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Lucio d’Alessandro
Proposta legge Mastella: riforma e disciplina professioni
PROFESSIONE
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Rosa D’Ettore
Valentina Alazraki
Giorgio Tonelli
Guido Mocellin
Fotogiornalismo: tra pubblicità e denuncia
La comunicazione dei due Papi
Dalle piazze al potere editoriale
Informazione religiosa? Fa sempre più notizia
STORIA E CULTURA
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Natascia Villani
Emilio Rossi
Alessandra Dionisio
Roberto Sgalla
Le mutazioni del linguaggio politico
Cittadini merce di consumo? Allora non è tv pubblica
Medici detective in tv: e negli ospedali normali si muore
Comunicare per rassicurare: un impegno della polizia
TESI DI LAUREA
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Filippo Storani
Cristiana Paladini
Francesca Ieracitano
Valentina Cimmino
Il giornalismo musicale
Gli spazi di inclusione degli stranieri in città
Processi di produzione e riproduzione culturale nella postmodernità
Il giornalismo di Walter Tobagi
CONVEGNI
E CONGRESSI
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Antonella Scutiero
Camilla Rumi
C.R.
Marianna Berti
Emilia Ferone
Angelo Sferrazza
NAPOLI Le professioni della comunicazione: il DDL Mastella
ROMA Tv e minori: Il bilancio del 2006
ROMA La riforma del sistema della comunicazione
ROMA Informazione ed oggettività
NAPOLI Unicampania: centro di orientamento interuniversitario
ISRAELE L’Ucsi in Terra Santa: viaggio alla ricerca della “notizia”
LIBRI
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Paolo Scandaletti
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Camilla Rumi
Lorenzo Ruggiero
Angelo Sferrazza
A. S.
Giancarlo Siani, Le parole di una vita-Gli scritti giornalistici
Giovannino Guareschi, Mondo Candido (1958/1960)
Leo Longanesi, Una vita
R. Kapuscinski, Autoritratto di un reporter
Lucina Salvato, Sport comunicazione e scuola
Massimo Nava, Il Francese di ferro
F. Tonello, E. Giomi, Il giornalismo francese
EDITORIALE
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C U LT U R A E R I C E R C A D E L L A C O M U N I C A Z I O N E
Rivista trimestrale
Università Sr. Orsola Benincasa e Ucsi
Anno XIV n. 1
DIRETTORI
Paolo Scandaletti (responsabile)
Lucio D’Alessandro
COMITATO SCIENTIFICO
Francesco M. De Sanctis (Presidente)
Giuseppe Acocella
Ermanno Bocchini
Pasquale Borgomeo
Isabella Bossi Fedrigotti
Enzo Cheli
Massimo Corsale
Piero Craveri
Lucio D’Alessandro
Derrick De Kerckhove
Ornella De Sanctis
Gianpiero Gamaleri
Paolo Mazzoletti
Massimo Milone
Mario Morcellini
Agata Piromallo Gambardella
Emilio Rossi
Paolo Scandaletti
Franco Siddi
COORDINATORI DI REDAZIONE
Roma: Rosa Maria Serrao
06/68.80.28.74 fax 06/45.44.96.21
cell. 392/00.19.687
e-mail: [email protected]
Napoli: Arturo Lando
Andrea Pitasi cell. 339/22.65.709
e mail: [email protected]
Proprietà ed Editore: Ucsi
GIUNTA ESECUTIVA
Massimo Milone (Presidente) Angelo
Sferrazza (Vicepresidente), Giorgio Tonelli
(Segretario), Francesco Birocchi (Tesoriere),
P. Pasquale Borgomeo (consulente
ecclesiastico), Maurizio Del Maschio, Paolo
Lambruschi, Andrea Melodia, Antonello
Riccelli, Giuseppe Vecchio
Finito di stampare: aprile 2007
da CSR - Roma, Via di Pietralata 157
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LEGGE DELEGA MASTELLA:
RIFORMA E DISCIPLINA PROFESSIONI
LUCIO D’ALESSANDRO
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Lucio d’Alessandro,
è preside della Facoltà di Scienze
della Formazione all’Università
Sr Orsola Benincasa di Napoli.
Dirige questa rivista insieme a
Paolo Scandaletti
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e c’è un domanda frequentissima a cui gli addetti all’orientamento universitario trovano tuttavia costantemente difficile rispondere è quella che chiede a quali attività professionali potrà
accedere il giovane che consegua una delle molte lauree che il
mercato dell’offerta formativa degli Atenei ha predisposto, certamente, rivolgendosi ai giovani, ma non sempre, bisogna dirlo
con forte senso di responsabilità, nel loro vero interesse.
Le obiettive ragioni della difficoltà di rispondere ad una tale domanda sono molteplici. Tra le prime, volendo continuare nel
solco di un’autocritica verso il sistema universitario è quella del
tradizionale disinteresse degli Atenei verso il tema della sistemazione dei propri allievi. Ed infatti le Università, specie quelle di
Stato che in Italia sono la stragrande maggioranza, individuando principalmente nello Stato il proprio committente e referente hanno tradizionalmente ritenuto loro principale se non esclusivo compito quello di elaborare e fornire saperi, spesso escludendo esplicitamente dal proprio orizzonte ogni idea di formazione alla professionalità ed al mercato del lavoro.
Affinché quanto sopra non venga ascritto ad una sorta di irresponsabilità storica del sistema universitario italiano è bene ricordare che a monte di tale atteggiamento vi era una robusta e dignitosissima elaborazione teorica per la quale il primato e la libertà del sapere e della ricerca si giustificano ed erano possibili
in ragione principalmente della loro purezza. Compito delle Università e dei suoi docenti era essenzialmente quello di fare ricerca, cioè elaborare sapere. Il suo trasferimento ai giovani era già
un compito, in qualche modo, ulteriore pur attuato in piena serietà. Il fatto che i saperi si dovessero organizzare tra loro competenze professionali attuali era un dato che riguardava piuttosto il mondo esterno delle professioni e delle pratiche che non
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un compito specifico della formazione universitaria.
Di qui un obiettivo deficit di tradizione nel dare risposta alla ricordata domanda iniziale degli studenti. D’altra parte non tutte
le università, anche in una contemporaneità nella quale l’importanza della committenza studentesca si è fatta più incisiva per
l’accrescersi inevitabile dei costi della formazione universitaria a
carico degli utenti (famiglie-studenti) sono riuscite ad adeguarsi
alle nuove esigenze. Prova evidente di ciò è nella moltiplicazione di curricula universitari, spesso davvero insignificanti sul versante professionale cui le Università hanno dato luogo nell’ambito della riforma e dell’autonomia. Questo è accaduto un po’ in
tutti i settori dello scibile ivi compreso quello della comunicazione di cui questa rivista particolarmente si occupa e, bisogna
dirlo con una equa distribuzione del nord al sud del Paese.
Dunque una università incapace di rispondere alla nuova domanda di professionalizzazione perché attardata, sia nel suo rapporto con l’utenza, sia nel proprio riflettersi principalmente in
se stessa e nelle sue esigenze istituzionali. Si deve, tuttavia, aggiungere che la stessa domanda posta dagli allievi e dalle loro famiglie risulta di difficile risposta perché appesantita da un altro,
simmetrico, ritardo: il permanente riferimento ad un’idea di lavoro come “posto fisso” che appare sempre più lontana dalla
corrente realtà del mercato del lavoro professionale italiano e
“mondializzato”.
Vi è inoltre un terzo livello di difficoltà, è quello normativo posto che l’argomento dell’accesso alle professioni e del rapporto
formazione-professioni rientra, come spesso accade in Italia,
nelle competenze istituzionali di numerosi Ministeri (Grazia e
giustizia, Università, Pubblica Istruzione, Finanza Pubblica, Lavoro…). La difficoltà ulteriore è allora quella di conoscere, nel
meandro delle norme che regolano in questo Paese praticamente tutto, quale sia poi effettivamente la disciplina delle diverse
professioni, non di rado caratterizzata da evidenti distorsioni
spesso legate alle capacità di pressione lobbystica dei gruppi di riferimento. Faccio un esempio che, pur non riguardando l’ambito della comunicazione, riguarda da vicino altri laureati e migliaia di giovani di tutto il territorio nazionale. Mi riferisco al caso dei laureati quadriennali in Scienze dell’Educazione ai quali è
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stato offerto, prima dalla legge e, poi, dalle Università della Repubblica la formazione per il titolo di educatore professionale. Non
si tratta dunque di un curriculum inventato da questa o quella
Università della Repubblica (come nel caso delle lauree triennali); si tratta, invece, di una laurea pre-riforma, stabilita dallo Stato con tutti i canoni e crismi possibili. Ebbene semplicemente
questi laureati non possono partecipare ai concorsi per la professione di educatore professionale banditi dalle ASL: essi sono, infatti, riservati a coloro i quali abbiano fatto corsi regionali sul cui
frequente livello non intendo dilungarmi. Un’evidente distorsione, di difficile comprensibilità, se non nel quadro dell’evidente
confusione che regna nel sistema professionale italiano e della
possibilità che in esso trovino spazio non sempre obiettivo interessi organizzati.
Una premessa forse troppo lunga per indicare quanto bisogno
di chiarezza vi sia sul rapporto tra formazione ed accesso alle
professioni il tema di cui si occupa, in un auspicato tentativo di
razionalizzazione e sistemazione, il disegno di legge cosiddetto
Mastella.
L’argomento delle “regole” delle professioni riguarda forse in
maniera, anche più urgente ed incisiva di altri, il settore della comunicazione certamente il più interno al velocissimo cambiamento che sta interessando la società globalizzata, quasi il sensibilissimo termometro di questa epocale mutazione genetica tra
mondializzazione ed esplorazione della comunicazione (che fosse della stessa medaglia. È appena il caso di ricordare infatti come, proprio nel campo della comunicazione siano venute fuori
una serie di professionalità nuove che si vanno aggiungendo a
quella più tradizionale del giornalismo: esperti di marketing, di
pubblicità, di editing, di comunicazione pubblica di relazioni
pubbliche di grafica di comunicazione medica, scientifica… per
non parlare degli infiniti personaggi che gravitando nel mondo
dello spettacolo e delle arti, sono diventati effettivi protagonisti
della contemporaneità sociale ed economica. Con effetti, lo vediamo tutti, ogni giorno, non sempre positivi.
La proposta di legge Mastella tiene conto di due esigenze specifiche: da un lato quella di riformare gli ordini professionali ‘storici’ la cui disciplina, spesso risalente ad epoche storiche ormai
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tramontate, non sembra più rispondere pienamente alle esigenze di una società moderna; dall’atro, quella di garantire una disciplina anche a quelle nuove professioni attualmente prive di
una organizzazione ordinistica che pure aspirano a una qualche
forma di regolamentazione e, soprattutto, di un riconoscimento
ufficiale.
Certo non facile compito quello di favorire l’apertura di professioni che appaiono ancora caratterizzate da un’eccessiva rigidità
– soprattutto al momento dell’ingresso – con quella di garantire anche alle nuove professioni uno status giuridico che tuteli
non tanto e non solo l’interesse di categoria, quanto piuttosto
vada nel senso della tutela degli interessi dei cittadini e dei diritti costituzionali espressamente richiamati dal disegno di legge
delega predisposto dal ministro Mastella.
Ancor più complessa appare, poi, la condizione di quelle professioni tipiche della moderna società della comunicazione dove
l’esigenza di una disciplina serve soprattutto ad evitare che il cittadino possa trovarsi nella scomoda posizione di ‘vittima’ di
professionisti improvvisati verso i quali il cliente rischia di dover
faticosamente rintracciare la propria tutela all’interno delle sole
norme codice civile, piuttosto che poter contare su un apparato
di norme che gli stessi professionisti si sono autonomamente
dati. Tali norme, infatti, dovrebbero, innanzitutto sul piano dell’etica professionale, tendere a tutelare la posizione dei cittadini/clienti escludendo la possibilità che presunti professionisti
possano in qualche modo approfittare del ‘velo di ignoranza’
che spesso pone in difficoltà l’utente nei confronti delle nuove
professioni.
È il tema classico dei rapporti tra diritto e società: la difesa del
cittadino dagli interessi corporativi deve tener conto dell’esigenza, sempre più sentita, di una società che possa finalmente fare
a meno di una tutela imposta dall’alto, ma che al tempo stesso
sia caratterizzata, dal basso, da un generalizzato principio di libertà responsabile.
Lucio d’Alessandro
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FOTOGIORNALISMO
TRA PUBBLICITÀ E DENUNCIA
INTERVISTA
A FRANCESCO ZIZOLA
a cura di ROSA D’ETTORE
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rancesco Zizola ha collaborato con Epoca, Panorama,
Life, ha fatto parte della storica agenzia Magnum Photos. Da anni realizza reportage sulle condizioni dei
bambini che vivono in zone
di guerra, limitandosi a raccontare la
realtà, a fare fotogiornalismo. In quest’intervista è lo stesso fotogiornalista a
spiegare cosa significhi per lui la fotografia, da cosa nasce la sua inchiesta sui
bambini rappresentata attraverso il bianco e nero e a delineare quale sia la situazione del fotogiornalismo oggi in Italia.
Ha studiato Antropologia all’Università
“La Sapienza” di Roma, ora è fotoreporter
con una ricca storia personale-professionale
alle spalle. Quando e in che modo si è avvicinato alla fotografia?
Quando cerco di indagare sull’origine
del mio interesse per il linguaggio fotografico individuo sempre lo stesso ricordo che risale alla mia infanzia: mio
padre che mi racconta della Seconda
Guerra Mondiale e dei suoi ricordi di
bambino impaurito sotto le bombe, del
racconto del genocidio degli ebrei testimoniato “da immagini che valgono più
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di mille parole” dalle fotografie scattate
dentro i campi di sterminio appena liberati. Nel tempo quelle terribili immagini
in bianco e nero hanno lavorato nel
mio inconscio su diversi piani, fino a
rendere palese che il trauma della visione si è trasformato in scelta di linguaggio e di testimonianza, in scelta di vita.
Che cosa significa per lei la fotografia e quali significati può veicolare?
La fotografia, rispetto a tutti gli altri linguaggi, ha l’obbligo intrinseco di raccontare la realtà che è fuori di noi. Infatti l’etimologia stessa ci dice che fotografia è
scrittura di luce, e la luce illumina un
mondo che è esterno alla nostra immaginazione. Il valore massimo di vincolo
con la realtà si ha con il fotogiornalismo
perché vincola con un patto etico l’operatore fotografo, che è giornalista, al suo
pubblico; ciò che racconto è colto nella
sua evidenza reale senza manipolazione.
Il fotogiornalista interviene solo sul
linguaggio attraverso una scelta rappresentativa ma non sulla realtà, licenza si concede la fotografia di moda
per esempio, o quella di propaganda.
La mia visione personale del fotogiornalismo è inizialmente etica, e poi un
linguaggio che ha a che fare con gli
uomini e il mondo in cui vivono.
Il fotogiornalismo racconta gli uomini
e il loro agire e può essere legittimato
come racconto solo se il fotografo ne
rispetta l’esistenza e la dignità.
La fotografia oltre ad essere uno specchio della realtà è anche uno specchio
dell’interiorità del fotografo stesso;
nell’immagine fotografata vediamo la
realtà rappresentata e leggiamo allo
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Rosa D’Ettore,
Università Sr Orsola Benincasa,
Napoli
Il testo conclude la
tesi di laurea in
storia del giornalismo e della comunicazione sociale
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stesso tempo la scelta interpretativa
del fotografo, e con essa il suo proprio
universo culturale ed etico. Una buona
fotografia giornalistica ha a che fare
molto con il rispetto che il fotogiornalista ha del mondo e dei suoi abitanti.
Ci sono dei fotografi che sono stati una sorta di
punto di riferimento per il suo percorso formativo?
Ci sono stati fotografi, ma soprattutto direi che ci sono state fotografie. Scolpita
nella mia coscienza ho la fotografia della bambina ustionata che scappa nuda e
a braccia aperte da un bombardamento
di un villaggio in Vietnam. Un’immagine che viene dalla mia infanzia è quella
del bambino scheletrico in braccio alla
madre che porge la mano chiedendo cibo, relativa alla carestia in Biafra.
Poi, crescendo, ho scoperto le fotografie di Cartier-Bresson, di William Klein,
di Joseph Koudelka, di Robert Capa.
Di fotografi che ammiro ce ne sono
tanti ed ognuno mi ha donato una visione. Ogni giorno riceviamo immagini
da ogni parte del mondo e di ogni tipo.
Io cerco di far tesoro della capacità di
alcuni di vedere, di applicare alla realtà
fuggevole della vita la disciplina che
ne consente la sintesi emotiva e reale
in una frazione di secondo. Questa è la
magia della fotografia e questa visione
è ciò che ancora oggi mi emoziona.
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Dal 2001 al 2005 ha fatto parte della storica Agenzia Magnum Photos. Cosa ha imparato lavorando per la Magnum e per quale motivo è andato via?
Nel 2000 ho ricevuto l’invito a presentare il mio lavoro alla Magnum ed ero
felice perchè molti dei fotografi che ammiravo e che avevano formato la mia
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passione per la fotografia erano passati
dalla Magnum o vi lavoravano ancora.
Il percorso con cui si diventa fotografi
soci dell’agenzia è lungo. Durante la
mia permanenza si sono verificate delle chiare idiosincrasie con una nuova
generazione di fotografi che ha la pretesa di “rinnovare” Magnum a scapito
della storia e dei valori espressi dai
fondatori. Per questo, o più banalmente perchè le mie fotografie non si adeguavano al rinnovamento auspicato,
non faccio più parte della Magnum.
Dei numerosi riconoscimenti ricevuti, come il
World Press Photo vinto nel 1995, 1997,
1998, 2002, 2005, a quali si sente più legato, e perchè?
Devo molto a tutti i riconoscimenti
internazionali ricevuti in questi anni,
ma quelli più importanti li ho ricevuti
da alcune persone, per esempio da
una farmacista che leggendo il mio
nome sulla carta di credito mi chiese
se fossi il Zizola fotografo, le cui fotografie dei bambini di strada del Brasile la sensibilizzarono tanto da indurla
ad adottare una bambina.
Ha lavorato come fotogiornalista per testate
italiane e straniere, come Life, Epoca, Panorama, ma ha sempre dimostrato il suo interesse per l’attualità internazionale. Cosa
l’ha portato alla decisione di raccontare delle
storie, soprattutto sulla vita dei bambini, attraverso la fotografia?
I reportage sulla condizione dell’infanzia nel mondo non sono stati promossi dai giornali. E’ stata una mia
idea e una mia iniziativa per cercare di
raccontare il mondo da una prospettiva inedita ed inusuale.
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Alla fine degli anni Ottanta giravo il
mondo per raccontare dei grandi cambiamenti che iniziavano a stravolgere gli
equilibri che avevano segnato la storia
europea e mondiale con la guerra fredda. Ero sempre alla ricerca delle foto
che fossero “buone” per le esigenze dei
giornali e dei periodici che mettevano in
pagina queste realtà. Rapidamente mi
accorsi che nella Hot News si perdeva
sempre di più la complessità a favore
dell’immediatezza e della velocità.
Inizialmente in tutti i luoghi di guerra
vedevo e non fotografavo i bambini
testimoni di questi fatti cruenti, ma ad
un certo punto ho valutato che la visione di questi bambini e delle loro vite potesse essere il miglior racconto
del nostro mondo contemporaneo e
del suo immediato futuro.
Come e quando nasce la sua collaborazione
con l’UNICEF per realizzare reportage
sulla condizione dei bambini nel mondo?
L’UNICEF ha fornito un aiuto logistico in alcuni dei paesi dove mi sono
recato nell’ambito della mia inchiesta.
Poi ho prestato le mie immagini 10
anni fa per una mostra storica celebrativa per la sezione italiana dell’agenzia
delle Nazioni Unite.
Dai suoi scatti, anche quelli raccolti in Born
Sowewhere, in mostra a Roma nel 2006,
sembra che lei preferisca il bianco e nero. Cosa rappresenta per lei?
Il bianco e nero è stata una scelta linguistica precisa per l’inchiesta sulla
condizione dell’infanzia.
Con le mie fotografie cerco di raccontare la realtà, che è il primo grado
della rappresentazione, e poi cerco di
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fare in modo che questo primo grado
ne contenga un secondo, il senso, più
simbolico. Il B/N è una scelta conseguente perché aiuta il lettore a cercare
questo secondo grado; è già esso stesso un’astrazione dalla realtà (che è colorata) percepita comunemente.
Qual è, secondo lei, la situazione del fotogiornalismo in Italia oggi e come viene percepito? È informazione o altro?
In Italia l’editoria giornalistica ha sempre più abdicato alla funzione informativa a favore di una sempre maggiore dipendenza dall’informazione
pubblicitaria e di propaganda.
Questo ha penalizzato il giornalismo,
specie nelle sue forme più legate al racconto della realtà, che è antitetica ai valori edulcorati e virtuali del messaggio
pubblicitario. Come tollerare una pagina
di pubblicità del nuovo modello de-lux
della spider 4000 di cilindrata accanto
ad una foto proveniente dal paese dove
questa automobile è prodotta e che mostra un bambino ridotto alla fame?
Tra le due pagine oggi è censurata
quella prodotta dal fotogiornalista.
Oggi, alcuni di questi, considerando la
battaglia persa si sono adeguati all’esigenza dei photoeditor di rendere meno difficile questo confronto; sono
sempre maggiori le fotografie scattate
in realtà difficili che fanno “solo intravedere”, che accennano alla realtà con
abili fuori fuoco o dei mossi.
Insomma la premessa della fine del
fotogiornalismo o se preferiamo un
comodo compromesso con la dittatura della pubblicità e della propaganda.
Rosa D’Ettore
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LA COMUNICAZIONE DEI DUE PAPI:
CONTINUITÀ E DIFFERENZE
TRA GIOVANNI PAOLO II E BENEDETTO XVI
VALENTINA ALAZRAKI
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Valentina Alazraki, inviata di Televisa Tv Messico
(RTV), già presidente dell’Associazione stampa estera
in Italia
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on ci sono dubbi che il
pontificato di Giovanni
Paolo II ha rappresentato uno spartiacque senza
precedenti nella maniera
di comunicare del Vaticano, ma anche del nostro comunicare sul tema del Vaticano.
Prima di Giovanni Paolo II l’informazione vaticana e religiosa era presente
solo in qualche giornale europeo; dall’inizio del pontificato di Giovanni
Paolo II, invece, l’informazione sul
Vaticano si è imposta con prepotenza
in tutti i mezzi di comunicazione a livello planetario.
Credo che Giovanni Paolo II abbia rivoluzionato il modo di comunicare del
Vaticano dal momento in cui apparve
per la prima volta dalla loggia centrale
della basilica di S. Pietro e, dopo che i
suoi collaboratori gli dissero che
avrebbe dovuto impartire solo una benedizione, sorprendentemente decise
di stabilire un dialogo diretto ed immediato con la folla riunita in piazza.
Sia il suo linguaggio cosi nuovo che la
sua gestualità furono un’autentica lezione di comunicazione, anche se va
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subito precisato che questa lezione
non era frutto di una tecnica di comunicazione, bensì, come capimmo più
tardi, di una profonda armonia tra il
suo essere e il suo apparire.
Di lì a pochi giorni, nella sua prima
udienza alla stampa mondiale, ci lasciò
senza parole, passando tra noi con un
passo che sembrava una cavalcata e rispondendo come se fosse la cosa più
normale del mondo a delle domande
che mai prima di quel momento erano
state formulate ad un Papa.
Gli chiedemmo se sarebbe tornato in
Polonia. “Se me lo permetteranno” ripose. “Si sente prigioniero in Vaticano?” “Sono trascorsi solo 5 giorni”.
“Continuerà a sciare?” “Non so se me
lo permetteranno.”
Uscimmo da quell’udienza con la sensazione di aver vissuto un sogno. Tutti sapevano che durante il Pontificato
di Paolo VI, era il Papa che si avvicinava ai giornalisti e non il contrario. In
aereo, ricordano i colleghi che viaggiavano con Lui, era il Papa che li salutava e faceva loro qualche domanda, di
tipo personale, sul lavoro o la famiglia.
Capimmo che non avevamo sognato
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quando in aereo, all’inizio del suo primo viaggio in Messico, nel gennaio
del ’79 passò alla nostra cabina e ci rimase per più di un’ora, fermandosi
presso ognuno di noi, per rispondere
alle nostre domande nella lingua in cui
le formulavamo.
Da quel preciso momento fino alla
sua morte, la comunicazione in Vaticano sarebbe stata un fenomeno assolutamente nuovo e, aggiungerei, vincente, che meriterebbe ancora oggi, a
due anni dalla scomparsa del Papa,
uno studio approfondito.
Giovanni Paolo II pur venendo da un
paese in cui paradossalmente non c’era libertà di stampa e quindi di opinione pubblica, sapeva esattamente cos’era la comunicazione.
Non solo: contrariamente a molti uomini di chiesa non temeva minimamente i mezzi di comunicazione. Intuì, nonostante non mancassero all’inizio le critiche al suo pontificato, che
i mezzi di comunicazione sarebbero
stati i suoi principali alleati. Il fenomeno mediatico senza precedenti e probabilmente irrepetibile a cui abbiamo
assistito soprattutto alla fine della sua
vita, ne è una chiara dimostrazione.
Il suo segreto si trovava probabilmente nella naturalezza con cui si presentava davanti agli obiettivi di fotografi e
operatori televisivi.
Giovanni Paolo II era sempre se stesso e si comportava come se non ci
fossero né macchine fotografiche né
telecamere, eppure “bucava” gli obiettivi e gli schermi, non solo quando
con la sua gioventù, la sua energia, la
sua simpatia, la sua bellezza, rappresentava per noi una fonte inesauribile
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di sorprese, ma anche quando si trovava paralizzato su una sedia a rotelle
con il corpo martoriato, il volto rigido
per colpa del parkinson che gli aveva
tolto il sorriso o quando affacciato alla finestra del suo studio, si scoprì muto e batté la mano sul leggio per comunicare al mondo la sua impotenza e
la sua frustrazione.
Un altro spartiacque nel modo di comunicare del Vaticano fu sicuramente
la sua apparizione, per la recita dell’Angelus, all’inizio del luglio 1992,
quando rompendo un tabù secolare
dell’informazione Vaticana, secondo il
quale “il Papa sta bene fino al momento del suo decesso” Giovanni
Paolo II annunciò al mondo che quella sera sarebbe entrato in ospedale per
degli accertamenti. Da quel momento
in poi, seppure solo nel certificato di
morte si riconobbe ufficialmente per
la prima volta che il papa aveva avuto
il parkinson, Giovanni Paolo II divise
con i mezzi di comunicazione tutte le
sue malattie e tutti i suoi limiti fisici.
Sicuramente Giovanni Paolo II non
aveva bisogno di un portavoce per comunicare, ma la sua convinzione sull’importanza dei mezzi di comunicazione lo portò a rivoluzionare la sala
stampa della Santa Sede scegliendo alla sua guida Joaquin Navarro Valls, un
laico che negli ultimi anni era stato
corrispondente del giornale spagnolo
ABC e che impose uno stile assolutamente nuovo, non esente da critiche
in varie circostanze, ma fatto di charme, eleganza, conoscenza delle lingue,
presenza nelle principali testate mondiali, persino nei grandi network americani che fino al Pontificato di Gion. 1/2007
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vanni Paolo II non si erano mai curati
troppo del mondo Vaticano - considerato un tema esclusivamente religioso
e quindi non da prima pagina.
Giovanni Paolo II gli concesse due
elementi fondamentali: un filo diretto
con l’appartamento pontificio che si
traduceva in informazioni di prima
mano, una libertà di azione e a volte di
“interpretazione” degli avvenimenti
ed un protagonismo indiscusso.
Se da una parte queste concessioni si
traducevano in un grosso flusso di
informazioni, dall’altro provocavano
probabilmente una certa sorpresa da
parte di un organo come la Segreteria
di Stato, da cui teoricamente la sala
stampa dipendeva.
Questa “indipendenza” della Sala
Stampa Vaticana creò indubbiamente
delle tensioni e in occasione di alcuni
avvenimenti mondiali di primissima
importanza come il conflitto nei balcani, la guerra nel Golfo, la guerra
contro l’Iraq o la posizione sul conflitto Israelo-Palestinese, ci trovammo
a dover far fronte a informazioni o interpretazioni frutto di un approccio a
addirittura di una visione differente in
cui risultava complicato capire qual’era la vera posizione del Papa. Questa
“dicotomia” aumentò con il progredire della malattia di Giovanni Paolo II
che lasciava maggior margine di manovra ai suoi diversi collaboratori, ma
credo che nulla abbia intaccato l’essenza della rivoluzione che Giovanni
Paolo II fece per ciò che riguarda il
mondo della comunicazione.
Dopo la sua morte, il modo di comunicare del Vaticano è cambiato, e ciò è
dovuto alla diversa personalità di Ben. 1/2007
nedetto XVI, più introverso e timido,
e alla sua convinzione che non deve
essere Lui il “protagonista” del messaggio, bensì il messaggio stesso.
Questo approccio, se vogliamo, più
“discreto”, rispetto ai mezzi di comunicazione, mi sembra abbia portato a
una maggiore “spersonalizzazione”
del modo di comunicare sia da parte
del Papa che ha fatto un passo indietro, rispetto alla visibilità senza precedenti del suo predecessore, che da
parte del nuovo direttore della Sala
Stampa della Santa Sede, padre Federico Lombardi che Benedetto XVI ha
scelto come successore di Joaquin Navarro Valls dopo 15 mesi di pontificato in cui l’ex portavoce vaticano non
appariva più vicino al Papa negli avvenimenti pubblici e molto probabilmente non aveva più il filo diretto con
l’appartamento pontificio e doveva
quindi attenersi - come succedeva prima del Pontificato di Giovanni Paolo
II - alle indicazioni della Segreteria di
Stato.
Abbiamo avuto modo di constatare i
differenti stili di comunicazione sin
dalla prima udienza di Papa Benedetto
XVI con la stampa, quando il Papa
non attraversò l’Aula Nervi bensì entrò ed uscì dalla porta laterale dell’aula senza avere un contatto con i giornalisti, che quindi non ebbero l’occasione di porre delle domande o salutarlo da vicino.
Anche per ciò che riguarda gli incontri
in aereo in occasione dei viaggi papali,
sono cambiate le modalità. In occasione del 1° viaggio a Colonia, il Papa
si fermò all’entrata della nostra cabina
per un brevissimo saluto. In occasione
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dei viaggi in Polonia, Germania e Valencia, ha risposto a due o tre domande ma senza altoparlanti, sempre all’entrata della sezione dedicata ai giornalisti, il che ha significato che solo i
giornalisti seduti nelle prime due file lo
hanno visto e sentito, dato che all’altezza della terza fila c’era il blocco formato da operatori e fotografi.
In occasione del viaggio in Turchia, si è
ripetuto questo schema, ma fortunatamente il microfono è stato collegato agli
altoparlanti e quindi abbiamo potuto
ascoltare le risposte ad alcune domande.
È probabile che in occasione del viaggio in Brasile, grazie ad un aereo molto più capiente e a un volo lungo, Benedetto XVI si intratterrà maggiormente con noi giornalisti.
Fino ad oggi però questo nuovo stile si
è tradotto nella pratica in un minore
contatto tra i giornalisti e il Papa, e
quindi ad una minor conoscenza reciproca da un punto di vista umano. È in
questo senso che intendo il concetto di
un’informazione più “spersonalizzata”.
Avverto questa spersonalizzazione anche nei modi di comunicare della Sala
Stampa che appare come “fonte” di
informazioni molto più del suo Direttore che non si definisce praticamente
mai come portavoce di Benedetto
XVI e non ha l’abitudine di “interpretare” il Pontefice. Ci troviamo
quindi di fronte ad un’informazione
più asciutta e sicuramente più rigorosa, che si centra sul messaggio papale
e non sul Papa. Sono scomparse, di
pari passo e come logica conseguenza,
molte “spettacolarizzazioni” degli avvenimenti papali.
Credo sia troppo presto per capire qua-
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li dei 2 stili sia il vincente, nel mondo di
oggi, seppure devo riconoscere che,
come giornalista televisiva, ho riscontrato in questi 2 anni una maggiore difficoltà a trasmettere i messaggi papali,
la cui profondità ed evidente bellezza,
scissa però dai gesti umani molto efficaci che accompagnavano la parola di
Giovanni Paolo II, risulta meno adatta
al mezzo televisivo, ma forse più idoneo a un mezzo radiofonico. Come ebbe a dirmi in occasione del 75° anniversario della Radio Vaticana, Padre
Federico Lombardi, “Giovanni Paolo
II lo si voleva vedere, papa Benedetto
XVI lo si vuole ascoltare”.
Vivendo però in un mondo dominato
dalle immagini, il Vaticano dovrà forse realizzare uno sforzo per rendere il
suo messaggio più “visibile”.
Durante questi due anni, si sono levate voci sui presunti problemi di comunicazione che ci sarebbero in Vaticano. Lo stesso ex portavoce Joaquin
Navarro Valls, dopo l’ormai famoso
discorso di Ratisbona, ammise al collega di Panorama Ignazio Ingrao, l’esistenza di questi problemi.
L’impatto mediatico del discorso di
Ratisbona nel mondo intero e non solo nel mondo musulmano, è stato in
effetti interpretato da esperti e colleghi come un errore di comunicazione.
Da quanto riferitomi da colleghi italiani, immediatamente dopo aver letto il
discorso, che come al solito nei viaggi
papali ci era stato distribuito di prima
mattina, fecero sapere al padre Lombardi che la famosa citazione di Maometto avrebbe provocato forti reazioni. È assolutamente lecito pensare che
padre Lombardi abbia informato i
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suoi superiori senza sortire però nessun cambiamento nel discorso. Sarebbe forse bastato che il Papa aggiungesse immediatamente che la citazione non rispondeva in nessun modo al
suo pensiero, chiarimento fatto poi in
seguito.
Cosa c’è all’origine di quello che potrebbe essere stato un errore di comunicazione? Una scarsa conoscenza dei
meccanismi dei mezzi di comunicazione o una sottovalutazione dell’impatto della citazione stessa? In un’occasione anteriore, la segnalazione dei
giornalisti del volo papale all’ancora
direttore Joaquin Navarro Valls, sull’assenza della parola Shoa nel discorso di Austwitz, fece sì che la parola apparisse nel discorso pronunciato dal
Papa evitando sicure critiche da parte
del mondo ebraico. Difficile sapere
cosa ha funzionato in questa occasione e cosa non ha funzionato in quella
successiva.
Negli ultimi mesi si sono registrati altri piccoli incidenti di percorso che
hanno fatto pensare che l’informazione vaticana stia attraversando ancora
una fase di rodaggio.
È stato il caso del discorso del Papa ai
vescovi svizzeri nel novembre 2006.
Sul bollettino della Sala Stampa è apparso quello che era stato preparato
per Giovanni Paolo II ma che non aveva mai pronunciato perché impedito
dai suoi ultimi ricoveri al Gemelli e che
gli era stato trasmesso dalla Segreteria
di Stato. In quest’occasione Benedetto
XVI ha fatto distruggere tutte le copie
dell’Osservatore Romano con il discorso sbagliato. La Sala Stampa dovette ritirare nel pomeriggio spiegando
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che si trattava di una bozza del 2005 e
il giorno dopo pubblicò il vero discorso che il Papa aveva letto a braccio in
tedesco. Una conseguenza di quest’episodio è che il testo dell’udienza generale del mercoledì è distribuito verso
le 2 del pomeriggio e non più durante
la mattinata in modo da avere la certezza di pubblicare quello che il Papa
ha effettivamente pronunciato.
Ci sono state anche delle “mancanze”
in qualche Angelus del Papa che sono
state interpretate come un errore di
comunicazione. In una occasione il
Papa denunciò vari attentati delle ultime ore senza far riferimento a un attentato avvenuto in Israele. In un altro
non si riferì all’uccisione del poliziotto
Filippo Raciti durante i tragici fatti alla fine di una partita di calcio a Catania. Silenzio che fu criticato inaspettatamente da Pippo Baudo sulla prima
rete della Rai.
Credo che senza fare troppa dietrologia, ci troviamo davanti a un meccanismo che non è ancora ben “ lubrificato” dovuto forse ad una mancanza di
coordinamento tra i diversi organi che
si occupano dell’informazione.
Da mesi infatti si parla di un progetto
di accorparli in un unico gran organismo che ne coordini le diverse attività.
Il nuovo Segretario di Stato, il Cardinale Tarcisio Bertone, ha riconosciuto
pubblicamente che ha intenzione di
mettere un po’ d’ordine in questo settore così importante. A lui facciamo
quindi i nostri migliori auguri.
Valentina Alazraky
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DALLE PIAZZE AL POTERE EDITORIALE
IL “RISVEGLIO” DEI CATTOLICI SUI MEDIA
GIORGIO TONELLI
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uidano giornali, settimanali e Tg di Destra,
di Centro e di Sinistra.
Ma, in gran parte, vengono dalle esperienze
degli anni sessanta e
settanta di quella che veniva definita
la ‘sinistra extraparlamentare’. Basta
scorrere un po’ di nomi. La mappa
delle origini dell’attuale potere editoriale in Italia è illuminante più di ogni
teorizzazione.
Gianni Riotta, direttore del Tg1, già vicedirettore del “Corriere della Sera” per
dieci anni si è fatto le ossa nella “stalla” del ‘Manifesto’ (la terminologia
‘equina’ è di Valentino Parlato). “Venti anni fa era impensabile che io facessi il direttore del Tg1” ha sospirato
Riotta dal palco della Festa Nazionale
dell’Unità a Pesaro. In precedenza,
sulla stessa poltrona dell’Ammiraglia
Rai, si era seduto fra gli altri Gad Lerner, ex “Lotta Continua” e giornalista
a ‘Radio Popolare’ ed ora intelligente
conduttore di un programma di nicchia e di qualità come “L’Infedele”. Il
direttore del “Corriere della Sera” Paolo
Mieli si è fatto le ossa in quel “Potere
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Operaio” di Franco Piperno ed Oreste
Scalzone prima di diventare allievo e
poi assistente dello storico Renzo De
Felice. Giuliano Ferrara, attualmente direttore del “Foglio” e conduttore di “Otto e mezzo” in onda sul ‘La7’, già direttore di “Panorama”, nasce comunista (figlio di Maurizio Ferrara, dirigente del
Pci e poi direttore dell’ “Unità” e di Marcella, prima segretaria di Togliatti), partecipa anche agli scontri di valle Giulia a
Roma. Giancarlo Pajetta lo spedisce a
Torino dove scrive per la rivista “Nuovasocietà” ideata da Diego Novelli . Fa
anche i picchetti nelle fabbriche e lancia uova agli impiegati che vogliono
entrare. In un editoriale scrive che
Breznev è “fascista”.
Dopo alcuni screzi col Bottegone, diventa socialista incontrando Craxi (e
comincia a fare il giornalista a tempo
pieno a “Reporter”, Il “Corriere della Sera”, “L’Europeo”, “Epoca”. Poi arrivano prima la Rai poi la Fininvest con
“Linea Rovente”, “Il Testimone” “Radio Londra”, “Il Gatto”, ma anche
“Lezioni d’amore” con la moglie Anselma Dall’Olio). Inevitabile l’approdo forzista quando Berlusconi decide
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Giorgio Tonelli,
giornalista Rai
Bologna, segretario
nazionale Ucsi
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Una generazione che ha
ben imparato i
meccanismi
della comunicazione
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di ‘scendere in campo’. Del leader azzurro diventa anche portavoce e ministro “il primo comunista a palazzo
Chigi sono stato io”, dirà di sè.
Lucia Annunziata, già presidente della
Rai e notista politica, nasce in “Lotta
Continua” per poi entrare in “Avanguardia Operaia”, diventando quindi
corrispondente prima del “Manifesto”
poi di “Repubblica”.
Più lineare l’attuale presidente Rai
Claudio Petruccioli, direttore dell’
“Unità” dal 1980 al 1983, che ha seguito l’iter canonico Pci-Pds-Ds. Più
zigzagante Michele Santoro partito da
“Servire il popolo” formazione maoista con tanto di celebrazione di matrimoni ‘politici’ (cammeo d’epoca nel
“Caimano”di Nanni Moretti) per poi
passare al Pci e ad una breve parentesi da parlamentare europeo per l’Ulivo, dopo il cosiddetto “editto di Sofia” di Silvio Berlusconi. Viene dal
“Manifesto” il neo-direttore di RaiNews Corradino Mineo, dopo essere
stato inviato a Parigi e a New York.
Nini Briglia, già capo del servizio d’ordine milanese di “Lotta continua” poi direttore di “Epoca” ed oggi direttore editoriale della Mondadori.
Claudio Rinaldi, ex “Movimento Studentesco” ed ex “Lotta Continua” è
stato fra l’altro direttore sia di “Panorama” che dell’ “Espresso”.
Era iscritto al Pci negli anni 70 con
pugno chiuso, occhialini e capelli lunghi, il direttore del Tg5 Carlo Rossella, già direttore della “Stampa”, Tg1 e
Panorama. Con Roberto Faenza ed Antonio Padellaro realizzò il documentario “Forza Italia” contro le ‘malefatte’
della Dc. Mai titolo fu più profetico.
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Divenne infatti la sua nuova casa politica. Vicedirettore del Tg5 è Toni Capuozzo. Da sempre grande inviato,
fin dai tempi in cui, giovane contestatore, viene mandato da “Lotta Continua” in Nicaragua, in Bolivia e in Argentina. Paolo Liguori, attuale direttore di ‘TgCom’ di Mediaset , già direttore di “Studio Aperto” ed ospite assiduo di “Controcampo” era uno dei
leader del 68 romano.
Nasce come giornalista a “Lotta Continua” ma diventa anche direttore del
settimanale cattolico “Il Sabato” (alla
domanda: crede in Dio? Rispose
“qualche volta sì, qualche volta no”).
Così è definito nel “Catalogo dei viventi” di Dell’Arti e Parrini edito da
Marsilio “ Liguori piace alla destra
perché è di destra e alla sinistra perché
era di sinistra”. Più giovane (nasce nel
1960) è invece Stefano Menichini, il
direttore di “Europa” il quotidiano
della “Margherita”. Comincia a lavorare al “Manifesto” a 19 anni rimanendo nella redazione del quotidiano comunista per 18 anni. Nasce invece in
“Lotta Continua” Enrico Deaglio, direttore del settimanale “Il Diario”.
Ferdinando Adornato ha fondato e diretto “Liberal” ma è nato nel Pci, ha lavorato all’ “Espresso” e a “Panorama”
quindi è diventato deputato con “Alleanza Democratica” nel 1994. Scrive il
libro “Oltre la sinistra” prima della caduta del muro, per poi approdare in
“Forza Italia”, dove risiede stabilmente.
Percorso simile quello di Renzo Foa ,
già direttore de “L’Unità”, figlio del mitico Vittorio, (personaggio fondamentale della storia della sinistra italiana),
approdato a “Forza Italia” ed abituale
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notista su “Il Giornale”. E’ il più accreditato futuro direttore del rinnovato
“Liberal”. Michele Cucuzza passa dal
Movimento Studentesco e dai microfoni di “Radio Popolare” a Milano, al gossip ed alle frivolezze de “La vita in diretta” di Raiuno. Ma forse il più bravo
di tutti della covata di quegli anni è
Adriano Sofri, fondatore di “Lotta
Continua”, robusti studi alla ‘Normale’
di Pisa, eterna vocazione da leader, anzi
da monarca (secondo Giampaolo Pansa) e condannato a 22 anni di carcere
come mandante dell’omicidio Calabresi. Pena sospesa per motivi di salute. Per
quel delitto Sofri si è sempre dichiarato
innocente. Scrive regolarmente per “Repubblica”, “Panorama” “Il Foglio”. E l’elenco potrebbe continuare...
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L’impaginazione al potere
Nessun pregiudizio politico.
Non c’é del resto alcun complotto,
nessuna egemonia. Chi la denuncia è
consapevole di fare solo propaganda,
poiché gli esiti politici di quella stagione si sono spalmati su tutto l’arco parlamentare. Solo una constatazione
persino un po’ banale: quella parte di
generazione che voleva cambiare radicalmente la società oggi è alla guida
del sistema della comunicazione in
Italia. Non si può dire altrettanto di
chi, in quegli anni, proveniva dall’esperienza del mondo cattolico.
Eppure - scriveva il compianto Leonardo Valente (“Lo sfascio dell’Italia,
la disunità e le certezze morali dei cattolici” ‘Avvenire’ 15 agosto 1993) - nel
dopoguerra “cattolici e sinistre furono
impegnati nel cambiamento della
struttura della comunicazione in Ita-
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lia” e “nella nascita, nella crescita e nella difesa della televisione pubblica che
fu prima e unica voce nazionale di quel
97% che la stampa borghese aveva
escluso per quasi cento anni”. Quella
stampa borghese che aveva “con genetico trasformismo, esaltato e difeso insieme valori e interessi della monarchia
e della finanza, del fascismo e di quanto restò di quell’esperienza e cioè lo
Stato romano e centralistico inefficiente e corrotto”. Se dunque allo ‘start’ di
partenza cattolici e sinistre correvano
insieme nella comune volontà di dar
voce a quel 97% di italiani esclusi dalla rappresentazione mediatica, evidentemente molti si sono fermati (o sono
stati fermati) per strada.
E’ una storia tutta da scrivere quella
dei cattolici impegnati nella comunicazione dagli anni settanta ad oggi.
Ma è anche una storia dai tratti ambigui, poiché non pochi sono stati ‘fermati per strada’ non solo dalla legittima competizione fra colleghi, ma anche da vere e proprie esclusioni aprioristiche, per arrivare anche ad azioni di
“killeraggio professionale”.
Né è ininfluente il fatto che gran parte
dell’area cattolica ha eccessivamente riposto le proprie speranze nella Democrazia cristiana. Confidando in una Dc
eterna come la Chiesa. Una Dc, partito
del maggioritario (nel senso che conteneva tutto: destra, sinistra e centro)
nell’epoca del proporzionale ma che,
come ogni creatura dell’uomo, prima o
poi era destinata a finire. E infatti…
Con grandissima approssimazione è
comunque possibile tentare una risposta su quanto è avvenuto: perché
chi è nato a sinistra oggi è alla guida
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del sistema della comunicazione? Con
una battuta: come si è passati, dall’immaginazione al potere all’impaginazione al potere?
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1) La lezione di Gramsci. Una lezione
oggi dimenticata e che consiste nella
ricerca sulla formazione dello spirito
pubblico in Italia. Nella sua analisi
dello Stato moderno, Gramsci è superiore allo stesso Marx, poiché pone
come prioritario lo studio degli elementi che per il filosofo tedesco erano
semplicemente sovrastrutturali.
Gramsci, già 80 anni fa, mostrava che
il potere dei governanti non è basato
sulla capacità coercitiva dello Stato ma
piuttosto sulla capacità di coltivare il
consenso dei governati.
Il consenso è creato soprattutto sul
terreno della cultura. Gramsci insegna
(a tutti, non solo a chi è di sinistra) che
per capire uno Stato moderno non basta studiare i partiti politici e la struttura economica ma è necessario analizzare quell’insieme di fenomeni che
il fondatore dell’ “Unità” chiamò
“l’organizzazione della cultura”: soprattutto la scuola, i giornali, le riviste,
il cinema, il romanzo d’appendice.
Quando nel 1987 l’allora presidente
della Rai Enrico Manca definì i programmi di Pippo Baudo ‘nazionalpopolari’ fece una citazione dotta e compatibile con il mezzo televisivo.
Ma il Pippo nazionale (che forse non
aveva letto Gramsci) la prese male e se
ne andò alla Fininvest (per poi tornare in Rai con la porta girevole).
2) La riflessione sulla comunicazione
attraversa tutta l’esperienza della sinistra ed in particolare dell’ultrasinistra.
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Per contrastare la comunicazione
‘borghese’ sono state ben studiate le
tecniche linguistiche ed argomentative
poi riproposte ed applicate con contenuti diversi e ‘alternativi’. Sono gli anni in cui si cominciano a studiare le
scienze umane, antropologia, sociologia, semiotica. Dai tatzebao e dai ciclostilati si passa ai mille giornali dei
gruppi più vari, mentre nell’etere comincia la stagione dei cento fiori: le radio locali con i microfoni aperti “dalle
masse alle masse”, l’uso del videotape
con le esperienze di televisione fra la
gente per “rompere il monopolio della Rai”. Forse, un po’ a caso, è giusto
ricordare qualche nome.
Nel 1973 Umberto Eco, messi in soffitta gli anni dell’ ‘Azione Cattolica’ dove fece intelligente palestra di scrittura,
annotava su “Il costume di casa” la sua
proposta di ‘guerriglia semiologica’.
“Bisogna occupare, in ogni luogo del
mondo, la prima sedia davanti ad ogni
apparecchio televisivo (e, naturalmente la sedia del leader di gruppo davanti ad ogni schermo cinematografico,
ad ogni transistor, ad ogni pagina di
quotidiano)” (p.297).
Eco ha insegnato ad una generazione
priva di mezzi di comunicazione ad
interpretare in maniera alternativa
quanto il sistema veicolava.
Un’attività che, secondo le intenzioni
del professore, avrebbe portato ad
uno smascheramento di massa dell’ideologia che veniva nascosta in ogni
articolo di giornale, in ogni brano di
telegiornale e così via. Usare tutti i
mezzi- questo l’invito- per ‘fare le pulci’ a ciò che il potere ci vuol far credere. Appunto, una ‘guerriglia’ nei con-
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fronti della costruzione del senso.
Così come libri ‘cult’ furono “Informazione e Controinformazione” di Pio
Baldelli (recentemente ristampato per
chi ha i capelli bianchi o non era ancora nato ma vuole ritrovare il clima di
quegli anni) o “Senza chiedere permesso. Come rivoluzionare l’informazione” di Roberto Faenza: vero e proprio
manuale sull’uso del videotape e sulla
televisione alternativa e gli audiovisivi
in Italia, Nordamerica e America latina.
Un testo base per i corsi dell’ Arci e
delle Acli sparsi per l’Italia e per tutti i
futuri giornalisti e programmisti-registi che sarebbero entrati in Rai con la
nascita del decentramento regionale
ideativo e produttivo. Ma il più fantasioso, forse il più avanti di tutti era il
francese Jean Baudrillard (scomparso
il 6 marzo scorso) e la sua multiforme
produzione che lo ha portato ad essere l’intellettuale del paradosso, passato
dalla contestazione del Sessantotto alla teorizzazione della fine di tutto, dell’arte, della politica,della storia e persino della realtà: filosofo della simulazione e del simulacro.
Dove, parlando della ‘Guerra del
Golfo’ sosteneva che la Tv aveva cancellato ogni confine fra la drammaticità del conflitto e la sua messa in scena. Si era compiuto quello che era “il
delitto perfetto”: l’Immagine ha ucciso la Realtà.
3) La grande stampa che in Italia- come ricordava Leonardo Valente- era
sempre stata di tradizione massonica e
liberale si apre a direttori provenienti
dall’area di sinistra. Le interpretazioni
sui motivi che hanno portato a queste
scelte possono essere le più varie.
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E’ indubbio che chi prima scopre il
mondo prima sarà scoperto dal mondo.
La voglia di fare politica a 18-20 anni ha
portato alla ribalta giovani pieni di entusiasmo e di voglia di raccontare il mondo per cambiarlo e possibilmente migliorarlo. E’ innegabile che nelle biografie di molti giornalisti, nati a sinistra, si
rifletta anche la transizione del sistema
politico italiano. Una transizione iniziata
con Tangentopoli e con i referendum
del 1991-93 e non ancora terminata.
Caduti i muri, morto il secolo delle ideologie e morti i suoi principali protagonisti, rimangono i vizi e le virtù di una formazione magari discontinua, comunque
solida. Fatta anche di strade separate, ma
anche di “soccorso” (magari non più
‘rosso’ , ma con sfumature ben diverse).
In nome della “meglio gioventù”, cadono infatti le contraddizioni editoriali e si
può scrivere per esempio sia sul berlusconiano “Panorama” che sulla debenedettiana “Repubblica”. Opportunismi e
tatticismi del resto contrassegnano anche l’imprenditoria più o meno ‘illuminata’ capace anche di fare giornali di Destra con direttori di Sinistra. Magari per
“coprirsi le spalle”. Fenomeni analoghi
del resto sono avvenuti un po’ ovunque
nel mondo. Non a caso il quotidiano
conservatore inglese “Daily Telegraph” ha
scritto con sarcasmo, in un articolo sugli
ex sessantottini al potere, che “volevano
cambiare la società ma finirono solo col
cambiare la casacca”.
Cattolici nei media:
per una cultura del dialogo
Quanto succitamente ricordato non
deve comunque far ritenere insignificante il contributo dei cattolici nei men. 1/2007
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dia, come invece ha fatto Galli Della
Loggia (“Una società senza cattolici”
Corriere della Sera 20 dicembre 2006),
in cui, forse provocatoriamente, sottolinea come “ i più diffusi quotidiani
del Paese, le case editrici più importanti, gli spazi televisivi più ampi, vedono perlopiù una larghissima prevalenza di addetti ai lavori, di collaboratori, di autori, di uomini e donne di
spettacolo e di intrattenimento, che
sono ideologicamente e culturalmente
lontani dalle posizioni cristiane e cattoliche in specie”.
I giornali, in sostanza -sottolinea Galli Della Loggia - danno l’immagine di
una Chiesa che è solo gerarchia, senza
popolo.
Eppure gli italiani continuano a dirsi
cattolici ( lo certifica fra l’altro un sondaggio Demos-Eurisko curato da Ilvo
Diamanti e commissionato da “Repubblica” dove si scopre che l’86,4% della
popolazione si professa cattolica e che
il 75% dei non praticanti ritiene importante dare ai propri figli una educazione cattolica).
Ma i cattolici, anche se non in posizioni di comando, nei media comunque ci sono.
Non guidano corazzate, hanno magari
dei barchini da pasdaran, come la rete
dei 160 settimanali diocesani, però
con oltre un milione di copie concentrate soprattutto nel Nord d’Italia.
Per Giorgio Zucchelli, presidente della Fisc, federazione italiana settimanali cattolici, intervistato dall’Agenzia
SIR “Galli Della Loggia cade nel trabocchetto della nuova massima cartesiana ‘ video ergo sum’ per cui coloro
di cui non si parla non esistono, anche
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se in realtà esistono davvero.
E’ molto triste ed allo stesso modo
comico essere oggetto di esclusione e
poi sentirsene dare la colpa”.
E Fausto Colombo, sociologo dell’Università Cattolica di Milano, sottolinea la diversità di stile comunicativo:”
credo che si possa storicamente iscrivere al mondo cattolico italiano una
presenza massmediale che è impostata
sull’ascoltare e sul dire, sul dialogo,
sull’argomentare.
E’ una comunicazione che intende
trasmettere valori e sensibilità più che
urlare con l’altoparlante”.
Colombo definisce questo stile con la
formula della “cultura sottile”. Lo studioso aggiunge ”c’è poi un’altra considerazione relativa agli strumenti che i
cattolici usano per comunicare.
Noi abbiamo mezzi fortemente identitari che per questo talvolta faticano a
farsi sentire da un target non cattolico”.
Insomma è debolezza argomentare e
dialogare? Apparire meno sullo scenario della grande comunicazione significa anche minore incisività?
A questi interrogativi che riguardano
l’oggi, si aggiunge il lavoro di formazione per il domani.
Significativamente, anche con il ‘Progetto Culturale’, la Chiesa ha posto all’attenzione della comunità cristiana il
tema della comunicazione e della cultura mass-mediale.
Se negli anni sessanta, all’ombra dei
campanili, c’è stata una reale formazione di massa attraverso i cineforum
e successivo dibattito, oggi l’analisi e
lo studio del sistema comunicativo è
all’attenzione di educatori e formatori,
grazie anche al lavoro degli uffici dio-
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cesani per la comunicazione sociale,
diverse parrocchie e movimenti, associazioni come l’Aiart e l’Ucsi. Né si
può dimenticare l’importante ruolo
dell’università nella formazione di
massa dei nuovi comunicatori.
Dagli insegnamenti pionieristici all’Università Cattolica di Gianfranco Bettetini si sono sviluppate competenze
e professionalità sulla comunicazione.
Consapevole di far torto a molti, vorrei tuttavia ricordare gli studi e le ricerche sul sistema comunicativo di
professori ordinari e straordinari, associati, ricercatori o a contratto.
Fra i tanti: Francesco Casetti, Donatella Pacelli, Massimo Baldini, Giuseppe Costa, Paolo Scandaletti, Ruggero
Eugeni, Giorgio Simonelli, Guido Michelone, don Dario Viganò, Armando
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Fumagalli, Paolo Braga, Guido Gili,
Fabio Ferrucci, Stefano Martelli, Agata Gambardella, Giovannella Greco,
M.Grazia Onorati, M.Vittoria Gatti,
Michele Sorice, Nicola Strizzolo, Giovanna Gadotti, Ivano Germano, Giorgio Porcelli, don Franco De Marchi,
Arturo Lando, Roberta Paltrinieri,
Paola Parmeggiani, Sandro Stanzani.
Insomma, non siamo all’anno zero.
Giovanni Paolo II al convegno Cei
“Parabole mediatiche” nel novembre
2002 sollecitò “operai, col genio della
fede, capaci di leggere il presente”.
Le premesse per una buona semina, in
questo momento, ci sono.
Speriamo che sia buono anche il raccolto.
Giorgio Tonelli
ETICA E MEDIA
Lo scorso 6 febbraio, presso il Ministero delle Comunicazioni, Giovanna Melandri, ministro
per le Politiche giovanili e le Attività sportive, e Paolo Gentiloni, ministro delle Comunicazioni, hanno incontrato i rappresentanti dell’emittenza radiotelevisiva, dell’editoria e dei giornalisti con lo scopo di valutare le possibili iniziative per evitare una strumentalizzazione dei
media nell’ambito dell’informazione sportiva. Alla luce dei recenti fatti di Catania, dove ha
perso la vita un poliziotto impegnato a placare uno scontro tra tifoserie, tutti i partecipanti all’incontro hanno concordato sulla necessità di elaborare un “Codice di comportamento” per
l’informazione sportiva che rifletta in questo settore i principi di civiltà, di deontologia professionale e buon senso, propri del giornalismo e dell’editoria, così da concorrere, anche dal
versante dell’informazione, all’isolamento dei fenomeni di violenza nel calcio. Una nobile iniziativa, anticipata già nel novembre del 1999 dalla proposta avanzata dall’UCSI (Unione Cattolica Stampa Italiana), all’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, di istituire un “Comitato di Medietica” con il compito di offrire indirizzi adeguati in materia di etica
e deontologia dell’informazione e della comunicazione. (C. R.)
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INFORMAZIONE RELIGIOSA?
FA SEMPRE PIÙ NOTIZIA
GUIDO MOCELLIN
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Guido Mocellin,
giornalista, caporedattore “Il Regno”,
Bologna
1 In questo senso rimando, anche se un
po’ datato, a G. MOCELLIN, «C’era una volta il vaticanista: l’informazione religiosa sui
giornali italiani», in Desk 8(2001) 4, 21-24.
2 Un interessante e approfondita ricognizione sui vaticanisti italiani
e su come percepiscono il loro lavoro è stata
compiuta qualche anno fa da M. CARROGGIO - F. NJOROGE,
«Media e religione
tra dialogo e conflitto», in Chiesa in Italia
ed. 2004. Annale de
Il Regno, supplemento a Il Regno n. 22,
15.12.2004, 113-138.
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on c’è bisogno di essere accaniti consumatori di giornali per rendersi conto che
le notizie a soggetto religioso, o nelle quali il tema religioso rappresenta una componente significativa, hanno occupato
negli ultimi tempi uno spazio considerevole sui mass-media italiani. Il riproporsi
dell’appartenenza religiosa come elemento costitutivo dell’identità culturale, o il
maggiore protagonismo pubblico di alcune istituzioni ecclesiastiche, o anche
l’indubbia «notiziabilità» di eventi in cui
sembri presente una componente di tipo
soprannaturale: questi e altri fattori possono contribuire a spiegare un fenomeno
che può essere analizzato sotto molteplici aspetti1 e che si presenta in forme diverse a seconda degli autori e dei mezzi
su cui la notizia a soggetto religioso compare.
In particolare, e schematizzando molto il
ragionamento, si possono oggi distinguere, nell’informazione religiosa, tre casi:
a) Giornalisti specializzati sui temi religiosi
che scrivono per i grandi mezzi di comunicazione di massa (agenzie, GR, TG e quotidiani), ma limitandosi sostanzialmente alle corrispondenze dalla Santa Sede, dal
Vaticano: e infatti in gergo si chiamano
vaticanisti. Sono qualche decina, e stanno
al giornalismo religioso in genere come i
piloti di Formula 1 stanno all’insieme dell’automobilismo sportivo: sono cioè un’én. 1/2007
lite di eccezionale qualità professionale,
stimata e ben remunerata, ma sostanzialmente costretta quasi sempre a rimanere
dentro alla «riserva» mediatica dell’informazione religiosa in senso tradizionale,
che poi in Italia è l’informazione vaticana.
Le notizie che scrivono riscuotono, secondo le recenti inchieste CENSIS-UCSI, solo il 2-3% di interesse del lettore,
anche perché, se proprio non c’è in ballo
un grande evento – un’enciclica, un sinodo dei vescovi, o ancor meglio un viaggio
del papa, che rimane, giornalisticamente,
l’evento che più fa notizia nella vita delle
Chiese – ma «solo» il raggiungimento di
un accordo ecumenico o l’uscita di una
nota pastorale della CEI, i capiredattori
non lasciano loro più di trenta righe.2
b) Giornalisti ugualmente specializzati sui
temi religiosi (potremmo chiamarli religionisti, per analogia con i curricoli universitari
di scienze religiose) che scrivono per mezzi editi da un’istituzione ecclesiastica e/o specializzati nelle tematiche religiose,3 destinati perlopiù ai membri attivi, “impegnati”, delle
comunità religiose stesse. Questi mezzi
sono molto numerosi: limitandoci a quelli «cattolici», si contano 2.000 testate complessive, il 20% di tutte quelle registrate in
Italia. È un mondo tanto plurale quanto è
plurale la Chiesa italiana: c’è il SIR e c’è
ADISTA, la Radio Vaticana e Radio Maria,
Avvenire e Famiglia cristiana, Il Timone e Mes-
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saggero di Sant’Antonio, Nigrizia e Mondo e
missione, Sat2000 e Telepace, Città Nuova e
Tracce, i 130 settimanali diocesani, fino ai
200 periodici di cultura e di dibattito (tra
cui alcune «punte» come La Civiltà cattolica, Il Regno, Jesus, 30 Giorni).4 In questi anni, nell’ambito del suo «progetto culturale», la Conferenza episcopale italiana
(CEI) ha investito molte energie in questo
comparto, ma in termini di audience i risultati non sono stati significativi. L’informazione religiosa di queste testate talvolta è
ancora (o di nuovo) viziata dall’apologetica, o dal saper presentare la Chiesa solo in
quanto istituzione, talaltra è ipercritica e
pare che assuma passivamente l’agenda
delle priorità ecclesiali dai media laici, talaltra ancora è vivace, rigorosa, professionale, capace di mettere l’istituzione e le
comunità in dialogo, rendendo presente a
ciascun soggetto le ragioni interne dell’altro; ma raramente essa arriva a essere significativa rispetto alla più vasta opinione
pubblica del paese: tuttalpiù (come recita
lo slogan di una omologa rivista americana) riesce a «rivolgersi ai cattolici che pensano e insieme a servire a capire cosa pensano i cattolici».
c) Giornalisti specializzati in «tutto» (politica,
economia, spettacolo, sport, costume...)
fuorché sui temi religiosi che scrivono e commentano per i grandi mezzi la grandissima
maggioranza delle notizie religiose non «vaticane». Chi provasse a ripercorrere a memoria le rassegne-stampa degli ultimi anni, vedrebbe che per ciascuna sezione del
giornale è stato sempre presente almeno
un grande tema legato alla religione, coinvolgendo le firme più prestigiose o relegato nelle brevi senza firma: negli interni
(religioni e identità nazionale, FerraraButtiglione, il card. Ruini e il referendum
sulla legge 40 o il ddl sui DICO), negli
esteri (il terrorismo di matrice fondamentalista islamica, i teocon di Bush, la men-
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zione delle radici cristiane nel preambolo
della Costituzione europea), in cronaca
(immigrati tra integrazione e difesa della
propria identità culturale-religiosa, chierici
accusati di pedofilia o di altri disordini sessuali), nelle pagine economiche (il volontariato e la ridefinizione del Welfare), in
quelle culturali (dibattiti sulla bioetica o,
ancora, sullo “scontro di civiltà”), negli
spettacoli (la fiction televisiva a soggetto biblico e le tante agiografie dei papi e dei
santi del Novecento).
È a questa terza categoria di (futuri) redattori e titolisti di notizie religiose che intende rivolgersi la «specializzazione» in
«giornalismo religioso» attiva da 5 anni
presso la Scuola superiore di giornalismo
(SSG) dell’Università di Bologna (Facoltà
di lettere e filosofia, Master di II livello),
di cui sono titolare. A quanto mi risulta, è
l’unico caso del genere in Italia, almeno
tra le scuole di giornalismo sostitutive del
praticantato.5 Il corso si articola in 16 ore
e il suo presupposto, che il direttore della
SSG, prof. Angelo Varni, ha caldamente
condiviso sin dall’inizio, è che la tendenziale separazione dell’informazione religiosa non vaticana dal suo specialista che
ho appena cercato di sintetizzare, con il
corollario della crescita quantitativa e
qualitativa degli uffici stampa delle istituzioni religiose, renda necessario che chi
opera nelle redazioni sia provvisto di un
minimo grado di alfabetizzazione religiosa. Vorremmo cioè dare a ciascun futuro
giornalista gli strumenti minimi per occuparsi, all’occorrenza, di eventi a sfondo
religioso senza incorrere in infortuni tali
da minare, presso i lettori interessati e i
soggetti coinvolti in quell’evento, la credibilità propria e del giornale stesso.6 Come
ripeto ogni anno agli studenti, se nella
cronaca di una partita di basket l’autore
scrive che è stato annullato un canestro
perché chi ha tirato era in fuorigioco, i letn. 1/2007
3 Anche quando,
come per Famiglia
cristiana, Messaggero di
Sant’Antonio, Avvenire o per i settimanali
diocesani, l’impianto è generalista.
4 A proposito del
profilo di queste ultime ho recentemente scritto un articolo uscito contemporaneamente
su Problemi dell’informazione 32(2007) 1 e
su Chiesa in Italia ed.
2006. Annale de Il
Regno, supplemento
a Il Regno n. 22,
15.12.2006, 137151.
5 Sono invece a conoscenza di un master di
I livello organizzato
dall’Università di Siena
con il patrocinio del
Centro internazionale
per lo studio del fenomeno religioso e volto
a formare un «Esperto
di informazione religiosa nel pluralismo
contemporaneo». Dal
canto suo la CEI, in
collaborazione con
l’Università cattolica
del Sacro Cuore e la
Pontificia università lateranense, ha attivato
nel 2007 un «Corso di
alta formazione in elearning per gli animatori della comunicazione e della cultura»
(www.anicec.it), di durata annuale. Accessibile anche col diploma di
suola media superiore,
è riconosciuto a livello
universitario e conferisce 60 crediti. Come è
noto (cf. il direttorio
CEI del 2004 Comunicazione e missione) il
profilo dell’«animatore
della cultura e della comunicazione» è diverso e più vasto di quello
dell’informatore religioso.
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6 In uno studio della
RAI, pochi mesi fa, ho
visto il conduttore perdere l’abituale lucidità
quando, a commento
dell’incontro tra Bartolomeo I e Benedetto
XVI a Istanbul, un
ospite ha parlato di un
rinnovato abbraccio
tra Andrea e Pietro.
7 Il proposito di ampliare, in questo ambito, lo spazio riservato
all’islam, sia per il dato
oggettivo della sua diffusione attraverso l’immigrazione, sia per lo
specifico interesse che
esso riscuote presso i
media, non ha ancora
avuto da parte mia adeguata attuazione: talvolta è venuto meno l’ospite che avevo destinato a sviluppare questi
argomenti, talaltra è venuto meno il tempo.
8 Così lo definisce, nel
suo libro uscito postumo Karol il grande (Paoline, Milano 2003) il
compianto Domenico Del Rio.
9 Li cito in ordine alfabetico: AnnaLisa Bellocchi (l’ufficio stampa
diocesano), Paolo Bustaffa (le fonti istituzionali: il SIR), Marc
Carroggio (la comunicazione delle istituzioni ecclesiastiche), Pietro Cocco (le fonti istituzionali: la Radio Vaticana), Girolamo Fazzini (la stampa missionaria come fonte dal
terzo mondo), Ignazio
Ingrao (l’inf. religiosa
sul grande magazine
laico), Salvatore Izzo
(il condizionamento
delle agenzie sull’inf.
religiosa), Sandro Magister (l’inf. religiosa e
Internet), Fabrizio
Mastrofini (l’ufficio
stampa di un evento
ecclesiale), Roberto
Monteforte (una pagina settimanale di inf.
religiosa su un quotidiano laico).
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tori lo giudicheranno un totale incompetente di basket, e nessuno di quella squadra, dal presidente al massaggiatore, gli rilascerà mai un’intervista.
Pertanto l’impianto che ho messo a punto è molto semplice. La prima parte del
corso mira a precisare «di chi si parla», ovvero presenta i soggetti dell’informazione
religiosa. Ad esempio: chi è il papa, chi sono i vescovi, che differenza passa tra la
Santa Sede e la CEI, o tra la Chiesa diocesana (clero e laici), le varie forme della
vita religiosa e i movimenti, a cosa serve e
come funziona il sistema dell’otto per mille, quali sono in Italia le altre confessioni
cristiane e le altre religioni e quali istituzioni le rappresentano.7 La seconda descrive «come se ne parla»: l’evoluzione
complessiva dell’informazione religiosa e
l’analisi di alcuni casi concreti, che l’attualità, di anno in anno, non ci ha certo risparmiato: dalle polemiche sul film di Mel
Gibson The Passion e sul suo “anticristo”,
il Codice da Vinci, alla cronaca dell’assedio
israeliano alla Basilica della Natività a Betlemme; dalle accuse alla Radio Vaticana
per il cosiddetto elettrosmog fino, naturalmente, all’agonia e alla morte di Giovanni
Paolo II, «il più grande personaggio di
consumo per l’opinione pubblica mondiale».8 La terza, infine, mostra «dove se
ne parla», ovvero quali sono e come si
consultano le fonti pubbliche dell’informazione religiosa, a cominciare dal Bollettino della Sala stampa della Santa Sede per poi
procedere all’interno di quella vasta galassia di 2000 testate che ho già richiamato
sopra, e riservando una particolare attenzione, come è ovvio, all’accesso a tali fonti tramite Internet: uno strumento su cui
«tutte» le istituzioni religiose offrono una
più o meno fedele immagine di sé.
Per ciascuno di questi tre ambiti, di anno
in anno mi sono giovato della collaborazione di numerosi ospiti (mediamente
n. 1/2007
due all’anno), che desidero ringraziare qui
pubblicamente per la disponibilità con
cui hanno aderito al mio invito e la passione con cui hanno portato la loro testimonianza professionale.9
Resta da dire qualcosa dell’accoglienza riservatami dagli studenti, e che è sempre
stata molto positiva: superata l’iniziale diffidenza, verificato il profilo professionale e
non confessionale del corso, hanno volentieri approfittato dell’occasione per condividere e verificare dubbi, precomprensioni
e pregiudizi intorno alla dimensione pubblica delle esperienze e delle istituzioni religiose, anche se la domanda più frequente
che mi è stata rivolta – «per fare gli informatori religiosi bisogna essere credenti,
vero?» – ha più a che fare con la ricerca di
una collocazione sul mercato del lavoro
che non con la consapevolezza della responsabilità che il sistema dei media porta,
nelle nostre società secolarizzate e pluraliste, rispetto alla conoscenza di una religione e perfino alla maturazione di un proposito di adesione.
D’altronde, giova ripeterlo, questo corso
non è mirato a istradare qualche futuro
giornalista verso l’informazione religiosa10
ma, piuttosto, a indurlo a trattare la notizia di argomento religioso con più professionalità: senza né appiattirsi sui molti
stereotipi anticlericali che spesso, nelle redazioni, sono ancora particolarmente radicati, né assoggettarsi alla congenita diffidenza che i soggetti religiosi tendenzialmente continuano a coltivare nei confronti dell’informazione, e che rende la
loro comunicazione pubblica asettica o,
peggio, criptica.
Guido Mocellin
10 Non mi risulta che sia accaduto. Piuttosto, ogni anno,
è capitato che, su una trentina di allievi, almeno uno stesse già coltivando un interesse specifico per l’informazione religiosa, e che l’esperienza del corso lo stimolasse ad
approfondire e precisare tale interesse.
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LE MUTAZIONI
DEL LINGUAGGIO POLITICO
NATASCIA VILLANI
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uando Polo, discepolo di Gorgia,
contesta Socrate,
convinto del potere immenso che
hanno i retori, si
esprime in questi termini: «Non mandano forse a morte chi vogliono, come fanno i tiranni, e non spogliano dei beni e
non scacciano dalle città chiunque loro
piaccia?». La visione negativa che Socrate/Platone aveva della retorica è nota a
tutti, anche se nei fatti il discorso politico
sin dagli albori ha dato spazio agli elementi persuasivi facendo ricorso agli strumenti della retorica al fine di ottenere,
mantenere e rafforzare il potere.
Da allora l’interesse per lo studio del linguaggio politico è andato via via aumentando, soprattutto a partire dai primi decenni del Novecento con il riconoscimento dell’importanza delle parole in politica, asservite ai grandi regimi totalitari,
quali mezzi di mobilitazione di massa.
Linguaggio/potere e linguaggio/retorica
sono binomi entrati nel pensiero comune,
che, però ad una più attenta analisi, occorre considerare, come ci avverte Fedel, superando due pregiudizi diffusi nella cultura: il «panpoliticismo», ossia la concezione
per cui il linguaggio politico non è un lin-
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guaggio particolare bensì è il linguaggio
stesso, linguaggio in quanto istituzione sociale; e il «patologismo», che caratterizza il
linguaggio politico come linguaggio patologico, che tramite gli strumenti della retorica, danneggia o distrugge funzioni comunicative reputate essenziali.
D’altronde, se il linguaggio non è un ente
dotato di una identità compatta, bensì è
una realtà fluida e pluridimensionale, lo
stesso vale per il linguaggio politico, le cui
tipologie, ampiamente studiate e commentate da una letteratura specifica sempre più ricca, aiutano a spiegare il perché
certe cose avvengono in un determinato
modo. A tale approccio tipologico può
essere affiancato uno fenomenologico, di
tipo descrittivo, e quindi per così dire a
posteriori, che studia l’evoluzione del linguaggio politico così come si sono evolute le campagne elettorali (Blumler, 1995).
Da una prima fase definita pre-moderna,
caratterizzata dalla presenza di partiti forti, organizzati e presenti sul territorio, si è
passati ad una fase moderna, nella quale si
ricorre all’uso dei professionisti della comunicazione, per giungere alla stagione
post-moderna, l’attuale, nella quale sempre più massiccio è l’avvento del marketing
politico e della segmentazione dell’elettorato. Utilizzando poi la distinzione di
n. 1/2007
Natascia Villani,
professore associato
Università Sr Orsola Benincasa,
Napoli
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Edelman, che individua quattro tipologie
di linguaggio politico - esortativo, della
contrattazione, giuridico e amministrativo - si può affermare in piena coscienza
che nella stagione attuale il primo, quello
esortativo, è il linguaggio politico per eccellenza.
Ai due protagonisti del dialogo politico,
emittente (uomo politico), e destinatario
(cittadino) se ne è aggiunto un terzo: il sistema dei media (Mazzoleni, 1998). Mai
come in questo caso il termine è usato in
modo equivoco: non funge infatti da
semplice mezzo, ma diventa un vero e
proprio attore. Sia che il modello interpretativo sia quello, solitamente definito
dalla comunicazione politica, «pubblicistico-dialogico», secondo cui i media non
coincidono totalmente con lo spazio
pubblico, spazio nel quale esiste anche
una porzione riservata ad una interazione
diretta tra cittadini e politici, o il modello
solitamente definito «mediatico», che
considera i massmedia come l’onnipresente riferimento, lo spazio entro cui si
svolge necessariamente ogni forma di comunicazione politica, a prescindere dai
due modelli di riferimento, dicevo, i tre attori della comunicazione politica hanno
nell’attualità concreta interazioni attraverso tre punti fermi: 1. la centralità dei media; 2. la preponderanza delle dinamiche
bidirezionali di flusso tra politica e informazione; 3. la marginalità del ruolo dei
cittadini elettori, più spettatori che attori.
Fatta questa premessa che cosa sta accadendo al linguaggio politico della nostra
repubblica? A volte è utile, da un punto di
vista metodologico, partire da una situazione di crisi, di rottura, tale da avere innescato profondi mutamenti, per cogliere
meglio la situazione presente e per figurarci, timidamente, scenari futuri.
Nel 1973 Umberto Eco scriveva: «la clasn. 1/2007
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se politica tradizionale italiana non è tanto una classe di tecnici quanto una classe
di intellettuali letterati che non rinuncia al
parlare ornato come simbolo di prestigio
[...] il mondo industriale si esprime in modo ben più concreto». Nel leggerla ora,
potrebbe quasi sembrare una vignetta satirica. Che cosa è avvenuto in questi
trent’anni da farci sorridere ad un tale giudizio?
Tra il 1989 e il 1994 il sistema politico italiano è percorso da un «violento terremoto», a cui comunemente ci si riferisce come alla transizione da un vecchio a un
nuovo sistema politico, impropriamente
definito «seconda repubblica». Dalla legge 223 dell’agosto ‘90, meglio conosciuta
come legge Mammì in cui veniva scandita la formula di pluralismo dell’informazione, allo scandalo di tangentopoli, che
fece tremare la classe politica di allora e
gettò sfiducia su di un elettorato smarrito
e antipolitico, alla riforma elettorale, che
sanciva l’adozione si un sistema maggioritario, verso un bipolarismo, già agognato negli anni ‘70 e ‘80, schiacciando le forze del centro costrette a scegliere da quale parte schierarsi.
In questo quadro la «discesa in campo» di
Berlusconi è esemplarmente significativa.
Il 26 gennaio 1994, a tutte le redazioni dei
telegiornali pubblici e privati e a tutti i
maggiori organi di informazione, è racapitato, un’ora prima di andare in onda, un
messaggio agli italiani del Cavalier Silvio
Berlusconi, registrato su di una cassetta
audiovisiva. Si è detto e scritto moltissimo
sui contenuti di quei nove minuti e trenta
secondi di «comizio catodico» (Bendicenti, 2005). Due passaggi, però, è d’obbligo
ricordare a mo’ di esempio: l’annuncio e
l’appello.
L’annuncio: «L’Italia è il paese che amo.
Qui ho le mie radici, le mie speranze, i
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miei orizzonti. Qui ho imparato, da mio
padre e dalla vita, il mio mestiere di imprenditore. Qui ho appreso la passione
per la libertà. Ho scelto di scendere in
campo e di occuparmi della cosa pubblica perché non voglio vivere in un paese illiberale, governato da forze immature e
da uomini legati a doppio filo ad un passato politicamente ed economicamente
fallimentare». L’appello: «Vi dico che è
possibile realizzare insieme un grande sogno: quello di un’Italia più giusta, più generosa verso chi ha bisogno, più prospera e serena, più moderna ed efficiente,
protagonista in Europa e nel mondo. Vi
dico che possiamo costruire insieme, per
noi e per i nostri figli, un nuovo miracolo
italiano».
In poche righe ci si profila un capolavoro
di discorso politico, un esempio di penetrazione comunicativa, esemplare perché
basata sulla personale decisione di concorrere non inserita in logiche di partito
(Volli, 2000), passata alla storia della comunicazione politica post-moderna italiana, punto di svolta che ci annuncia che
qualcosa è cambiato.
La svolta a cui si assiste è radicale. Il primo rilievo è la personalizzazione della politica (Mazzoleni, 1998; Livolsi, 2000) legata all’aspetto leaderistico della politica.
La Seconda Repubblica vede l’emergere
di forze nuove decise a presentarsi in posizione antagonistica rispetto ai partiti tradizionali. «In luogo di un sistema basato
sullo spirito di partito e sull’unità di partito come principale risorsa si afferma un
nuovo stile politico che fa risaltare individualità e personalismi» (Calise, 1994). Tale forma leaderistica passa attraverso una
centralità comunicativa. I leader hanno imparato a sfruttare le opportunità offerte
dai media, per costruire l’immagine più de-
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siderabile di sé e potenziare lo stile comunicativo. Un leader oggi non può essere
tale - pena il calo del consenso - se non
possiede doti dialettiche e comunicative.
La mediatizzazione accelera, in questo
nuovo sistema elettorale la spettacolarizzazione, e la dimensione permanente della competizione: le competizioni cominciano il giorno dopo le elezioni e terminano il giorno prima che si ritorni a votare. Tale continuità è dovuta alla necessità
di legittimare il consenso attraverso la
promozione e la comunicazione delle
azioni di governo e, da chi è invece all’opposizione, di far sentire la propria voce. Si assiste ad un vero e proprio posizionamento comunicativo, nel quale si segna il territorio tra me e il mio avversario.
Tutto questo è ben rappresentato dalla
metafora del match: alla vigilia delle elezioni del ‘94, dopo più di trent’anni da un altro storico match che contrappose Nixon
a Kennedy, Silvio Berlusconi si confronta
con Achille Occhetto. L’occhio spietato
delle telecamere fungono da amplificatore di quegli aspetti pragmatici della comunicazione, la prossemica, la mimica facciale, l’insieme dei gesti del corpo, che distraggono l’ascoltatore dal contenuto del
discorso, ma giocano un ruolo importantissimo nel rafforzamento del frame di riferimento.
Il rilievo della mediatizzazione e spettacolarizzazione induce i politici a sviluppare
strategie comunicative nuove sia pure in
linea nel solco della retorica tradizionale.
Un tempo i politici venivano rimproverati di parlare un linguaggio oscuro, fumoso, comprensibile da pochi addetti ai lavori, definito politichese. In quest’ultimo
decennio il linguaggio si è drasticamente
semplificato. Si è passati secondo Giuseppe Antonelli da un paradigma della
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superiorità – che si avvaleva di un armamento retorico di impronta umanisticogiuridica, che intimidiva, ad un paradigma
del rispecchiamento, con un linguaggio
chiaro e comprensibile in cui gli elettori
potessero riconoscersi. Dal politichese al
gentese. Certo, ad una certa dose di oscurità
non può però rinunciare o utilizzando il
lessico dell’economia e della finanza, condito da una nutrita dose di cifre, o ostentando anglicismo.
L’effetto della frammentazione porta a
esporre il proprio punto di vista in quindici secondi. Più delle argomentazioni
ideologiche conseguenzialmente strutturate, alleggerite a vantaggio di altri elementi che meglio identificano la persona
(aspetto fisico, hobby, simpatie sportive),
contano le frasi a effetto, le battute pronte, le metafore colorite che restano impresse nella memoria e che rispettano il
«tempo del mezzo mediatico». Il discorso
è un discorso in pillole, che spesso non
consente al cittadino elettore di inquadrare la tematica e il contesto. Tra le forme di
semplificazione rientrano anche l’aggressività verbale, l’infantilismo della comunicazione, gli usi dialettali e gergali (come
non evidenziare che a partire dalle regionali del 2005 si è assistito a confornti politici con un elevato tasso di aggressività
comunicativa).
In questo panorama senz’altro risulta vincente che «ha le capacità e i mezzi per recepire e farsi carico di queste domande:
non necessariamente nel senso di saper
offrire ad esse delle risposte convincenti,
ma nel senso di “apparire” come quello
che le interpreta correttamente e che le
rappresenta anche nella dimensione mediatica, del linguaggio di massa e della comunicazione diretta». (Cuperlo, 2002).
Quale sarà il futuro? Una democrazia,
per dirla con Sartori, è un regime di spen. 1/2007
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ranza, è l’unico regime in grado in qualche misura di realizzare le speranze, la cui
formulazione si trova espressa in una serie di ideali. Ma dietro ogni ideale ci sono
idee, che li presuppongono, idee come
prodotto della ragione, frutto del pensare ragionando. Riesce oggi il linguaggio
politico a veicolare tali idee, o a farsene
interprete? Ci riuscirà domani? Se il sistema mediatico è diventato, come abbiamo
visto, in quest’ultimo decennio un attore
protagonista, se non in alcuni casi regista,
se è vero che stiamo assistendo ad un radicale cambiamento «antropogenico»
(Sartori, 2006), che ci ha fatto passare
dall’homo sapiens, che capisce senza vedere, all’homo videns, che vede senza capire,
di speranza qui sembra che non ce ne sia
nessuna e apocalittica, ma vera, risulta la
frase del politologo: «la televisione si esibisce come portavoce di una pubblica
opinione che in realtà è l’eco di ritorno
della propria voce».
Forse volendo prudentemente nutrire
maggiori speranze, l’apparizione di internet nell’orizzonte della politica italiana,
seppure ancora timida, potrebbe tendere a rivitalizzare un cervello atrofizzato
incapace di comprendere i grandi problemi della contemporaneità: l’ascolto in
viva voce delle parole dei leader, la possibilità di accesso diretto ad archivi di
documenti, atti congressuali, la creazione sempre più diffusa di blog (diari in rete) dei politici, potrebbe essere un ottimo strumento per superare l’unidirezionalità della comunicazione di massa e
veicolare contenuti diversi e più ricchi
che la televisione non è in grado di fare.
Forse siamo in attesa di una nuova mutazione antropogenica a cui il linguaggio
politico riuscirà a star dietro.
Natascia Villani
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CITTADINI MERCE DI CONSUMO?
ALLORA NON È
TV PUBBLICA
EMILIO ROSSI
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elevisione e servizio
pubblico: il tema – per
fortuna – è in tutta evidenza nell’agenda politica italiana. Provo dunque a delinearne alcuni tratti, non senza avvertire, per lealtà, di aver speso
gran parte della mia vita professionale
alla RAI. Da questo passato, ormai lontano, deriva certo un’esperienza sul
campo; potrebbe anche derivare un
pregiudizio. Non a me spetta la verifica.
Premessa – Il servizio pubblico non è
un’anomalia italiana, un fastidioso residuo statalista e autoritario . Non solo è legittimato in sede europea (trattato di Amsterdam) ma appartiene alla cultura umanistica dell’Europa liberal democratica.
Punto 1 – Che cosa sta a dire la presenza del servizio pubblico all’interno
di un sistema misto? E’ un modo, anche simbolico ma non solo simbolico,
per avvertire che la televisione – pur
con la massa di risorse economiche
che richiede e movimenta - non è riducibile a business. E’ un modo per riconoscere che, con la sua pervasività
in tempo reale, la televisione è erogazione ininterrotta di idee, emozioni,
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impulsi, modelli, stili, invisibili pollini socio-culturali. E dunque è oggettivamente agenzia educativa, lo voglia o no, lo sappia o no. Insomma
non è spazio innocente, irrilevante
quanto ad etica civile e non civile
soltanto. Non a caso si è soliti confrontare il numero delle ore che un
ragazzo passa davanti al televisore
con quello delle ore che passa seduto sui banchi di scuola.
Non a caso ancora uno studioso
francese, Dominique Wolton, mette
in parallelo la TV generalista addirittura con il suffragio universale: con
la sfera minimale di interessi fondamentali che tutti ci accumuna nell’una come nell’altra sede, come telespettatori e come cittadini votanti.
La soluzione che fa posto al servizio pubblico certo non è in principio l’unica possibile per un grande
problema della modernità: è però, in
concreto, la soluzione realisticamente praticata, all’interno di un regime
misto, nella nostra forse vecchia, ma
matura e saggia Europa.
Punto 2 –All’interno del sistema misto, il servizio pubblico ha diritti ma
anche obblighi, da prender sul serio.
Gli si chiede l’arricchimento della
n. 1/2007
Emilio Rossi,
giornalista, presidente del Comitato
di controllo sul
codice tv e minori
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persona, la promozione dei valori costituzionali, il rispetto del pluralismo,
il massimo di correttezza informativa,
un riguardo particolare ai minori, la
tutela delle minoranze. Ciò vale per
l’offerta programmi in vista di un mix
equilibrato dei così detti “generi” e
ancor più per lo stile della programmazione tutta quanta. Giustamente il
nuovo contratto di servizio tra lo Stato e la concessionaria mette a fuoco il
criterio della riconoscibilità del servizio pubblico. Obiettivo utopico, ma
non così utopico come potrebbe sembrare: passando con lo zapping da
emittente a emittente, dovrebbe potersi indovinare dopo breve visione se
ci si sia sintonizzati entro o fuori il
servizio pubblico.
Punto 3 – Fare servizio pubblico non
significa offrire solo o prevalentemente documentari, musica colta, balletti,
dibattiti, sperimentazioni. Non significa fare élites – media, dove si è tenuti invece a fare mass-media. Un servizio pubblico per pochi, che già coltivano certi interessi o previlegiatamente riescono ad accostarvisi, sarebbe un
servizio pubblico fallito, in contraddizione con se stesso; sarebbe una caricatura di servizio pubblico, provocatoria e rinnegatrice di sé, tanto più in
un paese come il nostro da secoli caratterizzato da una cultura ufficiale di
corte o di accademia, spesso distaccata dall’humus popolare . Non ci si deve vergognare dei grandi ascolti. Solo
che i grandi ascolti non vanno conquistati a qualsiasi costo. Per essere chiari, al servizio pubblico l’intrattenimento non è precluso, ma affidato perché
lo produca in modi non volgari, dedin. 1/2007
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candovi attenzione speciale proprio
perché si rivolge al pubblico più vasto.
Rispetto all’emittenza commerciale –
che ha suoi obiettivi, suoi pregi, suoi
limiti – il servizio publico deve porsi
non come complementare, ma come
alternativo: così, certo non su tempi
brevi, può esercitare funzione calmieratrice-stimolatrice nel senso più ampio. In quest’ultima ottica al servizio
pubblico spetta anche un ruolo pionieristico, oltre l’immediata rimunerabilità, in tutta l’area delle nuove tecnologie e dei nuovi servizi.
Punto 4 – Quella del servizio pubblico non deve essere una televisione
mortificata, mutilata, castrata. Semmai
una televisione “garantita” e onorata
di esserlo. Certo però una televisione
cui non tutto – a cominciare dalla faziosità politica e dal libertinaggio – è
permesso: del che una televisione così
qualificata non si vergogna, ma semmai si vanta, anche se gliene deriva
qualche preclusione, qualche rinuncia.
Ha bisogno, il servizio pubblico, di
non giocarsi spericolatamente credibilità, ma di legittimarsi e rilegittimarsi
continuamente. Per contro il servizio
pubblico deve saper accettare sfide
difficili. Ad esempio, tra le più ardue:
il il ricupero di ascolto giovanile, rispetto alla TV commerciale,
Punto 5 – A un servizio pubblico così concepito si oppongono difficoltà
che bisogna mettere realisticamente in
conto. La prima è l’esigenza del così
detto “passo indietro” dei partiti. La
quale esigenza impone la ricerca di
ogni possibile accorgimento di carattere istituzionale quanto a proprietà,
formazione di organi di garanzia o di
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gestione: senza scetticismo, ma anche
senza astratte illusioni. Congegni normativi e comportamenti si auto-alimentano reciprocamente, ma è il costume il fattore determinante. E sarebbe pur tempo di sentire tutto il valore etico di una sfida: davvero si deve
rassegnatamente prender atto che la
terzietà del mercato può talvolta favorire l’equanimità informativa più che i
principi ideali? In ogni caso non sarebbe tempo di convenire che il miglior modo di onorare una bandiera –
per chi una ne abbia – è quello di far
bene il proprio mestiere a vantaggio di
tutti? L’altra difficoltà sta nel riparto
delle risorse tra pubblico e privato,
compreso l’ormai affermato polo satellitare. Basti dire al riguardo che non
ha senso, o ha solo senso demagogico,
lamentare certa degradante mercificazione dei programmi e nello stesso
tempo pretendere di porvi rimedio attraverso farmaci come la privatizzazione o come il diniego al servizio
pubblico di un canone adeguato: dimenticando che, se non vuole soccombere, ogni euro che gli viene negato come canone, il servizio pubblico deve ricuperarlo acquisendo più
pubblicità con tutto quel che ne consegue. Se poi anziché al canone si debba far ricorso alla fiscalità generale, è
scelta secondaria.
Codicillo a) – Il criterio (peraltro, avallato in sede europea) di distinguere
nelle attività del servizio pubblico
quelle finanziate dal canone rispetto a
quelle finanziate dalla pubblicità mi
pare a dir poco peccare di schematismo. Faccio l’esempio di una scelta
che sarebbe tipicamente da servizio
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pubblico: produrre per la prima serata
un intrattenimento affidato ad Arbore
piuttosto che l’”Isola dei Famosi”,
mettendo in conto la rinuncia ad una
quota calcolata di ascolto. Come si
contabilizzerebbe questa rinuncia?
Codicillo b) Tra le terapie oggi raccomandate c’è la separazione fra emittenza e produzione. Credo che il nostro servizio pubblico dovrebbe piuttosto – senza pretese autarchiche e nei
limiti compatibili con il contenimento
dei costi fissi – riappropriarsi di quote
di ideazione-produzione. Con un duplice scopo: ridiventare a tutti gli effetti dominus responsabile del “prodotto”, ricostituire un patrimonio interno di professionalità non meramente organizzative.
Conclusione – Il servizio pubblico
(come di fatto è avvenuto soddisfacentemente in periodi passati) dovrebbe reggere su un patto di mutua lealtà
con i telespettatori: intesi non come
consumatori da cedere agli inserzionisti, ma come cittadini, persone, famiglie. Un servizio pubblico che in qualche modo barasse si autodistruggerebbe. A loro volta cittadini, che se ne
stessero pigri, ricettivi come spugne,
mai reattivi al di là del mugugno qualunquistico, finirebbero per essere
sempre meno rispettati. Patto vuol dire ethos comune. E sappiamo bene di
quanto ethos comune abbia bisogno,
su più vasta scala, l’Italia di oggi. Anche per questo il regime della televisione e più in generale dei mass media
è, se non materia costituzionale, problema di democrazia, partita di portata alta e a responsabilità diffusa.
Emilio Rossi
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MEDICI DETECTIVE IN TV:
E NEGLI OSPEDALI NORMALI SI MUORE
ALESSANDRA DIONISIO
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Alessandra Dionisio,
Università Sr Orsola Benincasa,
Napoli
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il 26 gennaio quando si spegne la vita della sedicenne Federica Monteleone, entrata in coma mentre era
sottoposta ad un’operazione di appendicite nell’ospedale di Vibo Valentia, a causa di un black out durante il quale non è entrato in funzione
il gruppo di continuità, forse perché
non collegato alla presa1.
La tragedia coinvolge i giovani di Vibo
che manifestano in piazza il loro dolore, e la sfiducia nel Servizio sanitario,
mentre Cittadinanzattiva richiede con
forza risposte chiare, ed in tempi brevi, da parte della Giustizia.
Tutto questo accade solo pochi giorni
dopo i controlli che i Nas hanno condotto in 321 ospedali, su 672 strutture
pubbliche, che però assorbono, per dimensioni e capacità operativa, oltre il
70% dell’assistenza. Insuccesso dichiarato per quattro Regioni, in cui si
concentra quasi un terzo degli ospedali monitorati: Lazio, Sicilia, Campania
e Calabria, “fanalino di coda” con 19
irregolarità segnalate all’autorità giudiziaria. Emergono carenza di requisiti
minimi strutturali, mancato adeguan. 1/2007
mento degli impianti antinfortuni e
antincendio, farmaci scaduti, poca pulizia e disfunzioni nello smaltimento
di rifiuti speciali, abusivismo2.
L’universo salute è oggetto, quindi, di
una violenta tempesta mediatica che
rinsalda il concetto di mala sanità in
contrasto con ulteriori rappresentazioni della salute e della medicina che
gli stessi media veicolano. Contestualmente, infatti, i “luoghi” del nostro
immaginario vengono interessati dall’imperversare di un fenomeno televisivo che segna una significativa rottura nelle modalità di rappresentazione
della salute e della medicina. Debutta
su Italia 1 il 1° Luglio del 2005 ed è subito trionfo; 3.440.000 spettatori di
media, 17,5% di share; la seconda stagione, in onda da settembre 2006 (dal
19/01 è partita la terza serie), sempre
sulla stessa rete, naviga su medie ancora più alte, al punto che il 17 settembre, “Dr.House Medical Divsion”
è stato il programma più visto della
serata (4.774.000 spettatori, 19,73% di
share).
Dr.House, personaggio creato da Da-
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vid Shore, ed ispirato al leggendario
investigatore Sherlock Holmes, protagonista dei romanzi di Conan Doyle, è
un medico cinico, scorbutico ma soprattutto geniale nelle modalità dei
suoi approcci terapeutici, politicamente scorretto, riduce al minimo i suoi
rapporti con i pazienti; irriverente al
punto da pronunciare frasi del tipo
“Preferisce un dottore che le tiene la
mano mentre lei muore o uno che la
ignora mentre cerca di guarirla?”, maltratta costantemente il suo staff di
collaboratori nel tentativo di risolvere
il “caso”, che sceglie di seguire solo se
altri lo definiscono impossibile da risolvere. Detesta il banale servizio ambulatoriale, supera a volte i limiti dell’etica, con l’unico obiettivo di salvare
i suoi pazienti.
Ma cosa succede al “pianeta salute”?
Non si sostiene con insistenza la necessità di costruire un dialogo tra discipline finalizzato all’armonizzazione
del rapporto medico- paziente e con
l’obiettivo di raggiungere un miglioramento continuo della qualità dell’assistenza? Come può raccogliere consensi così elevati un serial in cui il protagonista è la rappresentazione dell’esatto contrario di ciò che dagli studi, dalle ricerche, dalla normative si evince
essere il modello di qualità del professionista della salute?
Forse si tratta solo di un’apparente
contraddizione che un’analisi più attenta è, infatti, in grado di disvelare.
Gregory House, capo del Dipartimento di Medicina diagnostica al Princeton- Plainsboro Teaching Hospital,
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una clinica universitaria del New Jersey, a causa della morte di un muscolo
della gamba destra, provocata da un
trombo diagnosticato troppo tardi,
zoppica ed usa un bastone per camminare, incarnando contemporaneamente la figura del medico risolutore
ed i limiti della medicina, essendo egli
stesso un paziente sofferente, che fa
un uso smodato di antidolorifici.
Gli episodi seguono uno schema rigido in cui nella prima fase si presenta il
caso attraverso la manifestazione della
disfunzione o anomalia, seguono le
riunioni di staff per le diagnosi ed i
tentativi di cura trials and errors, fino al
climax: l’intuizione del Dr.House che
svela il mistero e, trovando la causa, a
volte salva il paziente. L’approccio è illness centered, non patient centered. L’oggetto è la malattia, bisogna scoprirne
la causa. Non è detto che il lieto fine
arrivi, ma gli episodi si concludono
sempre con la vittoria della ratio e
quindi con l’identificazione delle cause, in un modello bio-medico scientista.
“Interruzione, incoerenza, sorpresa
sono le condizioni della nostra vita”
sottolinea Paul Valery in una della sue
poesie, che apre tra l’altro il testo di
Bauman “La modernità liquida”. La
fluidità dei sistemi fa dissolvere persino il valore dell’autorevolezza e nella
società dell’incertezza e del rischio,
House ricompone la frattura del sistema fiduciario, non “vende” la cultura
della sicurezza3, del buonismo o della
falsa aspettativa, propone una sua cultura dell’insicurezza che rompe i tabù
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con la cultura del rischio residuale,
presupponendo la disponibilità a discutere e a riformare apertamente e
pubblicamente i fondamenti dei suoi
approcci che nascono dal confronto
con la sua equipe. Pone le carte sul tavolo, e non ha atteggiamenti paternalistici e se usa l’inganno, e lo fa con
frequenza, è sempre poi rivelato in ragione di un’esasperata chiarezza e a
volte impudenza.
Un altro aspetto che induce alla riflessione è il concetto di qualità che non
si rappresenta come umanizzazione
delle relazioni, ma come efficienza
dell’intero sistema, come “infallibilità”
del professionista, sempre più vicino
alla figura del detective tratteggiata da
Kracauer nel suo “Il romanzo Poliziesco”. A volte con l’assenso del paziente, altre volte furtivamente, House va
direttamente, o delega il suo staff, a
frugare nella casa del degente, per scoprire probabili cause della malattia, o
anche solo per sbugiardare le false dichiarazioni del paziente, che messo alle strette rende più facile l’individuazione del vero colpevole del suo
dramma psico- fisico. Infatti, come il
romanzo poliziesco anche Dr.House
inaugura un genere stilistico ben determinato che presenta dichiaratamente un suo proprio mondo per
mezzi di strumenti estetici caratteristici e peculiari4. House incarna una società razionalizzata, in cui l’intelletto
privo di qualsiasi vincolo riporta la vittoria finale sulla risoluzione dei casi,
veicolando ordine nel caos dell’organismo e dell’individuo.
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Niente liste di attesa, non ci sono guasti ai macchinari. Il sistema di servizi è
impeccabile. L’efficienza è sovrana. La
precarietà e l’instabilità caratteristiche
più diffuse della condizione della vita
contemporanea, avvertita come particolarmente snervante e deprimente,
non trova posto nella macchina organizzativa del Princeton- Plainsboro
Teaching Hospital.
Nell’evitare il dialogo con i pazienti,
Dr.House valorizza la narrativizzazione della situazione clinica. Infatti, racconto e messa in dialogo che, anche se
non avviene secondo un modello di
comunicazione negoziale, che per
House è solo una “messa in scena” in
cui il territorio viene inquinato dalle
bugie che i pazienti raccontano, rappresentano sempre il luogo in cui si
rintracciano le cause delle malattia e
quindi dove risiedono anche le possibili soluzioni del caso. Nel negare la
comunicazione ne si accentua il suo
valore terapeutico, nell’elogiare la ratio
come unico strumento di “illuminazione” si dà luce nel contempo alle debolezze umane, e alle ricchezze dell’individuo. Dr.House nel negare l’importanza dell’umanizzazione, non fa
che esaltarne la straordinaria utilità,
evidenziando l’unicità dei singoli individui e la straordinaria ricchezze delle
storie personali. Di fronte alle quali
anche lui, il medico, il diagnostica, la
Ragione e la Scienza a volte resta sorpreso. Il paziente è lettore del testo di
cui è protagonista, ed è chiamato anche senza la sua volontà a cooperare
alla costruzione di senso di sintomi e
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disturbi, attraverso una lettura di testo
che rende così possibile l’interpretazione dell’evento- malattia. Il medico
non è solo il Dio-detective che governa il gioco dell’indagine, non è solo
l’eroe che vuole affermare in ogni circostanza la verità certa, ma è colui che
ricostruisce la storia clinica, leggendo
ed interpretando anche in assenza di
una comunicazione bidirezionale la
storia clinica e la storia individuale del
paziente. House costruisce con i degenti una relazione di assoluta, silente
e di invisibile complicità. Il metodo di
lettura del vissuto di disagio è atipico:
riannodare i fili spezzati dall’irrompere dell’evento patologico non attraverso il dialogo, ma utilizzando gli strumenti dell’indagine. Indagine psicologica, osservazione dei particolari, messa in scena di psico-drammi, ma anche
indagini invasive, test clinici ad alto rischio, tutto è concesso in questo “gioco” di scoperte. La dimensione singolare e biografica del paziente viene recuperata attraverso un susseguirsi di
inferenze e deduzioni, senza dover richiedere un atteggiamento empatico
da parte del medico, rispondente alle
esigenze di “riumanizzazione” del lavoro clinico. La dimensione storicoevolutivo della malattia viene recuperata grazie alle capacità semiologiche
del Dr.House, che a dispetto di quanto brutalmente ostentato, è un ottimo
comunicatore, nelle sue capacità di
ascoltatore e di lettore di segni e significati. Anche in questa narrazione mediatica l’espletarsi della trama narrativa, del vissuto individuale del paziente
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si dimostra centro del percorso diagnostico e terapeutico. Il recupero
della dimensione individuale intesa
come attenzione al vissuto del singolo
nella sua sfera personale, non in un’ottica di buonistica umanizzazione, dimostra di essere la vera chiave di volta per l’individuazione del nodo patologico che irrompe nell’iter della routine quotidiana del paziente. Sebbene,
quindi, la pratica dialettica rappresentata nel serial risulti contraddittoria
con un approccio medico- paziente
indirizzato alla ricostituzione di una
bidirezionalità del flusso comunicativo, il valore della cooperazione terapeutica e dell’anamnesi è enfatizzato
come momento di liberazione del paziente dal suo mal- essere.
Spunti di riflessione nella rivisitazione
del ruolo del medico e del valore della
qualità assistenziale proposta da
DR.House possono, quindi, persino
innestarsi nella fase di trasformazione
e cambiamento che nell’ultimo quindicennio ha attraversato il Servizio Sanitario Nazionale, mettendo seriamente in discussione consolidate pratiche relazionali interne e stili di rappresentazione esterna, incidendo in
modo determinante sul rapporto tra
l’istituzione ospedaliera e territoriale e
la sua utenza5.
Possiamo ritenere queste dinamiche
come parte di un ampio mutamento
sociale e culturale che vede una crescente responsabilizzazione da parte
degli enti erogatori6, che sono chiamati ad una partecipazione collettiva volta al take care dell’utente. Si tratta infatn. 1/2007
Note
1http://qn.qu
otidiano.net/
Il Sole24
ore Sanità,
11-01-2007
2
3 Beck U.- "La
società mondiale del rischio"- La Repubblica 13
dicembre 2002
4 Kracauer S."Il romanzo
poliziesco"1984, Editori
Riuniti
5 A questo
proposito vanno ricordate le
indicazioni del
Piano Sanitario
2001-2003 che
indica come
principi di
riferimento l'umanizzazione e
la centralità
della persona,
tracciando i
confini i quello
che viene
definito "patto
di solidarietà
sociale prevdedendo il necessario impegno
e coinvolgimento dei cittadini, degli
operatori e del
mondo della
comunicazione.
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6 Leonzi S- La
salute tra norma e
desiderio", Meltemi, 1999
7 Grilli R.- "Governo Clinico: innovazione o dejà
vù?" in Grilli R.Taroni F. (a cura
di) "Governo
Clinico"
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ti di orientare la scelta del paziente, di
seguirlo all’interno della struttura- rispettando vincoli di efficienza e di efficacia clinica, curando il processo di
accoglienza in un’ottica di umanizzazione dell’assistenza-, di supportarlo
nel comprendere le scelte terapeutiche
(consenso informato), fino alla fase
della dimissione e alla continuità della
cura nella post-dimissione7. Un lavoro
corale che richiede consapevolezza da
parte di tutti i partecipanti, con la necessità di organizzare procedure e
processi condivisi dal team. Risulta,
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quindi, strategico il ruolo della comunicazione, non solo sapere esperto
che si innesta nel già consolidato universo della medicina, rischiando di
collidere con esso, ma strumento per
analizzare e decodificare lo scenario
socio- ambientale che alimenta l’immaginario collettivo e per rispondere
concretamente, ed in modo flessibile,
alle esigenze di qualità espresse dai cittadini, ma anche alle necessità organizzative degli operatori.
Alessandra Dionisio
L'INGRESSO DI SKY NELL'AUDITEL
Dal primo aprile di quest'anno anche Sky ha fatto il suo ingresso nell'Auditel, il sistema di rilevazione degli ascolti radio-televisivi. E’ stato finalmente possibile
conoscere audience e share della pay-tv italiana, eccezion fatta per i canali ospitati sulla piattaforma che dovranno decidere autonomamente se aderire alla proposta.
"In questo momento - ha affermato Tom Mockridge, amministratore delegato di Sky
Italia - stiamo finalizzando il contratto con l'organismo di rilevazione. Abbiamo sempre detto che l'unica condizione fosse l'aggiornamento del panel in linea anche con
gli sviluppi della tecnologia". Il Comitato tecnico dell'Auditel ha così varato il nuovo
panel control (il campione sulla base del quale verranno effettuate le rilevazioni) comprensivo della possibilità di monitorare quattro milioni di famiglie abbonate alla paytv. L'Auditel potrà rendere noti gli ascolti dei singoli canali satellitari al pubblico e, soprattutto, agli inserzionisti pubblicitari che fino a questo momento avevano investito
(circa 200 milioni di euro nel 2006) senza sapere quanto fossero effettivamente seguiti i programmi sponsorizzati. (Camilla Rumi)
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COMUNICARE PER RASSICURARE:
UN IMPEGNO DELLA POLIZIA
ROBERTO SGALLA
L’
aspirazione dei cittadini
a vivere liberi dalla “paura” ha ampliato notevolmente il concetto di sicurezza che oggi ricomprende tutti i fenomeni
che incidono sulla qualità e la tranquillità nella vita.
Ciò ha generato un concetto di percezione della sicurezza che è tutt’altro rispetto alla nozione di sicurezza oggettivamente intesa e che si declina attraverso i dati e le statistiche.
La sicurezza è sempre più un indice di
qualità della vita e quindi non più determinata solo dalla nozione di ordine
e sicurezza pubblica.
Ciò ha portato profondi cambiamenti
anche nell’attività delle Forze di Polizia poiché accanto alla tradizionale attività reattivo-preventiva assume sempre più importanza il tema della “rassicurazione” tesa ad attenuare quei
comportamenti che creano disagio o
allarme sociale.
È evidente che tale attività di carattere
prevalentemente preventivo non può
riguardare solo l’azione delle Forze di
Polizia nazionali, ma essa diventa
un’attività di tanti “soggetti privati e
pubblici” che possono contribuire a
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rendere più sicuri i territori.
In tale ottica la Polizia di Stato ha individuato nella “sicurezza partecipata”
una strategia in grado di coinvolgere i
soggetti interessati, di attivare ognuno
in relazione alle responsabilità e alle
funzioni la parte di “missione” che risponde all’esigenza di incidere nella
tranquillità sociale e ha adottato il tema della “polizia di prossimità” come ulteriore elemento strategico della propria attività.
La Polizia di prossimità si deve intendere come polizia sempre più vicina al
cittadino attenta ai suoi bisogni, in
grado di intercettare la domanda di sicurezza e fornire una risposta adeguata anche per quanto concerne il tema
della “rassicurazione”.
Tutto questo è avvenuto non solo attraverso una riconfigurazione degli assetti organizzativi interni ma anche attraverso innovazioni nel rapporto con
i diversi attori sociali che concorrono
nel governo della sicurezza.
Enti territoriali, rappresentanze di categorie socio-produttive, mezzi di
informazione, istituti di vigilanza,
operatori sociali, società di assicurazione, esperti in innovazioni tecnologiche, hanno così affiancato la polizia,
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Roberto Sgalla,
Questore,
direttore ufficio
relazioni esterne
e cerimoniale
dipartimento della pubblica sicurezza
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condividendo l’onere di una nuova disciplina sociale della sicurezza.
La strategia della Polizia di prossimità
è quindi il frutto di un’evoluzione che
indubbiamente risente di fattori esogeni ed endogeni.
Quelli esterni derivano da un mutato
quadro di riferimento dei valori della
collettività e, come accennavo all’inizio, il diritto alla sicurezza come uno
dei principali diritti rivendicati e che
ha allargato la sua sfera al tema della
qualità della vita, facendo rientrare nel
concetto di sicurezza tutti gli eventi e
i fenomeni comunque in grado di incidere nella tranquillità sociale.
Sul fronte interno la Polizia di prossimità, pur senza far venir meno la missione tradizionale dell’azione di polizia basata sul controllo del territorio e
le attività di prevenzione e il contrasto
alle varie forme di criminalità, è diventata una cornice con elementi anche
interistituzionali che è la grande novità nelle politiche di sicurezza portate avanti negli ultimi anni.
Nell’ambito delle società democratiche avanzate il consenso, la legittimazione sociale e il sostegno dei cittadini sono elementi fondamentali per
un’istituzione come la Polizia.
La sua stessa immagine, interna ed
esterna, viene continuamente sottoposta a conferme o disconferme.
Oggi che ogni forma di esercizio della
potestà, di concorrenza e di conflitto
viene combattuta anche a livello comunicativo, è fondamentale per ogni
amministrazione pubblica elaborare
una strategia globale e coordinata per
comunicare la propria identità, le proprie iniziative e le relative attività.
Similmente alle altre organizzazioni
pubbliche anche la Polizia di Stato che
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- nel suo duplice ruolo di creatore e
garante della sicurezza pubblica e di
facilitatore della realizzazione di una
“sicurezza partecipata” - ha come fine
ultimo la cura concreta degli interessi
della comunità, deve con questa continuamente interagire, tenendo conto
del fatto che molti dei cambiamenti
intercorsi nell’ultimo decennio nelle
istituzioni pubbliche italiane hanno riguardato proprio questa relazione, trasformando i rapporti con i cittadini e
dando vita a nuove esigenze e a nuovi
modelli di relazione.
In questo quadro il tema della comunicazione istituzionale assume un ruolo centrale e strategico. Non si può infatti parlare di Polizia di prossimità
senza associarla ad una strategia di comunicazione adeguata e integrata.
La comunicazione pubblica è un indicatore della qualità dei rapporti fra cittadini e amministrazioni, ed è ormai un
dovere della pubblica amministrazione
e quindi anche della Polizia di Stato; un
mezzo strategico che favorisce il conseguimento di un bene pubblico. Deve
essere realizzata sempre con maggiore
professionalità e competenza.
La Polizia di Stato ha oggi un’organizzazione centrale e periferica che parte
dall’ufficio relazioni esterne del Dipartimento della Pubblica Sicurezza e si
articola in ogni questura con un funzionario con l’incarico di portavoce responsabile ufficio stampa, pagine web
e U.R.P., supportato da personale dei
vari ruoli della Polizia di Stato e dell’Amministrazione civile dell’Interno.
Nel tempo è stato programmato e realizzato un percorso di formazione permanente dei portavoce e del personale
addetto per evitare improvvisazioni e
per fornire i necessari strumenti ope-
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rativi. La comunicazione per la Polizia
di Stato è diventata così strategica perchè collabora al raggiungimento degli
obiettivi dell’istituzione, in particolare
sul versante preventivo-rassicurativo.
Prima del 2000 per la Polizia di Stato la
comunicazione istituzionale aveva carattere episodico, personalistico, non strutturata sia a livello centrale che periferico.
La comunicazione non era considerata
un elemento strategico e si limitava al
più ad offrire un valore aggiunto all’operatività della Polizia di Stato.
Da anni si è compreso che la comunicazione ha un ruolo importante nella
strategia rassicurativa, partendo da alcune osservazioni anche banali dalle
quali si è compreso che il crimine fa
ascolto e la violenza spettacolo.
La forza mediatica della TV ha fatto sì
che la paura e l’insicurezza si estendesse più o meno omogeneamente in tutta Italia. I mass media hanno un forte
potere di influenzare la percezione fino a generare sentimenti di paura e insicurezza. La parola sicurezza è associata troppo spesso a fenomeni come
emergenza o allarme. Va sottolineato
che i sistemi di comunicazione rompono la segregazione istituzionale e ciò
che accade in qualsiasi luogo è come se
accadesse dove noi siamo. L’aforisma
“bad news are good news” sembra costruito sul paradigma della sicurezza.
Vanno ulteriormente segnalati, in termini di generazione di insicurezza, alcuni aspetti antropologici che gli studiosi
hanno racchiuso nelle affermazioni “segni di Caino” e “sentimenti patibolari”.
Sono rappresentazioni che i lettori
danno della devianza e che i produttori di mass media forniscono in modo
simbolico.
I mezzi di comunicazione cercano di
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“valorizzare” questi sentimenti dei
consumatori; usando una metafora
medievale possiamo affermare che
spesso assistiamo ad una forma di
“gogna virtuale”.
E’ evidente che anche se in modo inconscio ciò può provocare sentimenti
di insicurezza, incertezza, alimentando in alcuni casi l’intolleranza verso il
diverso, la “paura” verso fenomeni di
cui non si conoscono bene i contorni.
Spesso infatti alcuni “fatti criminali”
sono rappresentati e raccontati con una
logica prevalentemente aliena da una
dimensione esplicativa che potrebbe
invece aiutare a stemperare la paura.
Ma è altrettanto vero che la comunicazione può giocare un ruolo positivo.
In questo quadro, il CENSIS nel 2003,
nel suo 37° Rapporto annuale enunciava: “...Infine, nel parlare di comunicazione istituzionale non si può far a meno di
menzionare l’attività di comunicazione della
Polizia di Stato che negli ultimi anni si è posta esplicitamente l’obiettiva di comunicare
per rassicurare. A questo scopo ha adottato
una strategia integrata per il miglioramento
ed il rafforzamento dell’immagine, che ha incluso la riorganizzazione del settore comunicazione e l’estensione anche a livello periferico della capacità di dialogare con i media. ...”
In modo sintetico è l’individuazione
della missione della comunicazione
della Polizia di Stato. Nell’esame dei
rapporti tra i mass-media e i comunicatori della Polizia di Stato non va sottaciuto che alcune volte c’è un “conflitto” tra le esigenze dei giornalisti e quelle più generali di sicurezza. La riservatezza dei comunicatori della Polizia di
Stato non è una volontà di censurare la
notizia o non adempiere al dovere di
informazione ma è la premessa per garantire la sicurezza, per evitare che open. 1/2007
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razioni, indagini possano essere depotenziate da fughe di notizie oppure
creare un allarme inutile e dannoso per
le attività sociali ed economiche.
Su questo tema il dibattito è aperto e
le opinioni sono tutte legittime, ma
credo che un forte ruolo lo possano
giocare gli stessi mass media con la capacità di “autolimitarsi” nella ricerca e
divulgazione delle notizie e della fonte quando queste possano mettere in
gioco il valore da proteggere.
Per la Polizia di Stato all’interno della
mission della comunicazione ci sono altri obiettivi, incrementare la visibilità
della stessa, offrire un valore aggiunto
all’operatività, raccontare chi è, cosa
fa, promuovere l’immagine, adempiere
al dovere di informare, trasferire conoscenze e saperi, migliorare la percezione della sicurezza, generare domanda
dei servizi e migliorarne il risultato.
Per realizzare ciò si utilizzano strumenti tradizionali ed innovativi: l’ufficio
stampa, il sito www.poliziadistato.it,
considerato uno dei migliori siti di servizio della Pubblica Amministrazione,
la rivista ufficiale Poliziamoderna. Ma
accanto a questi vanno segnalati i progetti di educazione alla legalità realizzati con il mondo della scuola e partners
sociali che in sei anni hanno permesso
di incontrare migliaia di bambini/e, ragazzi/e ed adolescenti.
“Icaro”, “Un pallone per amico”, “Il
poliziotto un amico in più”, sono quelli che hanno riscosso maggior consenso. Sono a pieno titolo attività di prevenzione primarie necessarie ed utili
per costruire un tessuto sicuritario e
maggiormente rispettoso delle regole.
Gli obiettivi e gli strumenti citati sono
funzionali a favorire un circuito virtuoso fondato sulla fiducia del cittadino, il
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consenso la legittimazione. Ciò è importante perchè in un sistema di relazioni quali sono i processi di comunicazione la fiducia è un pilastro importante per creare condizioni rassicurative.
E’ altresì importante e centrale in tale
contesto, cioè nei processi di comunicazione, il tema della fonte.
Per la Polizia di Stato è “conveniente”
comunicare perchè ha la conoscenza
specifica di alcuni temi e questo può
portare ad un ridimensionamento della paura prodotta da parte dei media
perchè è possibile orientare, chiarire,
illustrare, fornire dati, informare.
Oggi anche all’interno della Polizia di
Stato si avverte come il rapporto con i
media è vissuto come una “risorsa”
che va valorizzata per apportare benefici di immagine e di visibilità pubblica
all’istituzione ed i suoi rappresentanti.
Infine, nel parlare della fonte non si
può non indicare i criteri che informano il lavoro del portavoce.
Trasparenza, credibilità, affidabilità, disponibilità completa sono dei capisaldi
da cui non si può prescindere. Il sistema di relazioni instaurato con i mezzi
di comunicazione ha fatto sì che oggi
la credibilità sia un elemento fondamentale per poter orientarsi nella comunicazione, per cercare di “disinnescare” alcune volte problematiche e situazioni che potrebbero deflagrare.
Un esempio per tutti a riprova dei valori e dei criteri che improntano il lavoro di comunicazione è la pubblicazione sul sito della Polizia di Stato e su
alcuni giornali a tiratura nazionale e
locale delle località dove vengono
istallati gli autovelox e dove sono posizionati i sorpassometri.
Roberto Sgalla
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Il giornalismo musicale
di Filippo Storani
Università LUISS, Roma
Relatore Prof. Massimo Baldini
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in dalla sua nascita, negli Anni ’50, la musica pop è caratterizzata da una
diffusione intermediale che ne permette l’ascolto ad un pubblico massificato. Ancora oggi i suoni della canzone pop ci avvolgono continuamente accompagnando la nostra quotidianità.
In questa tesi ho indagato il rapporto imprescindibile e indissolubile tra la
musica pop e i media evidenziando come la promozione e l’informazione
musicale si avvalgano dei mezzi di comunicazione per presentare al pubblico la canzone pop attraverso linguaggi diversi e strategie precise.
Adottando una prospettiva socio-semiotica ho esplorato il sistema intermediale attraverso cui la musica pop si manifesta e che stravolge la natura originaria della canzone stessa dando origine a linguaggi e fruizioni diverse.
In particolare mi sono soffermato sul rapporto tra musica e Tv dando ampio spazio al ruolo svolto da MTV e dal videoclip, sull’ iconografia pop attraverso l’analisi delle fotografie e delle copertine degli album e, infine, sulla stampa musicale. L’esclusione della radio è stata motivata dalla scelta di
studiare attentamente quei luoghi nei quali la canzone viene sconvolta e
riformulata totalmente in nuove forme.
Alcuni casi esemplari dell’importanza svolta dai media per la promozione
degli artisti sono stati analizzati con cura con lo scopo di portare alla luce
il contributo che la stampa, le copertine musicali e i videoclip svolgono,
non solo a livello promozionale, ma anche a livello culturale nel completare l’ ascolto di un brano.
Per quanto riguarda la stampa ho scelto la storica rivista inglese NME (New
Musical Express). Ho individuato e distinto quattro dimensioni del testo: il
piano dell’espressione, la dimensione enunciativa, la dimensione cognitiva
e la dimensione passionale.
Ognuno di questi livelli del testo determina specifici “effetti di senso” nel
suo rapporto con gli altri piani del discorso.
Il secondo caso scelto è quello delle copertine degli album delle band inglesi Blur e Oasis. L’analisi avviene attraverso la segmentazione di ogni testo scelto e l’individuazione delle due componenti, quella visiva e quella
verbale. Il terzo e ultimo caso proposto riguarda il ruolo del videoclip nella creazione dell’identità della band inglese Blur.
Nel corso dell’analisi vengono messi in risalto gli elementi verbali, sonori e
visivi che caratterizzano alcuni sequenze di videoclip accuratamente sele-
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zionate e che mostrano il graduale cambiamento della band negli anni.
Infine uno spazio importante è stato assegnato al processo di smaterializzazione della musica che ha dato vita a nuove forme di comunicazione basate sulla multimedialità e sull’interattività.
Con la diffusione di Internet è stato possibile scavalcare i passaggi del tradizionale schema di distribuzione e comunicazione della musica (disintermediazione) e permettere il passaggio dai vecchi ai nuovi media attraverso la
rielaborazione delle forme sociali, dei canali e dei linguaggi dei media tradizionali (rimediazione).
TESI DI DOTTORATO
IN SCIENZE DELLA COMUNICAZIONE E ORGANIZZAZIONI COMPLESSE
Gli spazi d’inclusione degli stranieri in città.
Attori collettivi e prassi quotidiane nell’esperienza romana
di Cristiana Paladini
Università LUMSA, Roma
Relatore Prof. Donatella Pacelli
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Il lavoro di ricerca è stato volto ad indagare alcuni aspetti della convivenza
interculturale mettendo in luce le dinamiche di inclusione sociale dei migranti nelle nostre metropoli. Tenendo presente l’estrema varietà del tessuto sociale contemporaneo, si cercato di non perdere di vista l’idea che le migrazioni siano - come sosteneva Sayad - ‘fatti sociali totali’ e in quanto tali da approfondire nella loro complessità.
Ciò determina un cambio di prospettive: il migrante non è solo colui che
arriva e si inserisce nella società di accoglienza, è colui che parte, sradicandosi da uno specifico contesto socio-culturale e da una realtà in continuo
mutamento. Le relazioni che tesse, gli esiti del suo inserimento, sono segnati dalla memoria, dal viaggio, dalla situazione politico-economica per cui
questo viaggio avviene, non meno che dal trauma dell’impatto, dalle politiche migratorie del paese di destinazione, dai legami preesistenti e dagli incontri quotidiani in una realtà nuova per lui, ma anche per chi in lui vede ‘
lo straniero ’.
Sintetizzare questa realtà in modelli predefiniti, discutere del fallimento di
politiche migratorie in termini di conflitti di civiltà e insanabili divari culturali, significa oggi imprigionare fenomeni soggetti a continuo mutamento
in strutture rigide destinate a non contenerli oltre che a non spiegarli. Ripensare le vecchie modalità di incontro con l’alterità includendo una pluralità di prospettive implica invece lo sforzo di reimmaginare le relazioni e
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con esse le parole che spiegano e producono la realtà.
Si tratta di un’esigenza di rinnovamento che coinvolge direttamente il linguaggio scientifico insieme a quello politico e mediale, in quanto produttori e riproduttori delle forme del parlare e del relazionarsi nella quotidianità. Questo lavoro ha cercato di mettere in luce alcuni spazi fisici e simbolici di costruzione di tali relazioni, e, nella convinzione che l’incontro avvenga tra individui, prima ancora che tra culture, lo ha fatto guardando alle pratiche sociali della responsabilità che sono agite dalle persone. Si è
quindi scelto di osservare la mobilitazione dei movimenti, delle associazioni, di quegli attori della società civile che si adoperano quotidianamente per
facilitare l’inclusione sociale degli stranieri e la convivenza interculturale.
La riflessione, in una prima parte strettamente teorica, muove dal concetto
di alterità per indagare la costruzione del legame sociale e del senso di appartenenza, ma anche dello stereotipo e dello stigma goffmaniano, nell’idea
che lo straniero, prima di essere tale, è innanzi tutto “altro”.
Colui che segna il confine nell’analisi simmeliana, chi ci obbliga a smettere
di ‘pensare come il solito’ in Schutz, l’outsider in Elias, spingono da punti di
vista distinti ad un’osservazione attenta delle relazioni che si instaurano
nelle società in cui entrano i nuovi arrivati. Guardare ai classici e alla loro
rappresentazione dello “straniero” diviene così un modo per dare complessità alla lettura del presente ma anche per recuperare un filo conduttore con il passato.
Emerge così un rapporto con l’alterità tutt’altro che semplice, che si realizza in spazi di convivenza che spesso sono luoghi di indifferenza, di non
coinvolgimento, in cui il timore nei confronti di un’alterità indefinita facilita il proliferare di vecchie e nuove forme di razzismo, da quello popolare
che si nutre di ignoranza a quello ‘colto’ che, si alimenta col discorso comune e lo riproduce. In una seconda parte l’osservazione si è spostata dalla prospettiva micro a quella macrosociale, la figura dello straniero è stata
ricollocata in un’analisi degli attuali flussi migratori e delle scelte politiche
italiane ed europee in materia di gestione degli ingressi e di integrazione.
Muovendosi da queste premesse lo studio empirico che ha interessato l’area romana, ha sottolineato il ruolo di alcuni attori collettivi provenienti dal
mondo dell’associazionismo operante nel settore dell’immigrazione, con l’idea che il radicamento nel territorio di questi gruppi, la flessibilità dei loro
interventi, il coinvolgimento di autoctoni e operatori, potessero rappresentare dei punti di forza e di completamento rispetto all’azione istituzionale,
nel costruire momenti di dialogo e reti di inclusione sociale nella capitale.
Il lavoro si è svolto seguendo due direzioni fondamentali di ricerca: la prima ha avuto come obiettivo la mappatura degli attori sul territorio e l’analisi, attraverso l’utilizzo di un questionario, dei loro interventi, delle reti di
relazioni costruite, della distribuzione nei municipi, degli ambiti privilegiati
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di azione. Questa osservazione ha rappresentato uno strumento utile per
mettere a fuoco le peculiarità di alcune organizzazioni ma soprattutto le
tendenze principali messe in atto da attori tanto eterogenei.
In secondo luogo, per approfondire alcuni temi rimasti inevitabilmente
esclusi da una prima analisi quantitativa, legati maggiormente alle scelte individuali, alle motivazioni, ai legami con la politica e ai modi di intendere il
rapporto con l’alterità nel lavoro svolto dalle varie associazioni, sono stati
interpellati i protagonisti di queste attività. Sono stati quindi intervistati
venti operatori e volontari che, scelti per i loro incarichi all’interno delle rispettive organizzazioni, potevano essere considerati testimoni privilegiati,
nel duplice ruolo di portatori delle istanze del gruppo e delle storie di vita
personali legate alla loro esperienza sul campo.
Il duplice approccio alla questione ha permesso l’emergere di luci ed ombre nell’osservazione di queste realtà e dei processi di inclusione nello spazio romano: al lavoro di alcuni si affianca il disinteresse di molti, al dialogo
la difficoltà di interazione, tuttavia, proprio alla luce della complessità delle
relazioni stabilite, l’impegno di molti operatori nella lotta all’esclusione sociale diviene risorsa preziosa per rispondere alle esigenze di una società che
si confronta quotidianamente con le diversità.
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TESI DI DOTTORATO
COMUNICAZIONE E ORGANIZZAZIONI COMPLESSE
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IN SCIENZE DELLA
Processi di produzione e riproduzione culturale nella postmodernità. Auditorium Parco della Musica e Notte Bianca: due
industrie culturali a confronto.
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di Francesca Ieracitano
Università LUMSA, Roma
Relatore Prof. Donatella Pacelli
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l clima postmoderno ha portato con sé una serie di ricadute che hanno
generato una trasformazione nelle forme e nei fenomeni culturali che caratterizzano la società e sui quali essa si fonda.
Per affrontare un’analisi della società postmoderna si è scelto di adottare
una prospettiva di tipo culturologico mettendo in rilievo l’elemento normativo,
inteso come una vera e propria forma di controllo che la cultura esercita
sulla società e sugli individui. Ciò consente di ragionare su una realtà non
de-contestualizzata, ma che riflette i limiti e le problematiche dell’epoca
nella quale è inserita, mettendo così in primo piano il rapporto dialogico
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che lega l’individuo contemporaneo alla cultura del suo tempo. La letteratura sulla postmodernità ha intravisto nei modelli di comportamento oggi
diffusi delle nuove esigenze individuali o collettive. Malgrado ciò, essa difficilmente si è soffermata a riflettere sui modi in cui la cultura risponde e
interpreta tali esigenze più o meno temporanee.
Pertanto, obiettivo di questo lavoro, non è solo quello di comprendere meglio il clima dionisiaco che si respira nella società contemporanea, ma anche quello di studiare i processi che si collocano a monte di certe effervescenze sociali.
Per farlo si è fatto riferimento ad alcuni autori classici del pensiero sociologico che hanno utilizzato l’elemento culturale come chiave interpretativa
della società e che hanno dato i contributi più significativi in merito ad una
lettura dei fenomeni e dei processi culturali che hanno connotato la società
moderna. La rivisitazione di questi contributi ha sollevato una serie di interrogativi circa la necessità di rimanere ancorati a delle categorie interpretative come quelle di cultura, produzione e riproduzione che, evidentemente, in un altro contesto storico sociale, trovavano la loro ragion d’essere in una concezione totalitaria e totalizzante di cultura.
Diviene, allora, inevitabile chiedersi come avvengano e come incidano i
processi di produzione e riproduzione della cultura sulla creazione di nuovi fenomeni e dinamiche culturali, fondamentali per la definizione di un articolato scenario quale è quello attuale.
Per rispondere a questo quesito, nella parte empirica del lavoro, sono stati
scelti due ambiti di osservazione privilegiati come: L’Auditorium Parco della
Musica di Roma e la Notte Bianca. All’interno di questi due contesti è stato
possibile analizzare in modo diretto i contenuti dell’attuale trasformazione
culturale isolando tre ordini di fattori che a vari livelli si inseriscono all’interno dei processi produttivi e riproduttivi e si rivelano influenti nel contribuire alla creazione di certi fenomeni culturali e nel condizionarne l’esito:
Le Organizzazioni complesse: sistemi istituzionali, e non, preposti alla produzione culturale e al controllo di essa, attraverso dinamiche di riproduzione.
L’Auditorium Parco della Musica di Roma e la Notte Bianca ne sono un
esempio concreto, al loro interno è stato possibile osservare in modo diretto i meccanismi di funzionamento delle nuove “industrie culturali”.
L’universo dei fruitori di prodotti/oggetti culturali: è il pubblico di questi due contesti culturali sottoposto ad indagine attraverso due questionari strutturati
che hanno permesso di comprendere perché oggi ha più senso parlare di
esperienza culturale più che di fruizione.
L’oggetto culturale è stato studiato attraverso un’analisi del contenuto incentrata sull’offerta dell’Auditorium Parco della Musica dalla quale si è evinto
che i contenuti culturali contemporanei, oltre al bisogno di loisir, si sforzano di soddisfare anche il bisogno di autocomprensione dell’uomo contem-
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poraneo. L’ipotesi che fa da sfondo a tutto il lavoro si fonda sul presupposto che, malgrado le trasformazioni che li hanno segnati, i processi di produzione e riproduzione culturale, in realtà, non rinunciano - neanche in uno
scenario postmoderno - ad esercitare delle forme “creative” di controllo
sociale nei confronti di individui/fruitori animati dal desiderio di sfuggire a
qualsiasi condizionamento.
Nasce da qui l’urgenza di soffermarsi a riflettere sui cambiamenti che hanno investito gli ordini di idee e le categorie interpretative dell’individuo postmoderno.
Il giornalismo di Walter Tobagi
di Cimmino Valentina
Relatore: Paolo Scandaletti
Università degli Studi Suor Orsola Benincasa
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’obiettivo del lavoro è quello di ripercorrere la vita di Walter Tobagi, dirigente sindacale e giornalista del “Corriere della Sera”, ucciso il 28 maggio 1980, a soli 33 anni, da un commando terroristico. Lo studio si sviluppa attraverso l’analisi dei momenti più importanti della vita di Tobagi, nonché dei ruoli da lui svolti nel mondo giornalistico e sindacalista.
Oltre l’utilizzo di libri sulla figura di Tobagi, la ricerca bibliografica si è avvalsa dei volumi scritti dallo stesso e, soprattutto, dei numerosi articoli scritti dal giornalista per le testate per le quali ha lavorato. Attraverso questi, infatti, si è potuto ricostruire il periodo storico-politico-sociale in cui Tobagi
viveva: dalla contestazione giovanile del 1968, al “compromesso storico”,
alle prime lotte operaie, alle trasformazioni del sindacato negli anni Settanta, fino allo scoppio del terrorismo degli “anni di piombo”.
Il lavoro è diviso in cinque capitoli:
Il primo capitolo si concentra sull’esordio giornalistico di Tobagi, avvenuto sui banchi di scuola, al Liceo Giuseppe Parini di Milano. Egli iniziò a
scrivere, quindi, per “la Zanzara”, il giornalino pariniano occupandosi di argomenti quali: la storia della Resistenza, lo sport, la politica, ma anche temi
di costume.
Il secondo capitolo ripercorre l’attività lavorativa di Tobagi nelle testate
giornalistiche per le quali ha lavorato. Dopo “la Zanzara”, scrisse per due
giornali sportivi: il primo, “Milan-Inter”, per il quale si occupò non tanto
della cronaca degli incontri dei rossoneri, ma delle reazioni, dei pensieri e
delle opinioni dei tifosi; il secondo, “Sciare”, grazie al quale intraprese i suoi
primi viaggi lavorativi, come a Grenoble e a Sapporo per le olimpiadi. Dopo alcuni anni dedicati al giornalismo sportivo, Tobagi decise di lavorare
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per l’“Avanti!”; iniziò a scrivere, così, di politica, di sindacato e dei problemi sociali di fine anni Sessanta. In particolare Tobagi si dedicò fortemente
al problema della contestazione giovanile essendo anch’egli studente universitario alla facoltà di lettere e filosofia della Statale di Milano. Dall’”Avanti!” ci fu il passaggio all’”Avvenire”, per il quale continuò a scrivere pezzi di
costume, politici ed economici. Arrivò quindi al “Corriere di Informazione” e
dopo poco alla sua meta: il “Corriere della Sera”. Fu per quest’ultima testata
che Tobagi iniziò a scrivere più assiduamente di terrorismo, diventando inviato sul campo e cercando di capire la verità per poterla spiegare. Non
mancarono inoltre articoli sui problemi sindacali, nei quali intervistava e
descriveva non solo personaggi di rilievo nel mondo industriale ma anche
e soprattutto i lavoratori, i loro pensieri e le loro opinioni.
Il terzo capitolo si sofferma sul ruolo svolto da Tobagi all’interno dell’Associazione Lombarda dei Giornalisti, il sindacato lombardo della categoria.
Da subito manifestò il suo malcontento per il forte legame che il sindacato aveva nei confronti della politica e dei suoi leader.
Con alcuni colleghi e amici formò un nuovo gruppo, una nuova corrente
all’interno dell’Assocaizione dal nome “Stampa Democratica”, manifestando in pieno le sue idee riformiste.
Il gruppo ricevette la maggioranza e Tobagi fu eletto per ben due volte Presidente. Oltre alla sua diretta attività sindacalista, Tobagi fu anche uno “storico del sindacato”: scrisse infatti diversi volumi sulla storia e i cambiamenti
del sindacato italiano dal secondo dopo guerra ai “caldi” anni Settanta.
Il quarto capitolo è incentrato sugli articoli e sulle inchieste sul terrorismo
rosso e nero, che Tobagi svolse per il “Corriere della Sera”. Egli fu cronista
sul campo, seguì da vicino tutti gli attentati che in quegli anni sconvolsero
l’Italia cercando di capire sempre il perché di tali azioni. Attraverso i suoi
articoli manifestò le sue idee riformiste al riguardo, tanto da essere anch’egli, poi, preso di mira dagli stessi terroristi.
Il quinto e ultimo capitolo descrive le dinamiche del delitto, le indagini che
seguirono, il processo e le sentenze. Gli assassini furono dei giovani ventenni riuniti con il nome di “Brigata 28 Marzo”, che aspiravano ad entrare
nelle BR e che decisero di colpire il mondo della stampa e lo stesso Tobagi per il ruolo svolto nell’opinione pubblica.
Il caso non fu semplice, moltissimi furono gli interrogativi posti e mai risolti; l’omicidio Tobagi divenne un vero e proprio caso politico tra i socialisti di Bettino Craxi che sostenevano la presenza di un “regista”, un mandante, mai dimostrata.
Dopo anni “l’affaire Tobagi” pone ancora interrogativi: nonostante le sentenze da parte del Tribunale di Milano, gli amici, i colleghi e i parenti di Tobagi non smettono di cercare la verità sul perché fu ucciso e perché non fu
fatto niente per salvarlo.
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Napoli Le professioni della comunicazione: il ddl Mastella
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iforma degli Ordini professionali, adeguata formazione e necessità di una maggior attenzione all’etica e alla deontologia. Sono stati questi i temi principali affrontati nel convegno “Identità e regole delle professioni della comunicazione”, tenutosi il 5 marzo presso l’università Suor Orsola Benincasa e promosso dalla scuola di giornalismo della stessa. Un incontro - dibattito, in cui operatori del settore
hanno espresso le loro opinioni e perplessità al ministro della giustizia Clemente
Mastella, autore di un disegno di legge per la riforma degli Ordini professionali.
Per la prima volta nel mondo della comunicazione, in cui emergono, accanto al giornalismo, sempre nuove professioni, nasce l’idea di una regolamentazione professionale che guardi alla formazione, ma anche al sistema delle regole che le riguardano.
«Il disegno di legge Mastella tenta di dare delle regole che tengano conto di interessi
pubblici e privati, senza penalizzare, ma anzi valorizzando il mondo professionaleosserva il preside della facoltà di scienze della formazione Lucio D’Alessandro -c’è
qualche criticità, ma è comunque un passo avanti importante».
Una regolamentazione, quindi, sentita da più parti: «ce n’era bisogno, la libertà è anche questo, non è svincolamento da qualsiasi tipo di obbligo» dichiara il rettore
Francesco De Sanctis «era impensabile procedere nel caos, la comunicazione ormai
accompagna quasi tutti i momenti della nostra vita. Anche l’università deve adeguarvisi, cercando di contribuire maggiormente alla formazione dei professionisti
del settore». Un problema, quello della formazione, evidenziato dal moderatore dell’evento, Paolo Scandaletti, docente di storia del giornalismo e della comunicazione
sociale: «l’università – ha affermato – deve avere un’offerta formativa in grado di
fondere saperi accademici e professionali».
C’è la necessità, ha sottolineato Scandaletti, di tutelare il sistema paese e i diritti dei
cittadini, evitando i corporativismi e recuperando credibilità sociale: l’obiettivo principale deve essere il servizio agli utenti, e poi la tutela professionale. «Bisogna ringraziare il ministro Mastella perchè ha preso in mano un tema scottante; erano dieci anni che se ne parlava senza poi fare nulla di concreto».
A difendere le categorie professionali c’erano, oltre all’Ordine dei giornalisti, anche
le associazioni professionali. Unica assente ingiustificata Assocomunicazione, associazione che riunisce per lo più il mondo pubblicitario. L’incontro ha rappresentato
una vera novità, che lascia intendere una volontà di concertazione della gran parte
dell’universo della comunicazione.
A favore delle associazioni, «riconoscimento professionale che dà una certa libertà
di scelta al mercato», più che degli Ordini, il presidente Assorel Furio Garbagnati:
«non sono d’accordo su come una legge possa intervenire per eliminare i criteri autoreferenziali degli Ordini professionali – ha detto, criticando il disegno Mastella –
ma credo sia importante una regolamentazione che coinvolga tutti gli operatori della comunicazione. C’è bisogno di tutele anche per gli utenti, e in questo possono dare un contributo significativo i codici deontologici e la formazione professionale».
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Attenzione, però all’offerta formativa: bisogna chiedersi, secondo Garbagnati, se alla crescita quantitativa dei corsi universitari corrisponda una reale crescita qualitativa, o se non contribuisca soltanto all’aumento dei precari. Ben vengano anche i tirocini, «ma che non siano forme nascoste di sfruttamento professionale».
Il sistema della comunicazione, osserva Andrea Prandi, presidente Ferpi, va adattato rapidamente alle nuove realtà: ben venga dunque il progetto di Mastella. «C’è bisogno di regole che siano simili per l’intero settore, pur mantenendo distinte le professioni – osserva – comunque è fondamentale non lasciare la deontologia professionale in balia delle etiche personali». A chi critica il ruolo degli Ordini, considerati da qualcuno “superati”, Vittorio Roidi, segretario nazionale dell’Ordine dei giornalisti risponde: «vogliamo abolirli? Perfetto, ma ditemi qual è la soluzione alternativa. La professione sta cambiando in modo tumultuoso, e non è solo una questione di nuove tecnologie. Si deve chiarire cosa questo paese vuole dai giornalisti, con
le conseguenze normative che ciò comporta.
Tutti comunicano, ma tra Pippo Baudo e Bruno Vespa qual è la differenza? Che
Pippo Baudo non ha gli obblighi di un giornalista». Siamo di fronte, accusa Roidi,
ad un vero e proprio attacco da parte degli editori, che favoriscono il precariato,
sfruttando i giovani per 4, 5 euro ad articolo: l’Ordine deve denunciare questo
“schiavismo”, e favorire la formazione professionale all’interno delle università, indispensabile per avere mercato in Europa. Tanti gli interventi anche del pubblico in
sala, che si sono dichiarati a favore della formazione professionale perenne, dell’osservanza delle deontologie professionali, e hanno sottolineato la necessità di un discorso sull’informazione in Campania, dove l’editoria è penalizzata.
A tutte le questioni sollevate ha risposto il ministro Mastella, che ha sottolineato la
necessità di trovare criteri di regolamentazione professionale che vadano al di là delle singole professioni, comprendendo gli Ordini ma anche gli elementi al di fuori di
essi.
E proprio sugli Ordini si è soffermato a lungo: «sono incredibilmente gonfiati - ha
osservato – ed è indubbio che una depurazione va fatta. Non ho intenzione di abolirli, credo anzi che siano una fonte economica e sociale di grande interesse, ma vanno riconsiderati alla luce dell’Europa, con la quale dobbiamo necessariamente raccordarci».
Anche per questo bisogna garantire la qualità delle professioni: c’è bisogno di una
formazione costante, soprattutto per i giovani che ora si affacciano nel mondo del
lavoro, perchè «bisogna evitare che chi arriva all’interno dell’Ordine si sieda, invece
di allinearsi continuamente con la realtà circostante».
Per quanto riguarda le associazioni, Mastella dice di ritenerle importanti, e anzi c’è
bisogno «che siano riconosciute e regolarizzate. Quello che molti non capiscono è
che le regole, pure nella logica del mercato, devono esistere; sennò cadiamo nella
legge della giungla».
(Antonella Scutiero)
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Roma - Tv e Minori: il bilancio del 2006
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Non si può ignorare l’esigenza di riservare la massima attenzione alle condizioni in cui di fatto vengono formandosi le nuove generazioni e ai diversi fattori che
vi concorrono: tra questi la televisione conserva un ruolo di innegabile rilievo”.
Questo, il passo conclusivo del Consutivo annuale sull’attività del Comitato Tv e
Minori, presentato lo scorso 22 gennaio presso il Ministero delle Comunicazioni.
L’insieme degli interventi del Comitato ha riguardato, in quest’ultimo anno, i profili della violenza televisiva nelle sue varie forme, le lesioni più o meno esplicite della dignità della persona, la volgarità di situazioni e linguaggi con effetti banalizzanti nei rapporti interpersonali, anche i più delicati per l’equilibrio esistenziale del minore. Nel rispetto di tali criteri, nel 2006 sono stati complessivamente presi in esame 296 casi, a dispetto dei 379 del 2005, instaurati 98 procedimenti contro i 119
dell’anno precedente, ed accertati, infine, 31 casi di violazione, molti dei quali da riferire a trasmissioni rientranti nella cosiddetta “fascia protetta”. Tali violazioni sono state riscontrate in tutti i principali generi della Tv generalista, dal talk show al
varietà, dalla pubblicità al reality show, passando attraverso fiction, film, telefilm e
cartoni animati, mettendo in evidenza come ciascun format sia esposto a più di un
rischio.
Rispetto ai consuntivi degli anni precedenti, quello del 2006 si è però distinto per
tutta una serie di ragioni interne ed esterne al Comitato presieduto da Emilio Rossi. Oltre a segnare il passaggio dal primo al secondo triennio di attività, con la conseguente nomina dei nuovi membri, esso è stato oggetto di molteplici iniziative a
carattere legislativo volte a ribadire l’importanza di quella tutela dei minori in Tv
che, soprattutto attraverso l’applicazione del Codice di autoregolamentazione, costituisce la ragion d’essere del Comitato. Accanto alle nuove linee guida fissate dall’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni in vista del nuovo Contratto di servizio Rai, vanno infatti menzionati l’atto d’indirizzo dell’Agcom riguardante le trasmissioni di intrattenimento, emanato sulla base delle preoccupazioni avanzate dal
Comitato soprattutto in materia di reality show, e la comunicazione del 29 novembre 2006 attraverso cui l’Autorità ha confermato la natura ed i poteri accertativi e
sanzionatori del Comitato.
Da sottolineare è anche la nuova edizione della Carta di Treviso, diretta a tutelare i
minori principalmente sotto il profilo della privacy nell’informazione. Il testo, rielaborato dai promotori (Ordine dei Giornalisti, Telefono Azzurro e Federazione Nazionale Stampa Italiana), è stato varato, grazie al contributo del Comitato, con il
consenso del Garante per la Protezione dei dati personali. A ciò va anche aggiunta
la specifica attenzione, posta dai ministri europei, alla tutela dei giovani telespettatori nella laboriosa revisione della direttiva “Tv senza frontiere”, in attesa della definitiva approvazione.
Il 2006 è stato caratterizzato anche da un decisivo rafforzamento dei rapporti tra il
Comitato e la Rai che, nel nuovo Contratto di servizio, oltre a prevedere un incre-
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mento della qualità della programmazione anche ai fini della riconoscibilità e della
credibilità del servizio pubblico, all’art. 7 specifica di “tenere nel massimo conto le
raccomandazioni e le decisioni del Comitato di applicazione del Codice di autoregolamentazione Tv e Minori”. La Rai si impegna altresì a potenziare il sistema di
avvertimenti e segnali simbolici per distinguere i programmi adatti ad una visione
congiunta con un adulto da quelli diretti ad un pubblico esclusivamente maggiorenne. Il Comitato aveva infatti più volte evidenziato la necessità di aggiornare la segnaletica televisiva, definita come “un richiamo di responsabilità, doverosa soprattutto per impegnare ed aiutare le famiglie”, affinché alle modalità proprie di ciascuna emittente fosse sostituito un sistema omogeneo facilmente leggibile dalla totalità
degli spettatori.
L’attenzione del Comitato si è estesa nell’ultimo anno anche alla televisione satellitare, sempre più attenta a soddisfare le esigenze delle nuove generazioni, come mostrano i dati relativi alla fruizione di Sky da parte dei giovani telespettatori. Tale motivazione, unita a ragioni di correttezza concorrenziale, ha portato alla definizione
di un insieme di norme di portata generale, sancite anche legislativamente, tra cui
merita di essere ricordato il divieto di trasmettere nella fascia oraria definibile come
“televisione per tutti” i film vietati ai minori di 14 anni. Nessuna piattaforma televisiva dovrebbe, infatti, ritenersi libera dal dovere morale di contribuire alla formazione di una cultura che promuova l’assoluto rispetto per la persona in età evolutiva. (Camilla Rumi)
Roma La riforma del sistema della comunicazione: prospettive
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I sistemi della comunicazione sono sottoposti da tempo ad una profonda fase
evolutiva che chiama gli operatori ad un costante adeguamento delle strategie
aziendali, il Governo e il Parlamento alla riscrittura di leggi e regolamenti, le Autorità a ricalibrare ed affinare l’azione di controllo e garanzia”. Questo il motivo per
il quale Mediacoop, in collaborazione con la Provincia di Roma e l’associazione Articolo 21, ha deciso di organizzare, lo scorso 29 gennaio presso il Grand Hotel de
la Minerve di Roma, una giornata di riflessione sul tema “La riforma del sistema
della comunicazione: libertà e pluralismo”.
Il convegno ha visto la partecipazione di giornalisti, operatori del settore, esponenti del mondo politico e sindacale, rappresentanti dell’area accademica e culturale,
con il preciso intento di fare chiarezza su una problematica di grande attualità e, soprattutto, di vitale importanza per la vita democratica di un Paese. Nei prossimi mesi, infatti, si terranno cinque appuntamenti degni della massima attenzione: il varo
della nuova direttiva Tv senza frontiere, l’iter parlamentare del Ddl Gentiloni per la
riforma del settore radio-televisivo, la nuova legislazione delle Regioni, richiesta dal
loro potere concorrente in materia e sollecitata dall’Unione Europea, la definizione
del redigendo Ddl per la riforma dell’editoria e la redazione dei decreti delegati in
materia ai contributi pubblici al settore editoriale. La riflessione delle personalità in-
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tervenute al convegno si è concentrata in particolar modo sulle problematiche attinenti il settore radio-televisivo, essendo caratterizzate da un punto di vista cronologico da una scadenza più immediata rispetto ai provvedimenti relativi al mondo dell’editoria e alla nuova legislazione riguardante le Regioni.
Per ciò che riguarda la revisione della direttiva Tv senza Frontiere, i partecipanti al
convegno hanno espresso le loro perplessità verso una scelta che, a loro parere, non
fa che riproporre in ambito europeo una tendenza già da tempo consolidatasi in Italia, quella cioè di spostare ulteriori risorse verso il sistema televisivo. Favorire ulteriormente i grandi network significherebbe contribuire a danneggiare in maniera sostanziale il settore della carta stampata, dell’emittenza locale, dell’informazione, di
una televisione che fa delle idee e dei valori il suo punto di forza. “Tale revisione ha sostenuto Lelio Grassucci, presidente di Mediacoop - renderebbe ancora più difficile nel nostro Paese la tutela del pluralismo, la riapertura del mercato, lo sviluppo
equilibrato dei vari media, il superamento del duopolio televisivo che ingessa il settore”. L’augurio è quindi quello che vengano corretti gli attuali orientamenti comunitari nell’interesse generale e che, soprattutto, vengano gettate le basi per costruire
un sistema pluralista, moderno ed avanzato, in grado di garantire l’affermazione dei
nuovi processi tecnologici e di incrementare la competitività dell’industria multimediale europea. Quest’ultima dovrebbe, infatti, poter finalmente competere con il
mercato americano e con quelli dei Paesi emergenti, rispettando le specificità del
modello sociale, economico e culturale che da sempre l’hanno caratterizzata per la
costituzione di un vero unico mercato europeo.
Per quanto riguarda, invece, il Ddl Gentiloni per la riforma del settore radio-televisivo, è stata posta particolare attenzione agli obiettivi che tale provvedimento intende raggiungere: l’apertura del mercato intervenendo su pubblicità e frequenze, la
definizione delle regole per il passaggio alla Tv digitale, la riforma del sistema dell’Auditel e di Audiradio, il superamento del SIC (Sistema Integrato delle Comunicazioni) e delle norme relative alla privatizzazione della Rai previste dalla legge
112/04. Il ministro Gentiloni, intervenuto alla giornata di riflessione, si è soffermato in particolar modo sulla necessità di aprire il settore radio-televisivo ad una
maggiore concorrenza, dipendendo da tale aspetto la realizzazione del pluralismo,
sull’importanza di rafforzare la produzione di contenuti audiovisivi e di sostenere in
modo più consistente il servizio pubblico affinché possa rendersi finalmente autonomo dalla politica e dalla pubblicità. Il ministro delle Comunicazioni ha quindi ribadito l’importanza dell’accesso ai contenuti Rai da tutte le piattaforme tecnologiche, del rispetto delle categorie più deboli, del passaggio al digitale nella consapevolezza però che “è stato il servizio pubblico a giocare fino a questo momento nel
nostro Paese un ruolo fondamentale per la formazione di una coscienza democratica generale”.
Il dibattito è stato vivacizzato dalle dichiarazioni rilasciate durante la mattinata dal
presidente dell’Antitrust, Antonio Catricalà, il quale ha sottolineato come il limite
rigido del 45% fissato dal Ddl Gentiloni per la raccolta pubblicitaria dell’intero settore televisivo rappresenti una “misura incongrua e parziale quale soglia da non varn. 1/2007
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care per non incorrere in sanzioni comminate allo scopo di eliminare una raggiunta posizione dominante”. Alle dichiarazioni di Antonio Catricalà sono seguite quelle del presidente dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, Corrado Calabrò,
il quale, nei giorni successivi al convegno, ha dichiarato davanti alle Commissioni
Cultura e Trasporti che tale limite può essere accettato solo se transitorio e mirato
allo sviluppo del pluralismo e del digitale terrestre. “Se dovesse avere un carattere
definitivo - ha aggiunto il presidente dell’Agcom - diventerebbe norma asimmetrica con effetti su un solo soggetto: tale tetto deve includere anche i proventi derivanti dagli abbonamenti e quelli delle pay-Tv”. A tali affermazioni il ministro Gentiloni ha risposto che “non c’è nessun tetto contro singole imprese: c’è il fatto che
bisogna distribuire le risorse pubblicitarie in modo tale che ai telespettatori arrivi
un’offerta maggiore, attraverso una maggiore concorrenza tra diversi editori. Sono
le posizioni dominanti o eccessive di un’azienda su un determinato settore economico a bloccare lo sviluppo, e non gli eventuali limiti antitrust”.
La riflessione sulla riforma del settore radio-televisivo e sulla revisione della nuova
direttiva Tv senza Frontiere ha visto il contributo di numerosi esperti del settore ed
esponenti del mondo politico-istituzionale intervenuti al convegno organizzato da
Mediacop: Federico Orlando, Presidente di Articolo 21, Roberto Mastroianni, docente di Diritto comunitario all’Università di Napoli, Vincenzo Vita, assessore alla
Cultura della Provincia di Roma, Ricardo Franco Levi, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Giulietto Chiesa, europarlamentare, Pietro Folena, presidente
della Commissione Cultura della Camera dei Deputati, Beppe Giulietti e Rodolfo
De Laurentiis, componenti della Commissione di Vigilanza Rai. La totalità delle relazioni ha puntato a mettere in luce come una seria regolamentazione del settore radio-televisivo rappresenti una necessità di primaria importanza e come essa debba,
allo stesso tempo, assecondare l’affermazione delle nuove tecnologie, porre fine alle posizioni dominanti e, soprattutto, fare fronte all’esigenza di elevare qualità e cultura delle produzioni radio-televisive per il bene dell’intero Paese. (Camilla Rumi)
Roma Informazione ed oggettività
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l rapporto tra l’informazione giornalistica e l’oggettività è stato il tema dibattuto
nel convegno organizzato dalla Luiss Guido Carli a Roma, presso la Sala Colonne della sede di viale Pola, il 6 febbraio scorso.
Professori e professionisti della comunicazione hanno analizzato da diverse angolazioni il ruolo che l’oggettività ricopre nella produzione di notizie. Gli interventi
sono stati distribuiti in due sessioni: nella prima ha fatto da chairman il professor
Raffaele De Mucci (ordinario di Scienza Politica all’Università Luiss Giudo Carli),
nella seconda il professor Paolo Scandaletti (docente di Etica della Comunicazione
all’Università Luiss).
Ad aprire la discussione è stato il professor Dario Antiseri (ordinario di Metodologia delle Scienze Sociali all’Università Luiss), il quale, da epistemologo, ha sostenuto che l’oggettività dell’informazione è possibile se inserita in un sistema sociale in
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cui ne sia consentita la controllabilità da parte dell’opinione pubblica. Un esempio
di ciò potrebbero essere le lettere di smentita spedite dal lettore al giornale.
Anche il professor Massimo Baldini (ordinario di Semiotica all’Università Luiss) ha
invitato a non rinunciare all’oggettività e, secondo un approccio metodologico, ha
paragonato il giornalista allo storico, citando una frase di Umberto Eco: “il giornalista è lo storico del presente”. Ma, a differenza dello studioso, chi lavora per i mass
media ha a disposizione sempre tempi stretti: per questo il “mestieraccio” somiglia
pure all’attività del medico, in entrambi i casi, infatti, le diagnosi vengono effettuate in condizioni di emergenza.
Marica Spalletta, ricercatrice alla Luiss, ha sostenuto le difficoltà che l’oggettività incontra nel fotogiornalismo. La foto, essendo figlia del positivismo, potrebbe di primo acchito sembrare un tutt’uno con l’oggettività, tuttavia non è così, dato che c’è
sempre qualcuno dietro l’obiettivo. Ciò che allontana la rappresentazione della
realtà dalla realtà stessa non si esaurisce nell’apporto soggettivo del fotografo; l’immagine, infatti, è manipolabile e falsificabile, oggi ancor più di ieri grazie alla tecnica digitale. Le fotografie possono mentire, ma possono anche essere oggettive, oneste: esiste una deontologia che sancisce il dovere per le foto di rappresentare la
realtà nel modo più accurato possibile.
Il professor Paolo Mancini (ordinario di Sociologia della Comunicazione all’Università di Perugia), dichiarandosi più scettico nei confronti dell’oggettività, è passato ad analizzare il perché, e non più il come, dell’informazione oggettiva. Quest’ultima non deve essere considerata sempre e comunque un ideal tipo positivo, dato
che non si può prescindere dal sistema sociale di riferimento. L’obiettivo è una dimensione legata al mercato, infatti, è proprio la necessità di vendere i giornali a tutti a disincentivare un taglio partigiano.
Angelo Mellone, giornalista de “Il Giornale”, ha giudicato impossibile l’oggettività
soprattutto quando la comunicazione è politica e quindi, per definizione, orientata
alla persuasione. L’ideale regolativo discusso nasconde molte insidie tra cui la supposizione di un punto di vista super partes, privilegiato rispetto agli altri.
Anche Linda Lombardo (direttrice dell’Istituto di Lingue Moderne dell’Università
Luiss Guido Carli) nel suo intervento ha messo in discussione la bontà dell’oggettività: quest’ultima è un effetto creato dal linguaggio, infatti è la voce di chi parla,
che viene percepita come impersonale o oggettiva proprio grazie a scelte linguistiche. Il dibattito intorno all’obiettività è risultato complesso e problematico, ma è apparsa comune la difficoltà di portare l’informazione giornalistica a perfezionarsi e ad
essere indipendente dai condizionamenti del sistema sociale e culturale alla sua base.
(Marianna Berti)
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Napoli UNICAMPANIA
centro interuniversitario di orientamento per l’alta formazione
niCampania, l’ambizioso progetto che sta portando alla costituzione di un
centro interuniversitario di orientamento per l’alta formazione in Campania, è
stato presentato al pubblico il 24 gennaio 2007 a Napoli. L’evento al quale hanno
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partecipato i rappresentanti delle principali istituzioni regionali della formazione,
della ricerca e del lavoro, si è tenuto nella Sala delle Conferenze presso il Palazzo
Du Mesnil in Via Chiatamone.
Nel corso del convegno sono stati affrontati i temi che hanno ispirato l’implementazione del progetto UniCampania e sono stati esposti gli importanti obiettivi che
saranno perseguiti dall’omonima ATS, l’Associazione Temporanea di Scopo costituita da numerosi soggetti: in primis le Università Campane L’Orientale, Parthenope,
Napoli 2, Sannio, Suor Orsola Benincasa nonché il Consorzio Promos Ricerche come partner esterno, consorzio di cui fanno parte anche i sovracitati atenei, il CNR, il CEINGE e la Camera di Commercio di Napoli.
UniCampania ha come finalità ultima proprio la realizzazione di un Centro Interuniversitario di Orientamento per l’Alta Formazione che possa diventare una struttura stabile e di riferimento per la formazione post-laurea della Regione Campania;
un centro che sia in grado di fornire una guida ai giovani laureati che vogliano prendere in considerazione l’offerta formativa della propria regione senza perdersi nella marea di proposte spesso altrimenti vaghe e difficili da valutare. Non è infatti
semplice per un neolaureato che voglia continuare il proprio percorso di formazione, così come per un ragazzo che voglia iscriversi per la prima volta all’università,
orientarsi e scegliere consapevolmente la propria strada: basti pensare che in Campania esistono 7 Università (le cosiddette Sette Sorelle) per un totale di 24 Facoltà e
180 (circa) Corsi di laurea, oltre numerose organizzazioni che offrono corsi di formazione (chi scrive ne ha contate oltre 70 con le più svariate offerte formative).
L’obiettivo di UniCampania, pertanto, è passare dai singoli sportelli di orientamento di Ateneo ad uno sportello unico interuniversitario affinché sia sancito un importante salto di qualità mirato a valorizzare una logica di rete e un’ottimizzazione
delle risorse disponibili sul territorio. UniCampania, cerca di offrire una risposta ai
giovani laureati campani affinché possano scegliere tra le molteplici offerte; in più,
ponendosi quale ponte tra il mondo della formazione ed il mercato del lavoro, il
Centro Interuniversitario di Orientamento per l’Alta Formazione, fornirà una risposta anche alle necessità di competenze e conoscenze richieste dalle aziende del
territorio campano.
In tal modo, il giovane laureato potrà adeguare la propria formazione non solo alle
aspettative personali ma anche ai bisogni espressi dalle aziende con il conseguente
aumento delle probabilità di impiego futuro.
Inoltre il centro UniCampania, laddove l’offerta formativa presente nella regione
Campania non soddisfi appieno le necessità dell’azienda richiedente, si farà esso
stesso promotore di percorsi formativi creati ad hoc (master, corsi, seminari, dottorati, ecc) organizzati con l’apporto sinergico di risorse economiche, umane, e tecniche dei soggetti appartenenti all’ATS; in questo modo, si avrà una formazione al
contempo di qualità nei suoi presupposti generali e precisa e rigorosa sui saperi specifici. Con appropriati strumenti economici, sociologici e statistici, si condurranno,
poi, osservazioni e analisi per avere un’adeguata prospettica temporale degli incroci tra mondi dello studio e mercato del lavoro e, attraverso il monitoraggio del li-
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vello di efficienza e di efficacia raggiunto e del livello di soddisfazione generato, si
attueranno sistemi di valutazione affinché siano assicurati degli elevati standard
qualitativi. Questo è un obiettivo importante non solo da un punto di vista professionale ma anche da una prospettiva sociale; infatti se l’offerta formativa sarà in linea con le esigenze delle aziende campane, le persone altamente formate e professionalizzate, saranno più facilmente assorbite dal mercato del lavoro regionale ponendo così un freno all’allarmante fenomeno della “Fuga dei Cervelli”, l’abbandono cioè della propria terra d’origine da parte di professionisti o persone con un alto livello di istruzione, generalmente in seguito all’offerta di condizioni migliori di
paga o di vita, fenomeno questo preoccupante non solo da un punto di vista umano per i tanti che affrontano un trasferimento non per scelta ma per allontanarsi da
un presente privo di prospettive, ma soprattutto, ponendosi in una visione più ampia, per lo sviluppo dell’intera regione, per la crescita economica, sociale ed anche
culturale che senza risorse umane specializzate e professionalizzate non riesce ad
emergere. Solo contrastando l’emigrazione delle menti dalla Campania, si può sperare in un futuro non troppo lontano, una riqualificazione del territorio, una rinascita appunto sociale, culturale ed economica della nostra regione che potrà in questo modo diventare altamente competitiva in un mercato sempre più globale.
Il Centro Interuniversitario di Orientamento per l’Alta Formazione in Campania, i
cui servizi saranno organizzati ed erogati in modo da sostenere, con attività di tutorato ed orientamento, i discenti della formazione post-laurea durante tutta la loro vita lavorativa, sarà la prova tangibile della volontà propria dei soggetti dell’ATS
UniCampania di attuare una gestione unitaria e centralizzata dei servizi di orientamento e a supporto dei destinatari della formazione post-laurea al fine di garantire
loro stabilità, informazione, trasparenza ed assistenza; non si presenterà semplicemente come una struttura che, organizzata secondo i principi di una buona comunicazione, sarà in grado di fornire tutte le risposte alle domande dei propri utenti
inerenti le molteplici e svariate possibilità formative offerte in tutta la regione Campania, ma sarà un vero e proprio ponte di collegamento con il mercato del lavoro,
un organismo che opererà mantenendo costantemente una strategica connessione
tra gli universi accademici e le realtà aziendali attraverso strumenti specifici ed adeguati alle singole necessità. Un centro interuniversitario realmente al servizio dei
giovani laureati che, si spera, non saranno più costretti a lasciare la loro terra alla ricerca della realizzazione professionale ma che potranno finalmente scegliere di rimanere (o andare via). (Emilia Ferone)
L’ Ucsi in Terra Santa: un viaggio alla ricerca della “notizia”
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n viaggio nella terra di Gesù può compiersi in serenità di spirito e
pienezza religiosa seguendo una geografia particolare, consultando
solo la mappa delle parole dei sacri Testi e le pietre dei luoghi santi. Con
questo metodo il gruppo dei giornalisti dell’UCSI (Unione Cattolica della
Stampa Italiana), organizzatrice del pellegrinaggio, ha compiuto il suo iti-
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nerario guidati da Mons. Edoardo Manichelli, Arcivescivo della Diocesi di
Ancona-Osimo. Ma il metodo ha subito un duro colpo: il tempo di lasciare l’aeroporto di Tel Aviv e verso nord, vedere il muro, un tuffo nel concreto del quotidiano e nella sofferenza.
E allora si è verificato un processo di sintesi, si è innestato nella spiritualità
la realtà dell’oggi, una realtà che è ancor più pesante di altre perché viva
nella terra che dovrebbe essere quella della pace e della fraternità. E così il
viaggio ha avuto un significato più profondo, attento,penetrante e indagatore. La lunga storia di quella Terra era lì, testimoniata da innumerevoli segni, una lunga stratificazione di popoli e di civiltà, un filo ininterrotto di avvenimenti che hanno segnato il processo storico dell’umanità.
E questo viaggio-pellegrinaggio non poteva non cominciare che a Nazareth, il luogo della sorgente della “Notizia”, il luogo del vero mistero. Non
possiamo a questo punto non nominare Padre Frédèric Manns, un padre
francescano, studioso illustre e di vasta cultura, un “archeologo-biblista”,
che ha guidato il gruppo alla ricerca continua della “Notizia”, con assoluto rigore scientifico, ma nello stesso tempo con una severa intensità di fede. Amava ripetere: “le pietre, i documenti, la fede”.
L’itinerario ha seguito uno svolgimento classico, ad ogni tappa emergevano cose nuove, mai sentite prima, che facevano impallidire le modeste conoscenze religiose e culturali di noi tutti, ma che hanno consentito di compenetrare sempre più il mistero e la grandezza di quella Terra. Dalla Basilica dell’Annunciazione al Lago di Tiberiade, dal Monte delle Beatitudini al
Monte Tabor. A Nazareth il primo incontro con la realtà dei cristiani, l’incontro con il Vescovo Giacinto Boulos Marcuzzo, che ha illustrato le difficoltà dei cristiani, i loro problemi, i timori per il futuro.
E si tratta poi di cristiani palestinesi, cittadini israeliani dal 1948, l’anno di
nascita dello Stato di Israele e che quindi vivono in una condizione assai
diversa dai palestinesi cristiani di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est.
E’ apparso in tutta la sua serietà il problema dei cristiani oggi, colpiti da
una diminuzione numerica preoccupante, che sembra non arrestarsi.
Lo si è visto a Betlemme, chiusa dal muro, deserta di pellegrini, con una
economia agonizzante e prodromi evidenti di una definitiva cancellazione.
Ma anche la scoperta della volontà di non “mollare”.
Due esempi fra i tanti: padre Ibrahim Faltas, egiziano di nascita e madre
Sophie, libanese. Il primo, balzato alle cronache qualche hanno fa quando
fu assediata la Basilica della Natività, dove si erano rifugiati un gruppo di
“terroristi”, che si impegna nella costruzione di case per palestinesi cristiani nel tentativo di arrestare la diaspora cristiana. Madre Sophie, è un
personaggio che ti si conficca nel cuore.
Il suo mondo: “la Crèche” , che in francese vuol dire tante cose, presepio,
mangiatoia, nido d’infanzia, stanza, casa. E’ parola che deriva da Greggio,
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il primo presepio francescano. E la “ Crèche”di madre Sophie è tutto questo, ma è primo fra tutto il luogo dove si salvano i neonati abbandonati , si
proteggono giovani madri e si dà assistenza medica a tante donne. E’il luogo dove il vociare dei piccoli, lo sguardo dei loro occhi, ti fa precipitare nella realtà dura e difficile del presente, delle contraddizioni della politica e del
peso delle incomprensioni religiose.
A pochi metri la Basilica della Natività, il muro con i cancelli- varco da
maximun security prison e poi l’eco della preghiera del muezzin. Le madri
Sophie stanno lì a ricordare che il messaggio di Gesù è carità e a noi che
dobbiamo fare qualcosa. Un assaggio di politica lo si ha, sempre a Betlemme, con il Ministro del Turismo, unico cristiano del precedente Governo
palestinese, Judeh G. Morkus che, pur non nascondendo forti preoccupazioni, fa balenare qualche speranza per un possibile accordo per costituire
un governo di unità nazionale fra Hamas e Al Fatah, quando nessuno
avrebbe scommesso un centesimo.
Il viaggio continua lungo dalla valle del Giordano verde e fonte di vita spirituale per noi cristiani, ma anche origine di millenari scontri mai sopiti, al
Mar Morto, alla scoperta di Qumram con gli stimolanti segreti degli esseni, dove le pietre ogni giorno offrono nuove verità e padre Manns straordinarie spiegazioni. Si sale e alla luce del tramonto ci appare Gerusalemme.
Gerusalemme!
Tre giorni pieni di spiritualità, nel ripercorrere i Luoghi Santi per gli ebrei e
i cristiani. L’emozione della basilica del santo Sepolcro, l’incontro con le altre Chiese, il pregare, l’entrare in processione con Mons Menichelli che ad
ogni sosta trova le parole giuste per farci meditare.
Un incontro con il Nunzio Apostolico Mons. Antonio Franco ci aiuta a capire la complessità della situazione e i rapporti anche con lo Stato di Israele e il ruolo importante della Chiesa Cattolica e della Santa Sede in Terra
santa. Un altro incontro con la Comunità Ebraica Italiana, nella piccola ma
splendida Sinagoga ( trasportata a Gerusalemme da Castelfranco Veneto),
apre nuovi interessi e curiosità e ci svela la grande amicizia fra Mons.
Edoardo Menichelli e il dottor Elio Di Segni.
Ogni pellegrinaggio ha un suo significato. Questo dell’UCSI ha avuto certo quello della scoperta, scoperta di una situazione difficile, ma anche di volontà di pace, con tanti però.Ciò che è importante, lasciando la Terra Santa e non dimenticare tutti quelli che lì pregano, lavorano, soffrono.
(Angelo Sferrazza)
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LIBRI
RECENSIONI
correndo con attenzione questa gran mole di pagine, - tanto dense di fatti e valori, delitti e passione professionale, - viene da chiedersi se i due volumi, appartenendo alla storia del buon giornalismo, non rappresentino ancor più il “diario nero” di Torre Annunziata. Giancarlo Siani venne ammazzato sotto casa quando aveva compiuto i 26 anni e in tipografia era ultimata la composizione del suo libro Torre Annunziata un anno dopo la strage, dossier sugli affari camorristici nella città vesuviana. Quelle bozze, quegli originali, quelle righe di piombo sparirono con il loro autore. “Mai vista”, si disse l’indomani, col linguaggio arrogante dei boss di laggiù.
Ora, Pasquale Testa e le sue edizioni phoebus, raccogliendo in due splendidi tomi le
cronache di quel ragazzo dallo sguardo mite che aveva deciso: “da grande voglio fare il giornalista”, ne onora la memoria e la lucida determinazione; ma si offre anche come specchio limpido nel quale farebbe bene a guardarsi un po’ di gente che
gravita intorno al Golfo.
Come molte vocazioni precoci, Siani aveva esordito nel giornale scolastico e poi
scrivendo sul periodico Il lavoro nel Sud. Approda al Mattino di agosto, quando tanti
redattori sono in ferie, con l’inchiesta I giovani e la città. Cogliendone il talento e volendo inviare nei territori inquinati persone estranee all’ambiente, il direttore manda a Torre Annunziata come corrispondente proprio il poco più che ventenne
Giancarlo, figlio della borghesia medio-alta di Napoli. Dall’83 inquadrato nella redazione di Castellammare di Stabia ma pur sempre precario, svolge un lavoro davvero straordinario.
Economia in crisi per il processo di de-industrializzazione e terziario di là da venire, tanti lavori pubblici come ancora di salvezza costituiscono il terreno di coltura
privilegiato dalla malavita, talora aiutata dalla dirigenza pubblica. E’ in questo terribile impasto che si muove il giovane aspirante giornalista. Racconta fatti di camorra, racket, droga e mercati violati, di famiglie malavitose in lotta, di sindaci e assessori deboli o concussi, come delle speranze dei giovani che sfilano a migliaia per
quelle strade insanguinate.
Accorgendosi dei rischi mortali che stava correndo, il giornale chiamò Siani alla redazione centrale per occuparsi di fatti napoletani: ma non bastò a salvarlo. “Giancarlo
Siani sacrificò la giovane vita e il suo valore per essere fedele ai suoi ideali e al suo coraggio” annota Francesco Barbagallo nella prefazione. “Senza volere si è iscritto nella esigua schiera degli eroi e dei martiri, in un paese che purtroppo ne ha bisogno, dato che è popolato di opportunisti e di trasformisti. Giancarlo non sarebbe mai stato
dei tanti che si occupano solo degli affari loro. Ma voleva fare solo il giornalista”.
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GIANCARLO
SIANI Le parole di una vita Gli scritti
giornalistici
Phoebus edizioni,
2 voll. pp. 875
s.i.p.
GIOVANNINO
GUARESCHI Mondo Candido (19581960)
Rizzoli,
pp. 550,
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LEO LONGANESI
Una vita Longanesi , pp. 158,
€14.60
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Questi due volumi antologici si affiancano naturalmente alla biografia che di Siani
ha scritto Antonio Franchini, oggi autorevole editor della narrativa Mondatori, allora amico e collega in precariato di Giancarlo. Era il 2001, e lo notò Carlo Bo che
lo fece premiare col Fabriano. Peccato che di quel bel libro, che ne racconta la vita
e le ansie viste così da vicino, fra i tanti che ne hanno scritto ora nessuno vi abbia
fatto menzione.
Giovannino Guareschi fu il fondatore, con Giovanni Mosca, del settimanale Candido nel 1945; dal ’50 al ’57 lo diresse da solo e vi scrisse fino al ’61; poi collaborò al
Borghese, a La Notte e a Oggi. Gran giornalista, cattolico e orientato a destra, con gli
scritti e le vignette – come allora si chiamavano – riuscì a incidere per davvero sugli uomini e i fatti della politica e del costume. E raggiunse l’apice del paradosso
scrivendo sulla medesima pagina “Visto da destra” (con la firma Caesar) e “Visto
da sinistra” (Spartacus).
Qui ci interessa anche ricordare un suo tagliente giudizio sul giornalismo italiano di
allora, espresso quando il medico Galeazzi Lisi vendette le foto di Pio XII morente. Alla stampa che si strappava le vesti per l’indignazione, Guareschi obiettò che
“avrebbe fatto assai meglio a indignarsi con se stessa: in dieci e passa anni di scandalismo, la stampa italiana ha violato ogni intimità e ogni riservatezza. Ha abbattuto tutte le porte e, dove non ha potuto abbattere le porte, ha occhieggiato attraverso il buco della serratura o dal finestrino del gabinetto”.
Erano gli anni dal ’50 al ’60. E questo è il quinto dei volumi che i figli Alberto e Carlotta continuano a selezionare e pubblicare.
Un altro grande del giornalismo italiano del passato, del quale si vanno lodevolmente ripubblicando le pagine più significative, è certamente Leo Longanesi. Ora
esce un libro tanto anomalo quanto straordinario: l’autobiografia, intitolata Una vita, raccontata attraverso settantatre incisioni, accompagnate da brevi e altrettanto
nitide didascalie, affioranti fra puntini di sospensione. Autoironico e schietto, svela
il proprio intimo di piccolo borghese italiano, sfidando il lettore a completare la trama del romanzo con la storia e le parole del suo proprio vissuto. Geniale.
(Paolo Scandaletti)
RYSZARD
KAPUSCINSKI
Autoritratto di
un reporter
Feltrinelli,
pp. 116, € 10,00
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Fare il reporter è la mia vita. Anzi, un modo di vedere il mondo: un modo di vedere che non cambierei con nessun altro”. Tale affermazione, posta a chiusura
del volume, riassume in modo estremamente chiaro l’alto valore attribuito alla professione giornalistica da Ryszard Kapuscinski, uno dei maggiori esponenti del giornalismo letterario internazionale. Il libro rappresenta una raccolta di alcune delle
molteplici interviste, conversazioni e lezioni universitarie lasciateci dal giornalista
polacco, recentemente scomparso, a testimonianza della sua intensa ed ineguagliabile carriera. Krystyna Straczek, curatrice del volume, da un materiale di migliaia di
pagine, ha infatti selezionato i testi maggiormente significativi affinché si potesse
evincere la straordinaria personalità di uno dei maggiori reporter del nostro tempo
definito come un vero e proprio “giornalista-missionario”.
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Il libro, suddiviso in cinque sezioni tematiche, ripercorre la vita del giornalista dall’infanzia trascorsa a Pinsk, nella Polonia orientale, oggi Bielorussia, alle ragioni che
lo hanno condotto a scegliere la professione di reporter, a come essa sia cambiata
nel tempo, passando attraverso la sua passione per i suoi viaggi, le letture compiute, gli esempi che lo hanno guidato e le principali tematiche trattate nei suoi libri.
Testimone di ben 27 guerre scoppiate in tutto il mondo, prima come corrispondente dell’agenzia di stampa polacca PAP e poi in qualità di giornalista indipendente, Ryszard Kapuscinski è riuscito a cogliere, attraverso i drammi e le speranze della gente comune, il senso profondo di questi terribili eventi.
“Descrivere avvenimenti autentici e persone autentiche - ha spiegato il giornalista
polacco - usando le forme e lo stile di quella che noi chiamiamo narrativa e gli americani fiction”.
I suoi reportage dall’Africa, dal Medio Oriente e dal vecchio impero sovietico rappresentano pagine di storia dal valore inestimabile, proprio perchè raccontate con gli
occhi dei protagonisti e non per mezzo dei resoconti ufficiali dei detentori del potere. Questo il motivo per cui Kapuscinski appare così critico nei confronti dell’attuale sistema mediatico: non rappresentando più come in passato un’opposizione al
mondo economico e politico, esso ha modificato la propria posizione affiancandosi
al potere e rinunciando a contestare e polemizzare sulle questioni di principio.
A parere dell’autore, ciò si è verificato a causa di un giornalismo che non è più uno
stile di vita, un’attività intenzionale che si prefigge uno scopo e che auspica dei cambiamenti, ma semplicemente un modo di fare soldi, di una informazione, diventata
il business più redditizio, guidata dal criterio dell’attrattiva e non più della verità, e
della debolezza di un insegnamento universitario della professione che ha iniziato a
privilegiare gli aspetti tecnici del mestiere a discapito della sensibilità e di ciò che il
reporter definisce come “preparazione etica”.
Una sorta di libro-testamento, volto non solo a rendere nota la straordinaria figura
di Ryszard Kapuscinski, ma soprattutto a spiegare un modo di intendere la professione giornalistica che lo stesso reporter ammette "non essere più la norma, ma
l'appannaggio di pochi franchi tiratori". (Camilla Rumi)
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Nell'attuale società, dove il digitale prevale sull'analogico, dove la digitalizzazione dei segnali ha permesso la globalizzazione della comunicazione, lo sport, gli
avvenimenti sportivi, atleti, allenatori, sponsor e quant'altro ruota attorno a questo
mondo entrano in modo dirompente nella vita quotidiana di ciascuno, diventando,
molto spesso, fatto di costume”.
In queste parole trova una giusta sintesi “Sport Comunicazione Scuola”, il volume
di Lucina Salvato edito dall'Asis (associazione italiana stampa scolastica) di Messina, con la prefazione del compianto prof. Aldo Nigro.
Quello che l'autrice (docente di un Liceo Classico di Messina) propone è un vero
e proprio excursus storico che, partendo dalla parola sport, traccia l'itinerario, anche cronologico, del rapporto tra scuola, comunicazione e sport.
“Sono certamente - scrive l'autrice - alcuni sport più di altri (grazie anche e so-
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LUCINA
SALVATO
Sport Comunicazione
Scuola
Ed. Asis
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prattutto al business economico che ruota attorno a loro ed a cui la pubblicità, attraverso i mezzi di comunicazione, dedica molto spazio), che la fanno da padroni,
come ad esempio il calcio.
Le lunghe, quotidiane trasmissioni sul calcio bombardano in modo ossessionante
un pubblico sempre più numeroso, di qualunque età, cultura e ceto sociale.
Lo sport, che anche nella cultura delle civiltà primitive era utilizzato come mezzo di
divulgazione, diventa (per usare un linguaggio moderno) un' "emittente" estremamente suggestiva, dove, spettacolo nello spettacolo, si rincorre la spettacolarità sensazionale, perdendo quella raffinata e ideale coscienza, che lo sport aveva conseguito nel mondo greco. Qui, lo sport, pur non trascurando un sano e acceso spirito agonistico, assurgeva a momento essenziale dell'educazione e la distinzione tra
dilettantismo e professionismo, con la condanna di quest'ultimo, rivelava quale maturo senso etico avesse raggiunto. L'atleta era non solo espressione della vigoria fisica, ma anche di qualità morali; quindi, era anche un valoroso soldato”.
Nel mondo antico l'esercizio fisico era scuola di formazione di virtù civili e militari; il raggiungimento della bellezza fisica, espressione delle classi sociali più alte.
“Il professionismo esasperato dei tempi moderni, in una società dal consumismo
spinto, velocizzato dall'era del computer, ha portato - sono ancora parole della professoressa Salvato - a puntare i riflettori sugli atleti (emissari), amplificandone smisuratamente "le gesta". Si sottolineano, in modo esasperato, gli ingaggi da capogiro e si
dà eccessivo risalto, piuttosto che al fatto sportivo, all'aspetto economico-speculativo.
Si trattano gli atleti come divi, corteggiandoli e viziandoli nel loro divismo (anche questo fa parte dello spettacolo e produce audience), che però troppo spesso sfocia in atteggiamenti discutibili sul piano della correttezza e della compostezza, diventando
spettacolo spazzatura e violento, come al tempo dei Romani, nei giochi circensi, figli
di una decadenza di costumi e frutto di una società pagana fondata su immagini”.
Nella nostra era tutto è immagine, cioè, apparenza gestita dalla tecnologia.
Gli atleti rivestono oggi, come ieri, un ruolo di veicoli di messaggi. “Secondo queste considerazioni, - sottolinea ancora l'autrice - lo sport diventa emittente, gli atleti gli emissari, il pubblico destinatario di questi messaggi. Attraverso questo suggestivo mezzo di comunicazione, al quale sin dai tempi più antichi si è riconosciuto
un grande potere di divulgazione con immagini, suggestioni, simboli (esempi), si
riesce sicuramente a raggiungere e condizionare un pubblico numeroso, svariato e
sfaccettato. Da qui l'esigenza di un'etica sportiva quanto mai rigorosa, ispirata a
principi di oggettiva moralità, buon gusto e onestà”. (Lorenzo Ruggiero)
MASSIMO NAVA Il Francese di ferro
Ed. Einaudi
pag. 275 € 15,50
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e elezioni del nuovo Presidente della Repubblica Francese passeranno alla storia come un caso di studio per il totale rinnovamento del modo di fare propaganda elettorale. E’ tramontata la vecchia Francia dei notabili, dell’ingessatura dei
partiti, degli slogan tradizionali, dei comizi.
Con forza sono apparse le nuove tecnologie e il modo di usarle, da internet ai blog. Un
esempio: Segolène Royal, la prima candidata donna alla Presidenza nella storia francese, ha trascinato su internet un popolo nuovo, tanto che, proprio grazie ad internet, il
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PS ha aumentato i suoi iscritti di un terzo in pochi giorni. Una campagna elettorale rivoluzionaria dunque rispetto al passato. E poi i sondaggi: anche questa una novità.
Quotidianamente quattro o cinque maisons sondaggistiche tengono col fiato sospeso i
candidati che debbono mutare le loro campagne e risvegliano gli indecisi. Massimo Nava corrispondente da Parigi de Il Corriere della Sera e certamente uno fra i più attenti
conoscitore di cose francesi ha pubblicato con Einaudi un bel libro su Nicolas Sarkozy,
candidato della “destra” e noto all’estero soprattutto per la durezza con cui ha guidato il Ministero degli Interni durante la rivolta delle periferie parigine e di altre città. Lo
ha studiato a fondo e ce ne fornisce una immagine diversa e nuova: il figlio di emigrati ungheresi con “il cervello a destra e il cuore a sinistra”. Pieno di idee, progetti, mai
un momento fermo, disponibile, diverso ed “estraneo” alla tradizione dei vecchi politici francesi, mentre Segoléne Royal non sembra sia riuscita a sganciarsi dalla struttura dell’apparato partitico. Sarkozy sembra dominare con estrema capacità e disinvoltura il rapporto con i mezzi di comunicazione e soprattutto con i giornalisti.
Questa è la convinzione di Massimo Nava, che non nasconde una sua ammirazione
per Sarkozy. Certo Sarkozy è un candidato ideale per i giornalisti, tanto che Nava intitola un capitolo” Giornalisti, amore mio”. Scriva Nava: “La parola è la sua cavalleria.
E lui parla sempre”. E’ una analisi assai profonda quella che fa Nava del rapporto
del candidato Sarkozy con la comunicazione e che va al di là del personaggio.
Continua l’A. “fra il candidato e i giornalisti non esiste la barriera fra “off ” e “on”. C’è un
qualcosa di kennediano nel personaggio, ma, crediamo forse per il modo di lavorare della sua squadra. Un libro interessante che aiuta a capire una elezione nuova con la trasformazione del linguaggio e il ruolo, anche se in parte previsto, della “rete”. Solo che nell’ultima parte della campagna elettorale, a libro pubblicato, è apparso, a scompaginare i giochi, un terzo incomodo, il centrista Francois Bayrou. Un candidato pacato, rassicurante e
molto “francese”. Anche lui aiutato dai mezzi di comunicazione, più che per la politica,
per aver aggiunto pepe ai sondaggi. Chissà come andrà a finire fra “il cavaliere elettrico”,
la “prima donna di Francia” e l’”uomo tranquillo”. Sondaggi a parte. (Angelo Sferrazza)
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a Francia è stata e con qualche difficoltà lo è ancora, uno dei Paesi che è riuscito a mantenere e difendere un suo ruolo, non solo di autonomia politica e
per certi versi di guida, ma anche di uno dei centri culturali del mondo. La lingua,
ora forse irrimediabilmente destinata al tramonto, è stata quella della grande letteratura, della diplomazia e…dell’amore. C’è stato in tutti i campi un modello francese e fra questi uno importante lo ha occupato il giornalismo. La veicolarità del francese, parlato e usato dalle classi dominanti e dalla politica, ha fatto sì che la stampa francese giocasse un ruolo politico importante che usciva dai confini nazionali.
Fabrizio Tonello ed Elisa Giomi con questo accuratissimo studio ne hanno ripercorso la storia dal dopo Rivoluzione fino ai giorni nostri.
Nella prossima edizione dovranno aggiungere un capitolo sul comportamento nuovo e per certi versi inedito della comunicazione nell’ultima campagna elettorale presidenziale! Le 144 pagine, che sembrano poche per raccontare più di duecento anni di giornalismo francese, in effetti sono così piene di analisi ed informazioni, che
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FABRIZIO TONELLO ELISA
GIOMI Il
giornalismo
francese Ed.
Carocci pag.
144. € 9.50
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il lettore alla fine ha un quadro completo della materia che va ben oltre lo specifico. Attraverso il racconto della stampa e poi delle nuove tecniche di comunicazione, si percorre la storia politica, economica e culturale della Francia.
I giornali francesi hanno sempre colpito per la loro qualità, per la loro autorevolezza e la diffusione anche regionale con tirature incredibili. Già nel 1914, anno di entrata in guerra, si vendevano 244 copie ogni 1.000 abitanti con una tiratura complessiva di 9.500.000 copie. Nota importante: il tasso di analfabetismo alla leva militare di quell’anno risultava solo del 4%. All’occhio esterno ed attento e sensibile
quello che ha sempre colpito della stampa francese è quell’impasto profumato di
cultura che i giornali hanno sempre avuto nell’ottocento proseguito poi per gran
parte del novecento, almeno fino alla sopravvivenza dei grandi “Maitres à penser”
uno dei quali fu certo Francois Mauriac che abbandonò il vessillifero della grande
borghesia, Le Figaro, in polemica per la guerra colonialista in Algeria ed iniziò la sua
collaborazione con l’Express, quel famoso settimanale che tanto influì nella politica,
non solo francese, dagli anni cinquanta per oltre un ventennio.
Ma la stampa francese, certo più di quella italiana, ha avuto ed ha ancora un rapporto molto stretto, forse in certi momenti anche troppo, con la grande finanza e i
centri di potere economico.
Di grande rilievo le analisi degli AA.. Questa peculiarità distingue il giornalismo
francese da quello americano, che i professori Tonello e Giomi portano giustamente come esempio di altro modello giornalistico.
Nell’immagine più comunemente conosciuta anche dai non specialisti e da quelli
che non sono esperti di cose francesi le due testate che incarnano le due facce del
giornalismo francese sono il ricordato Le Figaro e Le Monde.
Ma la storia avanza anche in Francia, anche se talvolta sembra più lentamente che
altrove e anche il mondo della comunicazione deve fare i conti con tutti i cambiamenti, tecnologici, economici, culturali e di costume.
Di notevole interesse la parte dedicata alla radio e alla televisione. Anche qui emergono profonde differenze fra Francia e Italia, se non altro per il diverso rapporto
fra pubblico e non monopolistico assetto proprietario del privato.
Per ora il fenomeno più appariscente è il crollo verticale delle tirature.
Gli autori si chiedono giustamente alla fine del loro viaggio nel mondo del giornalismo francese: l’”anomalia” della Francia è finita? Per chi ama la Francia verrebbe
da dire:”speriamo di no”. (a.s.)
LIBRI RICEVUTI
EZIO BERARD
Il coraggio di testimoniare la fede
Ed. Arti Grafiche e E.Duc, pag 160 sip
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