragione del passato e del suo svolgersi nel
procedere dell’esistenza.
L’invocazione da parte di Lisia di qualche
criterio proprio dello Stato di diritto
Con consapevole energia, Lisia pone il tema finale
delle sue riflessioni più incisive; “coloro che sono i
vostri concittadini si allontaneranno sapendo che
o dovranno subire le sanzioni per i loro comportamenti illegittimi oppure che saranno tiranni della
città se realizzeranno i loro obbiettivi e, se dovessero fallire in questi progetti, avranno la stessa sorte
vostra” e, cioè, non affronteranno alcuna sanzione.
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
Dottrina
Processo
Non era per nulla estraneo al pensiero ateniese il
tema del destino dei titolari di funzioni pubbliche,
come dimostra la complessa regolazione del cosiddetto giudizio di rendiconto, nel quale, secondo
storici, sarebbe da ricondurre il processo svolto nei
riguardi di Eratostene e sarebbe da iscrivere l’orazione di Lisia. A prescindere dalla discutibile possibilità di definire il giudizio al quale si riferisca il testo a noi tramandato (e gli sforzi dei commentatori
non sono approdati a risultati certi), Lisia pone la
questione in una prospettiva molto articolata, quasi sul versante morale, come è dimostrato dalla
lunga, ultima parte della sua analisi.
Non a caso, essa è rivolta a spiegare la complessiva
inadeguatezza politica dei Triakonta e di uno dei
rappresentanti della componente moderata delle
forze conservatrici ateniesi, Teramene, al quale sono
dedicati aspri attacchi, in virtù dei suoi rapporti con
Eratostene. È riduttivo una lettura solo politica di
queste ampie e incisive considerazioni finali di Lisia,
il quale non si interessa soltanto (e nemmeno in
misura prevalente) ai rapporti di forza presenti in
Atene, ma alla necessità di una accettazione complessiva della responsabilità dei governanti e, perciò,
del prevalere dello Stato di diritto (o dei suoi prodromi) sulla ragione di Stato, a cui, almeno in parte, si devono essere appellati i Triakonta, se hanno
fatto riferimento alle finanze dissestate della città.
Lisia non discute solo dei demeriti di Teramene e
di Eratostene e delle loro esperienze passate, ma
enuncia un criterio generale; “da un lato costoro
hanno ucciso persone che non avevano tenuto alcuna condotta illegittima, dall’altro lato voi ritenete degno giudicare secondo la legge quelli che hanno distrutto la città, persone alle quali neppure se
voleste applicare sanzioni fuori dall’ordinamento
potreste dare una pena degna delle ingiustizie commesse nei riguardi della città”. Perciò, Atene reagisce secondo la regola giuridica e in questo dimostra
la sua forza costituzionale, come pochi anni dopo
rilevò Aristotele, proprio parlando, fra l’altro, dell’uccisione dei meteci. Tuttavia, al di là del rispetto per il sistema processuale, al quale Lisia dà piena
adesione, esso deve dimostrare effettività, salvo vanificare il senso stesso dei primi segnali dello Stato
di diritto e salvo convincere anche gli stranieri dell’accettazione da parte di Atene di brutali forme di
soppressione dei suoi meteci e della violenza quale
possibile strumento di governo.
Il processo contro Eratostene è cruciale perché riguarda coloro che hanno avuto potere e, per converso, attiene all’uccisione di un meteco, con gli ovvi, impliciti problemi di uguaglianza sostanziale, in
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
particolare di fronte a un crimine di Stato. Con
queste precisazioni, seppure davanti alla probabile
sconfitta, Lisia lascia una testimonianza attuale, perché mette in luce il dramma individuale e la trama
di affetti e di relazioni personali dinanzi alla pretesa
di alcuni governi di disporre della vita altrui. In
qualche modo, se non altro per il riferimento contenuto in una altra orazione alle leggi non scritte e,
quindi, a parole proprie di Sofocle, i dilemmi posti
dall’orazione Contro Eratostene rimandano all’Antigone, per la sua capacità di mostrare la risolutezza
della persona nel difendere le convinzioni morali e,
in fondo, la dignità dei congiunti e i valori dell’affetto e del rispetto per i propri cari.
Più ancora, Lisia fa pensare a una altra opera di
Sofocle, all’Edipo re, non solo per il titolo, nel
quale compare quel termine “tyrannos”, tante volte
attribuito da Lisia ai Triakonta. Edipo è determinato a scoprire le ragioni della maledizione che colpisce Tebe e, da sovrano, pone in essere tutte le iniziative necessarie, con la deliberata ricerca della
verità e la scoperta, passo dopo passo, di eventi terribili per lo stesso Edipo. Tuttavia, da un lato, questi non desiste dalla ricerca e, dall’altro, egli guarda
ai fatti e al loro concatenarsi, senza resistenze e
senza ammettere neppure di fronte alle sue più intense paure, quando l’effettiva situazione inizia a
palesarsi. Magistrale esempio di costruzione di una
trama sofisticata, con un costante riferimento all’ignoranza di Edipo a fronte della conoscenza del
pubblico, l’Edipo re non è solo una tragedia perfetta nell’impostazione scenica e con un eccelso livello poetico. Essa pone questioni cruciali, quali la capacità dello Stato di giudicare i suoi vertici e la
condizione di relatività delle conoscenze, davanti
agli attacchi repentini della sorte avversa.
Rispetto al destino di Polemarco le discussioni sulle fazioni ateniesi restano sullo sfondo, come vuole
Lisia, perché la centralità della vita e del diritto a
conservarla si impone a paragone delle alterne vicende delle organizzazioni. L’orazione di Lisia riporta alla mente proprio l’Edipo re, per l’invocazione a guardare alle condotte e a passare attraverso
l’analisi degli eventi al fine della loro comprensione e della loro qualificazione; inoltre, l’Edipo re dimostra che vi possono essere tiranni e, quindi, Stati in grado di considerare senza pregiudizi il loro
passato e di accogliere il loro destino nella trasparenza delle responsabilità (fermo il fatto che Edipo
non ha colpe per le sue sventure). Questa era la richiesta di Lisia e tale era il senso della sua iniziativa, volta a costringere Atene a interrogarsi su stessa e sulla sua storia recente.
717
Dottrina
Processo
Nell’ultima frase riportata sopra di Lisia compare
più volte il termine axios, con l’evocazione non solo della giustizia, ma del rispetto morale, perché vi
siano decisioni degne, anche a paragone della persona di Polemarco e della sua uccisione. Nel chiedere una decisione degna e, cioè, conforme a parametri assiologici, Lisia dimostra di avere compreso
il valore ultimo del processo, quale ricostruzione
del passato e delle sue storie, affinché esse acquistino un senso compiuto e se possibile condiviso, sulla base della disciplina di ciascun ordinamento.
In questo modo, il passato si salda con il presente e
la vita della vittima si congiunge a quella dei difensori e dei giudici, nel riandare del diritto su se stesso, perché tali sono da considerare i fatti sottoposti
a valutazione, nell’intreccio fra la regola e gli eventi. Per concludere, converrà lasciare proprio la parola a Sofocle, nel commento commosso del coro al
destino di Edipo: “tu con perizia suprema scagliasti
la freccia e conquistati il trofeo di una sorte del tutto felice (…); ma, ora, si sente forse dire di qualcuno che sia più sventurato? A chi la vita si è rovesciata in rovina così selvaggia, a chi in strazio così
atroce (…)? Ti ha scoperto (…) il tempo che scorge ogni cosa, e pronuncia la sentenza sulle tue nozze
718
non nozze, e su di te, da lungo tempo generante e
generato (…). Questa è la verità; tu che allora mi
ridesti la vita adesso hai chiuso i miei occhi”.
Di questa verità e, cioè, della giustizia era in cerca
Lisia e, se lo apprezziamo ancora, il suo probabile
insuccesso qualcosa deve avere significato, nella riflessione sui criteri della convivenza. Ha almeno
sottolineato che la difesa delle ragioni personali e
familiari è in sé un valore, perché mette in luce
quella sostanza di affetti e di sentimenti i quali invocano la ricerca della verità e la definizione del
giusto. Per usare ancora le parole di Sofocle, “molte sono le cose grandiose, ma nulla lo è più dell’uomo, che valica il mare candido di schiuma al soffio
tempestoso del vento del Sud, fendendo il fragore
delle onde, e travaglia, al giro degli aratri, di anno
in anno, l’eccelsa tra gli dei, la Terra eterna, infaticabile, e la rivolta con la stirpe dei cavalli (…).
Oltre ogni speranza signoreggia l’intelligenza, che
escogita risorse, e inclina ora al male, ora al bene;
e si innalza nella città quando serba rispetto per le
leggi e per la giustizia giurata nel nome degli dei.
Ma è fuori dalla città chi frequenta il male per
compiacere la sua audacia temeraria”.
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
Giurisprudenza
Previdenza e assistenza
Azione di regresso
Azione di regresso dell’INAIL:
le Sezioni Unite sul dies a quo
di decorrenza e sulla natura
del termine
Cassazione civile, Sezioni Unite, 16 marzo 2015, n. 5160 - Primo Pres. Roselli - Cons. Rel. Nobile - INAIL c. ED S.p.a.
Previdenza e assistenza - Assicurazione per gli infortuni sul lavoro e per le malattie professionali - Infortunio sul lavoro Responsabilità del datore di lavoro o dei terzi - Azione di regresso dell’INAIL contro il datore di lavoro - Termine triennale per l’esercizio dell’azione - Mancato inizio del procedimento penale - Natura del termine - Decorrenza
(Artt. 10, 11 e 112, d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124 - Testo unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali)
Premesso che, a seguito dell’abolizione della c.d. pregiudiziale penale, l’azione di regresso dell’INAIL nei
confronti del datore di lavoro, civilmente responsabile dell’infortunio subito da un proprio dipendente, è
connessa esclusivamente all’astratta previsione legale quale reato del fatto causativo dell’infortunio, e non
anche al concreto accertamento in sede giudiziale dell’illecito, non potrebbe più condividersi né l’orientamento secondo cui la decorrenza del termine sarebbe affidata esclusivamente all’iniziativa dell’Istituto creditore, né quello che ha ritenuto che esso comincerebbe a decorrere dalla data dell’avverarsi della causa
estintiva del reato presupposto, dovendosi invece accogliere la soluzione alla stregua della quale il termine
in parola, ove non sia stato iniziato alcun procedimento penale, decorra necessariamente dal momento di
liquidazione dell’indennizzo al danneggiato, in quanto “fatto certo e costitutivo del diritto sorto dal rapporto assicurativo”.
Infatti, atteso che, con l’azione di regresso, l’Istituto fa valere in giudizio un credito del tutto assimilabile a
quello risarcitorio spettante al lavoratore danneggiato, in quanto esercitato nei limiti del complessivo danno
civilistico, e funzionale tanto a sanzionare il datore di lavoro che abbia violato la normativa in materia di sicurezza sul lavoro, quanto a recuperare quanto corrisposto all’infortunato, deve ritenersi che il diritto in parola,
ogniqualvolta non sia stato instaurato alcun procedimento penale nei confronti della persona civilmente responsabile, debba necessariamente agganciarsi al fatto costitutivo del diritto stesso e, quindi, alla liquidazione dell’indennizzo ovvero alla costituzione della rendita a favore del lavoratore danneggiato.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
Cass. 3 marzo 2011, n. 5134, in Mass. Giust. civ., 2011, 3, 346; Cass. 29 novembre 2012, n. 21269, in Mass. Giust.
civ., 2012, 11, 1349.
Difforme
Cass., SS.UU., 16 aprile 1997, n. 3288, in Mass. Giur. lav., 1997, 441 (con nota di Giovagnoli); Cass. 18 agosto
2000, n. 10950, in Or. giur. lav., 2001, I, 410; Cass. 21 gennaio 2004, n. 968, in Dir. sicurezza sociale, 2004, 813 ss.
(con nota di Corrias); Cass. 18 maggio 2007, n. 11625, Cass. 29 novembre 2012, n. 1061, in Mass. Giust. civ.,
2012, 1, 74.
(omissis).
Svolgimento del processo
Con ricorso al Giudice del lavoro del Tribunale di Nuoro depositato il 15 novembre 2005 l’Inail esponeva che
in data (…) i sig.ri B.G. e T.P., dipendenti dell’E. D.
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
s.p.a., mentre eseguivano dei lavori all’interno di una
cabina elettrica MT/BT in (…), venivano investiti da
una fiammata sprigionatasi a seguito di un cortocircuito,
riportando gravissime lesioni personali.
L’Istituto affermava di aver erogato in favore dei due lavoratori la somma di Euro 125.180,49, in quanto sussi-
719
Giurisprudenza
Previdenza e assistenza
stevano i presupposti di legge perché il fatto rientrasse
nella tutela assicurativa obbligatoria e ne chiedeva il
rimborso alla società (in specie era stata costituita la
rendita per entrambi i lavoratori in data 14 marzo
2000).
La società si costituiva eccependo preliminarmente l’estinzione della pretesa che, a detta della convenuta, l’Istituto avrebbe dovuto azionare, in assenza di processo
penale, nel termine triennale, di cui all’art. 112 t.u.
1124 del 1965, decorrente dal giorno della diffida ad
adempiere spedita dallo stesso ricorrente e, in subordine, chiedendo nel merito il rigetto dell’azione di regresso per infondatezza.
Il giudice adito, con sentenza n. 123/2008, aderendo alla tesi prospettata dalla società, dichiarava inammissibile la domanda sostenendo che in assenza di un processo
penale, il dies a quo dal quale decorre il triennio per
l’instaurazione dell’azione di regresso è rappresentato
dal giorno in cui l’Istituto ha richiesto il risarcimento
all’assicurato (nella specie il 22 marzo 2000).
L’Inail impugnava la detta sentenza sostenendo che in
assenza di processo penale il termine di tre anni di cui
al citato art. 112 decorre dalla data di prescrizione del
reato addebitabile al datore di lavoro e non dalla data
in cui è stata ricevuta la prima diffida ad adempiere inviata dall’ente previdenziale.
La società appellata si costituiva e resisteva al gravame.
La Corte d’Appello di Cagliari, Sezione distaccata di
Sassari, con sentenza n. 699 del 3 dicembre 2008, notificata il 14 aprile 2009, rigettava l’appello, confermando
la pronuncia di primo grado.
In sintesi la Corte territoriale rilevava che in giurisprudenza erano emersi due diversi indirizzi in ordine al momento di decorrenza della decadenza, l’uno riassunto da
Cass. 10950 del 2000 (che, attesa la autonomia del giudizio civile e la mancanza della pregiudiziale penale, fa
decorrere il termine dal momento in cui l’Inail ha chiesto il risarcimento al soggetto assicurato) e l’altro
espresso da Cass. n. 968/2004 (secondo cui, poiché è
sempre possibile la instaurazione del procedimento penale, il termine decorre dalla data di prescrizione del
reato, senza che alcun rilevo assuma il nuovo c.p.p., posto che dal sistema del t.u. 1124 discende che l’Inail
non può esercitare l’azione di regresso prima del passaggio in giudicato della sentenza del giudice penale).
La Corte, aderendo quindi al primo indirizzo, osservava
che nessuna norma vieta all’Inail di promuovere l’azione di regresso prima dell’eventuale estinzione del fatto
reato (così come nulla vieta all’Inail di denunciare il
fatto reato perseguibile di ufficio) e rilevava che l’accoglimento della tesi dell’Istituto costituirebbe “niente altro che una immotivata dilatazione dei termini, certamente non in sintonia con la necessità di un accertamento dei fatti, tanto più laddove esso sia mancato in
sede penale, che deve essere effettuato a breve distanza
temporale dai fatti stessi”.
Per la cassazione di tale sentenza l’Inail ha proposto ricorso con un unico motivo.
L’E. D. s.p.a. ha soltanto depositato procura.
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L’Istituto ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c. insistendo per l’accoglimento del ricorso e in subordine
chiedendo che la causa fosse rimessa alle Sezioni Unite
sussistendo sul punto un contrasto di giurisprudenza.
Con ordinanza interlocutoria depositata il 21 novembre
2013 la Sezione Lavoro, nel rimettere gli atti al Primo
Presidente per l’eventuale assegnazione della causa alle
Sezioni Unite Civili, ha rilevato la sussistenza di un
contrasto di giurisprudenza in ordine alla questione dell’esatta individuazione del dies a quo del termine (di decadenza) di cui alla prima parte del comma 5 dell’art.
112 citato per l’esercizio dell’azione di regresso dell’Istituto (se cioè il detto termine, nel caso in cui l’Istituto
agisca in carenza di procedimento penale, debba decorrere dalla data di prescrizione del reato o dalla data di
liquidazione dell’indennizzo al lavoratore o agli eredi),
osservando che peraltro “i termini in cui si pone il contrasto di giurisprudenza cambierebbero ove il termine in
questione - che testualmente non è qualificato dal legislatore né come di decadenza né come di prescrizione
nel caso, quale quello qui in esame, di assenza di ogni
iniziativa penale - dovesse essere inteso in realtà come
di prescrizione, così come ha fatto Cass. sez. lav. 3 ottobre 2007 n. 20736, la quale ha osservato doversi considerare ogni termine di diritto sostanziale, nel dubbio, in
senso più favorevole al soggetto onerato; sicché, ove così qualificato, il termine potrebbe essere interrotto anche con atto extragiudiziale”.
La causa, quindi, è stata assegnata a queste Sezioni Unite Civili e da ultimo l’Inail ha depositato ulteriore memoria ex art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione
Con l’unico motivo, denunciando violazione e falsa applicazione del d.P.R. n. 1124 del 1965, artt. 10, 11 e
112, nonché dell’art. 2947 c.c., l’Istituto ricorrente sostiene che “il termine triennale di estinzione dell’azione
di regresso, nell’ipotesi, come nella specie, in cui non
sia stato iniziato alcun procedimento penale nei confronti del datore di lavoro per non essere mai stato investito il giudice penale della cognizione dell’infortunio,
decorre dalla data della prescrizione o di altra causa
estintiva del reato in quanto l’art. 112, comma 5, T.U.
1124 del 1965, non potendosi più interpretare letteralmente giacché la sua formulazione originaria non poteva che disciplinare l’unica ipotesi all’epoca possibile per
promuovere l’azione di regresso, quando era vincolata
all’esistenza di un giudizio penale, deve essere letto in
combinazione all’art. 2947 c.c.”. Pertanto, secondo il ricorrente, nel caso di specie, essendo intervenuta la
estinzione del reato l’11 agosto 2004 (ex art. 157 c.p.
nella formulazione vigente all’epoca, con il decorso di
cinque anni dopo la commissione del reato di lesioni
personali colpose punite con la reclusione inferiore a
cinque anni), l’azione di regresso introdotta con ricorso
depositato il 15 novembre 2005, doveva considerarsi
tempestiva.
Premesso che il d.P.R. n. 1124 del 1965, art. 112, commi 3 e 5, prevedono rispettivamente che le azioni spet-
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tanti all’Istituto assicuratore, in forza del presente titolo,
verso i datori di lavoro e verso le persone assicurate possono essere esercitate indipendentemente dall’azione
penale, salvo nei casi previsti negli artt. 10 e 11 - e
quindi salvo il caso di azione di regresso -, che il giudizio civile di cui all’art. 11, avente ad oggetto appunto
l’azione di regresso dell’Istituto, non può istituirsi dopo
trascorsi tre anni dalla sentenza penale che ha dichiarato di non doversi procedere per le cause indicate nello
stesso articolo e che l’azione di regresso di cui all’art. 11
si prescrive in ogni caso nel termine di tre anni dal
giorno nel quale la sentenza penale è divenuta irrevocabile, osserva il Collegio che sulla questione del dies a
quo del suddetto termine nell’ipotesi in cui non sia intervenuta né una sentenza di condanna, né una di proscioglimento questa Corte ha espresso diversi orientamenti.
In particolare Cass. 18 agosto 2000 n. 10950 ha ritenuto che tale dies a quo decorre dalla definizione del procedimento penale solo quando tale procedimento sia
stato iniziato, mentre negli altri casi decorre dal giorno
in cui l’istituto ha richiesto il risarcimento all’assicurato
o ha promosso contro di questo l’azione.
Cass. 21 gennaio 2004 n. 968 ha invece affermato che
il termine triennale di prescrizione dell’azione di regresso dell’Inail nei confronti del datore di lavoro, nella
ipotesi in cui non sia stato iniziato alcun procedimento
penale a carico del datore di lavoro per non essere mai
stato investito il giudice penale della cognizione dell’infortunio, decorre dalla data della prescrizione o di altra
causa estintiva del reato, e non dalla data dell’infortunio, in quanto, fino a tale momento, è sempre possibile
la instaurazione del processo penale.
Tale pronuncia ha precisato che non rileva in contrario
la circostanza che, a seguito della entrata in vigore del
nuovo codice di procedura penale, sia venuto meno il
principio della necessaria pregiudizialità del procedimento penale rispetto a quello civile, atteso che, in tema di azione di regresso dell’Inail, dal combinato disposto del d.P.R. n. 1124 del 1965, artt. 10, 11, 111 e 112
è ricavabile un sistema dei rapporti tra giudizio civile e
giudizio penale che si pone in rapporto di specialità rispetto ai principi generali desumibili dal codice di procedura penale, per effetto del quale l’Inail non può esercitare l’azione di regresso prima del passaggio in giudicato della sentenza penale di proscioglimento o di condanna dell’escusso, ovvero prima dell’estinzione del reato per una delle varie ipotesi previste dalla legge penale
per il caso in cui la notizia di reato non sia mai pervenuta al pubblico ministero.
Parimenti, Cass. 18 maggio 2007 n. 11625 (non massimata) ha ribadito che “il termine triennale di prescrizione (da qualificarsi più correttamente come decadenza) dell’azione di regresso dell’Inail nei confronti del datore di lavoro, nella ipotesi in cui non sia stato iniziato
alcun procedimento penale a carico del datore di lavoro
per non essere mai stato investito il giudice penale della
cognizione dell’infortunio, decorre dalla data della prescrizione o di altra causa estintiva del reato, in quanto,
fino a tale momento, è sempre possibile la instaurazione
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del processo penale, senza che rilevi in contrario la circostanza che, a seguito della entrata in vigore del nuovo
codice di procedura penale, è venuto meno il principio
della necessaria pregiudizialità del procedimento penale
rispetto a quello civile, atteso che, in tema di azione di
regresso dell’Inail, dal combinato disposto del d.P.R. n.
1124 del 1965, artt. 10, 11, 111 e 112 e dagli interventi
della Corte costituzionale è ricavabile un sistema dei
rapporti tra giudizio civile e giudizio penale che si pone
in rapporto di specialità rispetto ai principi generali desumibili dal codice di procedura penale, per effetto del
quale l’INAIL non può esercitare l’azione di regresso
prima del passaggio in giudicato della sentenza penale
di proscioglimento o di condanna dell’escusso, ovvero
prima dell’estinzione del reato per una delle varie ipotesi previste dalla legge penale per il caso in cui la notizia
di reato non sia mai pervenuta al pubblico ministero”.
Secondo un più recente orientamento (Cass. 3 marzo
2011, n. 5134, Cass. 11 marzo 2011, n. 5879), invece,
l’azione di regresso dell’Inail nei confronti del datore di
lavoro può essere esercitata nel termine triennale previsto dal d.P.R. n. 1124 del 1965, art. 112, che, ove non
sia stato iniziato alcun procedimento penale, decorre
dal momento di liquidazione dell’indennizzo al danneggiato, il quale costituisce il fatto certo e costitutivo del
diritto sorto dal rapporto assicurativo, dovendosi ritenere che detta azione, con la quale l’Istituto fa valere in
giudizio un proprio credito in rivalsa, sia assimilabile a
quella di risarcimento danni promossa dall’infortunato,
atteso che il diritto viene esercitato nei limiti del complessivo danno civilistico ed è funzionale a sanzionare il
datore di lavoro, consentendo, al contempo, di recuperare quanto corrisposto al danneggiato.
Peraltro, nel caso, invece, di pronuncia del giudice penale di non doversi procedere, caratterizzata dalla mancanza di un accertamento del fatto-reato, alla quale è
equiparabile qualsiasi provvedimento, ancorché adottato nella fase precedente al dibattimento, che precluda,
se non in presenza di una diversa situazione fattuale, la
possibilità dell’avvio di nuove indagini e l’esercizio dell’azione penale nei confronti della medesima persona,
Cass. 25 gennaio 2012 n. 1061 ha affermato che, ove
sia stato emesso, ai sensi dell’art. 409 c.p.p., decreto di
archiviazione, il termine decadenziale decorre dalla relativa data di emissione trattandosi di atto la cui rimozione deve essere autorizzata dal giudice.
Nel caso, invece, in cui sia intervenuta una sentenza di
condanna un’ulteriore puntualizzazione è stata fatta da
Cass. 29 novembre 2012, n. 21269, che ha precisato
che l’ultimo inciso del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124,
art. 112, comma 5, nello stabilire che l’azione di regresso dell’Inail si prescrive in ogni caso nel termine di tre
anni dal giorno nel quale la sentenza penale è divenuta
irrevocabile, richiama esplicitamente l’azione di regresso
di cui all’art. 11 stesso T.U. che, a sua volta, prevede
che il diritto di regresso può essere esercitato dall’istituto assicuratore per le somme pagate a titolo di indennità e di spese accessorie contro le persone civilmente responsabili, per cui il presupposto per l’esercizio dell’azione di regresso è rappresentato dall’avvenuto pagamento
721
Giurisprudenza
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di somme di denaro e non certamente dall’esistenza di
un debito assicurativo ancora insoluto nei confronti
dell’assicurato o dei suoi superstiti, con l’ulteriore conseguenza che il termine di prescrizione del diritto di regresso inizia a decorrere solo dalla data di pagamento
dell’indennizzo da parte dell’Inail e non dalla data precedente in cui la sentenza penale diviene irrevocabile.
Sulla natura, poi, di decadenza o di prescrizione del termine di tre anni previsto dalla norma citata, in passato,
queste Sezioni Unite (Cass. 16 aprile 1997, n. 3288),
componendo un contrasto di giurisprudenza sul punto,
hanno affermato che “il d.P.R. 30 giugno 1965, n.
1124, art. 112, u.c., (secondo cui il giudizio civile di cui
al precedente art. 11 non può istituirsi dopo trascorsi
tre anni dalla sentenza penale che ha dichiarato di non
doversi procedere per le cause indicate dallo stesso articolo, quali la morte dell’imputato o l’intervenuta amnistia del reato, e l’azione di regresso di cui all’art. 11 si
prescrive in ogni caso nel termine di tre anni dal giorno
nel quale la sentenza penale è divenuta irrevocabile)
contempla, nelle sue due disposizioni anzidette, due fattispecie diverse, delle quali la prima è caratterizzata dalla mancanza di un accertamento del fatto - reato da
parte del giudice penale e la seconda, invece, dall’esistenza di tale accertamento con sentenza penale di condanna (pronunciata nei confronti del datore di lavoro o
di suoi dipendenti o dello stesso infortunato); correlativamente, l’azione di regresso dell’Inail soggiace nella
prima ipotesi (ai sensi della prima parte, ultimo comma,
cit. art. 112) a termine triennale di decadenza, che (insuscettibile d’interruzione) decorre dalla data di emissione della sentenza penale di non doversi procedere, e
nella seconda ipotesi (ai sensi dell’ultima parte, ultimo
comma, stesso art. 112) a termine triennale di prescrizione, che decorre dal giorno nel quale è divenuta irrevocabile la sentenza penale di condanna”.
Sul tema della natura del termine, infine, Cass. 3 ottobre 2007 n. 20736, ha affermato che “l’azione di regresso spettante all’Inail nei confronti del datore di lavoro
ai sensi del d.P.R. n. 1124 del 1965, art. 11, nel caso in
cui questi sia stato assolto dall’imputazione derivatagli
dall’infortunio sul lavoro, è sottoposta al termine triennale di prescrizione di cui all’art. 112, comma 2, seconda parte, del d.P.R. citato, la cui decorrenza può essere
interrotta non con il deposito bensì con la notificazione
del ricorso con cui l’azione viene esercitata oppure da
ogni atto idoneo alla costituzione in mora”.
Con tale pronuncia, premesso che la “coerenza fra artt.
10 e 11, da una parte, e art. 112, dall’altra parte è venuta meno per effetto di pronunce della Corte Costituzionale (nn. 102 del 1981 e 118 del 1996) e di mutamenti
del regime processuale penale (artt. 75 e 651 e segg.
c.p.p. del 1988) e civile (art. 295 c.p.c., come novellato
dalla L. 26 novembre 1990, n. 353, art. 35) i quali si
riassumono nell’abolizione della cosiddetta pregiudiziale
penale”, per cui “l’azione di regresso dell’Inail è connessa soltanto all’astratta previsione legale quale reato del
fatto causativo dell’infortunio e non dal concreto accertamento dell’illecito penale”, nel colmare la relativa lacuna normativa, questa Corte ha evidenziato che
722
“quand’anche non voglia ritenersi, insieme alla prevalente dottrina ed a Cass. 16 giugno 1979 n. 3331, che
le previsioni legislative di decadenza siano di stretta interpretazione e che perciò un termine di decadenza non
possa ravvisarsi in via analogica, la possibilità di desumere in via interpretativa la natura, decadenziale o prescrittiva, di un termine (Cass. 26 giugno 2000 n. 8680)
deve tener conto dell’idoneità della decadenza a rendere
più difficile l’esercizio del diritto soggettivo anche in
via giudiziale e perciò contrastare con gli artt. 24 e 112
Cost.”, per cui “nel dubbio, deve perciò propendersi per
la prescrizione.” D’altra parte, come pure ha affermato
la detta pronuncia, “l’interesse del soggetto passivo alla
liberazione dal vincolo obbligatorio anche ed eventualmente attraverso la prescrizione, o la decadenza del soggetto attivo dalla pretesa (interesse giuridicamente protetto poiché la prescrizione è species adquirendi: Cass.
S.U. 3 febbraio 1996 n. 916), non è pregiudicato, come
sembra ritenere Cass. S.U. n. 3288 del 1997, dal potere,
spettante al creditore, di interrompere la prescrizione,
giacché l’atto interruttivo avverte il debitore dell’opportunità di apprestare prove e più in generale difese giudiziali, non meno che l’atto di esercizio dell’azione (Cass.
S.U. 16 novembre 1999 n. 783)”.
Orbene, stante il contrasto delineato, in ordine alla individuazione del dies a quo del termine previsto dall’art.
112, u.c. cit., nel caso in cui l’accertamento del fattoreato da parte del giudice penale sia del tutto mancato,
perché non è stato instaurato alcun procedimento penale, e rilevata la necessità di un chiarimento anche in ordine alla natura del detto termine (di decadenza o di
prescrizione - sulla quale, peraltro, a ben vedere non
hanno preso posizione né, da un lato, Cass. n. 968/2004
cit. né, dall’altro Cass. n.ri 5134 e 5879/2011), ritiene il
Collegio che, nella specie, occorre partire dalle medesime considerazioni di base svolte da Cass. n.
20736/2007, e cioè dal rilievo del venir meno della coerenza fra gli artt. 10 e 11, da una parte, e l’art. 112, dall’altra, a seguito delle pronunce della Corte Costituzionale e dei mutamenti del regime processuale penale e
civile, che si riassumono nella abolizione della cosiddetta pregiudiziale penale, con la conseguente connessione,
dell’azione di regresso dell’Inail, soltanto all’astratta previsione legale quale reato del fatto causativo dell’infortunio.
Ciò posto, anche nel caso della mancata instaurazione
del procedimento penale, dovendo parimenti colmarsi
una lacuna nel sistema, come sopra creatosi a seguito
delle pronunce della Corte Costituzionale e dei mutamenti processuali evidenziati, il termine non può che ritenersi di prescrizione, stante il principio di stretta interpretazione delle previsioni legislative di decadenza,
con la conseguenza che il detto termine deve ritenersi
suscettibile di interruzione in base ai principi generali.
Del resto, essendo quantomeno dubbia, nella specie, la
natura del termine, deve ritenersi che, in ogni caso, vada preferita la tesi della prescrizione, che rende meno
difficile l’esercizio, anche in via giudiziale, del diritto di
regresso dell’istituto.
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Per quanto riguarda, poi, la individuazione del dies a
quo, in primo luogo il Collegio ritiene che non può darsi seguito all’indirizzo (v. Cass. n. 10950/2000 cit.) secondo cui, in caso di mancato inizio del procedimento
penale, il termine triennale decorra dal giorno in cui l’Istituto ha richiesto il risarcimento all’assicurato o ha
promosso contro di questo l’azione.
In tal modo, infatti, la decorrenza della prescrizione sarebbe affidata all’iniziativa del creditore, onerato della
prescrizione, ed il credito potrebbe divenire, in ipotesi,
in sostanza anche imprescrittibile.
D’altra parte appare difficile inquadrare la speciale azione di regresso dell’Inail (che non può dirsi terzo) nell’ipotesi prevista dall’art. 2952 c.c., comma 3, che prevede
che nell’assicurazione della responsabilità civile il termine di prescrizione decorre dal giorno in cui il terzo ha
richiesto il risarcimento all’assicurato o ha promosso
contro di questo l’azione.
Parimenti, poi, non può condividersi l’indirizzo (v.
Cass. n. 968/2004 cit.) secondo cui, quando il giudice
penale non sia stato investito della cognizione dell’infortunio, non per questo il termine per l’azione di regresso può decorrere per l’Inail prima che il preteso reato sia estinto per prescrizione o altra causa, giacché fino
a quel momento è sempre possibile che la notizia di reato venga a conoscenza del giudice penale e che il processo penale venga instaurato nella sede competente,
con la conseguenza che, in tal caso, la prescrizione decorrerebbe dalla data dell’avverarsi della causa estintiva
(in applicazione analogica della disciplina prevista dall’art. 2947 c.c. - in tal senso v. già Cass. n. 502/1985, n.
330/1990, n. 5796/1990 -).
Tale indirizzo, infatti, risulta in evidente contrasto con
la ormai pacifica autonomia del sistema civilistico della
rivalsa rispetto al sistema penale della responsabilità del
datore di lavoro.
Nel quadro delineato, infatti, deve ritenersi che l’Inail
ben può agire in regresso anche prima che il reato sia
estinto, per cui, nel contempo, ben può decorrere il termine di prescrizione, fin da quando il diritto di regresso
può essere fatto valere, in base al principio generale di
cui all’art. 2935 c.c.
Del resto l’argomento secondo cui il sistema speciale
dei rapporti tra giudizio penale e giudizio civile previsto
dal T.U. del 1965 e dalle sentenze della Corte Costituzionale sarebbe fondamentalmente rimasto tale non appare sostenibile.
Va, invece, condivisa la soluzione da ultimo affermata
da questa Corte con le sentenze n.ri 5134 e 5879 del
2011, che, nell’ipotesi in cui non sia stato iniziato alcun
procedimento penale, hanno stabilito che il termine
triennale (che, come sopra, va ritenuto di prescrizione)
decorre dal momento di liquidazione dell’indennizzo al
danneggiato.
Al riguardo, infatti, va rilevato che l’Inail, con l’azione
di regresso prevista dal d.P.R. n. 1124, artt. 10 ed 11
cit., agendo contro il datore di lavoro dell’assicurato infortunato, fa valere in giudizio un diritto proprio, nascente direttamente dal rapporto assicurativo (v., fra le
altre, Cass. 2 aprile 1992 n. 4015, Cass. 18 ottobre
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1994 n. 8467, Cass. S.U. 16 aprile 1997 n. 3288, Cass.
21 gennaio 2004 n. 970, Cass. 18 agosto 2004 n. 16141,
Cass. 7 marzo 2008 n. 6212, Cass. 28 marzo 2008 n.
8136), spiegando un’azione nei confronti del datore di
lavoro, che ha violato la normativa sulla sicurezza sui
lavoro, in qualche misura assimilabile ad un’azione di risarcimento danni promossa dall’infortunato, tanto che
il diritto viene esercitato entro i limiti del complessivo
danno civilistico ed è funzionalizzato a sanzionare il datore di lavoro, consentendo contestualmente all’Istituto
assicuratore di recuperare quanto corrisposto al danneggiato (v. fra le altre Cass. 20 agosto 1996 n. 7669, Cass.
16 giugno 2000 n. 8196, Cass. 9 agosto 2006 n. 17960).
Pertanto, il diritto dell’INAIL al recupero di quanto
erogato al danneggiato deve agganciarsi, per la certezza
dei rapporti giuridici, alla liquidazione dell’indennizzo
assicurativo che costituisce il fatto certo e costitutivo
del diritto a svolgere, nel termine previsto, l’azione di
regresso.
Ai sensi, quindi, dell’art. 384 c.p.c., comma 1, va enunciato il seguente principio: “in tema di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, l’azione di regresso dell’Inail nei confronti del datore di lavoro può
essere esercitata nel termine triennale di prescrizione,
che, ove non sia stato iniziato alcun procedimento penale, decorre dal momento di liquidazione dell’indennizzo al danneggiato, ovvero, in caso di rendita, dalla
data di costituzione della stessa”.
Orbene, nella fattispecie in esame, la costituzione della
rendita per entrambi i danneggiati si è verificata in data
14 marzo 2000 e la “prima e unica richiesta stragiudiziale” (vedi sentenza impugnata, sul punto non contestata)
da parte dell’Inail è avvenuta con la diffida del 22 marzo 2000 (costituente atto interruttivo della prescrizione). Dopo tale atto sono trascorsi oltre tre anni prima
della notifica del ricorso giudiziario, avvenuta il 1 dicembre 2005 (al riguardo v. Cass. n. 20736/2007 cit.),
di guisa che il diritto di regresso dell’Inail deve ritenersi
prescritto.
Pertanto, correggendosi in tali sensi la motivazione dell’impugnata sentenza ex art. 384 c.p.c., u.c., il ricorso
dell’Inail va respinto.
(omissis).
723
Giurisprudenza
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IL COMMENTO
di Elena Giorgi (*)
L’autore, nel commentare la sentenza n. 5160 del 2015 delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, evidenzia la coerenza logico-giuridica con cui il Supremo Collegio ha risolto le questioni,
da tempo oggetto di discordanti interpretazioni giurisprudenziali, relative al dies a quo di decorrenza, nonché alla natura, di decadenza o di prescrizione, del termine triennale di esercizio dell’azione di regresso dell’INAIL, di cui all’art. 112, comma 5, d.P.R. n. 1124 del 1965, nell’ipotesi
in cui non sia stato instaurato alcun procedimento penale nei confronti del soggetto civilmente
responsabile: al fine di analizzare le soluzioni interpretative accolte dalle Sezioni unite, l’autore,
da un lato, inserisce la vicenda nel contesto normativo di riferimento e, dall’altro, passa in rassegna i preesistenti orientamenti giurisprudenziali e le principali opzioni interpretative succedutesi
nel corso dei decenni.
Con la sentenza in commento, le Sezioni unite
della S.C. hanno risolto l’annoso contrasto giurisprudenziale avente ad oggetto l’esatta individuazione del dies a quo di decorrenza del termine triennale di estinzione dell’azione di regresso dell’INAIL nei confronti del datore di lavoro civilmente
responsabile, per le prestazioni erogate a seguito di
infortunio sul lavoro, in particolare nell’ipotesi in
cui, nei confronti di quest’ultimo, non sia stato instaurato alcun procedimento penale.
A tale proposito, si erano registrati due principali orientamenti giurisprudenziali: l’uno, secondo il
quale il termine in parola, in mancanza della pregiudiziale penale, comincerebbe a decorrere dal
momento della richiesta risarcitoria al soggetto assicurato; l’altro, invece, che farebbe risalire tale
momento alla data di prescrizione del reato ascrivibile al datore di lavoro responsabile, sul presupposto che, a seguito dell’abolizione del principio della
normale prevalenza della giurisdizione penale (1),
il comma 5 dell’art. 112, T.U. n. 1124/1965, il
quale prevede l’estinzione dell’azione di regresso
per l’avvenuto decorso del termine di “tre anni dal
giorno nel quale la sentenza penale è divenuta irrevocabile”, dovrebbe interpretarsi nel senso che,
ogniqualvolta nei confronti della persona civilmente responsabile dell’infortunio non venga instaurato alcun procedimento penale, il suindicato
dies a quo di decorrenza dovrebbe coincidere con la
(*) Il presente contributo è stato sottoposto, in forma anonima, al vaglio del Comitato di valutazione.
(1) Con l’entrata in vigore del nuovo cod. proc. pen. nel
1988, com’è noto, le disposizioni di cui agli artt. dal 25 al 28
del codice di procedura penale del 1930 - oggetto, sin dagli
anni ’70, di pronunce di incostituzionalità nella parte in cui vincolavano anche soggetti rimasti estranei al processo penale -
724
data di prescrizione o di altra causa di estinzione
del reato presupposto.
Il caso
Nel caso in esame, il giudice di prime cure, decidendo il ricorso con il quale l’INAIL aveva convenuto in giudizio una società, al fine di ottenere il
rimborso della somma complessiva erogata, a titolo
di indennità, a favore di due dipendenti della stessa, i quali avevano riportato lesioni personali gravissime nella esecuzione della prestazione lavorativa, in accoglimento della tesi prospettata, in propria difesa, dal datore di lavoro, aveva dichiarato
l’inammissibilità della domanda, sul presupposto
che il dies a quo di decorrenza del citato termine
triennale sarebbe rappresentato, in assenza di un
processo penale, dal momento nel quale l’Istituto
richieda il risarcimento all’assicurato, e non già,
come prospettato dall’Istituto ricorrente, dalla data
di prescrizione del reato addebitabile al soggetto civilmente responsabile.
Tale opzione interpretativa veniva accolta anche dal giudice del gravame, il quale, dato atto dell’esistenza di due contrastanti indirizzi in ordine al
momento di decorrenza del suindicato termine, osservava che l’accoglimento della tesi prospettata
dall’Istituto avrebbe costituito “niente altro che
un’immotivata dilatazione dei termini, certamente
non in sintonia con la necessità di un accertamento dei fatti, tanto più laddove esso sia mancato in
sono state integralmente sostituite da quelle di cui ai vigenti
artt. 651 - 654 c.p.p., che, in conformità con quanto ripetutamente affermato dalla Corte costituzionale, hanno definitivamente sancito l’efficacia del giudicato penale nei giudizi civili
esclusivamente nei limiti consentiti dal necessario rispetto del
diritto di difesa costituzionalmente garantito.
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sede penale, che deve essere effettuato a breve distanza temporale dai fatti stessi” .
In sede di legittimità, la Sezione lavoro della
S.C., preso atto della esistenza di un contrasto giurisprudenziale in ordine all’esatta individuazione
del momento di decorrenza del termine triennale
di cui all’art. 112, T.U. n. 1124 del 1965, nonché
in merito alla natura decadenziale ovvero prescrizionale del medesimo, rimetteva gli atti al primo
Presidente e chiedeva l’assegnazione della causa alle Sezioni unite civili.
giurisprudenza” cambierebbero ove al termine in
questione, “che testualmente non è qualificato dal
legislatore né come di decadenza né come di prescrizione”, fosse attribuita natura prescrizionale; solo in tale ipotesi, infatti, esso “potrebbe essere interrotto anche con atto extragiudiziale”.
Il quadro normativo
Dopo aver passato in rassegna i due principali
orientamenti giurisprudenziali in materia, la sezione remittente precisava che, alla luce di un più recente indirizzo, tale momento di decorrenza non risalirebbe, come detto, al giorno in cui l’INAIL abbia fatto la richiesta di risarcimento all’assicurato,
e nemmeno alla data di prescrizione o di altra causa estintiva del reato; secondo tale ultima tesi, infatti, essendo l’azione di regresso dell’Istituto assicuratore subordinata, a norma dell’art. 11 del T.U.
1124/1965 cit., all’avvenuto pagamento, da parte
del medesimo, di somme di denaro, a titolo di indennità, a favore del lavoratore danneggiato, il termine di esercizio della suddetta azione dovrebbe
necessariamente cominciare a decorrere proprio
dal momento di liquidazione dell’indennizzo al
danneggiato, in quanto “fatto certo e costitutivo
del diritto sorto dal rapporto assicurativo”. Infatti si precisa - tale azione sarebbe assimilabile a quella
di risarcimento del danno, instaurata dal lavoratore
nei confronti del datore di lavoro che abbia violato
la disciplina infortunistica, ed è esercitabile nei limiti del danno complessivo civilistico.
Relativamente alla seconda questione, se il termine triennale in parola abbia natura decadenziale
ovvero prescrizionale, i giudici remittenti, aderendo all’impostazione adottata da Cass., Sez. lav., 3
ottobre 2007, n. 20736, secondo la quale ogni termine di diritto sostanziale, nel dubbio, dovrebbe ritenersi più favorevole al soggetto onerato, osservavano che “i termini in cui si pone il contrasto in
Nucleo centrale della controversia è, quindi,
rappresentato dall’esatta individuazione del dies a
quo di decorrenza del termine di esercizio dell’azione di rivalsa da parte dell’Istituto assicuratore nei
confronti del datore di lavoro, a seguito dell’abolizione della cosiddetta pregiudiziale penale, e del
conseguente venire meno della “coerenza” fra gli
artt. 10 ed 11 del d.P.R. n. 1124 del 1965 e l’art.
112 del medesimo T.U., non essendo più l’azione
di regresso in parola connessa al “concreto accertamento dell’illecito penale”, bensì, esclusivamente,
“all’astratta previsione legale quale fatto di reato
del fatto causativo dell’infortunio” (2).
Prima di entrare nel merito della questione affrontata, è opportuno dedicare brevi cenni al sistema disegnato dal T.U. in materia di assicurazione
obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali (3), il quale, com’è noto, è imperniato sulla regola cardine dell’esonero della responsabilità.
Invero, l’art. 10, comma 1 del testo normativo
in esame, in deroga ai principi di diritto comune
in tema di responsabilità, “esonera il datore di lavoro dalla responsabilità civile per gli infortuni sul
lavoro” (4), salvo che detti infortuni siano il frutto
di reati perseguibili d’ufficio commessi dal datore
di lavoro medesimo, ovvero da soggetti ai quali abbia delegato la propria posizione di garanzia.
Il medesimo art. 10, infatti, al comma 2 sancisce
che “permane la responsabilità civile a carico di
coloro che abbiano riportato condanna penale per
il fatto dal quale l’infortunio è derivato”.
In tale ipotesi, l’INAIL, a norma del primo comma del successivo art. 11, ha diritto di regresso nei
confronti del datore di lavoro per una somma corrispondente alle somme erogate a titolo di indennità (5), sicché il datore di lavoro, in questi casi, fini-
(2) Così Cass., SS.UU., 16 marzo 2015, n. 5160, in commento.
(3) Ci si riferisce al più volte citato d.P.R. 30 giugno 1965,
n. 1124.
(4) La Corte cost. ha sempre, esplicitamente affermato che
il perno dell’intera normativa sull’assicurazione obbligatoria
contro gli infortuni sul lavoro è costituita proprio dall’esonero,
il quale “costituisce una garanzia per la quale, nell’ambito dei
rischi coperti da assicurazione, ed in relazione ai quali il datore
di lavoro eroga contributi, egli non è tenuto al risarcimento del
danno” (così Corte cost. 18 luglio 1991, n. 356; cfr. Cass. 29
gennaio 2002, n. 1114).
(5) In materia di azioni esperibili dall’INAIL, è necessario tener distinta l’azione di regresso da quella di surroga. Con la
prima, prevista dagli artt. 10 e 11 del T.U. n. 1124 del 1965, l’INAIL, agendo contro il datore di lavoro dell’assicurato infortu-
L’ordinanza di rimessione e la questione di
diritto
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
725
Giurisprudenza
Previdenza e assistenza
sce per sopportare integralmente il costo della lesione della quale si è reso responsabile.
In deroga al principio della prevalenza della giurisdizione penale, il successivo quinto comma prescrive, tuttavia, che ogniqualvolta non si possa
giungere ad una sentenza penale di condanna per
morte dell’imputato o per amnistia, il compito di
stabilire incidenter tantum se il fatto che ha provocato l’infortunio costituisca astrattamente reato è
affidato al giudice civile in sede di azione risarcitoria.
In virtù delle suesposte previsioni normative, si
riteneva che la proponibilità dell’azione di regresso
fosse necessariamente condizionata all’esistenza di
una sentenza di condanna per un reato di “azione
pubblica”, non perseguibile a querela (6), pronunciata nei confronti del datore di lavoro o dei soggetti incaricati della direzione o della sorveglianza (7).
Questo assetto, coerente, peraltro, con il principio della cosiddetta unicità della giurisdizione, di
cui erano espressione gli ormai abrogati artt. 27 e
28 del codice di procedura penale del 1930, è stato
profondamente modificato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale (8), la quale, chiamata a
pronunciarsi sulla illegittimità costituzionale dei
sopraesposti artt. 10 ed 11 del T.U., nella parte in
cui impedivano all’INAIL l’esercizio dell’azione di
regresso in presenza di sentenze dibattimentali di
assoluzione, ovvero di sentenze istruttorie di non
luogo a procedere, o ancora di proscioglimento, di
archiviazione della notizia di reato o di “patteggia-
mento” della pena (9), ha notevolmente ampliato
la competenza del giudice civile a conoscere del
fatto di reato, sia pure ai soli fini dell’accertamento
della responsabilità patrimoniale del datore di lavoro.
Dal momento che la condanna penale ha cessato di costituire un “elemento di diritto sostanziale
del regresso” (10), ben potendo la sussistenza del
reato essere oggetto di cognizione incidentale anche in sede civile, è evidente che le domande relative tanto al risarcimento, quanto al regresso possono essere proposte ed accolte indipendentemente
dal previo intervento di un provvedimento penale
corrispondente a quelli indicati nel testo di legge,
atteso che al giudice in sede civile viene richiesto
soltanto di riscontrare gli estremi di un illecito penale.
Infatti, alla luce del “nuovo” principio di (quasi)
completa autonomia fra i due giudizi, le suddette
disposizioni di legge non hanno più potuto essere
interpretate in relazione al solo elemento letterale;
quando l’art. 10, comma 2, cit. menziona la “condanna penale per il fatto dal quale l’infortunio è
derivato”, fa evidentemente riferimento alle sole
ipotesi in cui tale condanna continua a costituire
elemento pregiudiziale ai fini della pronuncia risarcitoria in sede civile, dovendosi, viceversa, ritenere
che, in linea generale, al giudice civile competa
piena autonomia nella cognizione del fatto di reato, senza alcun vincolo di previo accertamento dello stesso in sede penale.
nato, fa valere in giudizio un diritto proprio nascente direttamente dal rapporto assicurativo; con l’azione di surroga, invece, l’Istituto agisce nei confronti dei terzi responsabili, estranei
al rapporto assicurativo, per ottenere il rimborso delle indennità corrisposte all’infortunato sul lavoro o ai suoi superstiti, e
far valere in giudizio il diritto al risarcimento del danno spettante all’assicurato. Nel primo caso, l’azione ed il relativo termine
di estinzione sono regolati dal citato D.P.R. n. 1124 del 1965,
in quanto direttamente attinenti al rapporto assicurativo previdenziale; nel secondo caso, l’azione di surroga è prevista dall’art. 1916 c.c. ed è disciplinata, anche ai fini della prescrizione, dalle norme dello stesso codice.
(6) Ai sensi del comma 4 dell’art. 10, d.P.R. n. 1124/1965,
infatti, “Le disposizioni dei due commi precedenti non si applicano quando per la punibilità del fatto dal quale l’infortunio è
derivato sia necessaria la querela della persona offesa”.
(7) Il comma 3 del più volte cit. art. 10 prescrive che “Permane, altresì, la responsabilità del datore di lavoro quando la
sentenza penale stabilisca che l’infortunio sia avvenuto per fatto imputabile a coloro che egli ha incaricato della direzione o
della sorveglianza del lavoro, se dal fatto di essi debba rispondere secondo il codice civile”.
(8) Ci si riferisce a Corte cost. 9 marzo 1967, n. 22 (in Foro
it., 1968, I, 904) - che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale
del comma 3 dell’art. 10 cit. nella parte in cui limitava la responsabilità civile del datore di lavoro per infortunio sul lavoro
derivante da reato all’ipotesi in cui quest’ultimo fosse stato
commesso dagli incaricati della direzione o della sorveglianza
del lavoro, e non anche degli altri dipendenti - nonché a Corte
cost. 19 giugno 1981, n. 102 (in Giust. civ., 1981, I, 2466, con
nota di G. Alpa) - che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo il combinato disposto degli artt. 10 e 11 del d.P.R. n.
1124/1965, nella parte in cui preclude in sede civile l’esercizio
del diritto di regresso dell’INAIL nei confronti del datore di lavoro qualora il processo penale nei confronti di questi o di un
suo dipendente si sia concluso con sentenza di assoluzione
nonostante l’Istituto assicuratore non sia stato posto in grado
di parteciparvi - e a Corte cost. 30 aprile 1986, n. 118, che ha
dichiarato l’illegittimità costituzionale del cit. comma quinto
dell’art. 10, d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, nella parte in cui
non consente che, ai fini dell’esercizio dell’azione da parte dell’infortunato, l’accertamento del fatto-reato possa essere compiuto dal giudice civile anche nel caso in cui il procedimento
penale, nei confronti del datore di lavoro o di un suo dipendente, si sia concluso con proscioglimento in sede istruttoria, ovvero con un provvedimento di archiviazione.
(9) Corte cost. 11 dicembre 1995, n. 499, in Foro it., 1996,
I, 1152, com’è noto, ha esteso la previsione normativa del
comma 5 dell’art. 10 T.U. cit. anche alla sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti.
(10) Così Corte cost. n. 102 del 1981, cit.
726
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
Giurisprudenza
Previdenza e assistenza
Di qui, il contrasto giurisprudenziale in ordine
all’esatta individuazione del momento di decorrenza del termine triennale, stabilito dall’art. 112,
comma 5 del TU ai fini dell’esercizio, da parte dell’INAIL, della azione di regresso in esame.
Tale disposizione prevede, infatti, che il giudizio
civile avente ad oggetto l’azione di regresso non
possa istituirsi decorsi tre anni dal giorno nel quale
la sentenza penale sia divenuta irrevocabile, ma
nulla precisa in ordine al dies a quo di decorrenza
del predetto termine, per l’ipotesi in cui non sia intervenuto alcun provvedimento penale, né di condanna, né di proscioglimento (11).
Il dies a quo per l’esercizio dell’azione
di regresso dell’INAIL: il principio
di autonomia delle giurisdizioni
ed il contrasto giurisprudenziale
Su tale questione, la giurisprudenza di legittimità
ha espresso diversi orientamenti.
Un primo, più risalente indirizzo, preso atto che,
a seguito dei sopradescritti interventi della Corte
costituzionale, il preventivo accertamento se il fatto che abbia causato l’infortunio costituisca, o meno, reato perseguibile d’ufficio non deve necessariamente avvenire in sede penale, ben potendo essere effettuato anche in sede civile, ha affermato
che “solo nel caso in cui sia stato iniziato il procedimento penale, la legge speciale … fa decorrere
per l’Inail dalla sua definizione il termine triennale
per proporre l’azione di rivalsa”, negli altri casi dovendosi, invece, ritenere che esso decorra dal giorno in cui l’Istituto abbia richiesto il risarcimento
all’assicurato, ovvero dal giorno in cui abbia proposto contro quest’ultimo l’azione di regresso (12).
A tale orientamento si contrapponeva quella
parte di giurisprudenza che, invece, ha ritenuto
che il termine in parola necessariamente decorresse
dalla data della prescrizione del reato imputabile al
datore di lavoro (o al terzo), e non già dalla data
dell’infortunio (13).
Secondo il ragionamento della Corte (14), infatti, se, com’è noto, all’INAIL non è consentito di
agire in regresso prima di aver corrisposto le indennità all’infortunato o ai superstiti, allora è impossi(11) L’art. 112, comma 5, d.P.R. n. 1124 del 1965 stabilisce
che “Il giudizio civile di cui all’art. 11 non può istituirsi dopo
trascorsi tre anni dalla sentenza penale che ha dichiarato di
non doversi procedere per le cause indicate nello stesso articolo. L’azione di regresso di cui all’art. 11 si prescrive in ogni
caso nel termine di tre anni dal giorno nel quale la sentenza
penale è divenuta irrevocabile”.
(12) Così Cass., Sez. lav., 18 agosto 2000, n. 10950, in Or.
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
bile affermare che il suddetto termine triennale decorra dal momento dell’infortunio, il quale non potrebbe che essere antecedente rispetto a quello dell’erogazione della prestazione.
A sostegno di tale conclusione, la Corte ha precisato, peraltro, che, essendo l’azione in parola
strettamente legata all’accertamento della responsabilità penale del datore di lavoro, detto termine
non comincerebbe a decorrere prima dell’accertamento giudiziale di tale responsabilità, accertamento che, a seguito dei numerosi interventi della Corte costituzionale in materia, può senza dubbio alcuno essere effettuato anche in sede civile.
Se quindi, alla luce delle suesposte considerazioni, è palese che presupposto dell’azione di regresso
in esame non sia tanto l’esistenza di un provvedimento del giudice penale, quanto, piuttosto, la responsabilità penale del datore di lavoro o di un suo
incaricato per l’infortunio sofferto dal lavoratore,
allora sarebbe altrettanto evidente che, ogniqualvolta il giudice penale non venga investito della
cognizione dell’infortunio, il termine finale di esercizio dell’azione di regresso non possa cominciare a
decorrere prima che il preteso reato sia estinto per
prescrizione od altra causa, atteso che, fino a quel
momento, sarebbe sempre possibile “che la notizia
di reato venga a conoscenza del giudice penale e
che il processo penale venga instaurato nella sede
competente”.
Sul presupposto che l’Istituto assicuratore, agendo in rivalsa nei confronti dei soggetti civilmente
responsabili dell’infortunio, farebbe valere in giudizio “un diritto proprio, nascente direttamente dal
rapporto assicurativo”, e “assimilabile ad un’azione
di risarcimento danni promossa dall’infortunato”,
un orientamento giurisprudenziale più recente, discostandosi dai due suindicati indirizzi, ha ritenuto
che “il diritto dell’INAIL al recupero di quanto
erogato al danneggiato … per la certezza dei rapporti giuridici”, dovrebbe necessariamente “agganciarsi … alla liquidazione dell’indennizzo assicurativo costituente il fatto certo e costitutivo del diritto” medesimo (15).
A dire del Collegio, “non si vede quale potrebbe
mai essere l’oggetto di una domanda di regresso rigiur. lav., 2001, I, 410.
(13) Si veda, in tal senso, Cass. 21 gennaio 2004, n. 968, in
Dir. sicurezza sociale, 2004, 813 (con nota di Corrias); cfr. Cass.
18 maggio 2007, n. 11625.
(14) V. Cass. n. 968/2014 sopracitata.
(15) Così Cass. 3 marzo 2011, n. 5134, in Mass. Giust. civ.,
2011, 3, 346.
727
Giurisprudenza
Previdenza e assistenza
volta dall’INAIL al soggetto responsabile dell’infortunio prima ancora che, materialmente, l’istituto abbia versato alcunché al beneficiario della rendita” (16), e ciò anche in presenza di una sentenza
penale di condanna passata in giudicato, ogniqualvolta a quest’ultima data non si sia concretizzato il
pagamento della prestazione, il quale costituisce
“l’elemento costitutivo presupposto della domanda
di regresso” (17).
Sulla natura del termine triennale per
l’esercizio dell’azione di regresso
In merito alla seconda questione interpretativa,
se il termine in esame abbia natura decadenziale
ovvero prescrizionale, le Sezioni unite erano state
chiamate a fornire un chiarimento già in passato, a
fronte dei diversi indirizzi giurisprudenziali formatisi nel corso degli anni.
L’orientamento più risalente, secondo il quale il
termine ultimo (all’epoca) di un anno per l’esercizio dell’azione civile da parte dell’INAIL avesse natura decadenziale (18), fu ben presto sostituito da
quell’indirizzo che, viceversa, ne sosteneva la natura prescrizionale, ai sensi dell’art. 112, comma 5,
secondo periodo, del d.P.R. n. 1124 del 1965, anche se esercitata in presenza di una sentenza di
non doversi procedere, sul presupposto che, non
rientrando l’INAIL tra gli “interessati”, cui l’art.
10, comma 5 della stessa legge fa riferimento, il
(16) Così Cass. 29 novembre 2012, n. 21269, in Mass.
Giust. civ., 2012, 11, 1349.
(17) Così, ancora, Cass. n. 21269/2012, cit.
(18) Tale indirizzo prese avvio con la sentenza della Cass.
13 maggio 1949, n. 1181, in Riv. inf. mal. prof., 1951, II, 1, che
arrivava a tale conclusione applicando l’art. 4, comma 5, R.D.
n. 1765 del 1935, ai sensi del quale, qualora fosse stata pronunciata sentenza di non doversi procedere, gli “interessati”
potevano, entro il termine decadenziale di un anno, instaurare
il giudizio civile di accertamento della responsabilità civile del
datore di lavoro.
(19) In Cass. 8 aprile 1989, n. 1707 si legge, infatti che, “l’azione di regresso esercitabile dall’INAIL si sensi del comma 1
dell’art. 11 del d.P.R. 30 giugno 1965 n. 1124 è autonoma (…)
rispetto all’azione di responsabilità che l’art. 10, comma 5 dello stesso d.P.R. accorda agli interessati (fra i quali non può essere compreso l’istituto assicuratore predetto) e, pertanto, è
assoggettata non al termine triennale di decadenza - non applicandosi all’INAIL né il comma 5 del detto art. 10 né la prima
parte dell’ultimo comma dell’art. 112 del citato d.P.R. - ma al
termine triennale di prescrizione previsto dall’ultima parte dello
stesso ultimo comma del citato art. 112”; cfr. Cass. 2 aprile
1987, n. 3189. Va segnalato che, come osservato da R. Giovagnoli, Sul termine per l’esercizio dell’azione di regresso dell’Inail,
in Mass. giur. lav., 3, 1997, 451, tale indirizzo, nonostante sia
stato ripetutamente confermato dalla giurisprudenza di legittimità nel corso degli anni ’70 e ’80, sia stato “implicitamente
disatteso dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 102 del
1981”, che, dichiarando incostituzionale l’art. 10, comma 5,
728
termine decadenziale ivi previsto si applicherebbe
soltanto all’azione di responsabilità dell’infortunato
e dei suoi eredi volta ad ottenere il c.d. risarcimento supplementare (19).
A tale ultimo indirizzo si era affiancata, con la
sentenza della S.C. n. 1089 del 1992, una tesi mediana, secondo la quale, in mancanza di un accertamento del fatto-reato da parte del giudice penale,
l’azione di regresso dell’INAIL soggiacerebbe al termine triennale di decadenza, decorrente dall’emissione della sentenza penale di non doversi procedere; viceversa, in presenza di tale accertamento, la
suddetta azione sarebbe soggetta ad un termine
triennale di prescrizione, decorrente dal giorno dal
quale la sentenza di condanna sia passata in giudicato.
In accoglimento del suddetto orientamento, le
Sezioni unite del ’97 hanno riconosciuto natura di
decadenza, e non di prescrizione, al termine per l’esercizio del regresso nelle ipotesi in cui manchi
l’accertamento di un reato perseguibile d’ufficio in
sede penale (20).
Diversamente opinando, secondo la Corte, l’interesse del datore di lavoro a vedere rapidamente
definita la propria posizione verrebbe pregiudicata,
atteso che, in tali ipotesi, all’ente previdenziale
verrebbe, di fatto, consentito di interrompere indefinitivamente il termine per il regresso, in tal modo
dilazionando lo stato di incertezza circa la sussistenza della responsabilità in capo al datore di la“nella parte in cui non consente che, ai fini dell’esercizio del diritto di regresso dell’INAIL, l’accertamento del fatto-reato possa essere compiuto dal giudice civile anche nei casi in cui il
procedimento penale nei confronti del datore di lavoro o di un
suo dipendente si sia concluso con proscioglimento in sede
istruttoria o vi sia decreto di archiviazione”, ha quindi riconosciuto l’applicabilità di tale norma anche all’Istituto, che, in tal
modo, veniva ricompreso nel novero degli “interessati”. La
stessa Corte costituzionale, tuttavia, mutò orientamento con la
successiva sentenza 31 marzo 1988, n. 372 (in Giur. cost.,
1988, 1637) e, in accoglimento della costante giurisprudenza
di legittimità, affermò espressamente che l’INAIL non era annoverabile tra i soggetti “interessati” di cui al cit. comma 5
dell’art. 10.
(20) Cass., SS.UU., 16 aprile 1997, n. 3288, in Mass. giur.
lav., 3, 1997, 441 ss., con nota di R. Giovagnoli, Sul termine
per l’esercizio dell’azione dell’Inail, il quale osserva che l’importanza della decisione in esame risiede nella circostanza che
dalla motivazione della stessa sarebbe possibile ricavare un
principio destinato a trovare applicazione in tutte le ipotesi in
cui manchi un accertamento della responsabilità penale del
datore di lavoro. Per cui, secondo l’Autore, dovrebbe ritenersi
che il termine per agire in regresso sia di decadenza anche
qualora il processo si concluda con una sentenza di applicazione della pena su richiesta, ovvero con un decreto penale di
condanna, oppure, ancora, con un provvedimento di archiviazione, con una sentenza di non luogo a procedere o di proscioglimento.
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
Giurisprudenza
Previdenza e assistenza
voro ed aggravando la possibilità per quest’ultimo
di fornire la prova circa la sua innocenza.
Peraltro, aderendo alla tesi che propende per la
natura prescrizionale del termine in esame - osserva, ancora, il Collegio - si avrebbe una irragionevole disparità di trattamento tra l’Istituto e l’infortunato, la cui azione, ai sensi del più volte citato
comma 5 dell’art. 10, è, viceversa, sottoposta ad un
termine decadenziale.
Solo in presenza di una sentenza di condanna
l’azione dell’INAIL potrebbe dirsi soggetta a prescrizione, e quindi suscettibile di atti interruttivi,
poiché esclusivamente in questa ipotesi la dilazione
non genererebbe “gli inconvenienti che il legislatore si è proposto di evitare con la previsione della
decadenza per il caso della sentenza istruttoria, appunto perché la posizione del datore di lavoro è già
definita in punto di responsabilità penale accertata” (21).
Da questo indirizzo, ripetutamente confermato
dalla giurisprudenza di legittimità (22), la Cassazione si è nuovamente discostata con la sentenza n.
20736 del 2007 (23), la quale, preso atto della sopravvenuta incoerenza fra gli artt. 10 ed 11, da una
parte, e 112, dall’altra, per effetto del superamento
dei principi dell’unità della giurisdizione e della
prevalenza del processo penale su quello civile, ha
affermato che “quand’anche non voglia ritenersi
(…) che le previsioni legislative di decadenza siano di stretta interpretazione e che perciò un termine di decadenza non possa ravvisarsi in via analogica, la possibilità di desumere in via interpretativa
la natura, decadenziale o prescrizionale, di un termine deve tener conto dell’idoneità della decadenza a rendere più difficile l’esercizio del diritto soggettivo anche in via giudiziale e perciò contrastare
con gli artt. 24 e 112 Cost.”.
D’altra parte, evidenzia ancora la sentenza, l’interesse del soggetto passivo a vedere rapidamente
definita la propria posizione non sarebbe pregiudicata dal potere, spettante al creditore, di interrompere la prescrizione, atteso che “l’atto interruttivo
avverte il debitore dell’opportunità di apprestare
prove e più in generale difese giudiziali” (24).
Alla luce di tali considerazioni, l’azione di regresso dell’INAIL dovrebbe ritenersi soggetta non
già a decadenza, bensì a prescrizione.
L’opzione interpretativa accolta
dalle Sezioni unite
(21) Così di legge in motivazione della sopracitata sentenza
n. 3288/1997.
(22) Da ultimo, si veda Cass. 25 gennaio 2012, n. 1061, in
Mass. Giust. civ., 2012, 1, 74.
(23) Cass. 3 ottobre 2007, n. 20736, in Guida dir., 2007, 46,
78.
(24) Così, ancora, Cass. n. 20736/2007 cit.
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
Al fine di dirimere il sopradescritto contrasto interpretativo, il Supremo Collegio prende le mosse
dal rilievo, espresso nella sopraindicata sentenza n.
20736 del 2007, secondo il quale, “a seguito delle
pronunce della Corte costituzionale e dei mutamenti del regime processuale penale e civile, che si
riassumono nella abolizione della cosiddetta pregiudiziale penale”, e del conseguente venir meno
della “coerenza” fra gli artt. 10 ed 11 del d.P.R. n.
1124 del 1965, da una parte, e l’art. 112 del medesimo T.U., dall’altra, l’azione di regresso in parola
sarebbe esclusivamente connessa “all’astratta previsione legale quale fatto di reato del fatto causativo
dell’infortunio”, e non più “al concreto accertamento dell’illecito penale”.
Ciò premesso, e al fine di colmare la lacuna normativa, che, da un lato, per l’ipotesi in cui l’accertamento del fatto di reato da parte del giudice penale sia del tutto mancato, rende di difficile individuazione il dies a quo del termine previsto dal cit.
art. 112 e, dall’altro, nulla dice in ordine alla natura decadenziale ovvero prescrizionale di detto termine, le Sezioni Unite analizzano tutti gli orientamenti registratesi in materia, evidenziandone tutti
i profili di criticità.
Secondo il Collegio, non potrebbe aderirsi all’indirizzo alla stregua del quale tale dies a quo, in caso
di mancato inizio del procedimento penale, decorrerebbe dal giorno nel quale l’Istituto abbia richiesto il risarcimento all’assicurato, atteso che, così
opinando, la decorrenza della prescrizione sarebbe,
di fatto, affidata esclusivamente all’iniziativa del
creditore, con la conseguenza che tale credito “potrebbe divenire, in ipotesi, in sostanza imprescrittibile”.
“Parimenti” - osserva la Corte - non potrebbe
condividersi nemmeno l’indirizzo secondo cui il
suindicato termine dovrebbe ritenersi decorrere dal
momento in cui “il preteso reato sia estinto per
prescrizione o altra causa”; tale ultimo orientamento, infatti, sarebbe “in evidente contrasto con la
ormai pacifica autonomia del sistema civilistico
della rivalsa rispetto al sistema penale della responsabilità del datore di lavoro”, atteso che nulla vieta
all’INAIL di agire in regresso anche prima che il
reato sia estinto.
729
Giurisprudenza
Previdenza e assistenza
In accoglimento del terzo dei sopra delineati
orientamenti, il Collegio, rilevato che l’INAIL,
agendo in rivalsa nei confronti del datore di lavoro
responsabile, farebbe, in realtà, valere un “diritto
proprio”, direttamente derivante dal rapporto assicurativo, e funzionale tanto a sanzionare il datore
di lavoro che abbia violato la normativa in materia
di sicurezza sul lavoro, quanto a recuperare quanto
corrisposto all’infortunato, afferma quindi che il diritto in parola, ogniqualvolta non sia stato instaurato alcun procedimento penale nei confronti della
persona civilmente responsabile, debba necessariamente agganciarsi al fatto costitutivo del diritto
stesso e, quindi, alla liquidazione dell’indennizzo
ovvero alla costituzione della rendita a favore del
lavoratore danneggiato.
In merito alla seconda questione interpretativa,
se il termine in esame abbia natura decadenziale
ovvero prescrizionale, la S.C. ricorda come già in
passato le medesime Sezioni unite si siano pronunciate sul punto, chiarendo che, contemplando l’art.
112 del T.U. del 1965 due fattispecie diverse, la
prima “caratterizzata dalla mancanza di un accertamento del fatto-reato da parte del giudice penale e
la seconda, invece, dall’esistenza di tale accertamento con sentenza penale di condanna”, l’azione
di regresso ivi prevista avrebbe dovuto soggiacere,
“nella prima ipotesi … a termine triennale di decadenza”, decorrente dall’emissione della sentenza
penale di non doversi procedere e, nella seconda,
“a termine triennale di prescrizione”, decorrente
dal passaggio in giudicato della sentenza penale di
condanna.
Venuta, tuttavia, meno, a seguito dell’abolizione
della c.d. pregiudiziale penale, la coerenza del sistema delineato dal T.U., essendo “l’azione di regresso
dell’Inail” ormai esclusivamente “connessa (…) all’astratta previsione legale quale reato del fatto
causativo dell’infortunio e non dal concreto accertamento dell’illecito penale”, la giurisprudenza di
legittimità, con la sentenza n. 20736 del 2007 cit.,
ha evidenziato che, quand’anche non voglia aderirsi al principio di stretta interpretazione del termine
decadenziale, “la possibilità di desumere in via interpretativa la natura decadenziale o prescrittiva di
un termine” dovrebbe, comunque, tener conto dell’idoneità della decadenza a rendere più difficile
l’esercizio del diritto soggettivo, con la conseguenza che, “nel dubbio”, dovrebbe sempre preferirsi la
tesi della natura prescrizionale del termine: pena, il
contrasto della norma con i principi di cui agli
artt. 24 e 112 della Carta costituzionale.
Le Sezioni Unite, con la sentenza in commento,
aderiscono proprio a quest’ultima interpretazione,
alla luce tanto del principio di stretta interpretazione delle previsioni legislative di decadenza, quanto
di quello alla stregua del quale, nel dubbio, deve
essere preferita la tesi che renda meno difficile per
l’istituto l’esercizio del diritto di regresso, anche in
via giudiziale.
Va, infatti, osservato che, com’è noto, mentre in
materia di prescrizione il codice civile detta una
norma di carattere sostanziale (l’art. 2934), manca,
per la decadenza, una disposizione siffatta, sussistendo esclusivamente norme complementari, che
presuppongono singole decadenze altrove stabilite
da singole disposizioni di legge o contrattuali (artt.
2964 e 2965 c.c.).
Ne consegue che tali disposizioni non solo hanno carattere eccezionale, in quanto derogano al generale principio della libertà di esercizio dei diritti
soggettivi; peraltro - come opportunamente ricorda
la sentenza in commento - deve ritenersi che le disposizioni legislative che le prevedono non siano
suscettibili di interpretazione analogica.
È ben vero che la perentorietà può desumersi
anche in via interpretativa, ma occorre pur sempre
che la legge l’autorizzi, comminando, sia pure implicitamente, ma in modo chiaro ed univoco, la
definitiva perdita del diritto in caso di mancata osservanza del termine stabilito (25).
(25) In tal senso, si vedano Cass. 15 settembre 1995, n.
9764, in Mass. Giust. civ., 1995, 1648; conf. Cass. 26 giugno
2000, n. 8680, in Mass. Giust. civ., 2000, 1405.
730
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
Giurisprudenza
Controversie previdenziali
Sanzioni civili
Le Sezioni Unite fanno
chiarezza sull’interruzione
del termine di prescrizione
delle sanzioni civili
Cassazione Civile, Sezioni Unite, 13 marzo 2015, n. 5076 - Pres. Rovelli - Est. Napoletano INPS c. Eros di G. L. & C S.a.s. e Equitalia Friuli Venezia Giulia S.p.a.
Controversie previdenziali - Omesso pagamento dei contributi previdenziali - Somme aggiuntive irrogate al contribuente
per omesso o ritardato pagamento dei contributi - Natura giuridica delle sanzioni civili - Interruzione del termine di prescrizione delle sanzioni civili - Efficacia estintiva dell’effetto interruttivo per atti posti sull’obbligazione contributiva principale
(L. n. 388/2000, art. 116, comma 8)
In materia previdenziale le somme aggiuntive irrogate al contribuente per l’omesso o ritardato pagamento
dei contributi o premi previdenziali sono sanzioni civili che, in ragione della loro legislativamente prevista
automaticità, rimangono funzionalmente connesse al detto omesso o ritardato pagamento dei contributi o
premi previdenziali sì che gli effetti degli atti interruttivi, posti in essere con riferimento a tale ultimo credito,
si estendono automaticamente anche al credito per sanzioni civili.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
Cass., Sez. lav., n. 14863/2011, Cass., Sez. V, n. 13080/2011, Cass., Sez. I, n. 23746/2007.
Difforme
Cass., Sez. V, n. 13080/2011, Cass., Sez. I, n. 411/1999, Cass., Sez. lav., n. 14152/2004, Cass., Sez. lav., n.
18148/2006.
La Corte (omissis)
Svolgimento del processo
Il Tribunale di Gorizia, in parziale accoglimento dell’opposizione della EROS di G. L. & C. S.a.s. avverso la cartella esattoriale di pagamento relativa a somme aggiuntive conseguenti all’omesso pagamento di contributi - accertati con verbale ispettivo del 26 settembre 1991 relativi al periodo agosto/novembre 1990 - dichiarava prescritte le sanzioni civili maturate fino al 29 gennaio 1996.
La Corte d’Appello di Triste confermava la sentenza
del Tribunale.
La predetta Corte, dopo aver rilevato che al credito per
contributi si applicava, L. n. 225 del 1995, ex art. 3,
comma 10, il termine prescrizionale decennale essendo
la procedura iniziata prima dell’entrata in vigore di detta legge e che lo stesso termine operava anche per il
credito concernente le somme aggiuntive, poneva a base del decisum la fondante considerazione secondo la
quale non vi era stato alcun atto interruttivo della pre-
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
scrizione riferibile al credito per somme aggiuntive stante la non riferibilità a tale credito degli atti interruttivi
posti in essere relativamente a quello per contributi
omessi e tanto in ragione dell’autonomia causale delle
due obbligazione ed il legame solo genetico di accessorietà degli interessi rispetto al capitale.
Avverso questa sentenza l’INPS ha proposto ricorso per
cassazione sostenuto da un’unica censura.
La parte intimata non ha svolto attività difensiva.
A seguito di ordinanza del 19 febbraio - 1 aprile 2014
n. 7569, della Sezione Lavoro di questa Corte, che nel
denunciare un contrasto di giurisprudenza in ordine alla
questione dell’estensibilità all’obbligazione per somme
aggiuntive degli effetti interruttivi della prescrizione posti in essere per l’obbligazione contributiva sollevata
dalla difesa dell’INPS, ha ritenuto, altresì, la stessa di
massima particolare importanza, il ricorso è stato assegnato alle Sezione Unite, ai sensi dell’art. 374 c.p.c.,
comma 2. L’INPS ha depositato memoria illustrativa.
731
Giurisprudenza
Controversie previdenziali
Motivi della decisione
Con l’unico motivo di ricorso l’INPS, deducendo violazione e falsa applicazione della L. n. 335 del 1995, art.
3, commi 9 e 10, formula il seguente quesito: “viola la
normativa - denunciata - il giudice di merito che ritenga non estensibili all’obbligazione dovuta per le cd. sanzioni civili gli effetti interruttivi posti in essere con verbale di accertamento dell’INPS, con cui si è verificata
l’omissione contributiva, e con successivo atto di diffida, con cui si è intimato al debitore di adempiere l’intera obbligazione previdenziale (comprensiva sia del credito per contributi che del credito per sanzioni civili)?”.
Il motivo è fondato.
Il contrasto di giurisprudenza e la questione di massima
particolare importanza di cui queste Sezioni Unite sono
state investite dalla Sezione Lavoro con la predetta ordinanza del 19 febbraio - 1 aprile 2014 n. 7569, riguarda il
quesito di diritto relativo all’estensibilità o meno al credito dell’INPS per somme aggiuntive degli effetti degli atti
interruttivi posti in essere con riferimento al credito per
omissione contributiva e tanto sull’accertato, e non censurato, presupposto che “tutti gli atti interruttivi posti in
essere dall’INPS non contengono alcun riferimento specifico alle somme aggiuntive, riguardo alle quali pertanto
non vi sono mai stati (in forma esplicita) né una pretesa
da parte dell’INPS né un riconoscimento da parte del debitore”. Sulla problematica in questione coesistono, nell’ambito della sezione lavoro di questa Corte, due fondamentali orientamenti giurisprudenziali che possono essere,
rispettivamente, ricondotti alla contrapposta configurazione della natura giuridica - autonoma o meno dell’obbligazione per somme aggiuntive rispetto a quella contributiva.
Le pronunce che predicano per l’obbligazione concernente le somme aggiuntive la medesima natura giuridica dell’obbligazione relativa all’omissione contributiva, infatti,
ritengono che l’effetto dell’atto interruttivo della prescrizione relativo al credito contributivo si estende anche al
credito per sanzioni civili e tanto richiamando il principio
- di cui a Cass. sez. lav. 15 gennaio 1986 n. 194 - secondo
il quale il credito per sanzioni civili, che trae titolo da
una obbligazione accessoria ex lege, come tale applicabile
alla generale categoria delle obbligazioni generatrici di responsabilità di tipo contrattuale, ha, pur nella sua accessorietà, la stessa natura giuridica della obbligazione principale e deve essere assoggettato al medesimo regime prescrizionale della obbligazione principale (negli anzidetti
termini Cass. sez. lav. 12 maggio 2004 n. 9054 seguita,
poi, da Cass. sez. lav. 4 aprile 2008 n. 8814 e da Cass. sez.
lav. 22 febbraio 2012). Contro l’anzidetta regula iuris si è
posta in consapevole contrasto la pronuncia n. 14864 del
6 luglio 2011 della sezione lavoro di questa Corte la quale, dopo aver rilevato - richiamando i precedenti della sezione lavoro di questa Corte di cui alle sentenze 16 gennaio 1999 n. 411, 27 luglio 2004 n. 14152 e 10 agosto
2006 n. 18148 - che l’obbligazione contributiva è finalizzata alla costituzione presso l’ente gestore della provvista
necessaria all’erogazione delle prestazioni previdenziali e
assistenziali, mentre la sanzione civile ha lo scopo di rafforzare l’obbligazione contributiva mediante l’irrogazione
732
di una pena pecuniaria al trasgressore, ha affermato che le
somme aggiuntive irrogate al contribuente per l’omesso o
ritardato pagamento dei contributi sono sanzioni civili pecuniarie costituenti obbligazioni di natura diversa da quella dell’obbligazione contributiva, pur dovendosene riconoscere la funzione accessoria. Conseguentemente, secondo
la citata pronuncia, alle sanzioni civili non è direttamente
applicabile il regime prescrizionale previsto per le obbligazioni contributive in relazione alle quali sono state contemplate.
A questo punto mette conto sottolineare che è ricorrente,
nella giurisprudenza della sezione lavoro di questa Corte,
l’assunto secondo il quale, in materia di inadempimento
delle obbligazioni contributive nei confronti di enti previdenziali, l’applicazione (automatica) delle sanzioni civili
ha funzione di rafforzamento dell’obbligo contributivo e
di predeterminazione legale (con presunzione iuris et de iure) del danno cagionato all’ente previdenziale e non riveste, quindi, la natura afflittiva (che prescinde come tale
dalla considerazione del danno eventualmente cagionato
al soggetto creditore) propria delle sanzioni amministrative (di cui alla L. n. 689 del 1981) e di quelle tributarie
(di cui alla L. n. 472 del 1997) (V. Cass. sez. lav. 19 giugno 2009 n. 14475 che, richiamando ex plurimis, Cass. sez
lav. 21 gennaio 1995 n. 679 e Cass. sez. lav. 20 novembre
2001 n. 14591, ha sancito che per le somme aggiuntive
non opera l’intrasmissibilità agli eredi disposta dalla L. 24
novembre 1981, n. 689, art. 7, in tali sensi anche Cass.
sez. lav. 6 giugno 2008 n. 15067 e Cass. sez. lav. 8 settembre 2003 n. 13099, quest’ultima per quanto concerne la
funzione risarcitoria e non afflittiva o sanzionatoria delle
somme aggiuntive dovute all’INAIL in caso di omesso o
parziale pagamento dei premi assicurativi).
Né si è mancato di sottolineare che l’inerenza delle
somme aggiuntive dovute in ipotesi di omissioni contributive previdenziali alla categoria delle sanzioni civili
trova conferma nella previsione della L. n. 689 del
1981, art. 35, comma 2, che testualmente dispone che:
“Per le violazioni consistenti nell’omissione totale o
parziale del versamento di contributi e premi, l’ordinanza - ingiunzione è emessa, ai sensi dell’art. 18, dagli enti
ed istituti gestori delle forme di previdenza ed assistenza
obbligatorie, che con lo stesso provvedimento ingiungono ai debitori anche il pagamento dei contributi e dei
premi non versati e delle somme aggiuntive previste
dalle leggi vigenti a titolo di sanzione civile”) e nel
D.L. n. 536 del 1987, art. 4, comma 2, ultima parte,
convertito in L. n. 48 del 1988, che, dopo aver sancito
un tetto alle somme aggiuntive, stabilisce che: “Restano
ferme le sanzioni amministrative e penali” norma questa, poi abrogata dalla L. n. 662 del 1996, art. 1, comma
225, che non ha inciso sulla rilevata appartenenza alle
sanzioni civili delle somme aggiuntive. La L. n. 388 del
2000, art. 116, comma 8, definisce, inoltre, espressamente come sanzioni civili le somme dovute nel caso di
mancato o ritardato pagamento di contributi o premi e
il successivo comma 12 conferma la distinzione dalle
sanzioni amministrative (anche conseguenti alle omissioni totali o parziali dei versamenti contributivi), delle
quali dispone invece l’abolizione (in tal senso da ultimo
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
Giurisprudenza
Controversie previdenziali
Cass. sez. lav. 22 ottobre 2009 n.22414 e Cass. sez. lav.
19 giugno 2009 n. 14475 cit.).
Questo testè descritto il quadro giurisprudenziale e normativo in cui s’inserisce la questione devoluta a queste
Sezioni Unite.
Da tale contesto emerge che, sotto il profilo normativo,
le somme aggiuntive appartengono alla categoria delle
sanzioni civili, vengono applicate automaticamente in
caso di mancato o ritardato pagamento di contributi o
premi assicurativi e consistono in una somma ex lege
predeterminata il cui relativo credito sorge de iure alla
scadenza del termine legale per il pagamento del debito
contributivo, in relazione al periodo di contribuzione.
Vi è, quindi, tra la sanzione civile di cui trattasi e l’omissione contributiva, cui la sanzione civile inerisce, un
vincolo di dipendenza funzionale che in quanto contrassegnato dall’automatismo della sanzione civile rispetto all’omesso o ritardato pagamento incide, non solo geneticamente sul rapporto dell’una rispetto all’altra,
ma conserva questo suo legame di automaticità funzionale anche dopo l’irrogazione della sanzione, sì che le
vicende che attengono all’omesso o ritardato pagamento dei contributi non possono non riguardare, proprio
per il rilevato legame di automaticità funzionale, anche
le somme aggiuntive che, come detto, sorgendo automaticamente alla scadenza del termine legale per il pagamento del debito contributivo rimangono a questo
debito continuativamente collegate in via giuridica.
Non è tanto, quindi, un problema di natura giuridica
autonoma o meno delle somme aggiuntive in parola rispetto all’omissione contributiva, quanto piuttosto di
permanenza di vincolo funzionale tra l’omesso o ritardato pagamento di contributi previdenziali e la connessa
sanzione civile la quale, in quanto legislativamente prevista come automatica, conserva questa sua connessione
funzionale subordinata sì che gli effetti degli atti interruttivi, posti in essere con riferimento al credito per
omissione contributiva si estendono anche al credito
per sanzioni civili. Il denunciato contrasto di giurisprudenza può, pertanto, comporsi affermando il seguente
principio di diritto: “in materia previdenziale le somme
aggiuntive irrogate al contribuente per l’omesso o ritardato pagamento dei contributi o premi previdenziali sono sanzioni civili che, in ragione della loro legislativamente prevista automaticità, rimangono funzionalmente
connesse al detto omesso o ritardato pagamento dei
contributi o premi previdenziali sì che gli effetti degli
atti interrativi, posti in essere con riferimento a tale ultimo credito, si estendono, automaticamente, anche al
credito per sanzioni civili”.
Conseguentemente il ricorso va accolto essendo l’impugnata sentenza fondata su di una diversa regula iuris in
questa sede affermata.
Conseguentemente la sentenza impugnata va cassata
con rinvio, anche per le spese del presente giudizio, alla
Corte d’Appello di Trieste in diversa composizione.
(omissis).
IL COMMENTO
di Simone Catini (*)
L’Autore commenta la sentenza delle Sezioni Unite n. 5076 del 2015 che, allineandosi all’interpretazione prevalente, ritiene che gli atti interruttivi della prescrizione previdenziale si estendano
ipso jure anche alle sanzioni civili. La Cassazione muove dalla natura giuridica delle somme aggiuntive, ormai riconosciuta pacificamente di carattere civilistico a differenza di quanto previsto
dalla normativa previgente. In ogni caso l’Autore dà dell’istituto un’interpretazione che lo inquadra sistematicamente nell’ambito dei c.d. danni punitivi che l’ordinamento giuridico ormai annovera in diverse fattispecie.
L’Autore si sofferma altresì sulle altre questioni che discendono egualmente dalla natura giuridica delle sanzioni civili e in particolare sulla novità introdotta dall’art. 21, comma 1, D.L. n.
5/2012 convertito in L. n. 35/2012 che, modificando l’art. 29 della Riforma Biagi (D.Lgs. n.
29/2003), ha escluso la solidarietà contributiva dell’appaltante limitatamente alle sanzioni civili.
Con la sentenza n. 5076 del 24 febbraio 2015 le
sezioni Unite della Cassazione si sono pronunciate
sulla questione rimessa dalla sezione Lavoro ex art.
374 c.p.c. in relazione alla estensibilità alle somme
aggiuntive degli atti interruttivi del termine prescrizionale posti in essere dall’INPS (1). L’occasio-
(*) N.d.R.: Il presente contributo è stato sottoposto, in forma anonima, al vaglio del Comitato di valutazione.
I contenuti del presente saggio sono riconducibili esclusivamente ad una libera interpretazione e ricostruzione dell’Autore,
non impegnando in alcun modo l’Amministrazione di appartenenza.
(1) Vedi L. Surdi, Atti interruttivi della prescrizione riferiti all’obbligo contributivo: estensibilità al credito accessorio?, in Rivista del Diritto della Sicurezza Sociale, 2014, 279.
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733
Giurisprudenza
Controversie previdenziali
ne torna utile per affrontare talune questioni che
riguardano tali somme, più comunemente note come sanzioni civili, anche in considerazione di come siano mutate negli anni le opzioni interpretative per effetto dei continui mutamenti di normativa.
Preliminare per risolvere la specifica questione
devoluta alla funzione nomofilattica, come giustamente hanno rilevato le sezioni Unite, è muovere
dalla natura giuridica, querelle che affonda le proprie radici in una risalente contrapposizione dottrinaria.
In generale le sanzioni civili sono somme pecuniarie che si calcolano in percentuale sui contributi non versati e ineriscono all’obbligazione contributiva, che rientra nel genus delle obbligazioni pecuniarie. Si tratta quindi pacificamente di un’obbligazione accessoria rispetto a quella contributiva,
in cui il venir meno dell’una incide inevitabilmente anche sulle sorti dell’altra.
Data tale definizione sotto il profilo strutturale,
resta la possibile diversità dal punto di vista funzionale.
La natura giuridica delle sanzioni civili:
una questione risalente
Secondo una tesi tali somme assolverebbero ad
una funzione principalmente risarcitoria predeterminando ex ante il danno cagionato all’ente pubblico, posto che in materia previdenziale l’ordinamento ammette una liquidazione in via forfettaria
di tale danno con una presunzione juris et de jure.
Ciò sarebbe peraltro ampiamente giustificato dalla
necessità da parte dell’Istituto di dotarsi delle necessarie provviste economiche per far fronte agli
impegni legati al pagamento puntuale delle prestazioni economiche connesse all’adozione nel nostro
sistema previdenziale del principio a ripartizione
secondo il quale le entrate contributive servono a
finanziare le indennità erogate.
Secondo altra tesi tali somme avrebbero una
funzione sanzionatoria che prevarrebbe sull’aspetto
risarcitorio. Tale impostazione muove essenzialmente da due considerazioni: da un lato l’elevato
importo cui possono arrivare le somme aggiuntive,
specie nel passato quando per la contemporanea ricorrenza di regimi sanzionatori più rigorosi e per
l’alto tasso inflattivo tipico di quei anni, si raggiun(2) Cinelli, Le sanzioni civili per inadempimento agli obblighi
di contribuzione previdenziale dopo la legge n. 11/1986, in Foro
it., 1987, II, 504.
734
gevano livelli elevatissimi al limite dell’usura. Dall’altro lato spicca la previsione di un diverso importo della sanzione in caso di omissione o evasione a fronte di un identico danno economico patito
dell’ente previdenziale. Per tali ragioni non è difficile capire perché autorevole dottrina ritenesse al
tempo che ci trovavamo dinanzi a vere sanzioni
amministrative (2).
Anche due sentenze della Corte costituzionale,
ormai remote nel tempo, hanno attribuito alle
somme aggiuntive la natura di sanzioni amministrative, in conseguenza del carattere pubblicistico
e obbligatorio delle assicurazioni sociale gestite dall’INPS (3). In effetti, data l’elevatezza degli importi, era dubbia la stessa legittimità costituzionale di
tali somme tanto che la Consulta ha potuto ritenerle consone ai principi costituzionali proprio in
virtù del loro carattere sanzionatorio.
Al di là di tali posizioni, a ben guardare, è opportuno evidenziare qualche considerazione preliminare poiché la stessa denominazione di sanzioni
civili rischia di racchiudere in sé un ossimoro ovvero una apparente contraddizione in termini poiché non si capirebbe come possa conciliarsi una
funzione sanzionatoria con una misura civilistica e
se quindi sia corretta a monte la stessa denominazione di sanzioni civili una volta rilevato che la
sanzione in generale risponde ad una logica punitiva estranea al diritto civile.
In realtà, per comprendere in pieno tale problematica, è necessaria una visione “diacronica” che
tenga conto di come la normativa sia cambiata nel
corso degli anni. L’attuale disciplina vigente è contenuta nell’art. 116 della L. n. 388/2000, con una
scelta precisa da parte del legislatore di ridurre e
semplificare il quadro sanzionatorio complessivo,
sicché è agevole comprendere perché oggi quasi
più nessuno dubita della natura civilistica di tali
somme.
Peraltro, se si scende dai principi generali all’analisi della disciplina normativa vigente, ci si rende conto di come non sia perfettamente lineare
l’argomento poiché non esiste un’unica sanzione
civile ma due distinte fattispecie, una della quali è
l’omissione (o morosità), per cui è prevista una
sanzione pari al TUR (tasso ufficiale di riferimento) maggiorato del 5,5%, in relazione alla quale è
obiettivamente arduo individuare un carattere sanzionatorio, mentre per l’altra e più grave fattispe(3) Sono le sentenze n. 76 del 21 giugno 1966 e la n. 88 del
21 marzo 1974.
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
Giurisprudenza
Controversie previdenziali
cie, l’evasione, è prevista una sanzione del 30% dinanzi alla quale qualche dubbio è pur legittimo (4).
Volendo quindi tratteggiare un breve excursus
storico, tale istituto è stato previsto sin dal R.D.L.
n. 1827/1935 all’art. 111 che prevedeva “una somma aggiuntiva” (così era testualmente definita) pari
a quella dovuta per la contribuzione non versata,
importo che fu addirittura elevato fino a 2 volte
dall’art. 2, comma 2, della L. n. 638/1983. L’elevatezza della somma, pari almeno al 100% della contribuzione, unitamente alle modalità di determinazione della somma, legata in maniera rigida all’importo dell’obbligazione contributiva e non al ritardo connesso all’inadempimento, faceva pendere
l’ago della bilancia in favore della natura sanzionatoria.
Con la L. n. 662/1996 il sistema sanzionatorio
veniva completamente riscritto sotto vari profili.
Le somme aggiuntive, che per la prima volta venivano definitive “sanzioni civili”, erano ora determinate in ragione del ritardo temporale connesso all’inadempimento. Inoltre tale somma, che finora
era unica e monolitica, si scindeva in due fattispecie di diversa gravità: omissione ed evasione.
L’importo della prima era rapportato al TUS
(tasso ufficiale di sconto) maggiorato di 3 punti,
mentre per l’evasione, oltre a detta somma, era
prevista una somma una tantum da graduare da un
minimo del 50 ad un massimo del 100% della contribuzione evasa, sia pure secondo criteri predeterminati da un decreto interministeriale, a seconda
della gravità della condotta. Con tale riforma è
evidente che tali sanzioni hanno subito una parziale mutazione della natura giuridica, specie per la figura (meno grave) della omissione, mentre spuria
rimaneva la figura dell’evasione, ancorata ad un
importo che oscillava tra due limiti edittali, alla
pari di qualunque provvedimento sanzionatorio,
importo che oltretutto si cumulava alla somma aggiuntiva.
Infine, con la riforma del 2000 la trasformazione
poteva dirsi completata poiché anche la sanzione
dell’evasione veniva determinata in maniera automatica senza limiti edittali e non più in aggiunta
all’importo dovuto a titolo di omissione.
Tuttavia è rimasta sempre latente la tentazione
da parte del legislatore di inasprire oltremodo il regime sanzionatorio (civile) fino al rischio di snaturarne il carattere. Ne è un fulgido esempio l’art. 3
del D.L. n. 12/2002 conv. con L. n. 73/2002, così
come modificato dall’art. 36 bis, comma 7, lett. a),
del D.L. n. 223/2006 conv. con L. n. 248/2006,
che ha previsto in caso di lavoratori in nero (5),
oltre alla tradizionale sanzione amministrativa, una
sanzione civile minima di € 3.000,00 per singolo
lavoratore a prescindere dalla durata della prestazione lavorativa. In tal modo poteva capitare che a
fronte di un’evasione minima di poche centinaia
di euro, si potessero irrogare sanzioni civili elevatissime.
La riprova dell’irragionevolezza di tale regime è
confermata sia dal fatto che tale normativa è stata
in vigore per appena qualche anno poiché sostituita dalla L. n. 183/2010 che ora prevede che alla
fattispecie si applichi il regime (ordinario) dell’evasione maggiorato del 50% sia soprattutto dal rilievo che la Corte costituzionale ha dichiarato illegittima detta normativa con la sentenza n. 254 del 13
novembre 2014 (6).
Oggi quindi l’obbligazione (accessoria) per le
sanzioni civili è sempre determinata per tutte le
fattispecie alla pari di qualsiasi obbligazione civilistica pecuniaria in ragione dell’intervallo temporale, benché resta la evidente constatazione che gli
importi previsti dalla normativa sono sensibilmente diversi a seconda della gravità della fattispecie.
È dunque possibile parlare ancora di sanzione civile?
La giurisprudenza non ha dubbi, prendendo
spunto dal chiaro tenore letterale della normativa
(4) Più dettagliatamente il comma 8 dell’art. 116 della L. n.
388/2000 prevede che “i soggetti che non provvedono entro il
termine stabilito al pagamento dei contributi o premi dovuti alle gestioni previdenziali ed assistenziali, ovvero vi provvedono
in misura inferiore a quella dovuta, sono tenuti:
a) nel caso di mancato o ritardato pagamento di contributi
o premi, il cui ammontare è rilevabile dalle denunce e/o registrazioni obbligatorie, al pagamento di una sanzione civile, in
ragione d’anno, pari al tasso ufficiale di riferimento maggiorato di 5,5 punti; la sanzione civile non può essere superiore al
40% dell’importo dei contributi o premi non corrisposti entro
la scadenza di legge;
b) in caso di evasione connessa a registrazioni o denunce
obbligatorie omesse o non conformi al vero, cioè nel caso in
cui il datore di lavoro, con l’intenzione specifica di non versare
i contributi o premi, occulta rapporti di lavoro in essere ovvero
le retribuzioni erogate, al pagamento di una sanzione civile, in
ragione d’anno, pari al 30%; la sanzione civile non può essere
superiore al 60% dell’importo dei contributi o premi non corrisposti entro la scadenza di legge”.
(5) È l’ipotesi più grave che nella prassi può ricorrere, ipotesi che potremo definire come una “iper evasione”.
(6) Con tale pronuncia Consulta ha rilevato che “la sanzione
può risultare del tutto sproporzionata e…. incoerente con la
sua natura” (www.cortecostituzionale.it). Come conseguenza
pratica ne deriva che in caso di lavoratori in nero torna ad applicarsi per il periodo ante L. n. 183/2010 la comune sanzione
dell’evasione, pari al 30%, mentre per il periodo successivo si
applicherà la sanzione dell’evasione maggiorata del 50%, che
ora dunque raggiunge il 45% (30 + 15).
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
735
Giurisprudenza
Controversie previdenziali
e supportando le sue considerazioni secondo argomenti ampiamente noti. Si afferma così che il tratto saliente di tale obbligazione sta nel fatto che il
danno è predeterminato nel suo ammontare dalla
legge e presunto juris et de jure, costituendo sia una
regolamentazione legale del principio d’ordine generale fissato dall’art. 1218 c.c. che obbliga il debitore al risarcimento del danno in generale sia una
specificazione del “danno maggiore”, previsto ex
art. 1224 c.c. nelle obbligazioni pecuniarie in particolare, con la particolarità che esso è qui presunto
a vantaggio del creditore che è sollevato del relativo onere probatorio.
Sotto tale profilo la funzione delle somme aggiuntive è assimilabile ad una clausola penale ex
art. 1384 c.c., assolvendo contemporaneamente alla duplice funzione di rafforzare l’obbligazione contributiva, in ragione della indubbia finalità civilistica cui è sottesa tale obbligazione, e di risarcire
in via presuntiva e predeterminata il danno economico cagionato.
Naturalmente si tratta di una penale non già rimessa alla libera pattuizione dalle parti in virtù
della loro autonomia negoziale, ma di una sorta di
penale di fonte legale stabilita da una norma speciale, anche in ragione del carattere pubblicistico
dell’ente creditore.
Anche per tale motivo la giurisprudenza ha ripetutamente escluso in passato la possibilità di invocare l’art. 1384 c.c. che consentirebbe al giudice la
riduzione equitativa della penale posto che tale
norma è applicabile solo alle penali di origine negoziale o pattizia. Ne consegue che neppure l’accordo tra le parti può rilevare né è consentito all’ente previdenziale rinunciarvi, restando unicamente nella facoltà dell’ente di concedere un pagamento dilazionato, peraltro soggetto a precise condizioni legislativamente previste.
Tuttavia, anche al di là di tali considerazioni, a
nostro avviso è possibile fare un passo in più.
Infatti, la dottrina più recente non esclude che
in sede civile certe somme, pur assumendo una
tendenziale natura civilistica e assolvendo ad una
(generale) funzione risarcitoria, possano avere anche una (speciale) finalità sanzionatoria. Ciò costituisce un’eccezione che vale solo nei casi espressamente previsti dall’ordinamento, casi reputati degni di rilevanza sociale e finalizzati a operare da deterrente per la reiterazione di certe condotte. Chiaramente trattasi di casi che devono essere indivi-
duati dal legislatore e non possono essere rimessi
alla libera pattuizione dei privati. Sotto tale profilo
è netta la differenza tra la clausola penale già citata, che serve solo a predeterminare i danni e che
può essere opportunamente ridotta dal giudice se
manifestamente eccessiva ex art. 1384 c.c.
Su un piano generale di inquadramento sistematico tali fattispecie sono chiamate danni punitivi,
traduzione letterale dei “punitive damages”, tipici
dell’esperienza anglosassone e poco noti ai paesi di
civil law. Si tratta spesso di casi in cui è il giudice
che valuta le circostanze del caso concreto ed è legittimato a stabilirne in concreto il risarcimento.
Per una rassegna dei singoli casi previsti nel nostro
ordinamento si pensi all’art. 12 della L. n. 47/1948
in caso di diffamazione a mezzo stampa che prevede una riparazione in aggiunta al risarcimento dei
danni di cui all’art. 185 c.p. in relazione alla gravità dell’offesa e alla diffusione dello stampato, all’art. 187 undecies del TUF che permette alla Consob, oltre a costituirsi parte civile per i procedimenti penali per reati finanziari previsti dal TUF
di chiedere il risarcimento del danno tenendo in
considerazione degli effetti del reato, all’art. 125
del D.Lgs. n. 30/2005 in caso di violazioni della
proprietà industriale, all’art. 709 ter c.p.c. in caso
di violazione degli obblighi di affidamento dei figli
minori in caso di separazione e all’art. 96 c.p.c. che
rappresenta una fattispecie generale di danno punitivo per condotta processuale (7).
Ugualmente nel caso di specie e in particolare
per ciò che attiene più specificatamente all’evasione, saremo di fronte ad un ulteriore caso di danno
punitivo, vista la gravità di tale condotta incentrata sull’occultamento doloso dell’obbligazione contributiva. L’unica particolarità rispetto ai casi precedenti è che qui la quantificazione del danno non
è rimessa al giudice adito ma è determinata direttamente dalle legge, come si conviene peraltro ad
un’obbligazione pecuniaria accessoria ad altra obbligazione avente per oggetto la contribuzione previdenziale e in considerazione del fatto che tali
somme hanno il fine di garantire il regolare e tempestivo funzionamento del sistema previdenziale
obbligatorio nel suo complesso.
Va infine rilevato in sede di premessa che l’oggetto della presente disamina va delimitato alle
sanzioni civili applicate dagli Istituti previdenziali
pubblici, che dopo gli accorpamenti di cui alla L.
n. 214/2011, si sono ridotti a INPS e INAIL. Circa
(7) Vedi in generale S. Patti, voce Pena privata, in Dig. disc.
priv., Torino, 1995.
736
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
Giurisprudenza
Controversie previdenziali
le sanzioni che ineriscono alla contribuzione obbligatoria gestita dalle Casse dei liberi professionisti si
rinvia alla normativa specifica di settore (8).
L’estensibilità degli atti interruttivi del
credito originario alle somme aggiuntive
La questione rimessa alla funzione nomofilattica
delle sezioni Unite ed ora definitivamente chiarita
concerne la possibile estensione degli effetti dell’atto interruttivo della prescrizione dell’obbligazione contributiva principale in favore del credito
maturato per le somme aggiuntive.
Secondo un primo e prevalente indirizzo, essendo tali somme una conseguenza automatica e legalmente predeterminata dell’inadempimento e/o del
ritardo è inevitabile che l’interruzione della prescrizione del credito principale si comunichi a
quello accessorio (9).
Secondo altro orientamento, anche ammettendo
l’accessorietà del credito per dette sanzioni, ciò
non basterebbe in assenza di una specifica disposizione ad assoggettare tali somme allo stesso regime
del credito contributivo dell’obbligazione principale in virtù di una causa autonoma, per cui l’interruzione avente per oggetto il solo credito principale
non si estende automaticamente alle sanzioni in
mancanza di un riferimento normativo espresso (10).
Al fine di risolvere tale conflitto, le sezioni Unite sono partite dalla natura civilistica di tali sanzioni, considerate come somme ex lege predeterminate
il cui credito sorge ope legis alla scadenza del termine legale per il pagamento del debito contributivo.
Tra l’altro si tratta di obbligazioni pecuniarie in
cui l’eventuale inadempimento non richiede un
formale atto di costituzione in mora, essendoci una
mora ex re ex art. 1219, comma 2, n. 3, c.c.
La natura civile di tali sanzioni emerge chiaramente dalla stessa L. n. 388/2000 che ha rivisto e
alleggerito l’intero apparato sanzionatorio nella
materia de qua seguendo due precise linee direttrici: da un lato dando centralità alla sanzione civile
e dall’altro abolendo (art. 116, comma 19) tutte le
sanzioni amministrative che conseguivano egualmente dall’omesso o ritardato versamento in sé
dell’obbligazione contributiva e che obbligavano
(8) Così vedasi artt. 17 e 18 della L. n. 576/1980; artt. 17 e
18 della L. n. 21/1986; artt. 17 e 18 della L. n. 773/1982; artt.
19 e 20 della L. n. 414/1991; art. 17 della L. n. 249/1991, ecc.
(9) Così Cass., Sez. lav., n. 14863/2011; Cass., Sez. V, n.
13080/2011; Cass., Sez. I, n. 23746/2007.
(10) Così Cass., Sez. V, n. 13080/2011; Cass., Sez. I, n.
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
gli Istituti previdenziali alla loro contestazione tramite lo strumento dell’ordinanza-ingiunzione.
La suprema Corte ha rilevato che esiste tra l’obbligazione contributiva e le sanzioni civili un vincolo di dipendenza funzionale posto che esse sorgono automaticamente dall’inadempimento civilistico e tale vincolo non incide solo sulla genesi di tale obbligazione ma si conserva per tutta l’esistenza
del rapporto obbligatorio fino alla stessa estinzione,
satisfattoria o meno. Pertanto gli effetti degli atti
interruttivi posti in essere in riferimento al credito
per l’omissione contributiva si estendono ipso jure
anche al credito generatosi per le sanzioni civili.
Del resto, se tale ultima obbligazione sorge in via
originaria a causa del mancato versamento dei contributi, la stessa obbligazione deve rinnovarsi coerentemente anche quando durante l’esistenza del
rapporto obbligatorio principale il creditore interrompe il decorso della originaria prescrizione al fine di far sorgere un nuovo termine. In tale modo
la Cass. ha confermato l’indirizzo prevalente secondo cui gli effetti degli atti interruttivi si estendono
in via automatica al credito per le sanzioni civili.
Ciò che possiamo aggiungere al dictum della
Cass. è che la necessità di un specifico atto di interruzione delle sanzioni civili si pone in tutti quei
casi in cui il debitore adempie all’obbligazione contributiva originaria senza tuttavia versare le sanzioni per le ragioni più varie (dimenticanza, contestazione, richiesta di abbattimento ex art. 118, comma
10, ecc.) (11). In tali casi è evidente che l’interruzione della prescrizione dovrà riferirsi espressamente alle sanzioni civili inadempiute.
Le altre questioni connesse alla natura
giuridica delle sanzioni civili
Oltre alla questione sopra prospettata possono
accennarsi per intima coerenza anche ad altre problematiche la cui risoluzione discende egualmente
dalla natura giuridica di tali somme.
Un argomento, oggi forse superato ma in passato
oggetto di discussione, riguarda il termine di prescrizione delle sanzioni civili e più precisamente se
la sua durata sia uguale o diversa rispetto a quella
dei contributi.
411/1999; Cass., Sez. lav., n. 14152/2004; Cass., Sez. lav., n.
18148/2006.
(11) È il caso in cui il saldo della denuncia DM non sia versato entro il 16 del mese, ma a distanza di qualche tempo, come nel caso tipico di mancanza di liquidità della ditta.
737
Giurisprudenza
Controversie previdenziali
A tale proposito, va preliminarmente rilevato
che il legislatore fin dalla legge istitutiva dell’assicurazione generale obbligatoria - la L. n.
1827/1935 - non ha disciplinato tale termine di
prescrizione e pertanto si è posto il problema se sia
applicabile la norma generale prevista dal codice
civile (art. 2946), secondo cui il termine prescrizionale, salvo diverso termine previsto dalla legge, è
di dieci anni. Deve peraltro essere chiarito che per
i periodi precedenti al 1° gennaio 1996 ossia all’entrata in vigore della Riforma Dini (L. n.
335/1995) il problema giuridico non si poneva, atteso che il termine di prescrizione ordinario previsto dal c.c. coincideva con il termine previsto dalla
legislazione speciale per i contributi previdenziali.
Secondo la tesi da sempre prevalente in giurisprudenza le sanzioni civili sono obbligazioni accessorie e quindi, come tali, dovrebbero seguire la
stessa sorte dell’obbligazione principale, con la
conseguenza che a decorrere dal 1° gennaio 1996
si prescrivono, come i contributi dovuti all’assicurazione obbligatoria generale per invalidità vecchiaia e superstiti, in cinque anni (12).
Questa è anche la tesi sostenuta dall’INPS: si
legge infatti nella circ. n. 262/1995 che “qualora i
contributi siano stati pagati in ritardo rispetto al
termine di scadenza legale, le relative sanzioni civili che risulteranno dovute e che restano cristallizzate alla data del pagamento, si prescriveranno nello
stesso termine prescrizionale stabilito per il debito
contributivo”.
Ciò nonostante, non sempre la giurisprudenza si
è allineata a tale posizione, muovendo dalla natura
della sanzione (13). L’innegabile funzione accessoria della sanzione pecuniaria rispetto all’obbligazione contributiva non vale, quindi, come sostenuto
dalla giurisprudenza di legittimità citata in nt. 8,
ad annullare le sostanziali differenze esistenti tra le
due figure.
Altro argomento è stato rinvenuto nel fatto che
la disciplina sulla prescrizione è inderogabile e
quindi l’obbligazione accessoria non è in grado di
derogare alla disciplina generale sulla prescrizione
prevista dall’art. 2946 c.c. con la conseguenza che,
in mancanza di una espressa previsione normativa,
la prescrizione delle sanzioni civili deve ritenersi
che sia di dieci anni e non di cinque anche dopo
la novella normativa in materia di contribuzione
IVS ad opera della L. n. 335/1995.
La questione dunque è accertare sul piano logico-giuridico se il principio di accessorietà sia in
grado di derogare alla disciplina sulla prescrizione
generale prevista dall’art. 2946 c.c. Il fatto che la
categoria delle obbligazioni accessorie possa comportare sul piano positivo una sfasatura tra il termine di prescrizione previsto per l’obbligazione principale e quello del vincolo accessorio, lo ricaviamo
dal codice civile laddove si tenga presente che
l’obbligazione accessoria degli interessi si prescrive
in un termine minore dell’obbligazione principale.
Secondo la tesi sostenuta dalla giurisprudenza
dominante esiste uno stesso regime prescrizionale
principalmente per due ragioni. Da un lato va ulteriormente ribadita la natura accessoria dell’obbligazione relativa alle sanzioni civili, che in quanto tale si accompagna e si lega inscindibilmente all’obbligazione principale, generandosi tali obbligazioni
da un unico dies a quo coincidente con l’inadempimento e/o ritardo dell’obbligazione principale alla
sua scadenza. Infatti tale nesso deve necessariamente sussistere nella fase genetica, pur potendosi
nel corso del rapporto estinguere l’obbligazione
principale se questa viene adempiuta senza il pagamento delle sanzioni. Pertanto, una volta venuta
ad esistenza l’obbligazione accessoria, essa acquista
sì una sua autonomia funzionale, ma lo steso momento genetico fa sorgere un unico termine prescrizionale.
Dall’altro sarebbe un evidente controsenso logico il fatto che un’obbligazione accessoria, come
quella relativa alle sanzioni, avesse un termine
maggiore e anzi doppio rispetto a quello dell’obbligazione contributiva principale.
(12) Emblematico è il passaggio della sentenza di Cass. n.
183/1986 secondo cui “è sempre stato ritenuto che la prescrizione del credito per le sanzioni civili sia la medesima dei contributi cui esse ineriscono, e che dalla omissione dei contributi,
contestualmente ed automaticamente nasca l’obbligo di versarle. Vale, dunque, il principio dell’accessorietà, per il quale
non è prevista alcuna deroga”.
(13) Con sent. n. 18148/2006 la Cassazione ha precisato
che “le sanzioni civili, pertanto, costituiscono obbligazioni di
natura diversa dall’obbligazione contributiva. Scopo dell’obbligazione contributiva è la costituzione presso l’ente gestore della provvista necessaria all’erogazione delle prestazioni previ-
denziali ed assistenziali. Scopo della sanzione civile è il rafforzamento dell’obbligazione contributiva mediante l’irrogazione
di una pena pecuniaria al trasgressore. L’innegabile funzione
accessoria della sanzione pecuniaria rispetto all’obbligazione
contributiva non vale ad annullare le sostanziali differenze esistenti tra le due figure. Una prima conseguenza sul piano pratico è che alle sanzioni civili (o somme aggiuntive) non è applicabile il regime di prescrizione previsto per le obbligazioni contributive. In particolare non è applicabile il disposto dell’art. 3
commi 9 e 10 della legge n. 335 del 1995 che si riferisce
espressamente soltanto alle contribuzioni di previdenza e di
assistenza e non alle sanzioni pecuniarie…”.
738
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
Giurisprudenza
Controversie previdenziali
Inoltre deve anche sottolinearsi che sarebbe incoerente che da un’unica data inizi a decorrere diversi termini per entrambe le obbligazioni con tutte le disfunzioni che ciò comporterebbe, poiché si
verrebbe a creare una sfasatura temporale con accavallamenti continui tra le due obbligazioni ed effetti pratici di chiara confusione gestionale a detrimento dell’azione di recupero degli Istituti previdenziali.
In fondo, a ben guardare, la questione da ultimo
decisa dalle sezioni Unite ha come implicito presupposto proprio l’accoglimento di tale tesi poiché
il problema risolto riguardava se l’interruzione del
termine dell’obbligazione principale valesse anche
per l’obbligazione accessoria.
Altra questione riguarda la possibile trasmissibilità dell’obbligazione inerente alle sanzioni ad altri
soggetti diversi dall’obbligato. Conviene distinguere il caso classico della trasmissione ereditaria rispetto ad altri casi.
Nella prima eventualità, è chiaro che se si aderisse alla tesi che vuole tali sanzioni di natura sanzionatoria o afflittiva è giocoforza ritenerne la intrasmissibilità ex art. 7, L. n. 689/1981, mentre
qualora si configurassero come sanzioni civili si deve addivenire alla soluzione opposta alla pari di
qualunque obbligazione civilistica di natura pecuniaria priva, come tale, del carattere intuitu personae (14). È appena il caso il segnalare senza tanti
commenti che quest’ultima soluzione è quella oggi
pacificamente seguita.
In relazione alla possibile trasmissione del debito
per sanzioni civili ad altri soggetti occorre evidenziare come il legislatore abbia previsto di recente
norme speciali in riferimento agli obbligati in via
solidale dell’obbligazione contributiva. Come noto,
in taluni casi l’obbligazione contributiva è posta a
carico non solo dell’obbligato, ma anche di altri
soggetti che per vari motivi siano legati ad esso per
specifici rapporti.
Tra essi vi rientra il caso dell’appalto in cui in
capo all’appaltante è posta una responsabilità solidale non solo erariale ma anche contributiva per le
omissioni e inadempienze dell’appaltatore (o appaltatario). La fattispecie è disciplinata dall’art. 29, D.
Lgs. n. 276/2003 e una recente modifica normativa
ha escluso tale solidarietà (15).
A seguito della riformulazione intervenuta nel
2012, l’art. 29, a differenza della versione originaria, precisa ora che resta “escluso qualsiasi obbligo
per le sanzioni civili delle quali risponde esclusivamente il responsabile dell’inadempimento”.
Circa la decorrenza temporale degli effetti prodotti da tale innovazione vale la pena ricordare come lo stesso Istituto previdenziale in seguito ad
un’interpretazione del Ministero del Lavoro, ha
precisato (circ. INPS 10 agosto 2012, n. 106, p. 3)
che “il dies a quo a parti dal quale il committente,
ex art. 21 d.l. semplificazioni, non risponde dell’obbligo relativo alle somme aggiuntive, nel quadro di
una lettura sistematica della nuova disposizione,
coincide con tutti gli obblighi contributivi la cui
scadenza del versamento è successiva al 10 febbraio
2012, data di entrata in vigore del predetto decreto”. Pertanto, a partire da tale data è stato introdotto un netto profilo di discontinuità rispetto al
regime anteriore.
Tale novella necessita di una spiegazione per accertare se qui siamo in presenza di una spia normativa che depone a favore del carattere sanzionatorio contrariamente all’indirizzo prevalente oggi
consolidato ovvero se sia possibile una spiegazione
diversa in linea con l’interpretazione dominante.
È chiaro che, se si accentua la natura amministrativa di tale sanzione, la trasmissione della sanzione ad altri soggetti violerebbe uno dei principi
cardini del diritto sanzionatorio ossia il principio
della personalità della sanzione, secondo cui è tenuto a risponderne solo il responsabile della violazione.
In realtà a nostro avviso un’altra interpretazione
è possibile e quindi sarebbe coerente ammettere da
un lato la trasmissibilità delle sanzioni civili in capo all’erede, in quanto successore a titolo universale, e dall’altro negarla in caso di trasmissione inter
vivos per altre fattispecie, come nel caso della solidarietà contributiva.
La scelta operata nel 2012 di escludere le sanzioni non è frutto di una scelta discrezionale del legislatore ma della precisa esigenza di evitare che il
(14) Tale conclusione è espressamente prevista dall’INPS
con la circ. n. 165/2001, dove si legge “…la somma aggiuntiva
ha funzione risarcitoria e non afflittiva o sanzionatoria ed, in
quanto tale, si configura come sanzione civile…Il carattere civile di tale obbligazione comporta, come necessaria conseguenza, la sua trasmissione agli eredi”.
(15) Infatti, nella sua originaria formulazione anteriore alla
modifica intervenuta ad opera dell’art. 21, comma 1, D.L. n.
5/2012 (conv. nella L. n. 35/2012), l’art. 29, D.Lgs. cit., più comunemente noto come Riforma Biagi, prevedeva testualmente
che “In caso di appalto di opere o di servizi il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l’appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali ulteriori subappaltatori entro il limite di due anni dalla cessazione dell’appalto, a
corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi e i contributi
previdenziali dovuti”.
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
739
Giurisprudenza
Controversie previdenziali
regime legale di responsabilità solidale si traduca
nella traslazione, su un soggetto estraneo alla violazione, degli effetti giuridici della condotta che la
nuova norma ascrive al solo “responsabile dell’inadempimento”.
Al fine di dare una lettura sistematica della norma su un piano civilistico ci preme al riguardo delineare talune considerazioni. La dottrina, infatti,
all’interno della (unitaria) categoria delle obbligazioni solidali, distingue tra le “obbligazioni soggettivamente complesse” e le “obbligazioni collegate
da un nesso di accessorietà”. Nelle prime, tutti i
soggetti coinvolti dal lato passivo dell’obbligazione
sono debitori, di talché la responsabilità di ciascuno si fonda sull’unicità del rapporto. La seconda
categoria, al contrario, attiene alle ipotesi di responsabilità senza debito, poiché ricorre una distinzione tra il debitore e il soggetto chiamato all’adempimento (come nella fideiussione).
L’ipotesi de qua appartiene a tale seconda sottocategoria, poiché il committente non è debitore
dell’INPS (o del lavoratore per le retribuzioni), ma
è un soggetto che la legge chiama ad adempiere in
luogo del debitore effettivo. Infatti, poiché il soggetto chiamato al pagamento non è parte del rapporto originario, egli può essere chiamato a corrispondere il valore della prestazione da questo dovuta, ma non può, al contrario, rispondere del danno cagionato al creditore dal mancato adempimento tempestivo dell’effettivo debitore, poiché chi
paga è tenuto in base ad un rapporto autonomo (di
fonte legale, in questo caso) e non perché gli sia
comune, ab origine, la ragione di debito (16). La
sanzione sarebbe equiparabile ad una clausola penale, istituto che, come chiarito, è finalizzato alla
sola predeterminazione del danno da inadempimento. Poiché di tale danno il “soggetto chiamato
al pagamento” non risponde, questi non risponderà
nemmeno delle penalità sostitutive del danno medesimo.
In definitiva, il committente non è tenuto alle
sanzioni civili poiché egli non risponde dell’inadempimento del debitore (nel senso delle conseguenze
da esso prodotte), ma risponde in ragione di detto
inadempimento, poiché egli paga la prestazione originariamente dovuta dal debitore che non vi abbia
provveduto. Su questa base la ragionevolezza della
norma è rispettosa dei principi civilistici e pertanto
potrebbe anche porsi il problema di superare l’interpretazione ministeriale sulla limitatezza degli effetti temporali della novella.
In effetti tale problema si è posto a livello pratico, ma non su un piano strettamente civilistico in
base ai profili sopra evidenziati, ma sotto un profilo
costituzionale, posto che la novella sarebbe lesiva
dell’art. 3 Cost. poiché fino ad una certa data la solidarietà è estesa alle sanzioni civili, mentre dopo è
esclusa. La questione interpretativa è stata quindi
rimessa al vaglio della Corte costituzionale che tuttavia l’ha ritenuta non fondata, rientrando nella
piena e legittima discrezionalità del legislatore regolare temporalmente gli effetti economici della
solidarietà (17).
Una cruciale questione in tema di sanzioni civili
è la distinzione tra le singole fattispecie che rientrano nell’evasione e nell’omissione. È una discussione che ha una notevole importanza pratica, vista la notevole differenza nell’onere economico
che ciò comporta per il soggetto inadempiente.
Anche in tali casi si sono avuti accesi contrasti a
livello giurisprudenziale che hanno investito le
stesse sezioni Unite (18). È tuttavia una querelle
che in questa sede non si affronta per la problematicità delle questioni, legate nel caso di specie non
tanto alla natura giuridica delle sanzioni, come fin
qui analizzato, quanto agli adempimenti contributivi e lavoristici richiesti all’obbligato al fine di rispettare ed onorare l’obbligazione contributiva.
(16) U. Breccia, Le obbligazioni, in Trattato Zatti - Iudica, Milano, 1991, 184.
(17) Trattasi della stessa sentenza già citata, la n. 254 del
13 novembre 2014, in www.cortecostituzionale.it. Il dictum è
un punto pacifico nella giurisprudenza costituzionale: il principio di uguaglianza non è violato dal mero succedersi nel tem-
po di discipline differenziate.
(18) Va segnalata quanto meno la Cass., SS.UU., n.
4808/2005 che ha preso posizione sui 2 orientamenti insorti
nella sezione Lavoro in caso di DM omesso, ma non sono
mancate in tempi più recenti sentenze difformi.
740
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
Giurisprudenza
Società in house
I criteri per l’applicazione della disciplina civilistica
Quali conseguenze per i
contratti a termine illegittimi
nelle società in house?
Tribunale di Ancona, Sez. lav., 26 febbraio 2015 - Est. De Antoniis - M.B. + 4 c. A.R.E. S.r.l.
Società in house - Contratti a termine - Genericità causali - Illegittimità - Sanzione - Applicabilità della normativa civilistica - Trasformazione a tempo indeterminato con corresponsione dell’indennità ex art. 3, L. n. 183/2010
(art. 97 Cost. - art. 18, l. n. 133 del 2008 - artt. 1, 36, D.Lgs. n. 165 del 2001 - artt. 1, 5, D.Lgs. n. 368 del 2001)
Al rapporto che intercorre tra lavoratore e società di capitale a partecipazione pubblica con finalità istituzionali di Ente pubblico, ma la cui attività è gestita in base a criteri economici, deve applicarsi la disciplina civilistica nell’ipotesi di illegittimità del termine del contratto a tempo determinato con causala generica. Non si
applica il divieto sancito dall’art. 36, D.lgs. n. 165/2001 per le amministrazioni pubbliche e la sanzione consiste
nella costituzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato con corresponsione dell’indennità ex art. 3, L.
183/2010, che copre il risarcimento dovuto dalla scadenza del termine illegittimo all’ordine giudiziale di ripristino del rapporto.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
Cass., Sez. lav., 18 ottobre 2013, n. 23702; Trib. Lucca 10 gennaio 2013; Trib. Firenze 10 gennaio 2013; Trib. Massa 9 gennaio 2013.
Difforme
Cass., Sez. lav., ord. 25 febbraio 2014, n. 4458; App. L’Aquila 2 aprile 2013; App. Ancona 29 gennaio 2013; Trib.
Bari 8 novembre 2013; Trib. Salerno 7 ottobre 2013; Trib. Palermo 11 luglio 2013; Trib. Catania 3 marzo 2011; Trib.
Firenze 22 febbraio 2011.
(omissis)
Motivi della decisione
(…) Le cause giustificatrici apposte ai contratti a termine (…) sono sorrette da causale del tutto generica, non
facendo riferimento a nessuna specifica concessione o
autorizzazione, né delineando in particolare il tipo di attività per le quali i ricorrenti venivano assunti, il che è
sufficiente per ritenere del tutto illegittima la causale
addotta, che impedisce il controllo del lavoratore prima
e del giudice poi sulla sua reale sussistenza e sulla sua
natura transitoria (…).
Quanto alle conseguenze di tale illegittimità, deve innanzitutto valutarsi se trovi applicazione nei confronti
della società in house il disposto dell’art. 36 D.lgs.
165/2001. Non è controverso tra le parti che l’ARE
s.r.l. faccia parte della società in house, essendo interamente partecipata da enti pubblici, avendo come finalità istituzionale l’attuazione del piano energetico regionale, svolgendo attività esclusiva in favore dei soci, come previsto dall’art. 2 dello Statuto, essendo soggetta ai
medesimi controlli che i soci degli enti pubblici esercitano sui propri servizi ai sensi dell’art. 24 dello Statuto.
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
In presenza di tali requisiti, citando recente giurisprudenza, la resistente ritiene che le società in house rientrino nel novero degli enti pubblici di cui all’art. 1 D.lgs.
165/2001. Invero non sembra che la pronuncia richiamata dalla ARE s.r.l. nei propri atti giudiziali resa dalle
Sezioni Unite in tema di giurisdizione della Corte dei
Conti (Cass. 26283/2013) sia determinante al fine che
qui interessa.
Nella suddetta pronuncia la Suprema Corte evidenzia
che secondo gli orientamenti consolidatisi nel passato
le società di capitali eventualmente costituite o comunque partecipate da enti pubblici per il perseguimento
delle finalità loro proprie non cessano sol per questo di
essere delle società di diritto privato, la cui disciplina,
se non diversamente disposto, riposa tuttora sulle norme
dettate dal codice civile, come confermato anche dal
dettato dell’art. 2449 dello stesso codice (nella cui relazione accompagnatoria è detto infatti espressamente
che “è lo Stato medesimo che si assoggetta alla legge
delle società per azioni per assicurare alla propria gestione maggiore snellezza di forme e nuove possibilità realizzatrici”).
741
Giurisprudenza
Società in house
(…) La pronuncia in esame continua poi evidenziando
che le disposizioni sulle società a partecipazione pubblica costituiscono un sistema frammentario con un insieme di deroghe alla disciplina generale, sia pure con ampio ambito di applicazione. Tali disposizioni particolari
non permettono di per sé sole di annoverare tali società
tra gli enti pubblici, non potendo attribuirsi portata generale a disposizioni eccezionali volte a regolamentate
singoli aspetti, dovendo per quanto non espressamente
previsto rinviarsi alle disposizioni in materia di società
di capitali.
D’altro canto, l’assegnazione della qualità di Ente pubblico alle Società interamente partecipate da enti pubblici appare ben difficilmente predicabile, perché trova
un solido ostacolo nel disposto della l. 20 marzo 1975,
n. 70, art. 4, a tenore del quale occorre l’intervento del
legislatore per l’istituzione di un ente pubblico; né sembra discutibile che siffatta norma esprima un principio
di ordine generale, ove si consideri la molteplicità e la
rilevanza degli effetti giuridici potenzialmente implicati
nel riconoscimento della natura pubblica di un Ente. Di
modo che, se in via di principio può ammettersi che un
siffatto riconoscimento sia desumibile anche per implicito da una o più disposizioni di legge, occorre non di
meno che la volontà del legislatore in tal senso risulti
da quelle disposizioni in modo assolutamente inequivoco. Ma, quanto alle Società a partecipazione pubblica,
lungi dal ravvisarsi disposizioni normative che inequivocabilmente attribuiscono loro la qualifica di ente
pubblico, s’è già visto come il legislatore si sia preoccupato a più riprese di ribadirne, in via generale e fatta
salva l’applicazione di singole regole speciali, l’assoggettamento alla disciplina dettata dal codice civile per le
società di diritto privato.
Una volta ribaditi tali principi, la Cassazione fa, però,
presente che nel caso di società in house la distinzione
tra socio e società viene meno alla luce del rigido controllo che i soci pubblici esercitano sulla società, sicché
quest’ultima non è che una articolazione della pubblica
amministrazione da cui promana e non un soggetto giuridico ad essa esterno e da essa autonomo. L’uso del vocabolo “società” qui serve solo allora a significare che,
ove manchino più specifiche disposizioni di segno contrario, il paradigma organizzativo va desunto dal modello societario; ma di una società di capitali, intesa come
persona giuridica autonoma cui corrisponda un autonomo centro decisionale e di cui sia possibile individuare
un interesse suo proprio, non è più possibile parlare
(nello stesso senso Cass. 5491/2014).
Deriva da tale affermazione che invero il patrimonio
della società in house costituisce parte del patrimonio
degli enti pubblici, sicché appartiene alla giurisdizione
della Corte dei Conti l’azione di responsabilità degli organi sociali per danni causati al patrimonio della società.
Tale conclusione non può, però, portare a ritenere applicabile nel caso di specie l’art. 36 D.lgs. 165/2001 in
virtù di una piena assimilabilità tra enti pubblici e società di capitali a partecipazione pubblica totalitaria, atteso che anche nella pronuncia da ultimo riportata per
742
ampi stralci si mantiene fermo il principio per il quale
la scelta della forma di società privata, sia pure partecipata, gestita e controllata da enti pubblici (che vi investono, dunque, il loro patrimonio che rimane parte dell’erario, elemento rilevante ai fini dell’affermazione della giurisdizione della Corte dei Conti), implica l’applicazione, in mancanza di diversa specifica disposizione di
segno contrario, della disciplina propria del modello societario privato con esclusione, dunque, della parificazione della società in house alle pubbliche amministrazioni previste dall’art. 1 D.lgs. 165/2001.
(…) Orbene, di certo il rapporto tra lavoratore e società
di capitale a partecipazione pubblica non rientra tra
quelli retti da norme di diritto pubblico intercorrendo
tra soggetti privati e prevedendo l’ordinamento eccezioni (art. 5 commi 15 e 17 d.l. 702/78 conv. Legge 3/79,
art. 23 legge 142/1990), ma unicamente per enti pubblici locali e loro aziende, non per le società di capitale sia
pure subentrate alle aziende degli enti locali di cui alla
legge 127/97.
L’organizzazione di un servizio pubblico secondo un modello privatistico non solleva l’ente organizzatore dai
vincoli di finanza pubblica, ma non lo sottrae neppure,
salva espressa eccezione, alla normativa civilistica propria del modello, come avviene appunto per le società
di capitali. Fatte salve le espresse cautele di legge, vincoli di finanza pubblica e garanzie giuslavoristiche non
sono in contraddizione.
Per quanto concerne i rapporti di lavoro, è certo che
l’impegno di capitale pubblico sottomette le assunzioni
ai principi costituzionali di imparzialità ed economicità,
quali specificazioni del principio di buon andamento, di
cui agli artt. 3 e 97 Cost., e dei quali è espressione nel
pubblico impiego l’art. 35 D.lgs. 165/2001. Le assunzioni al lavoro non sono rimesse al mero arbitrio degli amministratori, ma tutto ciò non comporta necessariamente la negazione delle garanzie legislative contro l’assoggettamento illimitato dei prestatori di lavoro a situazioni precarie, contrarie alla tutela della libertà e dignità
di cui all’art. 36, comma 1, Cost. E contrastante alla sopra richiamata normativa europea. La detta distinzione,
in materia di enti strumentali al perseguimento di finalità pubblicistiche, fra aziende pubbliche e società private è da tempo presente nella giurisprudenza di legittimità (Cass. 14847/2009, 10155/2004).
Anche la Corte costituzionale nega ultimamente che lo
scopo perseguito dalle società commerciali affidatarie di
servizi pubblici, scopo capace di configurare questi soggetti, sul piano economico-funzionale, come longae manus o varianti organizzative degli enti pubblici, possa
portare ad una identificazione dei regimi di assunzione e
di trattamento dei lavoratori dipendenti (Corte Cost.
227/2013).
Alla luce di tali chiari principi, va letta anche la disposizione di cui all’art. 18 d.l. 112/2008, convertito in legge 133/2008. Invero, dalla disposizione non può desumersi l’estensione alle società a partecipazione pubblica
del divieto di conversione del rapporto di lavoro a termine instaurato illegittimamente in rapporto di lavoro
a tempo indeterminato come sancito dall’art. 36 D.lgs.
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
Giurisprudenza
Società in house
165/2001, essendo la conversione del rapporto non un
atto di assunzione di personale, ma una sanzione per la
violazione delle disposizioni sulle assunzioni di personale pacificamente vigenti sia per le amministrazioni pubbliche, che per le aziende private. D’altro canto, avendo
l’art. 18 citato chiara natura di norma speciale, in quanto estende disposizioni dettate in tema di pubblico impiego a società private, sia pure partecipate da enti pubblici, va esclusa una sua applicazione analogica. (…)
Per tali ragioni, l’illegittimità del termine apposto determinerà la costituzione del rapporto di lavoro a tempo
indeterminato tra i ricorrenti e la società convenuta
con corresponsione di una indennità ex art. 32 legge
183/2010, che copre il risarcimento dovuto dalla scadenza del termine illegittimo all’ordine giudiziale di ripristino del rapporto.
(omissis).
IL COMMENTO
di Laura Torsello (*)
La giurisprudenza di merito continua a dividersi sull’applicabilità della conversione del rapporto
a tempo indeterminato per i contratti a termine illegittimi stipulati da società di capitali interamente partecipate da Enti pubblici.
Sui contratti a termine stipulati dalle
società in house
Sulla vexata quaestio della trasformazione a tempo indeterminato dei contratti a termine illegittimi
stipulati da una società in house, che è quella interamente partecipata da enti pubblici, la giurisprudenza di merito torna a dividersi e la sentenza in
commento “rilancia” la tesi in base alla quale non
vi è alcuna incompatibilità tra la necessità di assoggettare le forme di assunzione ai principi costituzionali e la tutela dei lavoratori in caso di uso illegittimo dell’assunzione a termine.
Nella causa decisa dal Tribunale di Ancona con
la sentenza in commento dunque da un lato si tratta della nullità ed inefficacia dei termini apposti ai
contratti per genericità delle causali ed assenza delle ragioni giustificatrici, dall’altro del tipo di sanzione applicabile e cioè della conversione a tempo
indeterminato, o no.
Questione fondamentale diventa pertanto l’applicabilità della disciplina privatistica della trasformazione a tempo indeterminato invocata dai lavoratori, in considerazione della eccezione della equiparazione delle società a totalitaria partecipazione
pubblica agli enti loro controllanti, e della conseguente estensione alle prime di tutta la normativa
prevista per i secondi, ivi incluso l’art. 36, D.Lgs.
(*) N.d.R.: Il presente contributo è stato sottoposto, in forma anonima, al vaglio del Comitato di valutazione.
(1) Il riferimento è alla Sentenza CGUE 26 novembre 2014,
Mascolo, e agli orientamenti successivi adottati dai Tribunali
nazionali sulle controversie dei c.d. precari della scuola. V. R.
Nunin, “Tanto tuonò che piovve”: la sentenza “Mascolo” sull’a-
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
n. 165 del 2001, a mente del quale l’illegittima apposizione del termine ad un contratto di lavoro
comporta solo la tutela risarcitoria e non quella
della stabilità del posto di lavoro.
Il Tribunale di Ancona ha accolto la tesi dei ricorrenti, disponendo la trasformazione a tempo indeterminato dei loro rapporti, all’esito di una ricostruzione della disciplina in materia (di rapporti di
lavoro alle dipendenze) di società a capitale pubblico senza sentire la necessità di richiamare la recente evoluzione giurisprudenziale della Corte di
Giustizia europea che sembra aver imboccato la
strada per cui anche le Amministrazioni dello Stato e degli Enti pubblici sono sottoposte alla sanzione della conversione dei contratti a termine illegittimi (1).
Due orientamenti a confronto
Come noto, la questione della disciplina applicabile ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle società partecipate da enti pubblici, e delle conseguenze derivanti da illegittima apposizione del termine ai contratti da esse stipulati è oggetto da anni
di un intenso dibattito, in cui si contrappongono
opinioni diametralmente opposte.
Un primo orientamento interpretativo, seguito
dalla prevalente giurisprudenza di merito, ritiene
buso del lavoro a termine nel pubblico impiego, in questa Rivista, 2015, 2, 135 ss. Da ultimo, v. M. Aimo, I precari della scuola tra vincoli europei e mancanze del legislatore domestico, in
W.p. CSDLE “Massimo D’Antona”.it, n. 240/2015; L. Menghini,
Sistema delle supplenze e parziale contrasto con l’accordo europeo: ora cosa succederà?, in Riv. it. dir. lav., 2015.
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Giurisprudenza
Società in house
che nel caso di invalidità del termine apposto ad
un contratto di lavoro stipulato con una società
“pubblica”, la conversione a tempo indeterminato
del rapporto di lavoro inter partes sarebbe inapplicabile in base all’art. 18, L. n. 133 del 2008 che
avrebbe esteso a tali società gli obblighi di adozione di procedure di evidenza pubblica e di contenimento delle spese di personale previste dall’art. 35,
D.Lgs. n. 165 del 2001 per le pubbliche amministrazioni e gli enti pubblici.
Tanto basterebbe per assimilare (o comunque
equiparare) le società a partecipazione pubblica
agli enti pubblici sotto ogni aspetto ed ad ogni effetto, ivi inclusa l’applicazione della peculiare regolamentazione dei rapporti di lavoro e delle conseguenze (meramente risarcitorie) previste dall’art.
36, D.Lgs. n. 165 del 2001 nel caso di illegittimo
utilizzo di tipologie contrattuali “atipiche” (2).
Questa opzione ermeneutica poggia sull’idea che
l’introduzione dell’art. 18, L. n. 133 del 2008 abbia
avuto la funzione di estendere i principi di trasparenza, imparzialità ed economicità sanciti dall’art.
97 Cost., trasfusi nella disciplina in materia di lavoro alle dipendenze della P.A., anche “a soggetti
che, a prescindere dalla loro veste privatistica, gestiscono servizi pubblici utilizzando, anche solo in
parte, risorse pubbliche”.
Considerazioni analoghe a quelle ora illustrate
sembrano rinvenirsi anche nella ordinanza n. 4458
del 25 febbraio 2014, con cui la Sezione Lavoro
della Corte di cassazione ha deferito alle Sezioni
Unite la risoluzione di una questione che, però,
non ha ad oggetto l’interpretazione dell’art. 18, L.
n. 133 del 2008 (3). Ed infatti, con la sentenza n.
4685 del 9 marzo 2015, nel decidere la questione
deferitagli dalla Sezione Lavoro, le Sezioni Unite
hanno affermato il principio di diritto secondo cui
“nel caso di declaratoria di nullità del termine apposto al contratto di lavoro di un dipendente di un
ente pubblico economico regionale, anche se sottoposto a tutela o vigilanza della Regione, l’instaurazione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato non è condizionata dall’obbligo di espletamento di un pubblico concorso o di procedure selettive” (4).
Tale conclusione viene fatta discendere dalla
circostanza che, secondo la legislazione regionale
siciliana invocata, l’accesso a tale tipologia di enti
non sarebbe subordinato all’espletamento “esclusivo” di un pubblico concorso, potendosi attuare delle forme di selezione “semplificata”.
Se per la S.C., dunque, “la reintroduzione di una
concorsualità qualificata o, comunque, semplificata
per le assunzioni impedisce, di conseguenza, l’automatica trasformazione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato”, ciò
sta a significare che, in quanto non si pronuncia
direttamente sulla questione che ci occupa e soprattutto sull’interpretazione e sull’ambito applicativo dell’art. 18, L. n. 133 del 2008, la decisione
delle Sezioni Unite non può assumere il ruolo di
precedente applicabile alle società in house non disciplinate da una specifica legislazione regionale.
In particolare la Sezione Lavoro, evidenziava (5)
che per decidere occorreva mettere in relazione la
possibilità di conversione di un contratto a tempo
indeterminato illegittimo sottoscritto da un ente
pubblico economico, sottratto ex artt. 2093 e 2129
c.c. all’ambito di applicazione del D.Lgs. n. 165 del
2001, con l’obbligo sancito da una legge regionale
di selezione del proprio personale mediante concorso pubblico (6).
(2) App. Ancona 29 gennaio 2013, n. 301, in Dir e Lav. Marche, 2013, 57, ritiene che “le società di capitali a totale partecipazione pubblica, che gestiscono servizi pubblici locali, sono
assimilate alle pubbliche amministrazioni nell’applicazione del
divieto di conversione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato posto dall’art. 36, c. 5, d.lgs. n. 165/2001” sicché “la
tutela spettante al lavoratore, nel caso in cui il contratto di lavoro a tempo abbia violato norme imperative, si limita al riconoscimento del danno subito in costanza del rapporto di lavoro”. Cfr. anche Trib. Salerno 7 ottobre 2013, Trib. Catania 3
marzo 2011 e Trib. Firenze 22 febbraio 2011, citate da G. Fontana, Il rapporto di lavoro nelle società pubbliche. Problemi applicativi e riforme legislative, in Lav. pubbl. amm., 2014, 5, 729;
Trib. Bari 8 novembre 2013 e App. L’Aquila 2 aprile 2013, in
Rep. Giur. Leggi d’Italia on line; Trib. Palermo 11 luglio 2013, in
Riv. it. dir. lav., 2014, 3, II, 594 ss. con nota di Saulino.
(3) Si può leggere in www.bollettinoadapt.it/wp-content/uploads/2014/02/cass_2014_4458.pd.
(4) La sentenza n. 4685 del 9 marzo 2015 si può leggere in
DeJure. Per un commento alla sentenza, v. R. Nunin, Dopo
“Mascolo” (ed in attesa della Consulta…): un obiter delle Sezio-
ni Unite sulla nullità del termine e sanzioni nel pubblico impiego,
in questa Rivista, 2015, 6, 588 ss.
(5) I dubbi sarebbero indirettamente confermati in alcune
pronunce della Corte di cassazione che, pur non pronunciandosi né sulla valenza dell’art. 18, L. n. 133 del 2008, né sull’applicabilità o meno dell’art. 36, D.Lgs. n. 165 del 2001 ai dipendenti delle società in house, proprio in virtù dell’assoggettamento di queste ultime agli stessi vincoli finanziari previsti gli
enti che ne detengono le quote, ha affermato che queste costituiscono un’articolazione delle pubbliche amministrazioni da
cui promanano e non un soggetto giuridico da esse distinte ed
autonome, con la conseguenza che il patrimonio delle società
costituisce parte del patrimonio degli enti pubblici. Cfr. Cass.,
SS.UU., n. 26283 del 2013, in www.ildirittoamministrativo.it,
con nota di C. Di Cataldo, Sul riparto di giurisdizione tra giudice
ordinario e giudice contabile in materia di responsabilità degli
amministratori di società in house; Cass., SS.UU., n. 5491 del
2014 annotata da A. Saltuari, Sulla giurisdizione in materia di
società partecipate, in http://www.personaedanno.it.
(6) L’ordinanza di rimessione è bene illustrata da E. Raimondi, Società a capitale pubblico, reinternalizzazioni e tipologie
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il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
Giurisprudenza
Società in house
Invero, con tali ultimi pronunciamenti la Suprema Corte sembra essere tornata sui propri passi,
contraddicendo le argomentazioni illustrate nella
(di poco precedente) sentenza n. 23702 del
2013 (7), in cui aveva escluso le società pubbliche
dall’ambito di applicazione della disciplina pubblicistica dei rapporti di lavoro e del divieto di conversione del rapporto a tempo indeterminato nel
caso di illegittima apposizione del termine, così sostanzialmente confermando l’orientamento della
giurisprudenza di merito opposto (8) a quello illustrato supra
Tale diversa interpretazione poggia su una ricostruzione sistematica della frammentata disciplina
delle società pubbliche avuto riguardo alla sua ratio
ed agli interessi (in alcuni casi contrapposti) su cui
essa incide avendo sullo sfondo la normativa dell’Unione Europea.
In particolare, nella pronuncia da ultimo citata
la Cassazione ricorda che la Dir. 99/70/CE sui rapporti a termine prevede “che i contratti a tempo
indeterminato sono e continueranno ed essere la
forma generale di rapporto di lavoro, anche se in
talune circostanze, ossia eccezionalmente, quelli a
termine possono meglio corrispondere ai bisogni
dei datori e dei prestatori di lavoro”.
Fra queste eccezioni l’ordinamento interno ricomprende i rapporti con la Pubblica amministrazione e gli enti pubblici, nonché i rapporti con soggetti privati, ricorrendone specifici motivi e ove
espressamente previsto dalla legge e dalla contrattazione collettiva.
Secondo la Corte, tuttavia, le società a capitale
pubblico non rientrerebbero in tali ipotesi eccezionali né tantomeno sarebbero pienamente assimilabili agli enti pubblici loro controllanti, per il solo
fatto di essere a totalitaria partecipazione pubblica
e sottoposte ad alcuni dei loro vincoli (9): ciò in
Una tesi siffatta è quella seguita anche nella pronuncia in commento, in cui il Tribunale ha fornito
una lettura della disciplina rilevante e, in particolare, dell’art. 18, L. n. 133 del 2008 proprio alla luce dei principi espressi dalla Suprema Corte nella
sentenza n. 23702 del 2013 (11).
A riguardo, il Giudice ha chiarito come (neanche) da tale disposizione potrebbe desumersi l’estensione “alle società a partecipazione pubblica
flessibili di manodopera, in Riv. giur. lav., 2014, 4, II, 571 ss. V.
altresì G. Fontana, Il rapporto di lavoro nelle società pubbliche.
Problemi applicativi e riforme legislative, in Lav. pubbl. amm.,
2014, 5, 724 s. In sostanza l’interrogativo è se, a prescindere
dalla natura pubblica o privata dell’ente datore di lavoro, l’estensione della disciplina in materia di assunzioni vigente per
le pubbliche amministrazioni non comporti anche il divieto di
conversione, che troverebbe la sua ratio nell’obbligo del concorso pubblico nonché nel necessario rispetto del vincolo del
pareggio di bilancio previsto dall’art. 81 Cost., i quali potrebbero essere pregiudicati dalla conversione a tempo indeterminato.
(7) La sentenza è annotata da M. Biasi, Il contratto a termine “acausale” prima del D.L. n. 34/2014, in Giur. it., 2014, 1973
ss.
(8) Per i riferimenti giurisprudenziali si rinvia a E. Raimondi,
Società a capitale pubblico, reinternalizzazioni e tipologie flessibili di manodopera, in Riv. giur. lav., 2014, 4, II, 574 s.
(9) Tale conclusione sarebbe ulteriormente confermata dall’assunto desumibile dall’art. 4, L. n. 70 del 1975 a tenore del
quale occorre l’intervento del legislatore per l’istituzione di un
Ente pubblico.
(10) Il Tribunale di Ancona richiama anche la Corte cost. 23
luglio 2013, n. 227 nella quale in un obiter dictum verrebbe negato che lo scopo perseguito dalle società commerciali affidatarie di servizi pubblici, scopo capace di configurare questi
soggetti, sul piano economico funzionale, come longae manus
o varianti organizzative degli enti pubblici, possa portare ad
una identificazione dei regimi di assunzione e di trattamento
dei lavoratori dipendenti. Per una rassegna sulle pronunce relativamente ai servizi pubblici locali v. G. Guzzo, La disciplina
dei spl: tra spinte legislative ed interventi correttivi della Corte
costituzionale, in http://www.ildirittoamministrativo.it.
(11) Pronuncia in cui, in verità, la Cassazione non si è direttamente pronunciata sull’art. 18, L. n. 133 del 2008. Tale iato è
evidenziato anche da Raimondi, op. cit., 573.
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
quanto, secondo l’insegnamento della S.C. del
2013 - recepito nella sentenza in commento - “l’organizzazione di un servizio pubblico secondo un
modello privatistico non solleva l’ente organizzatore dai vincoli di finanza pubblica ma non lo sottrae
neppure, salva espressa eccezione, alla normativa
civilistica propria del modello, come avviene appunto per le società per azioni” (10).
Ciò chiarito, l’impegno di capitale pubblico sottomette le assunzioni ai principi costituzionali di
imparzialità e di economicità, quali specificazioni
del principio di buon andamento, di cui agli artt. 3
e 97 Cost., e dei quali è espressione nel pubblico
impiego il D.Lgs. n. 165/2001, art. 35, ma non
comporterebbe necessariamente la separazione delle garanzie legislative contro l’assoggettamento illimitato dei prestatori di lavoro a situazioni precarie,
contrarie alla tutela della libertà e dignità, di cui
all’art. 36, comma 1, Cost., e contrastate dalla sopra richiamata normativa europea.
La conseguenza di tale premessa è che fatte salve
le espresse cautele di legge, vincoli di finanza pubblica e garanzie giuslavoristiche non sono in contraddizione.
I motivi della decisione e l’applicazione
della disciplina sui rapporti di lavoro alle
dipendenze di privati
745
Giurisprudenza
Società in house
del divieto di conversione del rapporto di lavoro a
termine instaurato illegittimamente in rapporto di
lavoro a tempo indeterminato come sancito dall’art. 36 d.lgs. n. 165/2001 per le amministrazioni
pubbliche di cui all’art. 1 comma 2 d.lgs. n.
165/2001”: ciò sia per la sua “chiara natura di norma speciale” (12), e sia perché “essendo la conversione del rapporto non un atto di assunzione di
personale, ma una sanzione per la violazione delle
disposizioni sulle assunzioni di personale pacificamente vigenti sia per le amministrazioni pubbliche,
che per le aziende private” (13).
Dalla breve ricostruzione operata, è evidente la
(insanabile) contrapposizione tra i due orientamenti formatisi, ragion per cui un celere intervento delle Sezioni Unite, di cui si attende ancora la
pronuncia, è senz’altro auspicabile.
Peraltro, nonostante le perplessità che la Suprema Corte sembra aver mostrato nell’ordinanza di
remissione n. 4458 del 2012, la ricostruzione prospettata nella sua precedente pronuncia n. 23702
del 2013 appare preferibile, in quanto maggiormente rispettosa di tutti gli interessi coinvolti dalla
disciplina in esame.
Infatti, l’individuazione della disciplina da applicare alle società a capitale pubblico che abbiano
assunto con contratti a termine in violazione di
legge deve essere fatta all’esito di un’interpretazione della disciplina frutto di un equilibrato bilanciamento tra (a volte) contrapposti principi, tutti di
rango costituzionale: da un lato, i principi di economicità, imparzialità e buon andamento delle
pubbliche amministrazioni e, dall’altro lato, i diritti
di tutela della dignità, professionalità ed una giusta
retribuzione.
Ciò presupposto, e considerato che queste società agiscono come qualsiasi altra società di capitali,
appare logico e coerente applicare loro in tutto e
per tutto la disciplina dei rapporti di lavoro dei lavoratori privati; viceversa, non c’è alcuna valida
ragione per “invocare” la disciplina prevista per i
dipendenti pubblici (14).
Diversamente argomentando, si arriverebbe alla
conclusione (logicamente e giuridicamente inaccettabile) che una società di capitali organizzata in
tutto e per tutto nelle forme del diritto privato, la
cui attività è gestita in base a criteri economici,
non debba rispondere dei comportamenti illegittimi posti in essere nei confronti dei propri dipendenti, contrariamente alle altre società, pure di diritto privato.
Tale conclusione non pare contraddetta dall’obiezione che le società a partecipazione pubblica
non potrebbero “dimensionare gli organici in funzione del personale effettivamente necessario per la
gestione” in ragione dei vincoli di bilancio a cui
sarebbero assoggettate.
Come efficacemente chiarito dalla Suprema
Corte nella più volte citata sentenza n. 23702 del
2013, detta finalità è senz’altro “perseguibile … attraverso la conclusione di contratti a tempo determinato, ma nel rispetto delle garanzie normative
poste per le altre società”.
(12) Con la conseguenza di escluderne qualsiasi applicazione analogica. La natura speciale deriva dal fatto di estendere
“disposizioni dettate in tema di pubblico impiego a società private, sia pure partecipate da enti pubblici”. In primo luogo,
dalla formulazione letterale della disposizione citata non si rinviene alcun richiamo (né diretto né indiretto) alla disciplina di
cui all’art. 36, D.Lgs. n. 165 del 2001, con la conseguenza che
essa, anche considerata la sua natura “speciale”, non può essere ritenuta automaticamente applicabile, se non operando
una illegittima e forzata lettura del dato normativo. In altre parole, dal richiamo operato alla disciplina in tema di assunzioni
nel settore pubblico, non può desumersi in via diretta, immediata, ed inequivoca (anche) il richiamo alla disciplina sanzio-
natoria prevista dall’art. 36, D.Lgs. n. 165 del 2001(!).
(13) La medesima interpretazione dell’art. 18, L. n. 133 del
2008 era stata precedentemente seguita da un orientamento,
pedissequamente ripreso, secondo cui alla disciplina privatistica sulla conversione non osterebbero disposizioni come l’art.
18, L. n. 133 del 2008 - che introducono dei vincoli, trattandosi
di “norme speciali, di stretta portata, inidonee a snaturare la fisionomia di una società commerciale e a determinare l’inapplicabilità delle tutele di legge” (v. Trib. Lucca 10 gennaio 2013;
Trib. Firenze 10 gennaio 2013; Trib. Massa 9 gennaio 2013).
(14) Cfr. in termini anche Trib. Ragusa, Sez. lav., sentenza
n. 711 del 17 luglio 2013.
746
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
Giurisprudenza
Sintesi
Rassegna della Cassazione
a cura di Carlo Alberto Giovanardi, Guerino Guarnieri, Giuseppe Ludovico, Giorgio Treglia
CONTROVERSIE DEL LAVORO
LA SEZIONE LAVORO CONFERMA: NEL RITO FORNERO
IL GIUDICE CHE HA EMESSO L’ORDINANZA PUÒ DECIDERE
ANCHE SULL’OPPOSIZIONE
Cassazione civile, Sez. lav., 16 aprile 2015, n. 7782 Pres. Lamorgese - Rel. Tria - P.M. Celeste (conf.) - Telecom Italia S.p.a. c. F.E.
La fase di opposizione di cui alla L. n. 92 del 2012, art. 1,
comma 51, non costituisce un grado diverso rispetto alla fase che ha preceduto l’ordinanza, in quanto non si
tratta di una revisio prioris instantiae, bensì della mera
prosecuzione del giudizio di primo grado in forma ordinaria e non più urgente. Deve pertanto escludersi che
in tale fase possa determinarsi un obbligo di astensione
o una facoltà della parte di chiedere la ricusazione, in
analogia con quanto disposto dalla Corte costituzionale, nella sentenza n. 326 del 1997, nella quale è stata dichiarata non fondata la questione avente ad oggetto
l’art. 51 c.p.c., nella parte in cui non impone l’obbligo di
astensione nella causa di merito al giudice che abbia
concesso una misura cautelare ante causam.
Il caso
Un lavoratore licenziato si rivolgeva al Tribunale di Milano,
che, con ordinanza emessa ai sensi dell’art. 1, comma 49,
della L. n. 92 del 2012, dichiarava l’illegittimità del licenziamento e disponeva la reintegrazione, con le conseguenti
condanne risarcitorie. Il datore di lavoro proponeva quindi
opposizione, che veniva respinta con sentenza. Analogo
esito negativo aveva anche il reclamo successivamente
proposto, nel quale il datore di lavoro aveva preliminarmente eccepito che il giudizio di opposizione in primo grado si
era irritualmente svolto dinanzi al medesimo giudice-persona fisica della fase sommaria, e aveva chiesto che per tale
motivo la sentenza impugnata fosse annullata, ovvero che
fosse sollevata questione di legittimità costituzionale con
riferimento all’art. 51, comma 1, n. 4, c.p.c. La Corte d’Appello di Milano però ha ritenuto che la deduzione del vizio
relativo alla persona del giudice fosse tardiva, in quanto
non sollevata già, in limine litis, nella fase di opposizione in
primo grado (art. 52, comma 2, c.p.c.), ed ha poi respinto
nel merito il gravame, ribadendo l’illegittimità del licenziamento. Il datore di lavoro ricorreva allora in Cassazione, articolando due motivi, con il primo dei quali tornava a lamentarsi del fatto che lo stesso giudice avesse istruito e
deciso la causa nelle due distinte fasi del giudizio di primo
grado, con conseguente “violazione e falsa applicazione
dell’art. 111 Cost. e dell’art. 51 c.p.c., comma 1, n. 4, e art.
158 cod. proc. civ.”.
La decisione
La Cassazione ha considerato inammissibile il primo motivo del ricorso, avendo ritenuto, in sintonia con quanto già
affermato dalla Corte d’Appello, “che il motivo di astensione di cui all’art. 51 c.p.c., comma 1, n. 4, che la parte non
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
abbia tempestivamente fatto valere in via di ricusazione”
non può essere poi tardivamente fatto valere come motivo
di impugnazione. “Per completezza”, la Sezione Lavoro ha
poi voluto aggiungere che, comunque, nella fattispecie il
vizio non sussisteva, in quanto nel c.d. rito Fornero la fase
di opposizione non costituisce un “grado” autonomo, “ma
solo una prosecuzione del giudizio di primo grado in forma
ordinaria e non più urgente”, e pertanto può bene essere
gestita dallo stesso giudice-persona fisica che abbia appena emesso l’ordinanza opposta, così come il giudice che
abbia concesso una misura cautelare ante causam non ha
poi alcun obbligo di astenersi, ove gli venga assegnata la
successiva causa di merito.
I precedenti
La pronuncia in esame si conforma ad una decisione della
stessa Sezione lavoro, precedente di pochi mesi, espressamente richiamata in motivazione, e relativa ad una vicenda
in buona parte analoga, atteso che anche in quel caso la
S.C. ha sia ritenuto inammissibile il motivo di ricorso, poiché l’eventuale vizio non era stato tempestivamente dedotto in primo grado, sia voluto aggiungere che, comunque,
“il vizio è peraltro insussistente”, essendosi in presenza di
due fasi (una sommaria ed una a cognizione piena) di uno
stesso grado, e quindi non sorgendo al riguardo alcun motivo di astensione, o di ricusazione, qualora allo stesso giudice-persona fisica venga assegnata anche la seconda fase: cfr. Cass., Sez. lav., 17 febbraio 2015, n. 3136, in questa
Rivista, 2015, con ampia nota di riferimenti, ai quali pertanto si fa rinvio, ricordando soltanto che la scelta interpretativa operata da queste due recenti sentenze della Cassazione ha già trovato il conforto, ancor più recente, della Corte
costituzionale che, con la sentenza n. 78, del 29 aprile - 13
maggio 2015, ha appunto affermato che la presenza dello
stesso magistrato nella prima fase e nella fase di opposizione “non confligge con il principio di terzietà del giudice”
e si rivela, invece, funzionale all’attuazione del principio del
giusto processo, per il profilo della sua ragionevole durata.
È possibile ancora qui aggiungere che la Sezione Lavoro,
nell’ampia motivazione della pronuncia qui annotata, ha
espressamente sancito (sempre in sintonia con Cass., Sez.
lav., n. 3136/2015, cit.) che sussiste un ben più alto grado
di affinità strutturale tra il rapporto intercorrente tra le due
fasi del rito Fornero di primo grado ed il rapporto tra un
giudizio cautelare ante causam e la successiva causa di
merito di primo grado, piuttosto che rispetto al rapporto tra
la fase sommaria e la fase di opposizione nel giudizio di primo grado nel procedimento di repressione della condotta
antisindacale (art. 28 Stat. lav.). E poiché a fattispecie diverse è corretto, ed anzi doveroso, applicare soluzioni diverse,
la Sezione Lavoro ha pertanto concluso di avere deciso in
armonia sia con la soluzione di non ricusabilità accolta dalla Corte costituzionale con riferimento alla possibilità che il
giudice del giudizio cautelare sia poi anche il giudice della
successiva causa di merito (cfr. Corte cost. 7 novembre
1997, n. 326, edita, ad es., in Giur. it., 1998, 410 ss., con
nota di Consolo, e in Foro it., 1998, I, 1007 ss., con nota di
Scarselli), sia con la soluzione, di segno diametralmente
747
Giurisprudenza
Sintesi
opposto, accolta dalla stessa Corte quando ha sancito che,
invece, nel procedimento ex art. 28 Stat. lav., il giudice che
ha emesso il decreto non può essere anche il giudice dell’opposizione: cfr. Corte cost. 15 ottobre 1999, n. 387, in
questa Rivista, 2000, 129 ss., con nota di Gallo, e in Foro
it., 1999, I, 3441 ss., con nota di Scarselli.
Guerino Guarnieri
ANCORA SULLA NOTIFICAZIONE TARDIVA DEL RICORSO
IN APPELLO
Cassazione civile, Sez. III, 7 aprile 2015, n. 6893 - Pres.
Travaglino - Rel. Scrima - P.M. Fresa (diff.) - G.A. e altri
c. B.D.
La violazione del termine, meramente ordinatorio, di
dieci giorni entro il quale l’appellante, ai sensi dell’art.
435, comma 2, c.p.c., deve notificare il ricorso - tempestivamente depositato in cancelleria nel termine previsto per l’impugnazione - unitamente al decreto di fissazione dell’udienza di discussione non produce alcuna
conseguenza pregiudizievole per la parte, perché non
incide su alcun interesse di ordine pubblico processuale
e, pertanto, la sua inosservanza non comporta decadenza, sempre che sia rispettato il termine che, ai sensi del
medesimo art. 435, commi 3 e 4, c.p.c. deve intercorrere
tra il giorno della detta notifica e quello dell’udienza di
discussione.
Il caso
In una controversia locatizia, assoggettata al rito del lavoro
ai sensi dell’art. 447 bis c.p.c., gli eredi di un appellante
proponevano ricorso per cassazione, fondato su un unico
motivo, avverso la sentenza della Corte di Appello di Roma
che aveva dichiarato improcedibile l’appello “per essere
stato il ricorso e il decreto presidenziale di fissazione dell’udienza di discussione notificati all’appellato dopo la scadenza del termine”, di dieci giorni, di cui al secondo comma dell’art. 435 c.p.c. Ad avviso degli eredi, infatti, vi era
stata “violazione e falsa applicazione dell’art. 435 c.p.c., in
combinato disposto con gli artt. 153, 154 c.p.c., art. 156
c.p.c., comma 2 e art. 157 c.p.c.”, in quanto la sentenza
delle Sezioni Unite n. 20604 del 30 luglio 2008, il cui insegnamento era stato espressamente richiamato e posto dalla Corte romana a fondamento e giustificazione della propria pronuncia di rigetto, in realtà aveva deciso su una, ben
differente, vicenda di “totale omissione” della notifica del
ricorso e del decreto, mentre invece nella fattispecie ora in
esame vi era stato un mero “ritardo” nella notifica, con indubbia violazione del termine, peraltro meramente ordinatorio, di dieci giorni previsto dalla legge, ma comunque, e
altrettanto sicuramente, nel pieno “rispetto dello spatium
deliberandi per l’appellato”.
La decisione
La Sezione Terza della Cassazione ha condiviso la tesi dei
ricorrenti, secondo cui “Corte di appello ha erroneamente
richiamato, a fondamento della sua decisione, il principio
enunciato dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza 30 luglio 2008 n. 20604, che riguarda effettivamente
il caso - diverso da quello all’esame - in cui l’appellante,
dopo avere depositato il ricorso nel termine, abbia del tutto
omesso di procedere alla notificazione ed abbia poi richiesto all’udienza di discussione l’assegnazione di un nuovo
termine per procedervi, ai sensi dell’art. 291 c.p.c.”. Nella
748
fattispecie, invece, risultava pacificamente, ex actis, che il
decreto presidenziale era stato comunicato all’appellante
in data 6 ottobre 2008 e notificato, unitamente al ricorso,
all’appellato in data 12 gennaio 2009, dopo, quindi, la scadenza del termine di cui al comma 2 dell’art. 435 c.p.c.,
ma nel totale rispetto del termine a difesa, atteso che l’udienza era stata fissata al 16 febbraio 2010, e quindi all’appellato era stato concesso oltre un anno di tempo per preparare le proprie difese. Ed infatti, non a caso (come avevano sottolineato i ricorrenti ed è stato rimarcato anche dalla
Cassazione), questi si era poi ritualmente costituito, chiedendo soltanto il rigetto del gravame nel merito (così come, forse altrettanto non a caso, non si era poi neppure costituito nel giudizio di Cassazione). A fondamento della propria decisione la Cassazione ha aggiunto che “secondo
l’ormai consolidato orientamento di questa Corte, al quale
va data continuità”, una volta che l’appellante abbia depositato tempestivamente il suo ricorso, la violazione del termine, meramente ordinatorio, di dieci giorni entro il quale
deve poi notificarlo, unitamente al decreto di fissazione dell’udienza, non produce alcuna conseguenza negativa sulla
proseguibilità del giudizio d’appello, purché, beninteso, il
suo ritardo nella notifica non abbia determinato una violazione anche del termine a difesa, di venticinque giorni, che
il terzo comma della stessa norma sancisce a inderogabile
tutela del diritto di difesa dell’appellato. La S.C. ha quindi
accolto il ricorso, cassando la sentenza impugnata e rinviando, “anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione”.
I precedenti
In senso conforme alla pronuncia in esame, si vedano ad
es., richiamate in motivazione, Corte cost. 24 febbraio
2010, n. 60, in Riv. it. dir. lav., 2010, 664 ss., con nota di
Cattani, e in Riv. crit. dir. lav., 2010, 87 ss., con nota di Maffuccini (secondo la quale il mancato rispetto del termine di
dieci giorni “non impedisce la valida notificazione del ricorso di impugnazione e del decreto di fissazione dell’udienza,
qualora essa intervenga entro il termine di cui al comma 3
dell’art. 435 c.p.c., non configurandosi, in tale ipotesi, la
violazione del diritto di difesa dell’appellato”); Corte cost.
15 novembre 2012, n. 253, in Giust. civ., 2013, I, 34 ss.
(che ha affermato che, “secondo il diritto vivente”, l’eventuale violazione del termine di dieci giorni “resta sanata
dalla notificazione nel termine non minore di venticinque
giorni prima dell’udienza di discussione previsto dal successivo comma 3 dello stesso art. 435 c.p.c.”); Cass., Sez.
lav., 30 dicembre 2010, n. 26489, in Mass. Giust. civ., 2010,
1666, Sempre nello stesso senso si vedano anche Cass.,
Sez. III, 13 maggio 2014, n. 10316, in Guida dir., 2014, 33,
37; Cass., Sez. VI, 16 ottobre 2013, n. 23426; Cass., Sez.
lav., 31 maggio 2012, n. 8685, in Mass. Giust. civ., 2012,
702; Cass., Sez. VI, 14 luglio 2011, n. 15590, in Corr. giur.,
2011, 1562 ss., con nota di Izzo; Cass., Sez. VI, 15 ottobre
2010, n. 21358, ivi, 2010, 1335; App. Roma 15 novembre
2012, in questa Rivista, 2013, 421.
Sorprende peraltro che nella motivazione della sentenza
qui annotata venga sostenuto che la più volte ricordata
pronuncia n. 20604/10 delle S.U. non costituirebbe un precedente contrario, in quanto, se è vero che in allora le S.U.
avevano effettivamente deciso su una fattispecie in cui vi
era stata totale omissione, e non mero ritardo, quanto alla
notifica del ricorso e del decreto, è altrettanto vero che le
S.U. nella stessa pronuncia hanno a chiare lettere affermato che è errata la tesi di chi sostiene che la scadenza di un
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
Giurisprudenza
Sintesi
termine ordinatorio (come appunto il termine di dieci giorni
di cui all’art. 435) “non possa mai di per sé determinare alcuna decadenza”, aggiungendo, subito dopo, che “Una
volta, pertanto, scaduto il termine ordinatorio senza che si
sia avuta una proroga - come è avvenuto nella fattispecie
in esame - si determinano, per il venir meno del potere di
compiere l’atto, conseguenze analoghe a quelle ricollegabili al decorso del termine perentorio” (cfr. infatti la motivazione di Cass., SS.UU., 30 luglio 2008, n. 20604, in Foro it.,
2009, I, 1130 ss., e in questa Rivista, 2009, 37 ss., con note
di Guarnieri e di Lacarbonara, e v. pure Cass., Sez. lav., 11
giugno 2012, n. 9421, in Riv. dir. proc., 2013, 477 ss., con
commento di Guarnieri, Rito del lavoro: mancata notifica del
ricorso in appello e overruling). Non è comunque questa
nota la sede per verificare se tale affermazione abbia costituito soltanto un “obiter dictum”, e quindi una mera, benché autorevole, opinione non vincolante, anziché piuttosto
l’enunciazione di un vero e proprio “principio di diritto”
(art. 374, comma 3, c.p.c.) o, quantomeno, un precedente
giurisprudenziale contrario. Quel che rileva, per gli operatori del settore, è che questa, indubbia, interpretazione rigorosa proposta dalle SS.UU., e in un primo tempo accolta,
con gravi conseguenze, in non poche Corti d’Appello (come ad es. appunto la Corte d’Appello di Roma nella fattispecie qui decisa), non abbia poi avuto seguito concreto,
in quanto (come abbiamo visto supra) dopo il 2008 la Corte
costituzionale, la Sezione Lavoro, la Sezione terza e la Sezione sesta della Cassazione hanno invece continuato, e
continuano, a ritenere totalmente irrilevante la mera violazione del termine di dieci giorni, purché venga rispettato il
termine a difesa previsto dalla legge per l’appellato.
In tema totale omissione della notifica, si veda infine Cass.,
Sez. lav., 22 gennaio 2015, n. 1175, secondo cui se “il ricorrente, nonostante la rituale comunicazione della udienza
di discussione, fissata ex art. 435 cod. proc. civ., non provveda a notificare l’atto di appello, né, partecipando a detta
udienza, adduca alcun giustificato impedimento al fine di
essere rimesso in termini ai sensi dell’art. 153 cod. proc.
civ., l’improcedibilità della impugnazione può essere dichiarata d’ufficio”.
Guerino Guarnieri
CONTROVERSIE DEL LAVORO E PREVIDENZIALI
INOSSERVANZA DI OBBLIGHI ASSISTENZIALI
E PREVIDENZIALI DERIVANTI DA CONTRATTI E ACCORDI
COLLETTIVI: COMPETENZA
Cassazione civile, Sez. Lav., 15 aprile 2015, n. 7625 Pres. Macioce - Rel. Amendola - P.M. Celeste (diff.) G.C. c. Nuova Tirrena S.p.a.
L’art. 442 c.p.c., disciplinando le controversie in materia
di previdenza ed assistenza obbligatorie, ha introdotto
una completa equiparazione tra le controversie derivanti dall’applicazione delle norme di legge che disciplinano la materia e quelle relative all’inosservanza degli obblighi di assistenza e di previdenza derivanti da contratti e accordi collettivi, sicché rientrano nella competenza
del giudice dei lavoro anche le controversie previdenziali relative a forme di previdenza previste dall’autonomia collettiva, ancorché esse coinvolgono società assicuratrici estranee al sistema pubblicistico della previ-
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
denza ed assistenza sociale e anche se la controversia
insorga non già tra le parti del rapporto di lavoro, bensì
tra datore di lavoro e società assicuratrice, ovvero tra
quest’ultima e il lavoratore, coinvolgendo posizioni attinenti al regime privatistico della polizza assicurativa,
come la sua stipulazione e l’inclusione in essa dell’infortunio lamentato.
Il caso
Un lavoratore conveniva dinanzi al Tribunale di Roma, sezione lavoro, il datore di lavoro, affermando: a) di avere
“sempre goduto, in adempimento degli obblighi nascenti
dalla contrattazione collettiva aziendale, di una copertura
assicurativa per gli infortuni professionali ed extraprofessionali, all’uopo stipulata” dallo stesso datore di lavoro datrice di lavoro; b) di avere “subito nel corso del tempo due
infortuni per i quali rivendicava… una integrazione del trattamento indennitario; c) di essere “stato dequalificato in
modo grave. Pertanto chiedeva la condanna della società
al pagamento in suo favore di somme a titolo di integrazione del trattamento indennitario nonché il risarcimento del
danno per la dequalificazione subita”. Il giudice adito si dichiarava incompetente per materia “relativamente alla richiesta di integrazione del trattamento indennitario e respingeva per il resto la domanda”. Anche la Corte d’Appello di Roma giungeva alle medesime conclusioni, affermando in particolare, quanto alla competenza, che “la polizza
assicurativa oggetto di causa veniva stipulata dal datore di
lavoro… in ottemperanza ad un obbligo di natura contrattuale (collettiva) e si configurava come una normale assicurazione contro i danni assoggettata allo schema legale di
cui agli artt. 1904 e ss.”, e da ciò conseguiva che “il diritto
all’indennizzo derivante dal contratto assicurativo è pertanto assoggettato al regime che gli è proprio, e non certo a
quello dei crediti di natura assistenziale o previdenziale”; la
domanda, ad avviso dei giudici romani, avrebbe dovuto
dunque essere proposta con le forme ordinarie, dinanzi al
giudice civile ordinario, e secondo gli ordinari criteri di
competenza, “essendo esclusa ogni interferenza con le
materie di cui agli artt. 409 c.p.c. e segg.”. Il lavoratore
proponeva allora ricorso per cassazione, lamentando, per
quanto qui interessa, la violazione dell’art. 442 c.p.c., e ribadendo che la propria domanda di risarcimento danni, relativamente al “duplice infortunio extralavorativo occorsogli”, rientrava in realtà a pieno titolo “nella sfera di competenza ratione materiae del giudice del lavoro, in quanto derivante dall’esecuzione di una polizza assicurativa antinfortunistica stipulata dalla… parte datoriale in favore del proprio dipendente, in ottemperanza degli obblighi sanciti dalla contrattazione collettiva di categoria”.
La decisione
La Cassazione ha ritenuto fondato questo motivo di ricorso, e per l’effetto ha cassato la sentenza, limitatamente alla
declinatoria di competenza rispetto alla domanda di integrazione del trattamento indennitario, ed ha quindi rinviato
le parti dinnanzi alla stessa sezione lavoro della Corte d’Appello di Roma, in diversa composizione, anche per la regolamentazione delle spese. Ad avviso della Sezione lavoro,
infatti, è da considerarsi ormai consolidato, e merita conferma, l’orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui l’art. 442 c.p.c., nel disciplinare le controversie in
materia di previdenza e di assistenza obbligatorie, ha completamente equiparato “le controversie derivanti dall’applicazione delle norme di legge che disciplinano la materia
(comma 1) e quelle relative all’inosservanza degli obblighi
749
Giurisprudenza
Sintesi
di assistenza e di previdenza derivanti da contratti e accordi collettivi (comma 2)”. Rientrano pertanto nella competenza del giudice del lavoro pure le controversie previdenziali, come quella in esame, collegate a forme di previdenza
previste dall’autonomia collettiva, anche qualora si sia in
presenza di società assicuratrici di per sé esterne al sistema, pubblicistico, della previdenza e della assistenza sociale.
tiva, sull’erroneo presupposto di aver maturato la pensione
di anzianità in conseguenza dell’errata comunicazione da
parte dell’istituto del numero dei contributi versati, rientra
nella competenza del pretore quale giudice del lavoro”);
Cass., SS.UU., 3 febbraio 1996, n. 916, in questa Rivista,
1996, 608.
Guerino Guarnieri
I precedenti
In senso conforme si vedano, ricordate in motivazione,
Cass., Sez. VI, 22 febbraio 2013, n. 4571, in Mass. Foro it.,
2013, 143, per la quale “Rientrano nella competenza del giudice del lavoro anche le controversie relative a forme di previdenza previste dall’autonomia collettiva, ancorché esse
coinvolgano società assicuratrici estranee al sistema pubblicistico della previdenza e assistenza sociale, e anche se la
contestazione, dedotta dal lavoratore, abbia ad oggetto l’inosservanza dell’obbligo, in capo al datore di lavoro, di versare i premi alla società assicuratrice, trattandosi di obbligo
che consegue direttamente dal rapporto di lavoro - che si
pone quale antecedente necessario e non occasionale della
pretesa, senza che assuma rilievo l’eventuale cessazione del
rapporto medesimo - e si concretizza in una prestazione periodica ed integrativa del trattamento economico pensionistico”, e Cass., Sez. lav., 8 febbraio 1996, n. 1006, in Mass.
Giust. civ., 1996, 174 (secondo cui “Nel caso in cui il lavoratore infortunato domandi l’accertamento dell’obbligo del datore di lavoro di stipulare la polizza assicurativa prevista dal
contratto collettivo e, subordinatamente al riscontro del puntuale adempimento dell’obbligo anzidetto, la condanna della
società assicuratrice al pagamento dell’indennizzo, è configurabile una controversia di natura previdenziale ai sensi
dell’art. 442, comma 2, c.p.c. - con conseguente sua devoluzione alla competenza per materia del pretore in funzione
del giudice del lavoro territorialmente competente ai sensi
dell’art. 444, comma 1, dello stesso codice - non essendo
detta natura esclusa dalla contestuale evocazione in giudizio
del datore di lavoro e della società assicuratrice.”); sempre
in senso conforme la pronuncia qui annotata ricorda anche
Cass., Sez. lav., 25 novembre 1999, n, 13140, ivi, 1999,
2349, che, infatti, in motivazione ha ribadito, in generale,
che l’art. 442 c.p.c., nel disciplinare le controversie in materia di previdenza e di assistenza obbligatorie, ha appunto
operato la “completa equiparazione” di cui alla massima sopra riportata, salvo poi decidere, nella fattispecie concreta,
che, invece, “La polizza di assicurazione stipulata dal datore
di lavoro contro gli infortuni di lavoro dei dipendenti, in ottemperanza ad un obbligo derivante da contratto o accordo
collettivo, è una normale assicurazione contro i danni stipulata secondo lo schema dell’art. 1891 c.c.”, e pertanto in
questo specifico caso “il diritto all’indennizzo è assoggettato
al regime giuridico proprio del contratto di assicurazione e
non a quello dei crediti di natura previdenziale o assistenziale ai quali non è comparabile”.
Sempre con riferimento all’interpretazione dei criteri di ripartizione della competenza di cui agli artt. 442 e 444
c.p.c., si vedano inoltre Cass., Sez. lav., 25 maggio 2007, n.
12226, in questa Rivista, 2007, 1243; Cass., Sez. lav., 19
agosto 2005, n. 17038, ivi, 2006, 289; Cass., SS.UU., 7 novembre 2000, n. 1152, in Mass. Giust. civ., 2000, 2217;
Cass., sez. lav., 8 novembre 1996, n. 9776, in questa Rivista, 1996, 513 (edita anche in Foro it., 1997, I, 1895 ss., e
secondo la quale “La controversia promossa dall’assicurato contro l’INPS avente ad oggetto il risarcimento del danno provocato dalla anticipata cessazione dell’attività lavora-
750
LAVORO SUBORDINATO
UTILIZZO DI PERMESSI PER ASSISTENZA A PORTATORI
DI HANDICAP E SODDISFACIMENTO DI ESIGENZE
PERSONALI
Cassazione civile, Sez. lav., 30 aprile 2015, n. 8784 Pres. Vidiri - Est. Napoletano - P.M. Celentano (conf.) Ric. Omissis - Res. Omissis S.p.a.
La fruizione del permesso per l’assistenza a portatori di
handicap per soddisfare proprie esigenze personali implica di certo un disvalore sociale, atteso che il costo di
tali esigenze viene ad essere scaricato sull’intera collettività, considerato che tali permessi sono retribuiti in
via anticipata dal datore di lavoro, poi sollevato dall’ente previdenziale del relativo onere anche ai fini contributivi e tenuto conto che il datore di lavoro è così costretto ad organizzare diversamente il lavoro, con maggiore penosità della prestazione lavorativa per i colleghi
di lavoro. È evidente che tale disvalore sociale, in quanto proprio del comune sentire, rende irrilevanti le deduzioni sollevate dal lavoratore (come quelle sollevate
nella fattispecie dal ricorrente) in ordine alla propria
convinzione di avere agito legittimamente ai sensi dell’art. 33 della L. n. 104 del 1992 e della mancanza di precedenti disciplinari e, naturalmente, tale abuso di diritto
ben può ripercuotersi sull’elemento fiduciario posto alla
base del rapporto lavorativo.
Il caso
Il dipendente di una azienda chiedeva ed otteneva un giorno di permesso retribuito per poter assistere la madre affetta da handicap; ciò ai sensi e per gli effetti di cui alla L.
17 febbraio 1992, n. 104 (art. 33, comma 3).
L’azienda si accorgeva, tuttavia che il lavoratore, il giorno
del permesso, si era recato ad un convivio danzante e dunque gli intimava il licenziamento in tronco.
Avverso tale decisione il lavoratore si rivolgeva al tribunale
competente che dichiarava illegittimo il recesso e ne disponeva la reintegrazione nel posto di lavoro.
L’azienda proponeva appello e la corte territoriale, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava legittimo il recesso. A fondamento della pronuncia, il giudice di appello
precisava che non era rilevante il tipo di assistenza che doveva essere prestato al genitore, ma la circostanza che il lavoratore aveva chiesto un giorno di permesso retribuito per
dedicarsi a qualcosa che nulla aveva a che fare con l’assistenza a persona disabile. Tale comportamento implicava
un disvalore sociale, in quanto il prestatore d’opera aveva
fruito di permessi per assistere persone diversamente abili,
per il soddisfacimento di esigenze personali. Fra l’altro scaricando il costo di tali esigenze sull’intera collettività.
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
Giurisprudenza
Sintesi
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso per Cassazione il
soccombente, affidando il gravame a sette motivi; l’azienda resisteva con controricorso.
La decisione
La S.C. ha rigettato il ricorso e condannato il lavoratore al
pagamento degli oneri di lite.
La pronuncia si segnala per il principio, riportato nella massima, in base a cui rettamente la sentenza d’appello fondava le proprie argomentazioni sul fatto che il permesso retribuito era stato richiesto e fruito per finalità diverse da quelle per il quale il legislatore aveva previsto il diritto al permesso stesso. Da ciò deriva che le critiche relative all’interpretazione della norma di cui alla L. n. 104/1992 non possono avere rilievo.
Neppure può avere un qualche valore il fatto che il lavoratore abbia effettivamente utilizzato una parte delle ore di
permesso per assistenza alla madre.
Dice infatti la sentenza che “il comportamento del lavoratore non sarebbe meno grave per il fatto che per una parte si
è divertito e per l’altra parte abbia assistito la madre”, ciò
in quanto il dipendente ha comunque beneficiato del diritto
a lui concesso in parte per soddisfare esigenze di carattere
personale e, quindi, diverse rispetto a quelle volute dalla
norma.
E, comunque, il comportamento non sarebbe meno grave,
in quanto ciò che rileva è, appunto, la fruizione del permesso per finalità diverse da quelle cui il permesso mira.
Del resto il disvalore sociale del comportamento del lavoratore e l’abuso del diritto sono argomentazioni della corte
territoriale confermate dal Supremo Collegio.
Di più il lavoratore aveva fruito di permessi per l’assistenza
a portatori di handicap non solo per soddisfare esigenze
personali, ma scaricando il costo degli stessi in capo al datore di lavoro che li aveva retribuiti in via anticipata.
Dunque il licenziamento irrogato è assistito da giusta causa, anche perché per gli interessi in gioco, l’abuso del diritto, nella fattispecie esaminata dalla S.C., appare particolarmente “odiosa e grave” e si ripercuote senz’altro sull’elemento fiduciario, trattandosi di condotta “idonea a porre in
dubbio la futura correttezza dell’adempimento in quanto
sintomatica di certo atteggiarsi del lavoratore rispetto agli
obblighi assunti”.
I precedenti
Non constano precedenti specifici in termini. Tuttavia per
tematiche di carattere generale sulla giusta causa di recesso, cfr., ex multis, Cass. 30 gennaio 2013, n. 2168; Cass.
12 dicembre 2012, n. 22798, in Dir. prat. lav., 2013, 38,
2260; Cass. 14 novembre 2013, n. 25615.
Giorgio Treglia
LICENZIAMENTO IRROGATO A LAVORATRICE MADRE
ED EFFETTI DELLA NULLITÀ DEL RECESSO
Cassazione civile, Sez. lav., 29 aprile 2015, n. 8683 Pres. Stile - Est. De Marinis - P.M. Celentano (conf.) Ric. Clean Style S.r.l. - Res. E.M.M.
Il licenziamento intimato alla lavoratrice madre durante
il periodo di interdizione del recesso per maternità, in
violazione del divieto posto dall’art. 2 della L. n.
1204/1971, è sottratto al regime sanzionatorio di cui all’art. 18 della L. 300/1970 ed è invece soggetto al regime ordinario della nullità di cui all’art. 1418 c.c., sicché
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
a fronte dell’inadempimento, la sanzione del risarcimento del danno va applicata con riferimento a tutto il
periodo di permanenza degli effetti dell’evento lesivo,
ovvero, secondo il regime ordinario della mora del creditore, fino alla formulazione al lavoratore dell’offerta
reale della retribuzione.
Il caso
Una dipendente di una azienda veniva licenziata durante
l’anno di interdizione del recesso per maternità. Si determinava, pertanto, a convenire in giudizio la propria datrice di
lavoro, onde ottenere la declaratoria di nullità dell’intimato
recesso.
Il tribunale del lavoro adito, in accoglimento del ricorso, dichiarava illegittimo perché discriminatorio il licenziamento,
appunto perché intervenuto nell’anno di divieto del recesso
e condannava la società al risarcimento del danno, commisurato alle retribuzioni dovute dalla data del licenziamento
a quella dell’offerta di reintegrazione nel posto di lavoro,
formulata dall’azienda; dichiarava anche dovute le differenze retributive a vario titolo rivendicate.
La società promuoveva appello e la corte territoriale confermava la declaratoria di nullità del licenziamento e la statuizione relativa al risarcimento del danno.
Da quel che sembra di poter capire dalla motivazione della
sentenza in breve commento, l’azienda aveva offerto alla
lavoratrice di riprendere il lavoro, ma costei aveva rifiutato.
Dunque, il giudice di secondo grado, confermava la nullità
dell’intimato recesso, proprio perché intimato in violazione
della nota 1204/1971 e sue successive modifiche.
Avverso tale pronuncia, l’azienda ha ritenuto di promuovere ricorso per cassazione affidato a due motivi di gravame.
La lavoratrice non si è costituita in giudizio.
La decisione
La Corte Suprema ha rigettato il ricorso, confermando la
sentenza del giudice di merito.
In particolare, anche ribadendo un ormai consolidato orientamento, è stato dichiarato che il recesso intimato in violazione della normativa sopra richiamata, è soggetto al regime delle nullità, in base all’art. 1418 c.c., per cui, a fronte
di un inadempimento è dovuta la comune sanzione del risarcimento del danno applicabile per tutto il periodo di permanenza degli effetti dell’evento lesivo. Conseguentemente, non trova applicazione l’art. 18 Stat. lav. che ricollega
l’effetto risolutivo del rapporto di lavoro al rifiuto dell’offerta
datoriale di ripresa del lavoro stesso. Per di più, va ricordato come l’effetto risolutivo sia comunque previsto a seguito
dell’ordine giudiziale di reintegra.
Dunque, a seguito del rifiuto manifestato dalla lavoratrice,
l’effetto liberatorio - per la società - dal vincolo della perpetuatio iurisdictionis avrebbe potuto verificarsi soltanto in
presenza di una offerta reale della retribuzione: evento,
quest’ultimo che non ha avuto luogo. Ebbene, ad avviso
del giudice di legittimità, correttamente il giudice di secondo grado ha dichiarato la permanenza dell’obbligo, in capo
alla società, di pagamento delle retribuzioni dovute dal recesso all’offerta di reintegrazione.
Con altro motivo di ricorso la società lamentava che la corte di merito, nella determinazione del risarcimento dovuto
alla lavoratrice, non avesse detratto l’aliunde perceptum
maturato della prestatrice d’opera. Sul punto la S.C. dichiara inammissibile il gravame per violazione del principio di
autosufficienza del ricorso, in quanto la società nulla aveva
provato in merito ad un diverso ed ulteriore reddito che la
lavoratrice avrebbe percepito.
751
Giurisprudenza
Sintesi
In conclusione il ricorso è respinto, ma non vengono liquidate spese di soccombenza, in quanto, come detto, la lavoratrice non si era nemmeno costituita in giudizio.
I precedenti
Cass. 16 novembre 2002, n. 16189, in Arch. civ., 2003,
968, in Gius, 2003, 6, 585 e in Mass. Giur. lav., 2003, 53;
Cass. 1° giugno 2004, n. 10531, in Gius, 2004, 3749, nonché in Mass. Giur. lav. 2004, 720; Cass. 12 gennaio 2005,
n. 426, in Impresa, 2005, 1078.
Giorgio Treglia
ASSOCIAZIONE IN PARTECIPAZIONE E LAVORO
SUBORDINATO
Cassazione civile, Sez. lav., 10 aprile 2015, n. 7296 Pres. Stile - Rel. Napoletano - P.M. Velardi (conf.) - INPS
c. C.A.
L’elemento idoneo a caratterizzare il rapporto di lavoro
subordinato e a differenziarlo da altri tipi di rapporto
(quali l’associazione in partecipazione con apporto di
prestazioni lavorative) è costituito dall’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare esercitato da parte del datore di lavoro.
Il caso
L’INPS, ritenendo che ben 9 contratti di associazione in
partecipazione celassero altrettanti rapporti di lavoro subordinato, contestava l’omesso versamento dei contributi previdenziali; a seguito dell’opposizione alla cartella esattoriale, il Tribunale di Roma e la Corte d’Appello della Capitale
(con sentenza depositata il 13 gennaio 2011), accogliendo
il ricorso, stabilivano che non erano stati provati, né risultavano allegati, gli indici qualificanti il lavoro subordinato e in
particolare la soggezione degli associati a ordini specifici
nonché la loro sottoposizione a un’assidua attività di vigilanza e controllo, non potendo - di per sé sola - assumere
rilevanza decisiva la violazione dell’obbligo di rendiconto.
La decisione e i precedenti
Nel respingere il ricorso dell’Istituto di previdenza, la Corte
ha richiamato il proprio orientamento in base al quale l’elemento idoneo a caratterizzare il rapporto di lavoro subordinato e a differenziarlo da altri tipi di rapporto (quali il lavoro
autonomo, la società o l’associazione in partecipazione
con apporto di prestazioni lavorative) è costituito dall’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, tenendo presente
che il potere direttivo non può esplicarsi in semplici direttive di carattere generale, ma deve manifestarsi in ordini
specifici, reiterati e intrinsecamente inerenti alla prestazione lavorativa e che il potere organizzativo non può esplicarsi in un semplice coordinamento, ma deve manifestarsi in
un effettivo inserimento del lavoratore nell’organizzazione
aziendale; non solo: anche se la qualificazione formale del
rapporto effettuata dalle parti all’atto della conclusione del
contratto non è decisiva, essa non è tuttavia irrilevante.
Nella caso di specie, ad avviso dei Supremi Giudici, la Corte di merito ha ritenuto non provata la subordinazione
mancando, a fronte del nomen iuris del contratto, la dimostrazione della sottoposizione a ordini specifici e a un’assidua attività di vigilanza e controllo, non assumendo rilevanza autonoma la violazione dell’obbligo di rendiconto; né
l’INPS ha dedotto o ha articolato prova in ordine alla ricor-
752
renza della soggezione agli anzidetti specifici ordini ovvero
a un’assidua attività di vigilanza.
In argomento si vedano: Cass. 19 febbraio 2013, n. 4070,
in Mass. Giur. lav., 2013, 11, 808; Cass. 28 gennaio 2013,
n. 1817, in questa Rivista, 2013, 4, 414; Cass. 27 gennaio
2011, n. 1954, in Dir. prat. lav., 2013, 26, 1681; Cass. 8 febbraio 2010, n. 2728, in Mass. Giur. lav., 2010, 7, 566; Cass.
22 dicembre 2009, n. 26986, in Guida lav., 2010, 7, 39;
Cass. 14 maggio 2009, n. 11207, in Dir. prat. lav., 2010, 8,
457; Cass. 27 febbraio 2007, n. 4500, in Dir. prat. lav.,
2007, 47, 2867; Cass. 22 novembre 2006, n. 24781, in Dir.
prat. lav., 2007, 7, 1800; Cass. 24 febbraio 2006, n. 4171,
in Dir. prat. lav., 2007, 48, 2032; Cass. 7 ottobre 2004, n.
20002, in Guida dir., 2004, 45, 42; Cass. 19 dicembre 2003,
n. 19475, in questa Rivista, 2004, 599.
Carlo Alberto Giovanardi
DISTACCO DEL LAVORATORE
Cassazione civile, Sez. lav., 7 aprile 2015, n. 6944 Pres. Macioce - Rel. Buffa - P.M. Servello (conf.) - L.V.E.
c. C.T.I. A.T.I. S.p.a.
La dissociazione tra il soggetto che ha assunto il lavoratore e l’effettivo beneficiario della prestazione (cd. distacco) è consentita a condizione che essa realizzi, per
tutta la sua durata, uno specifico interesse imprenditoriale tale da consentirne la qualificazione come atto organizzativo del datore di lavoro che la dispone, determinando una mera modifica delle modalità di esecuzione della prestazione lavorativa e la conseguente temporaneità del distacco, coincidente con la durata dell’interesse del datore di lavoro allo svolgimento della prestazione del proprio dipendente a favore di un soggetto
terzo.
Il caso
A seguito del ricorso presentato da parte di un lavoratore
che chiedeva la costituzione del rapporto di lavoro subordinato in capo a un diverso soggetto, il Tribunale di Avellino
prima e la Corte d’Appello di Napoli poi, quest’ultima con
sentenza depositata l’11 luglio 2007, dichiaravano la legittimità del provvedimento di distacco da parte della Gestione
regionale trasporti irpini, a seguito di un ordine di servizio
del commissario regionale. Nel caso di specie, la Corte territoriale ha infatti ravvisato tutti gli elementi propri del distacco e, in particolare l’interesse del datore distaccante
nonché la conservazione del potere direttivo in capo allo
stesso, e ha invece ritenuto non necessario il consenso del
dipendente al distacco.
La decisione e i precedenti
Giova premettere che il distacco è disciplinato dall’art. 30
del D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, a mente del quale
tale istituto si configura quando un datore di lavoro, per
soddisfare un proprio interesse, pone temporaneamente
uno o più lavoratori a disposizione di altro soggetto per l’esecuzione di una determinata attività lavorativa. Venendo
quindi alla decisione della Suprema Corte, questa ha ritenuto corretta la decisione dei giudici di merito la quale aveva valutato che sussistessero tutti gli elementi del distacco,
e in particolare l’interesse del distaccante e la conservazione del potere direttivo in capo al distaccante. Nel caso di
specie, è stato ritenuto che il distaccante, che gestisce i
trasporti extraurbani, avesse interesse a che la prestazione
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
Giurisprudenza
Sintesi
del proprio dipendente fosse resa in posizione dirigenziale
presso il soggetto che svolge l’attività di gestione dei servizi di trasporto urbano, i quali “naturalmente” devono essere coordinati al meglio con i primi per la loro stessa efficacia.
In tema di distacco, in senso conforme quanto alla necessità che sussista uno specifico interesse in capo al datore di
lavoro distaccante, si vedano: Cass. 15 maggio 2012, n.
7517, in Or. giur. lav., 2012, 263; Cass. 7 novembre 2000,
n. 14458, in Or. giur. lav., 2000, 968; Cass. 23 aprile 2009,
n. 9694, in D&G, 2009.
In argomento si veda anche: Trib. Genova 5 dicembre
2006, in Dir. prat. lav., 2008, 1428; App. Milano 4 maggio
2001, in Or. giur. lav., 2001, 32; App. Milano 31 luglio
2003, in D&L, 2004, 138.
Carlo Alberto Giovanardi
LICENZIAMENTO PER GIUSTA CAUSA
Cassazione civile, Sez. lav., 3 aprile 2015, n. 6869 Pres. Roselli - Rel. Di Cerbo - P.M. Servello (diff.) B.A.M. c. Auchan S.p.a.
Per stabilire in concreto l’esistenza di una giusta causa
di licenziamento, che deve rivestire il carattere di grave
negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro, e in particolare di quello fiduciario, occorre valutare la gravità dei fatti addebitati al lavoratore in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all’intensità dell’elemento intenzionale; nonché la proporzionalità tra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la
lesione dell’elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da
giustificare o meno la massima sanzione disciplinare.
Il caso
Una lavoratrice, adibita al servizio “post vendita” presso un
ipermercato marchigiano, essendo stata ritenuta responsabile del pagamento indebito della somma di oltre 600 euro
a titolo di reso di un articolo (un telefono cellulare), soltanto
apparentemente restituito da un cliente, veniva licenziata
per giusta causa nell’anno 2007.
La Corte di Appello di Ancona, con sentenza depositata il 5
maggio 2011, confermava la correttezza del recesso, avendo ritenuto provata la circostanza che la lavoratrice aveva
basato la procedura di pagamento su di una fotocopia (poi
rivelatasi falsa) dello scontrino (oltretutto in violazione di
obblighi precisi che imponevano la presenza dell’originale).
Nella sentenza, la Corte osservava inoltre che il successo
dell’operazione truffaldina, posta in essere da altri, presupponeva necessariamente l’accettazione della fotocopia, da
ciò deducendo che la lavoratrice avesse prestato un concorso indispensabile al successo della truffa.
La decisione e i precedenti
La lavoratrice ricorre quindi avanti alla Suprema Corte deducendo non solo l’omessa valutazione delle risultanze testimoniali concernenti l’accettazione dello scontrino in fotocopia, ma anche che non era stata provata la preordinazione di tale comportamento a una operazione illecita e,
inoltre, la violazione del principio di proporzionalità tra l’addebito contestato e la sanzione adottata.
Nell’esaminare il ricorso la Suprema Corte, dopo aver affermato il principio di cui in massima, ha convalidato l’opera-
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
to della Corte territoriale, la quale aveva valutato che l’accettazione da parte della lavoratrice di una fotocopia dello
scontrino (in luogo dell’originale) ai fini della realizzazione
dell’operazione di “reso” costituisse un comportamento
che, in quanto attuato in violazione di precise e cogenti disposizioni aziendali, concernenti specifiche modalità operative la cui finalità era ed è, con tutta evidenza, quella di evitare azioni truffaldine nei confronti dell’azienda, integrasse
di per sé, per la sua gravità, giusta causa di licenziamento;
e dall’altro, che il comportamento della lavoratrice aveva
natura dolosa, in quanto la truffa posta in essere nei confronti della società presupponeva necessariamente l’accettazione della fotocopia (che era stata falsificata, come
emerso in sede istruttorio) dello scontrino.
In materia di giusta causa si vedano: Cass. 3 marzo 2015,
n. 4243, in questa Rivista, 2015, 6, 636; Cass. 26 luglio
2011, n. 16283, in Mass. Giust. civ., 2011, 7-8, 1117; Cass.
3 gennaio 2011, n. 35, ibidem, 1, 9; Cass. 26 luglio 2010,
n. 17514, in D&G, 2010; Cass. 2 febbraio 2009, n. 2579, in
Mass. Giust. civ., 2009; Cass. 15 novembre 2006, n. 24349,
in questa Rivista, 2007, V, 518; Cass. 7 luglio 2006, n.
15491, ibidem, 2007, I, 85; Cass. 21 aprile 2005, n. 8305,
ibidem, 2005, XI, 1087; Cass. 19 agosto 2004, n. 16260,
ibidem, 2005, IX, 845; Cass. 23 agosto 2004, n. 16628, ibidem, 2005, 2, 182.
Carlo Alberto Giovanardi
PREVIDENZA
PARZIALE OMISSIONE CONTRIBUTIVA E ANZIANITÀ
CONTRIBUTIVA NELLA PREVIDENZA FORENSE
Cassazione civile, Sez. lav. 15 aprile 2015, n. 7621 Pres. Lamorgese - Rel. Doronzo - P.M. Finocchi Ghersi I.G., C.F. c. Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza
Forense
In caso di mancato esercizio del potere di rettifica dei
contributi versati dal professionista da parte della Cassa nel termine fissato dall’art. 20, L. n. 576 del 1980, gli
anni non coperti da integrale contribuzione concorrono
a formare l’anzianità contributiva e vanno inseriti nel
calcolo della pensione, prendendo come base il reddito
sul quale è stato effettivamente pagato il contributo.
Il fatto
Riformando parzialmente la decisione di primo grado, il
giudice di appello condannava la Cassa Nazionale di Previdenza Forense alla corresponsione in favore del ricorrente
dei ratei di pensione calcolati dal primo giorno del mese
successivo al compimento dei 65 anni di età anziché da
quello della maturazione tanto del requisito anagrafico
quanto di quello contributivo, escludendo invece il diritto
dello stesso al ricalcolo del trattamento in base ad un’anzianità contributiva di trentotto anni.
Il giudice d’appello, condividendo la decisione resa dal Tribunale, riteneva che la Cassa avesse correttamente escluso dal calcolo del trattamento pensionistico gli anni di parziale versamento dei contributi da parte del professionista
per i quali era già intervenuta la prescrizione ai sensi dell’art. 3, comma 9, della L. n. 335 del 1995. Contro tale decisione il professionista proponeva ricorso in cassazione,
mentre la Cassa resisteva con controricorso.
753
Giurisprudenza
Sintesi
La decisione e i precedenti
La pronuncia in commento interviene a chiarire la corretta
interpretazione dell’art. 20 della l. n. 576 del 1980 nella parte in cui dispone che la Cassa “ha facoltà di esigere dall’iscritto e dagli aventi diritto a pensione indiretta, all’atto della domanda di pensione o delle revisioni, la documentazione necessaria a comprovare la corrispondenza tra le comunicazioni inviate alla cassa e le dichiarazioni annuali dei
redditi e del volume d’affari, limitatamente agli ultimi dieci
anni”. La questione sottoposta al vaglio dei giudici di legittimità riguardava, in particolare, la sussistenza del potere
della Cassa di rettificare la misura del trattamento pensionistico in conseguenza di omissioni contributive riferite ad
anni antecedenti al decennio precedente alla domanda di
pensione. E ciò in quanto nel caso di specie il professionista che aveva subito la decurtazione del trattamento pensionistico, aveva eccepito, da un lato, l’impossibilità di conoscere l’erroneità dei contributi versati che negli anni in
questione erano determinati dai funzionari della stessa
Cassa, mentre, dall’altro, aveva rilevato che la comunicazione dell’erronea contribuzione era intervenuta quando
era già maturata la prescrizione degli stessi contributi, risultando così esclusa la possibilità di procedere al versamento degli stessi.
Uniformandosi ad altri precedenti, in materia i giudici di legittimità hanno ritenuto che il rapporto previdenziale tra la
Cassa e il professionista deve ritenersi di natura pubblicistica (cfr. Cass., SS.UU., ord. 20 giugno 2012, n. 10132; v.
pure Cass. 13 gennaio 2009, n. 501, in Foro it., 2009, I,
2392), sicché, in conseguenza di tale natura che deriva dalle finalità sociale della relativa tutela, il termine di prescrizione, che si riferisce tanto al diritto della Cassa di pretendere i contributi omessi di cui all’art. 19 della L. n. 576 del
1980, quanto il potere dello stesso ente di rettificare l’importo del trattamento pensionistico, deve ritenersi soggetto
al regime pubblicistico dell’irrinunciabilità e ciò al fine di
garantire certezza ai rapporti tra assicurato ed ente previdenziale (Cass., SS.UU., 21 giugno 2005, n. 13289, in questa Rivista, 2005, 1091 e Cass. 20 settembre 1999, n.
10164, in Foro it., 2000, I, 1941). In un altro precedente in
materia la Corte aveva ritenuto che il potere della Cassa di
rettificare la misura della pensione da essa liquidata può
essere esercitato nei limiti della prescrizione decennale, secondo quanto disposto dall’art. 20 della L. n. 576 del 1980,
che prevede la facoltà dell’ente previdenziale di controllare,
all’atto della domanda di pensione, la corrispondenza tra le
dichiarazioni annuali dei redditi e le comunicazioni annualmente inviate dallo stesso iscritto, limitatamente agli ultimi
dieci anni (Cass. 13 gennaio 2009, n. 501, cit.). Più in particolare, secondo i giudici di legittimità, la disciplina in esame non contiene, diversamente da quanto previsto per le
gestioni affidate all’INPS dall’art. 52 della L. n. 88 del 1989,
alcun elemento a sostegno del potere della Cassa di rettificare la posizione dell’iscritto senza limiti temporali, sussistendo invece precise indicazioni da parte dell’art. 20 della
L. n. 576 del 1980 a sostegno dell’esistenza di un limite
temporale all’esercizio di tale potere. In altri termini, l’inesistenza nella disciplina della Cassa forense di una norma
analoga a quella prevista dall’art. 52 della L. n. 88 del
1989, che riconosce che le prestazioni a carico dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, vecchiaia e
superstiti “possono essere in ogni momento rettificate dagli enti o fondi erogatori, in caso di errore di qualsiasi natura commesso in sede di attribuzione, erogazione o riliquidazione della prestazione” e, viceversa, l’esistenza nella di-
754
sciplina particolare di una disposizione che in caso di erronea attribuzione della pensione prevede un termine assai
breve per la rettifica dei periodi d’iscrizione, lascia chiaramente ritenere che tale potere non possa essere esercitato
relativamente ad anni anteriori al decennio precedente la
domanda della pensione.
Né una lettura diversa - secondo i giudici di legittimità può essere dedotta dalla previsione contenuta nell’art. 2
della L. n. 576 del 1980 che riconosce il diritto alla pensione di vecchiaia “a coloro che abbiano compiuto almeno 65
anni di età, dopo almeno 30 anni di effettiva iscrizione e
contribuzione alla Cassa” e ciò in quanto, da un lato, l’aggettivo “effettivo” non è sinonimo di integrale, dal momento che esso non contiene alcun riferimento ad una misura,
mentre dall’altro la norma non prevede alcuna sanzione in
termini di perdita o riduzione dell’anzianità contributiva in
caso di parziale versamento dei contributi ma soltanto il
pagamento di somme aggiuntive (Cass. 10 aprile 2012, n.
5672, in questa Rivista, 2012, n. 6, 621; Cass. 2 dicembre
2013, n. 26962).
I giudici non ignorano ovviamente il problema degli effetti
di una siffatta lettura che comporta il riconoscimento dell’intera anzianità contributiva anche in caso di versamento
di somme irrisorie, ma ritengono che lo stesso sia risolvibile “attraverso l’adozione di più rigorosi controlli sulle comunicazioni e sulle dichiarazioni inviate dagli iscritti, con i
mezzi di cui la Cassa stessa dispone e nei limiti temporali
fissati dal sistema della previdenza forense”.
Giuseppe Ludovico
OCCASIONE DI LAVORO E PROVA DEL RAPPORTO TRA
L’EVENTO E L’ATTIVITÀ LAVORATIVA
Cassazione civile, Sez. lav., 7 aprile 2015, n. 6933 Pres. Vidiri - Rel. Venuti - P.M. Ceroni - L.M.R., C.F. c.
INAIL
In tema di infortuni sul lavoro e malattie professionali,
il dipendente che sostenga la dipendenza dell’infermità
da una causa di servizio ha l’onere di dedurre e provare
i fatti costitutivi del diritto, dimostrando la riconducibilità dell’affezione denunciata alle modalità concrete di
svolgimento delle mansioni. In particolare, il nesso causale tra attività lavorativa ed evento, in assenza di un rischio specifico, non può essere oggetto di presunzioni
di carattere astratto ed ipotetico, ma deve essere fondato sul criterio di elevata probabilità e non già della
mera possibilità (confermata, nella specie, la decisione
dei giudici del merito che avevano escluso la responsabilità del datore per la morte di un lavoratore punto da
una zecca, atteso che non era stata fornita alcuna prova
circa la riconducibilità dell’evento alle condizioni di lavoro, nemmeno in termini di probabilità).
Il fatto
Confermando la decisione di primo grado, il giudice di appello respingeva la domanda proposta dal coniuge del lavoratore deceduto per arresto cardiaco a causa della puntura di una zecca, ritenendo che, fermo restando il nesso
causale tra il decesso e la puntura, non sussistevano elementi sufficienti a far ritenere che l’evento si fosse verificato nel corso della prestazione lavorativa o durante una pausa nello svolgimento dell’attività di lavoro, tenuto conto altresì che non vi era stata alcuna denuncia da parte del datore di lavoro o del lavoratore e che nel medesimo periodo
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
Giurisprudenza
Sintesi
l’Ufficio Igiene del Comune aveva invece proceduto in molte zone della città ad interventi di disinfestazione in ragione
della diffusa presenza di insetti e in particolare di zecche,
facendo così presumere che il lavoratore fosse stato esposto ad un rischio generico al pari di qualunque cittadino.
La decisione e i precedenti
La pronuncia in epigrafe merita attenzione non solo per la
particolare fattispecie di causa, ma anche per la motivazione addotta dai giudici legittimità che hanno confermato la
decisione resa dal giudice di appello che aveva negato la
configurabilità dell’occasione di lavoro in ragione della natura generica del rischio che aveva provocato l’evento.
Occorre anzitutto rilevare che, per unanime giurisprudenza
dei giudici di legittimità, il requisito della causa violenta, richiesto dall’art. 2 del d.P.R. n. 1124 del 1965 ai fini della
configurabilità dell’infortunio sul lavoro, può essere integrato anche dall’azione di fattori microbici o virali purché connessa allo svolgimento della prestazione lavorativa, posto
che il requisito della rapidità deve essere riferito all’azione
della causa e non ai suoi effetti che possono manifestarsi a
distanza di tempo dal momento dell’evento (Cass. 28 ottobre 2004, n. 20941, in questa Rivista, 2005, 483; Cass. 1°
giugno 2000, n. 7306; Cass. 27 giugno 1998, n. 6390 in
Riv. it. med. leg., 1999, 343; Cass. 13 marzo 1992, n. 3090,
in Mass. Giur. lav., 1992, 234, con nota di G. Alibrandi, La
causa violenta nell’infortunio sul lavoro; Cass. 19 luglio
1991, n. 8058, in Riv. giur. lav., 1992, II, 294; Cass. 3 novembre 1982, n. 5764, in Riv. inf. mal. prof., 1982, II, 137).
Con riguardo invece alla nozione di occasione di lavoro, la
più recente giurisprudenza di legittimità ha abbandonato il
risalente orientamento interpretativo che faceva dipendere
l’indennizzabilità dell’evento dalla natura specifica o aggravata del rischio, essendo prevalso l’indirizzo che riconduce
entro i confini della tutela indennitaria “tutte le condizioni,
comprese quelle ambientali e socio-economiche, in cui l’attività lavorativa si svolge e nelle quali è insito un rischio di
danno per il lavoratore, indipendentemente dal fatto che
tale danno provenga dall’apparato produttivo o dipenda da
terzi o da fatti e situazioni proprie del lavoratore, col solo limite, in quest’ultimo caso, del c.d. rischio elettivo”, con la
conseguenza che l’evento indennizzabile non può essere
circoscritto dalla “esclusiva derivazione eziologica materia-
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
le dalla lavorazione specifica espletata dall’assicurato”, ma
deve essere “esaminato in relazione a tutte le circostanze
di tempo e di luogo connesse all’attività lavorativa espletata, potendo in siffatto contesto particolare assumere connotati peculiari tali da qualificarlo diversamente dagli accadimenti comuni e farlo rientrare nell’ambito della previsione
della normativa di tutela” (tra le tante Cass. 5 gennaio
2015, n. 6; Cass. 11 febbraio 2013, n. 3173, in questa Rivista, 2013, 418; Cass. 23 luglio 2012, n. 12779, in questa Rivista, 2012, n. 11, 1114; Cass. 27 gennaio 2006, n. 1718, in
questa Rivista, 2006, n. 6, 598; Cass. 4 agosto 2005, n.
16417; Cass. 18 luglio 2005, n. 15107, in Guida dir., 2005,
n. 35, 89; Cass. 28 luglio 2004, n. 14287; Cass. 21 aprile
2004, n. 7633; Cass. 28 ottobre 2003, n. 16216, in Riv. crit.
dir. lav., 2004, 179; Cass. 11 dicembre 2003, n. 18980, in
questa Rivista, 2004, 500).
Nel caso di specie la difesa del lavoratore aveva eccepito
che la prova del nesso causale tra l’evento e l’attività lavorativa poteva essere dedotta per presunzioni, tenuto conto
che l’ambiente di lavoro era insalubre ed infestato da insetti, che un altro lavoratore era stato punto da una zecca,
che mancavano elementari presidi di igiene nell’ambiente
di lavoro, in quanto privo di spogliatoi e di servizi e che più
volte era stata disposta la disinfestazione da parte dell’Ufficio Igiene. Pur a fronte di tali elementi, la corte territoriale
ha escluso l’indennizzabilità dell’evento in ragione della natura generica del rischio al quale era stato esposto il lavoratore, considerato che nel periodo immediatamente precedente e successivo all’evento in molte zone della città,
comprese quelle adiacenti al cantiere, erano stati effettuati
numerosi interventi di disinfestazione.
Sennonché, diversamente da quanto ritenuto dal giudice di
merito, l’indennizzabilità dell’evento non dipende dalla natura generica o specifica del rischio, ma - come ribadito
dalla stessa pronuncia in commento in conformità all’orientamento interpretativo prevalente - dal rapporto occasionale tra l’evento e l’attività lavorativa che può essere anche
dedotto in via presuntiva purché in termini di elevata probabilità e non di mera possibilità (tra le tante Cass. 15 ottobre 2014, n. 21825, in questa Rivista, 2015, 93. Cass. 26
giugno 2009, n. 15080).
755
Giurisprudenza
Sintesi
Rassegna del merito
a cura di Filippo Collia, Francesco Rotondi
CESSIONE D’AZIENDA
I CONTRATTI PRIVI DI CARATTERE PERSONALE EX ART.
2558 C.C.
Tribunale di Firenze 19 febbraio 2015 - Giud. Taiti - C.L
c. N. O. I. S.p.a.
Per “contratti che non abbiano carattere personale” nei
quali l’acquirente dell’azienda subentra, “se non è pattuito diversamente”, ex art. 2558 c.c. si intendono sia i
“contratti di azienda” (aventi ad oggetto il godimento
di beni aziendali acquistati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa), sia i “contratti di impresa”, non
aventi ad oggetto i beni aziendali, ma attinenti all’organizzazione dell’impresa stessa, come i contratti con i
fornitori, i contratti di assicurazione ecc., sempreché
non siano soggetti a discipline specifiche, quali ad
esempio l’art. 2112 c.c. (Nella specie, il Tribunale ha ritenuto ricompreso nell’art. 2558 c.c. il contratto di
agenzia, conseguentemente riconoscendo il diritto del
ricorrente alle provvigioni dirette, indirette, indennità di
mancato preavviso, indennità di fine rapporto e suppletiva, tutte accertate e quantificate tenuto conto della
continuità tra il contratto stipulato prima della cessione
d’azienda e quello successivo concluso con la società
subentrante).
Il caso
Con atto introduttivo del giudizio il ricorrente deduceva la
sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato con la
N.O. S.p.a. e successivamente con la N.O.I. S.p.a. per il periodo 1° marzo 2005 - 31 ottobre 2005, quale Dirigente
CCNL Dirigenti industriali o, in subordine, quale livello A1,
posizione Quadri, CCNL Settore Conciario e chiedeva che
fosse accertata la sussistenza di un tale rapporto di lavoro,
iniziato in data 1 marzo 2005 con la N.O. S.p.a. e proseguito senza soluzione di continuità con la N.O.I. S.p.a. a seguito di cessione di azienda. Chiedeva inoltre che venisse accertato il diritto alla corresponsione di un importo complessivo a titolo di retribuzione lorda, 13, ferie non godute, tfr e
per l’effetto la condanna della N.O.I. S.p.a. ex art. 2112 c.c.
al pagamento della detta somma. In subordine, ove non
fosse accertata la natura dirigenziale del rapporto bensì il
diritto all’inquadramento quale livello AI Quadri, domandava dichiararsi il suo diritto alla corresponsione della retribuzione relativa, da quantificarsi oltre 13,14, ferie non godute,
tfr con condanna di N.O.I. S.p.a. al pagamento ex art. 2112
c.c. delle relative somme. In via di ulteriore subordine,
chiedeva la condanna di N.O.I. S.p.a. ex art. 2112 c.c. della
retribuzione dovuta in proporzione alla quantità e qualità
del lavoro prestato, in ogni caso, in misura tale da garantire
al ricorrente e alla sua famiglia una esistenza libera e dignitosa ex art. 36 Cost.
Si costituiva in giudizio la società resistente, la quale in via
preliminare e di rito eccepiva la nullità del ricorso per difetto di allegazione in fatto, in diritto e in punto di prove. Chiedeva altresì dichiararsi il difetto di legittimazione passiva in
756
ordine al presunto rapporto di lavoro subordinato intercorso con la Conceria N.O. S.p.a. Nel merito, eccepiva la totale infondatezza e comunque la mancanza di prova, poiché
tra le parti era intercorso solo un rapporto di agenzia; chiedeva pertanto il rigetto del ricorso.
A tale giudizio ne veniva riunito altro, vertente tra le stesse
parti, nell’ambito del quale il ricorrente chiedeva acclararsi
la natura di esclusiva per la Toscana del rapporto di agenzia intercorrente tra le parti sulla scorta del giudicato formatosi tra le stesse a seguito di altro procedimento nonché
il suo diritto al pagamento delle provvigioni dirette con i
clienti indicati nei documenti prodotti, con condanna di
N.O.I. S.p.a. al pagamento di tutte le provvigioni dirette ed
indirette dall’inizio del rapporto del 19 settembre 2005 sino
al 30 aprile 2007, data di sua cessazione. Chiedeva altresì
dichiararsi l’annullamento ex art. 2113 c.c. di una clausola
del contratto oggetto di causa nella parte in cui dispone un
preavviso di 90 gg., inferiore a quello previsto dalla legge e
dall’AEC Industria 2002, in ordine all’anzianità da lui maturata, con condanna di N.O.I. S.p.a. al pagamento nei suoi
confronti di un’indennità sostitutiva del preavviso residuo o
comunque di un importo risarcitorio per la mancata prosecuzione del rapporto fino alla sua naturale scadenza. Chiedeva infine di accertare la risoluzione del rapporto di agenzia per fatto a lui non imputabile con condanna di N.O.I.
S.p.a. al pagamento dell’indennità prevista dall’art. 1751
c.c.
Si costituiva in giudizio la N.O.I. S.p.a., la quale contestava
la natura esclusiva del rapporto di agenzia in Toscana sulla
base del giudicato formatosi tra le parti anche e il diritto
del ricorrente alle provvigioni dirette ed indirette e, nel merito, concludeva per il rigetto di tutte le domande e conclusioni del ricorrente in quanto infondate in fatto ed in diritto.
La decisione
La sentenza si segnala poiché puntualizza quali contratti
debbano intendersi privi di carattere personale ai sensi dell’art. 2558 c.c., norma che regola la successione dei contratti in ipotesi di cessione d’azienda.
Nell’ambito del primo giudizio, tuttavia, essendo richiesto
l’accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro
subordinato nel periodo indicato 1° marzo 2005 - 31 ottobre 2005, viene in considerazione l’art. 2112 c.c., relativo al
mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d’azienda. Orbene, il G.U.L., rileva dapprima come
dagli atti emerga che il ricorrente nel detto intervallo svolgesse l’incarico di agente di commercio assunto con la
N.O. S.p.a. per la vendita di merce di produzione della società. Ciò posto, il Tribunale ritiene che, alla luce delle risultanze istruttorie, non sia possibile inquadrare tale responsabilità nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato vero e proprio, “rimanendo indimostrata la sussistenza del
vincolo di subordinazione e l’inserimento stabile dello stesso all’interno dell’azienda, con le caratteristiche proprie di
un rapporto dirigenziale o direttivo”.
Ne deriva che non possa ritenersi sussistente un rapporto
di lavoro subordinato instaurato con la N.O. S.p.a. e poi
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
Giurisprudenza
Sintesi
proseguito con la N.O.I. S.p.a., pertanto il ricorso deve essere respinto.
In ordine al secondo giudizio, invece, nell’ambito del quale
trova applicazione ed esplicazione il principio di diritto
enunciato, il decidente rileva dapprima quanto sostenuto in
ricorso, ossia che il ricorrente è stato agente di commercio
per la N.O. S.p.a. in virtù di più contratti dal 1986 e che, a
seguito di trasferimento d’azienda, il rapporto è continuato
di fatto con la società subentrante, con la quale il ricorrente
ebbe a stipulare contratto nel gennaio 2006.
Ciò posto, il Tribunale sancisce che “deve ritenersi sussistere una continuità tra i due rapporti di agenzia instaurati
prima e dopo la cessione di azienda”.
L’art. 2558 c.c., infatti, prevede che, se non è pattuito diversamente, il cessionario dell’azienda subentra nei contratti stipulati nell’esercizio dell’azienda che non abbiano
carattere personale.
Nella predetta locuzione devono ritenersi ricompresi sia
“contratti di azienda”, relativi cioè al godimento di beni
aziendali acquistati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa, sia i “contratti d’impresa”, che non avendo ad oggetto i beni aziendali, ma diversamente sono attinenti all’organizzazione dell’impresa stessa, come i contratti con i
fornitori, i contratti di assicurazione, sempreché non siano
soggetti a discipline specifiche.
Ritenendo, inoltre, che si sia configurato un trasferimento
d’azienda nei termini richiesti dalla giurisprudenza per il
rapporto di agenzia, il contratto dedotto rientra nella disciplina di cui al predetto art. 2558 c.c., norma richiamata dallo stesso contratto di affitto, che pertanto “non stabilisce
diversamente”.
Tutto ciò premesso in ordine al subentro della N.O.I. S.p.a.
nel contratto di agenzia già stipulato dal ricorrente con la
N.O. S.p.a., il Tribunale si pronuncia accogliendo nel merito le richieste di provvigioni dirette, indirette, indennità sostitutiva del preavviso e indennità di risoluzione del rapporto.
I precedenti
Sul contratto di agenzia quale “contratto” che non abbia
carattere personale” ex art. 2558 c.c., ex plurimis Cass.,
Sez. lav., 16 maggio 2000, n. 6351, in Giust. civ., 2000,
1037, Cass. 2 marzo 2002, n. 3045, in Riv. it. dir. lav. 2003,
II, 163, Cass., Sez. I, 22 luglio 2004, n. 13651, in Giust. civ.,
2004; di segno opposto vedi Trib. Reggio Calabria 15 gennaio 2003, in Giur. mer., 2003, 6.
Francesco Rotondi
CONTROVERSIE DEL LAVORO
LEGITTIMITÀ DELLA PRODUZIONE DI DOCUMENTAZIONE
AZIENDALE EX LAVORATORE NELL’AMBITO DI
CONTROVERSIA DI LAVORO PENDENTE TRA QUEST’ULTIMO
E DATORE DI LAVORO
Tribunale di Vasto 3 marzo 2015 - Giud. Salusti - X c.
Xy
È legittima la produzione in un precedente giudizio,
pendente tra lavoratore e datore di lavoro, di copia della documentazione aziendale in quanto tale comportamento non viola l’obbligo di fedeltà né costituisce giusta causa di licenziamento, soprattutto se finalizzata ad
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
approntare la propria difesa, operando la scriminante
dell’esercizio del diritto di cui all’art. 51 c.p. che ha valenza generale.
Il caso
Con atto introduttivo del giudizio la ricorrente chiedeva che
fosse accertata e dichiarata l’illegittimità del licenziamento
intimatole dalla società convenuta e conseguentemente la
condanna di quest’ultima alla immediata reintegra nel posto di lavoro occupato. Chiedeva altresì la condanna della
resistente azienda alla corresponsione di un’indennità risarcitoria nella misura di legge oltre alla regolarizzazione della
posizione contributiva omessa.
A sostegno delle proprie domande l’attrice deduceva di
aver depositato un primo ricorso ex art. 1, comma 48, L. n.
92/2012, affinché venisse dichiarata l’illegittimità del recesso comunicatole dalla società resistente con conseguente
ordine alla sua immediata reintegra nel posto di lavoro. Assumeva inoltre che, a seguito di ordinanza di accoglimento
del ricorso emessa dal G.U.L. adito e della successiva comunicazione di disponibilità al lavoro inviata dall’attrice,
quest’ultima riprendeva l’attività lavorativa presso la società contraddittrice. La ricorrente rappresentava altresì che al
proprio rientro le veniva comunicato l’avvio di procedura
disciplinare nei suoi confronti, a cui seguiva licenziamento
per giusta causa. In riferimento a ciò, la lavoratrice deduceva la carenza del requisito dell’immediatezza della contestazione e della tempestività del recesso, l’assoluta infondatezza delle contestazioni mosse e la natura meramente
ritorsiva del provvedimento espulsivo, attesa la pregressa
azione giudiziaria intentata dalla lavoratrice avverso l’azienda resistente nonché l’immediatezza dell’adozione della sospensiva cautelare. Da ultimo, la ricorrente rappresentava
che, pur a voler ritenere fondate le contestazioni mosse in
sede disciplinare, sussistesse un’assoluta sproporzione tra
i fatti contestati e la sanzione adottata.
Si costituiva in giudizio la società resistente, la quale contestava i presupposti in fatto a fondamento della domanda
attorea e deduceva che la ricorrente, nell’ambito del precedente giudizio, avesse prodotto della documentazione in
originale dopo averla indebitamente prelevata dall’archivio
dell’azienda. Asseriva inoltre la legittimità assoluta del proprio operato, nonché che, in ragione della gravità dei fatti
contestati, la sospensione cautelare della lavoratrice risultasse necessaria.
La decisione
La sentenza si segnala poiché tratta il tema della legittimità
della produzione in giudizio da parte del lavoratore di documentazione acquisita presso il datore di lavoro, al fine appunto di approntare la propria difesa, e dell’idoneità del
detto comportamento ad integrare giusta causa di licenziamento. Più in particolare, nel caso di specie alla ricorrente
viene contestato in sede disciplinare di essersi introdotta illegittimamente ed arbitrariamente nell’ufficio amministrazione e nell’archivio della struttura fuori dell’orario di lavoro; di aver consentito l’accesso nel predetto ufficio al marito, soggetto estraneo all’azienda e non autorizzato in tal
senso; ancora, di aver “movimentato” per finalità estranee
all’attività lavorativa la documentazione ivi custodita ed infine “di aver prodotto, nell’ambito dell’altro procedimento,
documentazione in copia custodita nell’archivio e risultante
mancante nonché per aver prodotto copia di altra documentazione risultata difforme dagli originali rimasti nella disponibilità della società”.
757
Giurisprudenza
Sintesi
Orbene, preliminarmente il GL si sofferma sulla nozione di
giusta causa di licenziamento e sulle relative deduzioni formulate dalla ricorrente in ordine all’idoneità del comportamento sanzionato a compromettere il rapporto di fiducia,
nonché sulla proporzionalità tra fatti contestati e sanzione
inflitta, sulla tempestività della contestazione disciplinare e
del relativo provvedimento. Conclude per l’illegittimità di
quest’ultimo stante l’accertata violazione del principio di
tempestività ed immediatezza.
Nel merito, il Tribunale rileva che “la sanzione irrogata alla
lavoratrice non sia proporzionale ai fatti contestati, non
avendo certamente questi una portata tale da compromettere la fiducia necessaria ai fini della permanenza del rapporto di lavoro”, e dunque a giustificare l’adozione del
provvedimento risolutorio del rapporto di lavoro.
Più in particolare, con riferimento alla prima contestazione
il Tribunale afferma che la ricorrente non fosse sottoposta
a vincoli di orario, dato il ruolo apicale rivestito. In ordine
alla seconda, le dichiarazioni testimoniali lasciano emergere l’irrilevanza della presenza del marito dell’attrice nell’ufficio. Anche circa la terza condotta oggetto di procedimento
disciplinare, il GL formula diverse osservazioni, dapprima
rilevando che la ricorrente rivestisse la carica di Direttore
dell’unità operativa e che pertanto, in quanto legittimamente in possesso delle chiavi dell’archivio, di alcuna autorizzazione dovesse disporre al fine di accedervi. Rileva altresì
come manchi qualunque prova in ordine alla detta “movimentazione”, nonché all’assunto per cui l’attrice fosse l’unica depositaria delle chiavi dell’archivio.
Da ultimo, con riferimento alla contestata produzione di
documenti nell’ambito del precedente procedimento di lavoro pendente tra le stesse parti, il Tribunale statuisce, in linea con l’orientamento della Suprema Corte, che il lavoratore che acquisisca presso il datore di lavoro documenti relativi alla propria posizione e che conseguentemente li produca in giudizio nell’ambito di una controversia di lavoro,
non violi l’art. 2105 c.c., ossia il dovere di fedeltà nei confronti del datore di lavoro. Tali condotte, infatti, appaiono
legittime, poiché deve ritenersi operante la scriminante dell’esercizio del diritto di cui all’art. 51 c.p., “che ha valenza
generale nell’ordinamento, senza essere limitata al mero
ambito penalistico”.
Il Giudice, alla luce del superiore principio, di tutte le esposte argomentazioni e rilevato anche che della addebitata
“sottrazione” di documenti non sia stata data alcuna dimostrazione nel corso dell’istruttoria, ritiene che le condotte
oggetto di procedimento disciplinare, oltre ad essere carenti di riscontro probatorio, risultino prive di “alcuna valenza e rilevanza”.
Il Tribunale, pertanto, dichiara l’illegittimità del provvedimento risolutorio del rapporto di lavoro, stante “la parziale
infondatezza delle contestazioni mosse e della carenza di
proporzionalità tra le contestazioni mosse e il provvedimento sanzionatorio intimato”.
I precedenti
Sulla legittimità della produzione di documentazione aziendale da parte del lavoratore in giudizio vertente col datore
di lavoro, stante la prevalenza del diritto di difesa in giudizio rispetto alle eventuali esigenze di riservatezza dell’azienda ex plurimis Cass., Sez. lav., 4 dicembre 2014, n. 25682,
in D&G 2014, 5 dicembre; Cass., Sez. lav., 21 maggio
2012, n. 7993, in Riv. crit. dir. lav. 2012, 3, 818; Cass., Sez.
lav., 8 febbraio 2011, n. 3038, in Mass. Giust. civ. 2011, 2,
197; Trib. Messina 9 dicembre 2010; Cass., Sez. lav., 7 luglio 2004, n. 12528, in Riv. it. dir. lav., 2005, II, 641; Cass.,
758
Sez. lav., 4 maggio 2002, n. 6420, in Riv. it. dir. lav., 2003,
II, 360; di segno contrario vedi Cass., Sez. lav., 2 marzo
1993, n. 2560, in Lav. prev. Oggi 1994, 1060, Pret. Vicenza
2 giugno 1995, in Not. giur. lav., 1995, 605.
Francesco Rotondi
LAVORO SUBORDINATO
INAPPLICABILITÀ DELLA CONTRIBUZIONE VIRTUALE AI
CONTRATTI DI LAVORO PART TIME CHE SUPERANO I LIMITI
QUANTITATIVI PREVISTI DAL CCNL EDILIZIA
Tribunale di Reggio Calabria 24 marzo 2015 - Dott. A.
D’Ingianna - C.D. c. INAIL
Il superamento dei limiti quantitativi previsti dal CCNL,
posto in essere nei contratti di lavoro a tempo parziale
del settore edilizia, oltre ad essere al di fuori della previsione di legge e quindi ad escludere l’illegittimità e la
nullità del contratto in se, non può realizzare un’applicazione estensiva del parametro contributivo tipico del
lavoro a tempo pieno non potendosi trarre neppure nella legislazione del settore edilizio l’attuazione di una tariffa contributiva intera.
Il caso
La vicenda in esame trae origine dal ricorso presentato dal
titolare di una ditta edile il quale riceveva un verbale ispettivo con cui l’INAIL gli addebitava di aver occupato nel 2009
quattro lavoratori con contratto a tempo parziale che, a dire degli ispettori e richiamando un verbale dell’INPS, la ditta non poteva assumere a part time e pertanto applicava a
questi lavoratori la c.d. “contribuzione virtuale”.
In particolare, il verbale, indicava, che i detti 4 lavoratori
erano stati assunti part time in eccedenza al limite previsto
dal CCNL e per questo richiamava l’art. 78 del CCNL edilizia il quale dispone che non è consentita l’assunzione di
operai part time in misura superiore ad una percentuale del
3% del totale del personale occupato con contratto a tempo indeterminato, prevedendo, tuttavia, la possibilità di impiegare almeno un lavoratore a tempo parziale laddove,
con la suddetta assunzione, non venga superato il limite
del 30% degli operai full time dipendenti della stessa impresa.
Pertanto, avendo l’azienda occupato sporadicamente un
solo operaio a tempo pieno, disponeva l’applicazione della
c.d. contribuzione virtuale sul personale a tempo parziale.
Con il ricorso, la ditta edile affermava la non applicabilità
dei limiti previsti dall’art. 78 CCNL industria edilizia ai rapporti tra la stessa azienda e i suoi dipendenti ed ogni caso
l’illegittimità delle pretese avanzate dall’INAIL.
La decisione
Al fine di decidere sulla vicenda de qua, il Tribunale di Reggio Calabria ha analizzato la possibile sussistenza di un vincolo derivante da una fonte legale che prevedesse l’applicazione della normativa contrattuale collettiva, quindi l’obbligo di rispettare i limiti quantitativi per l’accesso al lavoro
a tempo parziale.
In tal senso, il Giudicante, oltre ad evidenziare nella sentenza che le stesse parti (datore e dipendenti) non hanno
espressamente aderito al CCNL edilizia né si sono mai
iscritti ad associazioni sindacali stipulanti, ha anche sottolineato come non vi sia alcuna previsione legale in forza del-
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
Giurisprudenza
Sintesi
la quale la contrattazione collettiva possa porre un limite
quantitativo al ricorso alla tipologia di lavoro a tempo parziale, né che i contratti stipulati in eccedenza a tale previsione possano ritenersi illegittimi o nulli o addirittura che
possa attuarsi una estensione dei parametri contributivi
propri dei contratti a tempo pieno.
Posto ciò, il Decidente, alla luce di quanto esposto in sentenza, accoglie il ricorso e respinge la pretesa dell’INAIL,
affermando la sussistenza del principio di corrispondenza
della contribuzione al tipo di rapporto di lavoro realmente
eseguito, quindi ad una commisurazione in base alle ore di
lavoro effettivamente svolte.
Peraltro, il Giudicante evidenzia come il legislatore non abbia delegato, nella disciplina del part time, alla contrattazione la fissazione dei limiti quantitativi ne le conseguenze del
superamento degli stessi. In questo contesto non sfugge al
Giudicante il parallelismo con quanto previsto per il contratto a termine.
I Precedenti
Con riferimento a vicende analoghe a quella di cui al provvedimento in nota, si segnalano in senso conforme due importanti decisioni: Trib. Napoli 19 dicembre 2012, n. 32513
edita on line sul www.dplmodena.it; Trib. Reggio Calabria
5 novembre 2013.
Francesco Rotondi
ELEMENTI COSTITUTIVI DEL MOBBING LAVORATIVO
Tribunale di Santa Maria Capua Vetere 10 febbraio
2015 - Giud. Schiavoni - X c. Azienda Sanitaria Locale
di Caserta
Ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono ricorrere: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio - illeciti o anche leciti se considerati
singolarmente - che, con intento vessatorio, siano posti
in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte
del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da
parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo
dei primi; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico
tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria
dignità; d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi.
Il caso
Il ricorrente esponeva di avere lavorato per la convenuta
dal 1995 al 2008, quale dirigente medico di ortopedia e
traumatologia; di essere stato licenziato per superamento
del periodo di comporto; di essere stato vittima di comportamenti vessatori dalla metà di giugno 2000 sino al licenziamento.
Chiedeva il ricorrente che la convenuta fosse condannata
al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale,
al pagamento delle ferie e riposi maturati e non goduti, al
pagamento - anche in via risarcitoria - dell’intera retribuzione per il periodo di malattia. Il ricorrente impugnava, inoltre, il licenziamento e chiedeva, in via principale, che la
convenuta fosse condannata a ricostituire il rapporto di lavoro e a corrispondergli le retribuzioni maturate dalla data
del licenziamento fino a quella dell’effettiva reintegra.
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
Si costituiva in giudizio la convenuta, contestando le domande avversarie e chiedendone l’integrale rigetto.
La decisione
Con riferimento al mobbing lamentato dal ricorrente, il Tribunale ha evidenziato che, in assenza di una definizione
normativa di mobbing, la descrizione di tale fenomeno si ricava dalle decisioni della giurisprudenza e dalle acquisizioni della scienza medico-legale.
Il Tribunale, dopo aver esaminato il fenomeno mobbing (richiamando la distinzione tra mobbing orizzontale e verticale e tra comportamenti mobbizzanti tipici e atipici, ed evidenziando che gli elementi caratterizzanti sono costituiti
dalla potenzialità lesiva delle condotte, dalla loro frequenza
e dalla ripetitività nel tempo delle aggressioni), ha concluso
affermando che, perché sussista il mobbing lavorativo, occorrono una serie di comportamenti persecutori con intento vessatorio, posti in essere nei confronti della vittima in
modo sistematico e prolungato; l’evento lesivo della salute,
personalità o dignità del dipendente; il nesso eziologico tra
condotte e pregiudizio; e l’elemento soggettivo, ossia l’intento persecutorio che unifichi tutti i comportamenti lesivi.
Nel caso di specie, il Tribunale ha ritenuto che le risultanze
processuali confermassero quanto dedotto dal ricorrente, e
cioè che lo stesso era stato vittima di più tipologie di comportamenti vessatori, protrattisi sistematicamente per circa
otto anni, quali svuotamento di mansioni ed emarginazione
lavorativa, dequalificazione, mancata risposta alle reiterate
richieste avanzate dal ricorrente, plurimi trasferimenti immotivati, illegittimità dei giudizi medico-legali espressi dai
competenti organi dell’amministrazione e, infine, il licenziamento.
Pertanto, il Tribunale ha ritenuto che il caso concreto potesse essere ricondotto alla fattispecie di mobbing, avendo
il ricorrente provato la sussistenza di comportamenti persecutori con intento vessatorio nei suoi confronti, il danno subito e il nesso eziologico, mentre nessuna prova liberatoria
era stata fornita dalla resistente, che si era limitata ad una
generica contestazione di quanto dedotto in ricorso.
Conseguentemente, ha dichiarato la responsabilità della
convenuta per il mobbing subito dal ricorrente, con condanna al risarcimento del danno non patrimoniale, e la illegittimità del demansionamento subito dal ricorrente, con
condanna della convenuta al risarcimento del danno patrimoniale alla professionalità.
Il Tribunale ha poi condannato la convenuta al pagamento
dell’indennità sostitutiva delle ferie non godute. Inoltre, ha
dichiarato la nullità del licenziamento intimato al ricorrente,
in quanto, da un lato, lo stato patologico del ricorrente, dal
quale era derivato il superamento del periodo di comporto,
era addebitabile al comportamento persecutorio del datore
di lavoro, e, dall’altro lato, la motivazione del licenziamento
risultava una motivazione solo apparente per celare l’intento ritorsivo e discriminatorio del licenziamento; pertanto,
ha condannato la convenuta a reintegrare il ricorrente nel
posto di lavoro e a risarcirgli il danno subito.
I precedenti
Cass., Sez. lav., 6 agosto 2014, n. 17698, in Mass. Giust.
civ., 2014, rv. 631986; Cass., Sez. lav., 28 agosto 2013, n.
19814, in Riv. it. dir. lav., 2014, 1, 63, secondo cui, perché
si configuri il mobbing, sono rilevanti quattro elementi: a)
la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio,
illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e
prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b)
759
Giurisprudenza
Sintesi
l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova
dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio;
Cass., Sez. lav., 7 agosto 2013, n. 18836, in Mass. Giust.
civ. 2013, rv. 628410, secondo cui costituisce mobbing la
condotta del datore di lavoro, sistematica e protratta nel
tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di
lavoro, che si risolva, sul piano oggettivo, in sistematici e
reiterati abusi, idonei a configurare il cosiddetto terrorismo
psicologico, e si caratterizzi, sul piano soggettivo, con la
coscienza ed intenzione del datore di lavoro di arrecare
danni, di vario tipo ed entità, al dipendente medesimo.
La dottrina
E. Pasqualetto, Intenzionalità del “mobbing” e costruttività
organizzativa (nota a Cass. civ., sez. lav., 28 agosto 2013 n.
19814), in Riv. it. dir. lav. 2014, 1, 63; N. Ghirardi, La fattispecie “mobbing” ancora al vaglio della Cassazione (nota a
Cass., sez. lav., 31 maggio 2011 n. 12048), in Riv. it. dir. lav.
2012, 1, 59.
Filippo Collia
ELEMENTO DISTINTIVO TRA RAPPORTO DI AGENZIA
E RAPPORTO DI LAVORO SUBORDINATO
Tribunale di Firenze 10 febbraio 2015 - Giud. Taiti - J.S.
c. C. S.n.c.
L’elemento distintivo tra il rapporto di agenzia e il rapporto di lavoro subordinato va individuato nella circostanza che il primo ha per oggetto lo svolgimento a favore del preponente di un’attività economica esercitata
con organizzazione di mezzi e assunzione del rischio da
parte dell’agente, che è legato da un semplice rapporto
di collaborazione con il preponente, al quale deve fornire le informazioni utili al fine di valutare la convenienza
degli affari, mentre oggetto del secondo è la prestazione, in regime di subordinazione, di energie lavorative, il
cui risultato rientra esclusivamente nella sfera giuridica
dell’imprenditore, che sopporta il rischio dell’attività
svolta.
Il caso
La ricorrente esponeva di avere svolto per la società convenuta attività di vendita di spazi pubblicitari, lavorando presso gli uffici della convenuta, con sottoposizione alle direttive dei datori di lavoro e con osservanza di un determinato
orario di lavoro. Sosteneva la ricorrente che il rapporto, formalmente instaurato come rapporto di agenzia, si fosse atteggiato come rapporto di lavoro subordinato e chiedeva,
pertanto, che fosse accertata la sussistenza di un rapporto
di lavoro subordinato, con condanna della convenuta al pagamento di una somma per retribuzione ordinaria, ratei tredicesima e quattordicesima, ferie, rol e trattamento di fine
rapporto, oltre rivalutazione monetaria e interessi legali.
Nessuno si costituiva in giudizio per la società convenuta e
il Tribunale, vista la regolare notifica del ricorso, ne dichiarava la contumacia.
La decisione
Il Tribunale ha evidenziato che, al fine di distinguere tra
rapporto di agenzia e rapporto di lavoro subordinato, occorre considerare che il primo ha per oggetto lo svolgimento di un’attività economica con organizzazione di mezzi e
assunzione del rischio da parte dell’agente, legato da un
760
rapporto solo di collaborazione con il preponente, mentre il
secondo ha per oggetto la prestazione di energie lavorative
in regime di subordinazione, il cui risultato rientra nella sfera giuridica del datore, che sopporta il rischio.
Applicando il predetto principio, nel caso di specie il Tribunale ha ritenuto sussistente un rapporto di lavoro subordinato tra le parti.
Invero, dalle deposizioni testimoniali era emerso che la ricorrente non aveva una propria organizzazione imprenditoriale con rischio a suo carico; ella, invece, svolgeva l’attività
di vendita nell’ambito della società convenuta, in cui era
stabilmente inserita, aveva una sua postazione, sottostava
alle direttive impartitele dal direttore generale e dai legali
rappresentanti, aveva un orario di lavoro vincolante.
Alle risultanze della prova per testi si aggiungeva la mancata comparizione ingiustificata dei legali rappresentanti della
società a rendere l’interrogatorio formale loro deferito sulle
circostanza dedotte nel ricorso.
Accertata la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra le parti, il Tribunale ha quindi condannato la società
convenuta al pagamento delle spettanze richieste dalla ricorrente.
I precedenti
Cass., Sez. lav., 23 aprile 2009, n. 9696, in Mass. Giust. civ.,
2009, 4, 676, secondo cui elemento distintivo tra rapporto
di agenzia e rapporto di lavoro subordinato è che il primo
ha per oggetto lo svolgimento a favore del preponente di
un’attività economica esercitata in forma imprenditoriale,
con organizzazione di mezzi e assunzione del rischio da
parte dell’agente, che si manifesta nell’autonomia nella
scelta dei tempi e dei modi della stessa, pur nel rispetto
delle istruzioni ricevute dal preponente, mentre oggetto del
secondo è la prestazione di energie lavorative in regime di
subordinazione, il cui risultato rientra esclusivamente nella
sfera giuridica dell’imprenditore, che sopporta il rischio dell’attività svolta; Cass., Sez. lav., 12 maggio 2004, n. 9060,
in Mass. Giust. civ., 2004, 5; Cass., Sez. lav., 1° settembre
2003, n. 12756, in Mass. Giust. civ. 2003, 9, secondo cui,
per distinguere tra rapporto di lavoro subordinato e rapporto di agenzia, deve considerarsi che elementi peculiari del
secondo sono rappresentati dall’organizzazione da parte
dell’agente di una struttura imprenditoriale, anche a livello
soltanto embrionale, e dall’assunzione da parte dello stesso del rischio per l’attività promozionale svolta, che si manifesta nell’autonomia dell’agente nella scelta dei tempi e
dei modi della stessa, pur nel rispetto delle istruzioni ricevute dal preponente.
La dottrina
F. Toffoletto, Il contratto di agenzia, Milano, 2012.
Filippo Collia
PROVA DEL CARATTERE RITORSIVO DEL LICENZIAMENTO
Tribunale di Firenze 6 febbraio 2015 - Giud. Santoni Rugiu - B.B. c. S.a.s. B.A.D.B.C.
Per affermare il carattere ritorsivo e quindi la nullità del
provvedimento espulsivo, in quanto fondato su un motivo illecito, occorre specificamente dimostrare, con
onere a carico del lavoratore, che l’intento discriminatorio e di rappresaglia per l’attività svolta abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà del datore
di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini del-
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
Giurisprudenza
Sintesi
la configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso.
Il caso
La ricorrente impugnava il licenziamento per giustificato
motivo oggettivo comminatole dalla società convenuta, sostenendo che esso fosse nullo, perché discriminatorio, in
quanto ella era l’unica dipendente iscritta al sindacato, la
più anziana e l’unica con figli minori a carico; chiedeva,
quindi, che la convenuta fosse condannata a reintegrarla in
servizio e a pagarle l’indennità risarcitoria prevista dalla
legge.
In subordine, la ricorrente assumeva l’illegittimità del licenziamento ai sensi dell’art. 8 della L. n. 604/1966, per insussistenza del giustificato motivo oggettivo, e chiedeva quindi la condanna della convenuta al pagamento dell’indennità risarcitoria prevista dalla legge.
Si costituiva in giudizio la società convenuta, contestando
le domande attoree e chiedendone il rigetto.
lav., 8 agosto 2011, n. 17087, in Mass. Giust. civ. 2011, 78, 1158, secondo cui il licenziamento è nullo quando il motivo ritorsivo sia stato l’unico determinante e sempre che il
lavoratore ne abbia fornito prova, anche con presunzioni.
La dottrina
P. Ichino, Quando il giudice confonde il difetto di giustificato
motivo oggettivo con il motivo illecito (nota a Trib. Bologna,
sez. lav., 19 novembre 2012), in Riv. it. dir. lav., 2013, 1,
274; C. Pederzoli, Licenziamento pretestuoso e motivo illecito. Un’incerta linea di confine (nota a Cass. civ., sez. lav., 3
agosto 2011, n. 16925), in Riv. it. dir. lav., 2012, 2, 367; F.
S. Ivella, In presenza di una effettiva ristrutturazione escluso
l’intento ritorsivo del provvedimento (nota a Cass. civ., sez.
lav., 26 marzo 2012, n. 4797), in Guida dir., 2012, 17, 36.
Filippo Collia
PREVIDENZA
La decisione
Il Tribunale ha verificato, innanzitutto, la fondatezza del giustificato motivo oggettivo posto a fondamento del licenziamento.
In merito, la resistente aveva rappresentato che le difficoltà
finanziarie, evidenziate dal calo degli utili di esercizio, avevano reso necessaria una riorganizzazione aziendale, nell’ambito della quale alcune delle attività contabili svolte
dalla ricorrente erano state esternalizzate, mentre le altre
erano invece state affidate ad una socia accomandataria.
Inoltre, la società aveva dedotto che la ricorrente era l’unica dipendente a svolgere tali mansioni contabili e che nessun dipendente era stato poi assunto in sostituzione della
ricorrente.
Il Tribunale ha evidenziato che, a fronte delle specifiche deduzioni della resistente, la ricorrente nulla aveva in concreto replicato in merito alla effettività del motivo oggettivo,
alla esternalizzazione delle mansioni e alla impossibilità di
reimpiego, cosicché doveva ritenersi fondato il giustificato
motivo oggettivo.
Per dimostrare la asserita discriminatorietà del licenziamento sarebbe servita, quindi, secondo il Tribunale, una
prova rigorosa da parte della ricorrente della sussistenza
della discriminazione e del fatto che essa avesse avuto rilievo esclusivo nella decisione di licenziamento, rispetto agli
altri fatti integranti il giustificato motivo oggettivo.
Nel caso di specie, è stato ritenuto che la ricorrente avesse
omesso di fornire tale prova, essendosi limitata a indicare
elementi non adeguati a supportare la pretesa discriminazione, non avendo nemmeno rappresentato che la società
fosse a conoscenza della iscrizione della ricorrente al sindacato e che ciò avesse influito sulla scelta di licenziare
proprio lei.
Il Tribunale ha respinto anche la domanda subordinata formulata dalla ricorrente in relazione al licenziamento, dal
momento che era risultato sussistente il giustificato motivo
oggettivo e che la società aveva provato che la ricorrente
svolgeva mansioni non fungibili con quelle delle altre dipendenti.
I precedenti
Trib. Milano 28 novembre 2012, in Nuovo not. giur. 2013,
1, 45, secondo cui l’esistenza del fatto posto a fondamento
del licenziamento impedisce la configurazione del licenziamento come discriminatorio o ritorsivo; Trib. Milano 5 novembre 2012, in Riv. it. dir. lav., 2013, 3, 654; Cass., Sez.
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
ISCRIZIONE D’UFFICIO A UNA GESTIONE PREVIDENZIALE
E ACQUIESCENZA
Tribunale di Genova 9 febbraio 2015 - Giud. Basilico A.L. c. INPS
Analogamente a quanto avviene in altri settori dell’ordinamento, l’acquiescenza non è configurabile nei confronti del provvedimento amministrativo, quale è l’atto
di iscrizione d’ufficio ad una gestione previdenziale, che
stabilisca una procedura di accertamento e di riscossione coattiva, salvo che il rapporto non debba considerarsi estinto o che siano scaduti i termini per fare valere il
diritto; la rinuncia può investire dunque non l’an, ma se
mai il solo quantum debeatur, in presenza d’una dichiarazione espressa in tal senso o d’una condotta sintomatica specifica, espressivi d’una volontà non equivoca.
Il caso
Il ricorrente esponeva che l’INPS, con due comunicazioni
una del 2011 e l’altra del 2012, gli aveva comunicato di
averlo iscritto alla gestione separata per gli anni 2005 e
2006, anni in cui il ricorrente era iscritto alla gestione INPS
ex Inpdap per l’attività di lavoro subordinato e altresì ad
Inarcassa per il solo contributo integrativo in relazione all’attività di ingegnere libero professionista.
Chiedeva il ricorrente che fosse accertata l’inesistenza del
proprio obbligo di iscrizione alla gestione separata dell’INPS operata d’ufficio dall’ente e che fosse accertato il
suo diritto alla restituzione di quanto già versato per contributi alla gestione separata.
Si costituiva in giudizio l’INPS, eccependo in primo luogo
l’inammissibilità del ricorso, in quanto il ricorrente, proponendo nel luglio 2011 domanda di dilazione amministrativa
dei contributi dovuti tra il 2005 e il 2009 e pagando spontaneamente nell’agosto 2011 quelli maturati dal 2010 al
2012, aveva espressamente ammesso il debito. Nel merito,
insisteva per la sussistenza dell’obbligo di iscrizione alla gestione separata del ricorrente.
La decisione
In merito alla eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dall’INPS, il Tribunale ha affermato che il principio giurisprudenziale, secondo cui la domanda di condono previdenziale non costituisce riconoscimento del debito, si atta-
761
Giurisprudenza
Sintesi
naglia anche alla domanda di ammissione al pagamento
rateale che venga condizionato dal rispetto di termini di decadenza unilateralmente determinati.
Secondo il Tribunale, l’acquiescenza non è configurabile
nei confronti del provvedimento amministrativo, quale è
l’atto di iscrizione d’ufficio ad una gestione previdenziale,
che stabilisca una procedura di accertamento e di riscossione coattiva, a meno che il rapporto non debba considerarsi estinto o siano scaduti i termini per far valere il diritto;
quindi la rinuncia può investire solo il quantum debeatur, e
non l’an, in presenza di una dichiarazione espressa in tal
senso o di una condotta sintomatica specifica, che esprimano una volontà non equivoca.
Alla luce di tali principi, il Tribunale ha ritenuto che, con la
dichiarazione del luglio 2011 del ricorrente, la rinuncia ai
singoli crediti rivendicati dall’INPS vi era ormai stata e aveva prodotto i propri effetti sulle somme cui era riferita.
Invece, doveva ritenersi che, con la successiva comunicazione del gennaio 2012, il ricorrente avesse fatto valere l’esistenza del diritto a valere per il futuro, in quanto con tale
comunicazione aveva espresso all’INPS la sua volontà di
accettare temporaneamente, salvo facoltà di ricorso, l’iscrizione d’ufficio dall’anno 2005 e di eseguire i pagamenti
con riserva di chiedere la restituzione.
Nel merito, il Tribunale ha ritenuto che non esistesse l’obbligo di iscrizione del ricorrente alla gestione separata dell’INPS.
Ciò premesso, il Tribunale ha rigettato la domanda di restituzione di quanto già versato in esecuzione dell’istanza di
pagamento dilazionato, mentre ha dichiarato l’inesistenza
dell’obbligo del ricorrente all’iscrizione alla gestione separata dell’INPS a valere per i crediti maturati nei periodi successivi.
I precedenti
Cass., Sez. trib., 30 giugno 2006, n. 15170, in Mass. Giust.
civ., 2006, 6, secondo cui, in materia tributaria, costituisce
principio incontestato quello secondo cui il puro e semplice
riconoscimento, effettuato dal contribuente nell’ambito di
una procedura di accertamento, d’essere tenuto al pagamento di un tributo, non produce l’effetto di precludere
ogni contestazione in ordine all’an debeatur; Trib. Brescia
20 dicembre 1997, in Or. giur. lav. 1998, I, 199, secondo
cui la domanda di condono previdenziale non impedisce al
contribuente di coltivare la domanda di accertamento negativo del debito e di ripetizione nei confronti dell’INPS,
perché non costituisce, di per sé, acquiescenza alla pretesa
patrimoniale dell’ente.
Filippo Collia
SICUREZZA NEI LUOGHI DI LAVORO
OBBLIGATORIETÀ, IN CAPO AL DATORE DI LAVORO,
DELLA SICUREZZA NEI LUOGHI DI LAVORO STANTE
LA NATURA CONTRATTUALE DELLA RESPONSABILITÀ
EX ART. 2087 C.C.
Tribunale di Firenze 19 febbraio 2015 - Giud. Taiti - P.L.
c. B.F. S.n.c.
Vista la natura contrattuale della responsabilità ex art.
2087 c.c., il datore di lavoro è tenuto ad adottare tutte
le misure idonee e necessarie a tutelare l’integrità fisica
762
e la personalità morale dei prestatori di lavoro, così come ha l’onere probatorio di aver fatto tutto quanto possibile per evitare il verificarsi del danno.
Il caso
P.L., dipendente della Ditta B.F. S.n.c., mentre si trovava al
lavoro alla macchina scorniciatrice subiva una semi amputazione del braccio destro per mancato funzionamento dei
dispositivi di autofrenatura; pertanto, con ricorso, chiedeva
al Tribunale di Firenze di accertare e dichiarare l’esclusiva
responsabilità della società datrice di lavoro nonché il pagamento a carico della stessa di una somma pari ad €
442.117,40 a titolo di risarcimento, oltre interessi e rivalutazione monetaria.
Si costituiva la Ditta B.F. snc, la quale chiedeva il rigetto di
tutte le domande formulate da P.L., con vittoria di spese di
lite.
Dopo l’attività istruttoria, una CTU medico-legale (che riconosceva un danno permanente al lavoratore pari al 55%) e
la discussione, la causa veniva decisa in favore del ricorrente.
La decisione
I punti presi in considerazione dal Giudice al fine di decidere sulla vicenda de qua, sono sostanzialmente due. Il
Decidente ha verificato se i macchinari su cui lavorava il
ricorrente erano perfettamente funzionanti, nonché se il
lavoratore fosse stato adeguatamente istruito sul corretto utilizzo degli stessi. In relazione al secondo punto, invece, il Giudicante, alla luce dei dettami dell’art. 2087
c.c., ha verificato la sussistenza di una possibile responsabilità in capo alla ditta datrice di lavoro, quindi se la
stessa avesse adottato tutte le misure necessarie per un
corretto funzionamento della macchina scorniciatrice,
nonché se era imputabile al datore una condotta negligente o se vi era una procedura che se attivata dalla ditta stessa avrebbe consentito di evitare il verificarsi del
danno.
Sulla base di ciò il Tribunale ha evidenziato come in base ai
diversi documenti presenti in atti, con particolare riferimento al verbale redatto dall’ASL, si è accertato che al momento dell’infortunio il dispositivo di frenatura e sicurezza della
macchina scorniciatrice su cui lavorava il ricorrente era
non funzionante; per tale motivo, infatti, il datore di lavoro
veniva condannato ex art. 444 c.p.p. dal Tribunale di Firenze - sez. distaccata di Empoli - alla pena di 9 mesi di reclusione. Inoltre, sulla base delle prove testimoniali si è anche
accertato che nessuna formazione specifica sull’uso del
macchinario e sui rischi dello stesso era mai stata impartita
al ricorrente o agli altri lavoratori che operavano su macchinari similari alla scorniciatrice.
Posto ciò, il Giudice, non avendo rinvenuto una condotta
imprudente in capo al ricorrente (il quale confidava nell’automatico funzionamento del sistema frenante) e avendo
accertato che la società convenuta non ha dimostrato di
aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, accoglieva
la domanda del lavoratore riconoscendogli un importo pari
ad € 558.699,00, dal quale però scomputava il valore della
rendita capitalizzata risultante dalla comunicazione INAIL,
nonché l’acconto già versato dal datore di lavoro, per un
importo finale da corrispondersi pari ad € 149.350,75 oltre
interessi e rivalutazione.
I Precedenti
Cass., Sez. lav., 17 febbraio 2009, n. 3786, in Giust. civ.
2009; Trib. Tivoli 16 dicembre 2009, in Riv. crit. dir. lav.
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
Giurisprudenza
Sintesi
2010; Cons. Stato, Sez. VI, 19 gennaio 2011, n. 365, in Riv.
crit. dir. lav. 2011; T.A.R. Milano, Sez. III, 4 febbraio 2011,
n. 350, in Foro amm. TAR, 2011; Cass., Sez. lav., 22 dicembre 2011, n. 28205, in Riv. it. dir. lav., 2012; T.A.R. Genova,
Sez. II, 8 gennaio 2013, n. 16, in Foro amm. TAR, 2013, 1,
50; App. Roma, Sez. lav., 4 settembre 2013, n. 3573, in De-
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
Jure 2013; T.A.R. Roma, Sez. I, 3 febbraio 2014, n. 1291,
in Foro amm. 2014, 2, 620; T.A.R. Trieste, Sez. I, 20 maggio 2014, n. 218, in Foro amm. 2014; Cass., Sez. lav., 2 luglio 2014, n. 15082, in Giust. civ., 2014.
Francesco Rotondi
763
Normativa
Sintesi
Novità legislative
ed amministrative
a cura di Alessia Muratorio
Agricoltura
I CHIARIMENTI MINISTERIALI SUGLI ADEMPIMENTI AMMINISTRATIVI NELLE CO-ASSUNZIONI
IN AGRICOLTURA
Lettera circolare Min. Lav. 6 maggio 2015, n. 7671
Con propria lettera circolare, la Direzione Generale per l’Attività Ispettiva del Ministero del Lavoro ha chiarito le
modalità operative da seguire per il corretto svolgimento degli adempimenti amministrativi in merito alle assunzioni congiunte in agricoltura effettuate per lo svolgimenti di prestazioni lavorative presso le relative aziende (ex
art. 31, comma 3 bis del D.Lgs. n. 276/2003). Tale possibilità è consentita alle imprese agricole, anche costituite
in forma cooperativa, che appartengano allo stesso gruppo di imprese ovvero siano riconducibili al medesimo assetto proprietario ovvero a soggetti legati tra loro da un vincolo di parentela o di affinità entro il terzo grado, o infine, abbiano stipulato un contralto di rete, quando almeno il 50% delle imprese siano qualificabili come imprese
agricole ex art. 2135 c.c. A seguito dell’assunzione congiunta, il lavoratore instaura un rapporto di lavoro con una
pluralità di datori, sia sotto il profilo formale sia sotto il profilo sostanziale, determinandosi così una complicazione negli adempimenti amministrativi. Le comunicazioni di assunzione, trasformazione, proroga e cessazione concernenti i lavoratori assunti congiuntamente devono essere effettuate, secondo le consuete modalità di trasmissione stabilite per tutte le comunicazioni obbligatorie, dall’impresa capogruppo, per i gruppi di impresa, dal proprietario, per le imprese riconducibili allo stesso proprietario, dal soggetto individuato da uno specifico accordo o
dal contratto di rete stesso quale incaricato tenuto alle comunicazioni di legge, per le imprese riconducibili a soggetti legati tra loro da un vincolo di parentela o affinità entro il terzo grado e per quelle legate tra loro da un contratto di rete. Gli stessi soggetti sono obbligati agli ulteriori adempimenti connessi alla gestione dei rapporti di lavoro.
DURC
I CHIARIMENTI SULLA PROCEDURA SEMPLIFICATA DI RILASCIO DEL DURC ON LINE
Circolare Min. Lav. 8 giugno 2015, n. 19
Dal 1° luglio è in vigore la nuova procedura semplificata on line di rilascio del DURC (art. 4, D.L. n. 34/2014, conv.
in L. n. 78/2014), rispetto alla quale il Ministero del Lavoro ha fornito le prime indicazioni di carattere interpretativo e procedurale. Tra i soggetti abilitati alla verifica della regolarità contributiva vi sono le amministrazioni aggiudicatrici, gli organismi di diritto pubblico, enti aggiudicatori o altri soggetti aggiudicatori, i soggetti aggiudicatori
e le stazioni appaltanti; gli Organismi di attestazione SOA; le amministrazioni pubbliche, i concessionari ed i gestori di pubblici servizi; l’impresa o il lavoratore autonomo in relazione alla propria posizione contributiva o, previa
delega dell’impresa o del lavoratore autonomo medesimo, chiunque vi abbia interesse; le banche e gli intermediari finanziari. Il Ministero chiarisce che in una prima fase di applicazione della nuova disciplina, i soggetti delegati restano esclusi dalla possibilità di avviare la verifica della regolarità contributiva in attesa delle necessarie implementazioni informatiche, salvo quelli già abilitati per legge allo svolgimento degli adempimenti di carattere lavoristico e previdenziale.
I soggetti abilitati possono verificare in tempo reale il regolare pagamento dei contributi dovuti dai datori di lavoro
o lavoratori autonomi ai quali è richiesto il possesso e l’esito della stessa sostituisce ad ogni effetto il DURC già
previsto per l’erogazione delle sovvenzioni, contributi, sussidi, nelle procedure di appalto d’opera e servizi o per il
rilascio dell’attestazione SOA.
La verifica di regolarità riguarda i pagamenti dovuti scaduti fino all’ultimo giorno del secondo mese antecedente
a quello in cui la verifica è effettuata, a condizione che sia scaduto anche il termine di presentazione delle relative
denunce retributive. Essa avviene con unica interrogazione negli archivi dell’INPS, INAIL e delle Casse Edili che
operano in integrazione e riconoscimento reciproco, indicando soltanto il codice fiscale del soggetto da verificare.
L’esito positivo genera un documento in formato pdf, non modificabile, che ha una validità di centoventi giorni
dalla verifica.
La regolarità sussiste comunque ove siano state concesse rateizzazioni dagli Enti coinvolti, per legge vi sia la sospensione dei pagamenti, via siano crediti in fase amministrativa oggetto di compensazione ovvero durante il
contenzioso amministrativo - fino alla decisione di rigetto del ricorso - o giudiziale - fino al passaggio in giudicato
764
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
Normativa
Sintesi
della sentenza. Si considerano regolari anche i casi in cui vi sia uno scostamento non grave - per tale intendendosi l’omissione pari o inferiore a 150 euro comprensivi degli eventuali accessori di legge con riferimento a ciascuna
Gestione - tra le somme dovute e quelle versate, con riferimento a ciascun Istituto o Cassa Edile.
In caso di irregolarità, gli Istituti inviano all’interessato o al soggetto delegato l’invito a regolarizzare con indicazione analitica delle cause di irregolarità rilevate da ciascun Ente tenuto al controllo. Tale invito deve essere inviato
esclusivamente o al soggetto interessato dalla verifica di regolarità o ad un soggetto delegato ed abilitato per legge allo svolgimento degli adempimenti di carattere lavoristico e previdenziale per conto del datore di lavoro. La
regolarizzazione delle proprie posizioni può avvenire entro quindici giorni dalla notifica dell’invito; l’irregolarità
non può essere dichiarata sussistente qualora la regolarizzazione avvenga prima della definizione dell’esito della
verifica: il rilascio del DURC terrà conto dell’intervenuta regolarizzazione. Il Ministero evidenzia che il procedimento di regolarizzazione conseguente al mancato esito di regolarità in tempo reale ha efficacia per tutte le interrogazioni effettuate durante il predetto termine di quindici giorni e comunque per tutte quelle eseguite fino alla definizione della prima richiesta. La risultanza dell’interrogazione e l’avvenuta regolarizzazione determinerà la formazione del DURC in formato pdf, pienamente utilizzabile e sostitutivo del precedente per centoventi giorni.
Il Ministero evidenzia poi le particolarità riguardanti le procedure concorsuali. Ad esempio per il concordato, l’attestazione di regolarità è subordinata ai contenuti del piano concordatario contenente la descrizione analitica delle modalità e dei tempi di adempimento della proposta di concordato; nel caso di “concordato in bianco” (art.
161, R.D. n. 267/1942) l’assenza di piano concordatario comporterà l’attestazione di irregolarità, non potendosi
verificare i termini di soddisfazione dei propri crediti da parte del debitore. In tal caso viene emesso l’invito alla regolarizzazione con applicazione a favore del debitore del c.d. automatic stay, ossia degli effetti protettivi nei confronti dei creditori concernenti il divieto di compiere azioni esecutive o cautelari o acquisire titoli di prelazione.
Nel caso di fallimento con esercizio provvisorio, la regolarità sussiste con riferimento agli obblighi contributivi nei
confronti di INPS, INAIL e Casse edili scaduti anteriormente alla data di autorizzazione all’esercizio provvisorio, a
condizione che risultino essere stati insinuati nella procedura.
LA VERIFICA DELLA REGOLARITÀ CONTRIBUTIVA PER LA FRUIZIONE DEI BENEFICI NORMATIVI
E CONTRIBUTIVI E LA RELATIVA NOTIFICA DEI PREAVVISI DI IRREGOLARITÀ NEI CHIARIMENTI INPS
Messaggio INPS 21 maggio 2015, n. 3454
L’INPS ha comunicato la prossima ultimazione delle operazioni di controllo della regolarità contributiva ai fini della fruizione dei benefici normativi e contributivi, cui seguiranno i preavvisi d’irregolarità nei confronti dei datori di
lavoro individuati tramite matricola aziendale irregolari. Per coloro che risulteranno regolari alla data del controllo,
i sistemi informativi centrali attiveranno la segnalazione di sussistenza dei presupposti di regolarità contributiva
per l’accesso al DURC online. Le eventuali situazioni di irregolarità verranno rilevate nei mesi pregressi che non
siano state oggetto di precedente preavviso: per i datori di lavoro ai quali, nel mese di maggio 2014, è stato regolarmente notificato il preavviso, l’attività di controllo ed il consolidamento della regolarità/irregolarità aziendale riguarderanno i periodi di competenza da giugno 2014 a maggio 2015, nel caso di mancata regolarizzazione a seguito del precedente preavviso; ovvero i periodi di competenza da settembre 2014 a maggio 2015 per le situazioni regolarizzate entro i termini. Per i datori di lavoro ai quali, nel mese di maggio 2014, non è stato regolarmente
notificato il preavviso, invece, l’attività di controllo e il consolidamento della regolarità/irregolarità aziendale interesseranno i periodi di competenza da dicembre 2012 a maggio 2015.
Per le matricole aziendali sospese o cessate (contraddistinte dal semaforo nero nel cassetto contributivo) che presentano periodi di irregolarità antecedenti la sospensione o la cessazione della posizione contributiva e in relazione ai quali non è stata effettuata la verifica e il consolidamento (periodi contraddistinti dal semaforo rosso nel
cassetto contributivo), la rielaborazione e l’eventuale spedizione dei preavvisi di irregolarità verrà effettuata nel
mese di giugno 2015.
Per consentire il tempestivo aggiornamento delle situazioni di irregolarità contestate è necessario che, nel termine assegnato dal preavviso di quindici giorni, il datore di lavoro ponga in essere tutte le attività necessarie a ripristinare la regolarità aziendale.
“Garanzia giovani”
PUBBLICATO IL DECRETO CONCERNENTE IL BONUS OCCUPAZIONALE DEL PROGRAMMA “GARANZIA
GIOVANI”
Decreto Direttoriale 28 maggio 2015, n. 169
Con il Decreto Direttoriale n. 169/2015, di rettifica del precedente 1709/Segr. DG/2014 quanto alla compatibilità
delle misure con la disciplina vigente in materia di incentivi alle imprese, il Ministero ha riconosciuto la possibilità
di usufruire degli incentivi del c.d. “Bonus Occupazione”, nell’ambito del “Programma Operativo Nazionale Iniziativa Occupazione Giovani”, anche oltre i limiti stabiliti nella disciplina degli aiuti de minimis, a condizione che l’assunzione del giovane risponda alle finalità del programma e importi un incremento netto dell’occupazione stabile.
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
765
Normativa
Sintesi
Irap
LE PRECISAZIONI DELL’AGENZIA DELLE ENTRATE SULLA DEDUCIBILITÀ DEL COSTO DEL LAVORO
DALLA BASE IMPONIBILE IRAP
Circolare Agenzia delle Entrate 9 giugno 2015, n. 22
A seguito di alcune questioni interpretative poste in merito deducibilità del costo del lavoro dalla base imponibile
dell’Irap, dopo le modifiche apportate dalla Legge di Stabilità 2015, l’Agenzia delle Entrate ha fornito alcune direttive.
Per le imprese che operano in “concessione” e a “tariffa”, escluse per legge dalle deduzioni sul cuneo fiscale, sono ammesse ora in deduzione dalla base imponibile le spese per il personale dipendente impiegato a tempo indeterminato; la norma introduce un criterio di deducibilità “per differenza” tra il costo del lavoro complessivo sostenuto in relazione ai rapporti di impiego a tempo indeterminato e le deduzioni spettanti. Se la sommatoria delle deduzioni vigenti è inferiore al costo del lavoro, spetta un’ulteriore deduzione fino a concorrenza dell’intero importo
dell’onere sostenuto.
Per i contratti di somministrazione lavoro, le imprese che se ne avvalgano possono dedurre il costo del lavoro dalla base imponibile Irap solo se il rapporto contrattuale tra somministratore e dipendente sia a tempo indeterminato. Non conta invece che il rapporto commerciale tra somministratore ed utilizzatore sia a termine o meno. In caso di distacco di personale, l’Agenzia delle Entrate è dell’avviso che ai sensi della nuova disciplina siano deducibili dalla base imponibile dell’impresa distaccante i costi sostenuti in relazione al personale dipendente distaccato
impiegato con contratto di lavoro a tempo indeterminato, con conseguente rilevanza degli importi spettanti, a titolo di rimborso, delle spese afferenti al medesimo personale.
Quanto alle quote di TFR maturate a partire dall’esercizio 2015, compresa la rivalutazione di quelle accantonate
fino a tutto il 2014, esse rientrano a pieno titolo nella determinazione delle spese per il personale dipendente deducibili; sono invece esclusi gli accantonamenti effettuati a partire dal 2015 per eventuali oneri futuri connessi al
rapporto di lavoro.
Sono poi esclusi dagli oneri deducibili i rapporti di lavoro regolati a tempo determinato in funzione del tipo di attività svolta ovvero della normativa di settore.
Infine, nella circ. n. 22 l’Ente chiarisce alcuni punti del credito d’imposta del 10% dell’Irap lorda indicata in dichiarazione: tale beneficio può in ultimo essere riconosciuto solo in favore dei soggetti che non si avvalgano in alcun
modo di personale dipendente, a prescindere dalla tipologia contrattuale adottata.
Lotta alle frodi
SIGLATO L’ACCORDO INPS - AGENZIA DELLE ENTRATE PER CONTRASTARE LE FRODI FISCALI
E CONTRIBUTIVE
Protocollo d’Intesa INPS-Agenzia delle Entrate 26 maggio 2015
Per costruire un argine ancora più efficace contro l’uso improprio della compensazione tra partite creditorie e debitorie aperte nei confronti delle diverse Pubbliche amministrazioni e più in generale le frodi fiscali e contributive,
INPS e Agenzia delle Entrate rafforzeranno le forme istituzionali di comunicazione secondo l’impegno fissato nel
Protocollo d’intesa del 26 maggio 2015. L’accordo prevede l’istituzione di un tavolo tecnico bilaterale di coordinamento, composto da funzionari dell’INPS e dell’Agenzia delle Entrate, che definirà i dettagli relativi allo scambio
di informazioni. A livello regionale, invece, verranno formati ulteriori gruppi di lavoro con il compito di calare l’azione di controllo in maniera operativa e sistematica e sul territorio. L’Agenzia e l’Ente previdenziale si impegnano
inoltre a mettere a punto specifiche metodologie di controllo condivise. Il passo successivo sarà la redazione di
elenchi di aziende da sottoporre ad accessi, che verranno realizzati in maniera coordinata o anche congiunta.
Sgravi contributivi
PUBBLICATO IN GAZZETTA UFFICIALE IL DECRETO PER LA TERMINAZIONE DELLA MISURA MASSIMA
PERCENTUALE DELLA RETRIBUZIONE DI SECONDO LIVELLO OGGETTO DI SGRAVIO CONTRIBUTIVO
Decreto ministeriale 8 aprile 2015, in G.U. 29 maggio 2015, n. 123
È stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il Decreto Interministeriale con la determinazione per l’anno in corso della
misura massima percentuale della retribuzione di secondo livello oggetto dello sgravio contributivo previsto dall’art. 1, c. 67-68 della Finanziaria 2008. Dal 1° gennaio 2015 viene riservato così ai datori di lavoro uno sgravio
contributivo sulla quota determinata dalle erogazioni previste dai contratti collettivi aziendali e territoriali ovvero
di secondo livello pari all’1,6% della retribuzione contrattuale percepita. Il beneficio è subordinato alla sottoscrizione ed al deposito entro trenta giorni dall’entrata in vigore del decreto di contratti collettivi aziendali o territoriali
o di secondo livello; tali contratti devono poi prevedere erogazioni correlate ad incrementi di produttività, qualità,
766
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
Normativa
Sintesi
redditività, innovazione ed efficienza organizzativa, oltre che essere emolumenti collegati ai risultati riferiti all’andamento economico o agli utili dell’impresa o ad altro elemento rilevante ai fini del miglioramento della competitività aziendale.
Ove si sia indebitamente beneficiato dello sgravio contributivo, i datori di lavoro devono versare i contributi dovuti
maggiorati delle sanzioni civili previste dalle disposizioni di legge vigenti in materia.
Sospensione attività
I CHIARIMENTI MINISTERIALI SUL CRITERIO DI CALCOLO DELLA SOGLIA DEI DIPENDENTI PER LA DEROGA
ALLA SOSPENSIONE DELL’ATTIVITÀ IMPRENDITORIALE NEL CASO DI LAVORO NERO
Nota Min. Lav. 28 aprile 2015, n. 7127
Riprendendo la precedente nota prot. 1561 del 3 marzo 2015, concernente l’esatta individuazione della cd. micro
impresa e le categorie di prestatori di lavoro computabili ai fini dell’adozione del provvedimento di sospensione,
la più recente nota del Ministero del Lavoro ha fornito alcuni chiarimenti sul criterio di calcolo della soglia occupazionale utile per la verifica dei dipendenti ai fini dell’applicazione della deroga. Tra i requisiti per l’adozione del
provvedimento di sospensione dell’attività imprenditoriale è menzionata, infatti, la presenza di personale non risultante dalla documentazione obbligatoria in misura pari o superiore al 20% del totale dei lavoratori presenti sul
luogo di lavoro. In riferimento a questa soglia, il Ministero precisa che nel calcolo dei lavoratori, i soci amministratori che prestano attività lavorativa in azienda non andranno computati nel calcolo della percentuale dei lavoratori
complessivamente occupati ai fini della adozione del provvedimento. A fondamento dell’assunto, il Ministero
chiarisce che la persona del lavoratore si colloca in una posizione di alterità, all’interno dell’organizzazione aziendale, rispetto alla figura datoriale: nella nota in oggetto si evidenzia la sostanziale diversità che intercorre tra coloro che, prestando attività lavorativa a favore dell’impresa, rivestono la carica di amministratori, e sono dotati, pertanto, dei tipici poteri datoriali, e chi invece, pur appartenendo alla compagine societaria, non dispone di tali poteri gestori. Così, i soci lavoratori che non abbiano l’amministrazione o la gestione della società rientrano in tale
calcolo.
Sostegno al reddito
L’INPS FORNISCE I CRITERI DI CONCESSIONE DEGLI AMMORTIZZATORI SOCIALI IN DEROGA
ALLA NORMATIVA VIGENTE
Circolare INPS 27 maggio 2015, n. 107
Riprendendo i chiarimenti e le puntualizzazione svolte da Ministero con proprie Circolari e Note, l’INPS ha ripreso
e fornito chiarimenti operativi circa criteri e modalità di concessione degli ammortizzatori sociali in deroga alla
normativa vigente, la cui domanda è da trasmettersi ora in via solo telematica all’INPS o alle Regioni. In particolare, in relazione alla Cassa integrazione guadagni in deroga regionale si evidenzia che con la nota n. 9179 del 23
aprile 2015 il Ministero del Lavoro ebbe ad apportare modifiche di natura sostanziale al flusso di gestione delle
domande: le Regioni e le Province autonome, allo scopo di assicurare la verifica preventiva della compatibilità finanziaria a cui è tenuto l’INPS, devono comunicare prontamente all’Istituto gli accordi stipulati presso le Regioni
o ad esse comunque inviati, nel rispetto dei termini di presentazione delle domande. La verifica preventiva della
compatibilità finanziaria presuppone la determinazione esatta del budget assegnato ad ogni singola regione ed
utilizzabile per la gestione degli ammortizzatori in deroga, prima dell’inizio della stipula degli accordi regionali.
L’assegnazione delle risorse alle Regioni in un momento successivo rispetto ai periodi di intervento, ha determinato per le Regioni la difficoltà di comunicare prontamente all’INPS gli accordi stipulati e quindi di rispettare
quanto previsto dalla relativa disciplina. Nella circolare in commento l’INPS precisa di essere stata esonerata dal
Ministero del Lavoro, sia per l’anno 2014 che per l’anno 2015, dall’effettuare le verifiche ed i controlli relativi alla
compatibilità finanziaria a carattere preventivo sugli accordi stipulati in sede istituzionale e dalla successiva verifica di coerenza della determinazione regionale con l’ipotesi di accordo preventivamente stimato. L’INPS dovrà
pertanto effettuare solamente un monitoraggio della spesa, mediante un controllo periodico successivo finalizzato alla verifica del rispetto, da parte delle Regioni e Province autonome, delle risorse loro assegnate dai decreti interministeriali di attribuzione dei fondi.
I CHIARIMENTI SUL TRATTAMENTO DI DISOCCUPAZIONE A FAVORE DEI LAVORATORI RIMPATRIATI DA PAESI
STRANIERI CONVENZIONATI E NON
Circolare INPS 22 maggio 2015, n. 106
L’INPS ha fornito alcuni chiarimenti in merito al campo di applicazione dei regolamenti europei in materia di sicurezza sociale - n. 883/2004 e n. 987/2009 - e della normativa interna - L. n. 402/1975 - sul trattamento di disoccupazione in favore dei lavoratori rimpatriati da Paesi convenzionati e non. Per accedere alla prestazione di disoccu-
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
767
Normativa
Sintesi
pazione il lavoratore italiano rimasto disoccupato deve presentare apposita domanda, essere rimpatriato entro
centottanta giorni dalla data di cessazione del rapporto di lavoro ed avere reso la dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro entro trenta giorni dalla data del rimpatrio. Il cittadino italiano, in stato di disoccupazione, che
rientra da uno Stato estero non convenzionato, in presenza di tutti i requisiti richiesti, ha diritto alla prestazione
per la durata massima prevista di centottanta giorni. All’atto di presentazione della domanda, dovrà essere prodotta apposita dichiarazione, attestante il licenziamento o il mancato rinnovo del contratto, rilasciata dal datore di
lavoro all’estero ovvero dalla competente autorità consolare italiana. Il cittadino italiano, in stato di disoccupazione, che rientra da uno Stato estero che applica la normativa comunitaria, ossia i Paesi dell’UE, gli Stati SEE (Islanda, Liechtenstein e Norvegia) e la Svizzera, può conservare il diritto alla prestazione, di norma, per un massimo di
tre mesi, prorogabili, nel caso di alcuni Stati, fino ad un massimo di sei mesi. In base alla regolamentazione ora
vigente, le prestazioni spettanti a carico delle istituzioni estere sono pagate direttamente al lavoratore dall’istituzione debitrice: prima di determinare il diritto alla prestazione di disoccupazione per rimpatriati, deve essere accertato che nel Paese di provenienza non sia stato maturato il diritto ad una prestazione di disoccupazione. In tale
caso la prestazione rimpatriati dovrà essere determinata tenendo presente le informazioni fornite dall’Istituzione
estera. Infatti, nel caso il richiedente abbia diritto a prestazioni a carico dell’Istituzione estera, le giornate già indennizzate da detta Istituzione dovranno essere detratte dalle giornate spettanti a titolo di prestazione di disoccupazione rimpatriati. Il trattamento di disoccupazione per i rimpatriati potrà essere erogato solamente dopo avere
acquisito le informazioni relative all’eventuale diritto a carico dello Stato estero interessato.
Sostegno alle famiglie
L’INPS COMUNICA I NUOVI LIVELLI REDDITUALI ED I CORRISPONDENTI IMPORTI MENSILI
DELLA PRESTAZIONE PER LE DIVERSE TIPOLOGIE DI NUCLEI FAMILIARI
Circolare INPS 27 maggio 2015, n. 109
L’INPS ha comunicato con propria circolare i nuovi importi di reddito e la misura della prestazione, annualmente
calcolata, secondo la tipologia del nucleo familiare, il numero dei componenti ed il reddito complessivo; vengono
previsti importi e fasce reddituali più favorevoli per le situazioni di particolare disagio quali i nuclei monoparentali
o quelli con familiari inabili. Il periodo di riferimento va dal 1° luglio 2015 al 30 giugno 2016. I livelli di reddito familiare a questi fini vengono rivalutati annualmente, con effetto dal 1° luglio di ciascun anno, in misura pari alla
variazione dell’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati, come calcolato dall’ISTAT, con
riferimento all’anno di maturazione dei redditi e l’anno immediatamente precedente (per il 2015 tale variazione
percentuale è pari all’0,2%.
768
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
il Lavoro nella giurisprudenza
Indici
INDICE DEGLI AUTORI
7 aprile 2015, n. 6893, Sez. III ...........................
Buconi M. Lavinia
7 aprile 2015, n. 6933 .....................................
7 aprile 2015, n. 6944 .....................................
Il decreto legislativo n. 23/2015: ambito applicativo e
profili di compatibilità costitituzionale...................
661
10 aprile 2015, n. 7296 ...................................
15 aprile 2015, n. 7621 ...................................
15 aprile 2015, n. 7625 ...................................
696
16 aprile 2015, n. 7782 ...................................
29 aprile 2015, n. 8683 ...................................
Casanova Valentina
L’inidoneità parziale (temporanea o permanente) alla
prestazione lavorativa .....................................
Catini Simone
Le Sezioni Unite fanno chiarezza sull’interruzione del
termine di prescrizione delle sanzioni civili ............
30 aprile 2015, n. 8784 ...................................
733
Collia Filippo
Rassegna del merito.......................................
756
D’Andrea Luca
L’inidoneità parziale (temporanea o permanente) alla
prestazione lavorativa .....................................
696
Garofalo Domenico
La perequazione delle pensioni: dalla Corte costituzionale n. 70 del 2015 al d.l. n. 65 del 2015 ...........
680
Giorgi Elena
Azione di regresso dell’Inail: le Sezioni Unite sul dies
a quo di decorrenza e sulla natura del termine........
724
Giovanardi Carlo Alberto
Rassegna della Cassazione...............................
747
Gragnoli Enrico
Riflessioni di un avvocato moderno sull’orazione di
Lisia contro Eratostene....................................
Rassegna della Cassazione...............................
747
Circolare INPS 27 maggio 2015, n. 109 ................
Decreto Direttoriale 28 maggio 2015, n. 169 .........
747
Circolare Min. Lav. 8 giugno 2015, n. 19 ..............
Circolare Agenzia delle Entrate 9 giugno 2015, n. 22
Muratorio Alessia
Novità legislative ed amministrative ....................
INDICE ANALITICO
756
Sitzia Andrea
I controlli a distanza dopo il ‘‘Jobs Act’’ e la Raccomandazione R(2015)5 del Consiglio d’Europa .........
Cessione d’azienda
Successione dei contratti
671
Torsello Laura
Quali conseguenze per i contratti a termine illegittimi nelle società in house? ................................
743
I contratti privi di carattere personale ex art. 2558
c.c. (Tribunale di Firenze 19 febbraio 2015) ...........
Produzione documentazione
Corte costituzionale
Rito Fornero
30 aprile 2015, n. 70.......................................
La sezione lavoro conferma: nel rito Fornero il giudice che ha emesso l’ordinanza può decidere anche
sull’opposizione (Cassazione civile, Sez. lav., 16 aprile 2015, n. 7782) ...........................................
680
Corte di Cassazione
16 marzo 2015, n. 5160...................................
3 aprile 2015, n. 6869 .....................................
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
731
719
753
756
Controversie del lavoro
Legittimità della produzione di documentazione
aziendale ex lavoratore nell’ambito di controversia di
lavoro pendente tra quest’ultimo e datore di lavoro
(Tribunale di Vasto 3 marzo 2015).......................
INDICE CRONOLOGICO
DEI PROVVEDIMENTI
13 marzo 2015, n. 5076...................................
766
767
768
765
764
766
764
Rotondi Francesco
Rassegna del merito.......................................
760
761
Santa Maria Capua Vetere 10 febbraio 2015 ..........
759
Firenze 10 febbraio 2015 ................................ 759; 760
Firenze 19 febbraio 2015 ................................ 756; 762
Ancona, 26 febbraio 2015, sez. lav. ....................
741
Vasto 3 marzo 2015 .......................................
757
Reggio Calabria 24 marzo 2015 .........................
758
Normativa
Decreto ministeriale 8 aprile 2015 ......................
766
Nota Min. Lav. 28 aprile 2015, n. 7127 ................
767
Lettera circolare Min. Lav. 6 maggio 2015, n. 7671 .
764
Messaggio INPS 21 maggio 2015, n. 3454 ...........
765
Circolare INPS 22 maggio 2015, n. 106 ................
767
Firenze 6 febbraio 2015...................................
Genova 9 febbraio 2015 ..................................
707
Ludovico Giuseppe
Rassegna della Cassazione...............................
Tribunali
Protocollo d’Intesa INPS-Agenzia delle Entrate 26
maggio 2015................................................
Circolare INPS 27 maggio 2015, n. 107 ................
Guarnieri Guerino
748
754
752
752
753
749
747
751
750
757
747
Ricorso in appello
Ancora sulla notificazione tardiva del ricorso in ap-
769
il Lavoro nella giurisprudenza
Indici
pello (Cassazione civile, Sez. III, 7 aprile 2015, n.
6893) .........................................................
748
Lavoro subordinato
758
Controlli a distanza
I controlli a distanza dopo il ‘‘Jobs act’’ e la Raccomandazione R(2015)5 del Consiglio d’Europa, di Andrea Sitzia ...................................................
671
Inosservanza di obblighi assistenziali e previdenziali
derivanti da contratti e accordi collettivi: competenza
(Cassazione civile, Sez. Lav., 15 aprile 2015, n.
7625) .........................................................
Le Sezioni Unite fanno chiarezza sull’interruzione del
termine di prescrizione delle sanzioni civili (Cassazione civile, Sezioni unite, 13 marzo 2015, n. 5076),
commento di Simone Catini .............................
752
Associazione in partecipazione e lavoro subordinato
(Cassazione, Sez. lav., 10 aprile 2015, n. 7296).......
752
Elemento distintivo tra rapporto di agenzia e rapporto di lavoro subordinato (Tribunale di Firenze 10 febbraio 2015) ..................................................
760
La perequazione delle pensioni: dalla Corte costituzionale n. 70 del 2015 al d.l. n. 65 del 2015, di Domenico Garofalo............................................
Licenziamento irrogato a lavoratrice madre ed effetti
della nullità del recesso (Cassazione civile, sez. lav.,
29 aprile 2015, n. 8683) ...................................
751
Licenziamento per giusta causa (Cassazione, Sez.
lav., 3 aprile 2015, n. 6869)...............................
Parziale omissione contributiva e anzianità contributiva nella previdenza forense (Cassazione civile, Sez.
lav. 15 aprile 2015, n. 7621)..............................
753
Prova del carattere ritorsivo del licenziamento (Tribunale di Firenze 6 febbraio 2015) .........................
761
Licenziamento
Utilizzo di permessi per assistenza a portatori di handicap e soddisfacimento di esigenze personali (Cassazione civile, Sez. lav., 30 aprile 2015, n. 8784) .....
750
680
753
Professioni
Ruolo dell’avvocato
707
Sicurezza nei luoghi di lavoro
Obbligo del datore del lavoro
759
Mansioni
Obbligatorietà, in capo al datore di lavoro, della sicurezza nei luoghi di lavoro stante la natura contrattuale della responsabilità ex art. 2087 c.c. (Tribunale di
Firenze 19 febbraio 2015) ................................
762
Società in house
696
Contratti a termine
Quali conseguenze per i contratti a termine illegittimi nelle società in house? (Tribunale di Ancona, 26
febbraio 2015, Sez. Lav), commento di Laura Torsello..............................................................
Jobs Act
Controlli a distanza
I controlli a distanza dopo il ‘‘Jobs act’’ e la Raccomandazione r(2015)5 del Consiglio d’Europa, di Andrea Sitzia ...................................................
754
Pensioni
Rriflessioni di un avvocato moderno sull’orazione di
Lisia contro Eratostene, di Enrico Gragnoli ............
Mobbing
L’inidoneità parziale (temporanea o permanente) alla
prestazione lavorativa, di Luca D’Andrea e Valentina
Casanova ....................................................
761
Previdenza forense
v. anche Jobs Act
Elementi costitutivi del mobbing lavorativo (Tribunale di Santa Maria Capua Vetere 10 febbraio 2015) ...
731
Infortuni
Occasione di lavoro e prova del rapporto tra l’evento
e l’attività lavorativa (Cassazione civile, Sez. lav., 7
aprile 2015, n. 6933).......................................
Elementi distintivi
749
Gestione separata
Iscrizione d’ufficio a una gestione previdenziale e acquiescenza (Tribunale di Genova 9 febbraio 2015) ...
Distacco del lavoratore
Distacco del lavoratore (Cassazione civile, Sez. lav.,
7 aprile 2015, n. 6944) ....................................
719
Controversie previdenziali
Contribuzione virtuale
Inapplicabilità della contribuzione virtuale ai contratti
di lavoro part time che superano i limiti quantitativi
previsti dal Ccnl edilizia (Tribunale di Reggio Calabria
24 marzo 2015).............................................
a quo di decorrenza e sulla natura del termine (Cassazione civile, Sezioni Unite, 16 marzo 2015, n.
5160), commento di Elena Giorgi .......................
741
671
Tutele per i licenziamenti illegittimi
Il decreto legislativo n. 23/2015: ambito applicativo e
profili di compatibilità costituzionale, di M. Lavinia
Buconi .......................................................
661
Previdenza
Azione di regresso dell’Inail
Azione di regresso dell’Inail: le Sezioni Unite sul dies
770
il Lavoro nella giurisprudenza 7/2015
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