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S O M M A R I O 3 Lucio d’Alessandro Proposta legge Mastella: riforma e disciplina professioni PROFESSIONE 7 10 15 22 Rosa D’Ettore Valentina Alazraki Giorgio Tonelli Guido Mocellin Fotogiornalismo: tra pubblicità e denuncia La comunicazione dei due Papi Dalle piazze al potere editoriale Informazione religiosa? Fa sempre più notizia STORIA E CULTURA 25 29 32 37 Natascia Villani Emilio Rossi Alessandra Dionisio Roberto Sgalla Le mutazioni del linguaggio politico Cittadini merce di consumo? Allora non è tv pubblica Medici detective in tv: e negli ospedali normali si muore Comunicare per rassicurare: un impegno della polizia TESI DI LAUREA 41 42 44 46 Filippo Storani Cristiana Paladini Francesca Ieracitano Valentina Cimmino Il giornalismo musicale Gli spazi di inclusione degli stranieri in città Processi di produzione e riproduzione culturale nella postmodernità Il giornalismo di Walter Tobagi CONVEGNI E CONGRESSI 48 50 51 53 54 56 Antonella Scutiero Camilla Rumi C.R. Marianna Berti Emilia Ferone Angelo Sferrazza NAPOLI Le professioni della comunicazione: il DDL Mastella ROMA Tv e minori: Il bilancio del 2006 ROMA La riforma del sistema della comunicazione ROMA Informazione ed oggettività NAPOLI Unicampania: centro di orientamento interuniversitario ISRAELE L’Ucsi in Terra Santa: viaggio alla ricerca della “notizia” LIBRI 59 Paolo Scandaletti 60 61 62 63 Camilla Rumi Lorenzo Ruggiero Angelo Sferrazza A. S. Giancarlo Siani, Le parole di una vita-Gli scritti giornalistici Giovannino Guareschi, Mondo Candido (1958/1960) Leo Longanesi, Una vita R. Kapuscinski, Autoritratto di un reporter Lucina Salvato, Sport comunicazione e scuola Massimo Nava, Il Francese di ferro F. Tonello, E. Giomi, Il giornalismo francese EDITORIALE 1 n. 4/2006 DESK DESK C U LT U R A E R I C E R C A D E L L A C O M U N I C A Z I O N E Rivista trimestrale Università Sr. Orsola Benincasa e Ucsi Anno XIV n. 1 DIRETTORI Paolo Scandaletti (responsabile) Lucio D’Alessandro COMITATO SCIENTIFICO Francesco M. De Sanctis (Presidente) Giuseppe Acocella Ermanno Bocchini Pasquale Borgomeo Isabella Bossi Fedrigotti Enzo Cheli Massimo Corsale Piero Craveri Lucio D’Alessandro Derrick De Kerckhove Ornella De Sanctis Gianpiero Gamaleri Paolo Mazzoletti Massimo Milone Mario Morcellini Agata Piromallo Gambardella Emilio Rossi Paolo Scandaletti Franco Siddi COORDINATORI DI REDAZIONE Roma: Rosa Maria Serrao 06/68.80.28.74 fax 06/45.44.96.21 cell. 392/00.19.687 e-mail: [email protected] Napoli: Arturo Lando Andrea Pitasi cell. 339/22.65.709 e mail: [email protected] Proprietà ed Editore: Ucsi GIUNTA ESECUTIVA Massimo Milone (Presidente) Angelo Sferrazza (Vicepresidente), Giorgio Tonelli (Segretario), Francesco Birocchi (Tesoriere), P. Pasquale Borgomeo (consulente ecclesiastico), Maurizio Del Maschio, Paolo Lambruschi, Andrea Melodia, Antonello Riccelli, Giuseppe Vecchio Finito di stampare: aprile 2007 da CSR - Roma, Via di Pietralata 157 E D I T O R I A L E LEGGE DELEGA MASTELLA: RIFORMA E DISCIPLINA PROFESSIONI LUCIO D’ALESSANDRO S Lucio d’Alessandro, è preside della Facoltà di Scienze della Formazione all’Università Sr Orsola Benincasa di Napoli. Dirige questa rivista insieme a Paolo Scandaletti 3 e c’è un domanda frequentissima a cui gli addetti all’orientamento universitario trovano tuttavia costantemente difficile rispondere è quella che chiede a quali attività professionali potrà accedere il giovane che consegua una delle molte lauree che il mercato dell’offerta formativa degli Atenei ha predisposto, certamente, rivolgendosi ai giovani, ma non sempre, bisogna dirlo con forte senso di responsabilità, nel loro vero interesse. Le obiettive ragioni della difficoltà di rispondere ad una tale domanda sono molteplici. Tra le prime, volendo continuare nel solco di un’autocritica verso il sistema universitario è quella del tradizionale disinteresse degli Atenei verso il tema della sistemazione dei propri allievi. Ed infatti le Università, specie quelle di Stato che in Italia sono la stragrande maggioranza, individuando principalmente nello Stato il proprio committente e referente hanno tradizionalmente ritenuto loro principale se non esclusivo compito quello di elaborare e fornire saperi, spesso escludendo esplicitamente dal proprio orizzonte ogni idea di formazione alla professionalità ed al mercato del lavoro. Affinché quanto sopra non venga ascritto ad una sorta di irresponsabilità storica del sistema universitario italiano è bene ricordare che a monte di tale atteggiamento vi era una robusta e dignitosissima elaborazione teorica per la quale il primato e la libertà del sapere e della ricerca si giustificano ed erano possibili in ragione principalmente della loro purezza. Compito delle Università e dei suoi docenti era essenzialmente quello di fare ricerca, cioè elaborare sapere. Il suo trasferimento ai giovani era già un compito, in qualche modo, ulteriore pur attuato in piena serietà. Il fatto che i saperi si dovessero organizzare tra loro competenze professionali attuali era un dato che riguardava piuttosto il mondo esterno delle professioni e delle pratiche che non n. 4/2006 DESK E D I T O R I A L E un compito specifico della formazione universitaria. Di qui un obiettivo deficit di tradizione nel dare risposta alla ricordata domanda iniziale degli studenti. D’altra parte non tutte le università, anche in una contemporaneità nella quale l’importanza della committenza studentesca si è fatta più incisiva per l’accrescersi inevitabile dei costi della formazione universitaria a carico degli utenti (famiglie-studenti) sono riuscite ad adeguarsi alle nuove esigenze. Prova evidente di ciò è nella moltiplicazione di curricula universitari, spesso davvero insignificanti sul versante professionale cui le Università hanno dato luogo nell’ambito della riforma e dell’autonomia. Questo è accaduto un po’ in tutti i settori dello scibile ivi compreso quello della comunicazione di cui questa rivista particolarmente si occupa e, bisogna dirlo con una equa distribuzione del nord al sud del Paese. Dunque una università incapace di rispondere alla nuova domanda di professionalizzazione perché attardata, sia nel suo rapporto con l’utenza, sia nel proprio riflettersi principalmente in se stessa e nelle sue esigenze istituzionali. Si deve, tuttavia, aggiungere che la stessa domanda posta dagli allievi e dalle loro famiglie risulta di difficile risposta perché appesantita da un altro, simmetrico, ritardo: il permanente riferimento ad un’idea di lavoro come “posto fisso” che appare sempre più lontana dalla corrente realtà del mercato del lavoro professionale italiano e “mondializzato”. Vi è inoltre un terzo livello di difficoltà, è quello normativo posto che l’argomento dell’accesso alle professioni e del rapporto formazione-professioni rientra, come spesso accade in Italia, nelle competenze istituzionali di numerosi Ministeri (Grazia e giustizia, Università, Pubblica Istruzione, Finanza Pubblica, Lavoro…). La difficoltà ulteriore è allora quella di conoscere, nel meandro delle norme che regolano in questo Paese praticamente tutto, quale sia poi effettivamente la disciplina delle diverse professioni, non di rado caratterizzata da evidenti distorsioni spesso legate alle capacità di pressione lobbystica dei gruppi di riferimento. Faccio un esempio che, pur non riguardando l’ambito della comunicazione, riguarda da vicino altri laureati e migliaia di giovani di tutto il territorio nazionale. Mi riferisco al caso dei laureati quadriennali in Scienze dell’Educazione ai quali è DESK n. 1/2007 4 E D I T O R I A L E stato offerto, prima dalla legge e, poi, dalle Università della Repubblica la formazione per il titolo di educatore professionale. Non si tratta dunque di un curriculum inventato da questa o quella Università della Repubblica (come nel caso delle lauree triennali); si tratta, invece, di una laurea pre-riforma, stabilita dallo Stato con tutti i canoni e crismi possibili. Ebbene semplicemente questi laureati non possono partecipare ai concorsi per la professione di educatore professionale banditi dalle ASL: essi sono, infatti, riservati a coloro i quali abbiano fatto corsi regionali sul cui frequente livello non intendo dilungarmi. Un’evidente distorsione, di difficile comprensibilità, se non nel quadro dell’evidente confusione che regna nel sistema professionale italiano e della possibilità che in esso trovino spazio non sempre obiettivo interessi organizzati. Una premessa forse troppo lunga per indicare quanto bisogno di chiarezza vi sia sul rapporto tra formazione ed accesso alle professioni il tema di cui si occupa, in un auspicato tentativo di razionalizzazione e sistemazione, il disegno di legge cosiddetto Mastella. L’argomento delle “regole” delle professioni riguarda forse in maniera, anche più urgente ed incisiva di altri, il settore della comunicazione certamente il più interno al velocissimo cambiamento che sta interessando la società globalizzata, quasi il sensibilissimo termometro di questa epocale mutazione genetica tra mondializzazione ed esplorazione della comunicazione (che fosse della stessa medaglia. È appena il caso di ricordare infatti come, proprio nel campo della comunicazione siano venute fuori una serie di professionalità nuove che si vanno aggiungendo a quella più tradizionale del giornalismo: esperti di marketing, di pubblicità, di editing, di comunicazione pubblica di relazioni pubbliche di grafica di comunicazione medica, scientifica… per non parlare degli infiniti personaggi che gravitando nel mondo dello spettacolo e delle arti, sono diventati effettivi protagonisti della contemporaneità sociale ed economica. Con effetti, lo vediamo tutti, ogni giorno, non sempre positivi. La proposta di legge Mastella tiene conto di due esigenze specifiche: da un lato quella di riformare gli ordini professionali ‘storici’ la cui disciplina, spesso risalente ad epoche storiche ormai 5 n. 1/2007 DESK E D I T O R I A L E tramontate, non sembra più rispondere pienamente alle esigenze di una società moderna; dall’atro, quella di garantire una disciplina anche a quelle nuove professioni attualmente prive di una organizzazione ordinistica che pure aspirano a una qualche forma di regolamentazione e, soprattutto, di un riconoscimento ufficiale. Certo non facile compito quello di favorire l’apertura di professioni che appaiono ancora caratterizzate da un’eccessiva rigidità – soprattutto al momento dell’ingresso – con quella di garantire anche alle nuove professioni uno status giuridico che tuteli non tanto e non solo l’interesse di categoria, quanto piuttosto vada nel senso della tutela degli interessi dei cittadini e dei diritti costituzionali espressamente richiamati dal disegno di legge delega predisposto dal ministro Mastella. Ancor più complessa appare, poi, la condizione di quelle professioni tipiche della moderna società della comunicazione dove l’esigenza di una disciplina serve soprattutto ad evitare che il cittadino possa trovarsi nella scomoda posizione di ‘vittima’ di professionisti improvvisati verso i quali il cliente rischia di dover faticosamente rintracciare la propria tutela all’interno delle sole norme codice civile, piuttosto che poter contare su un apparato di norme che gli stessi professionisti si sono autonomamente dati. Tali norme, infatti, dovrebbero, innanzitutto sul piano dell’etica professionale, tendere a tutelare la posizione dei cittadini/clienti escludendo la possibilità che presunti professionisti possano in qualche modo approfittare del ‘velo di ignoranza’ che spesso pone in difficoltà l’utente nei confronti delle nuove professioni. È il tema classico dei rapporti tra diritto e società: la difesa del cittadino dagli interessi corporativi deve tener conto dell’esigenza, sempre più sentita, di una società che possa finalmente fare a meno di una tutela imposta dall’alto, ma che al tempo stesso sia caratterizzata, dal basso, da un generalizzato principio di libertà responsabile. Lucio d’Alessandro DESK n. 1/2007 6 P FOTOGIORNALISMO TRA PUBBLICITÀ E DENUNCIA INTERVISTA A FRANCESCO ZIZOLA a cura di ROSA D’ETTORE F rancesco Zizola ha collaborato con Epoca, Panorama, Life, ha fatto parte della storica agenzia Magnum Photos. Da anni realizza reportage sulle condizioni dei bambini che vivono in zone di guerra, limitandosi a raccontare la realtà, a fare fotogiornalismo. In quest’intervista è lo stesso fotogiornalista a spiegare cosa significhi per lui la fotografia, da cosa nasce la sua inchiesta sui bambini rappresentata attraverso il bianco e nero e a delineare quale sia la situazione del fotogiornalismo oggi in Italia. Ha studiato Antropologia all’Università “La Sapienza” di Roma, ora è fotoreporter con una ricca storia personale-professionale alle spalle. Quando e in che modo si è avvicinato alla fotografia? Quando cerco di indagare sull’origine del mio interesse per il linguaggio fotografico individuo sempre lo stesso ricordo che risale alla mia infanzia: mio padre che mi racconta della Seconda Guerra Mondiale e dei suoi ricordi di bambino impaurito sotto le bombe, del racconto del genocidio degli ebrei testimoniato “da immagini che valgono più 7 R O F E S S I O N E di mille parole” dalle fotografie scattate dentro i campi di sterminio appena liberati. Nel tempo quelle terribili immagini in bianco e nero hanno lavorato nel mio inconscio su diversi piani, fino a rendere palese che il trauma della visione si è trasformato in scelta di linguaggio e di testimonianza, in scelta di vita. Che cosa significa per lei la fotografia e quali significati può veicolare? La fotografia, rispetto a tutti gli altri linguaggi, ha l’obbligo intrinseco di raccontare la realtà che è fuori di noi. Infatti l’etimologia stessa ci dice che fotografia è scrittura di luce, e la luce illumina un mondo che è esterno alla nostra immaginazione. Il valore massimo di vincolo con la realtà si ha con il fotogiornalismo perché vincola con un patto etico l’operatore fotografo, che è giornalista, al suo pubblico; ciò che racconto è colto nella sua evidenza reale senza manipolazione. Il fotogiornalista interviene solo sul linguaggio attraverso una scelta rappresentativa ma non sulla realtà, licenza si concede la fotografia di moda per esempio, o quella di propaganda. La mia visione personale del fotogiornalismo è inizialmente etica, e poi un linguaggio che ha a che fare con gli uomini e il mondo in cui vivono. Il fotogiornalismo racconta gli uomini e il loro agire e può essere legittimato come racconto solo se il fotografo ne rispetta l’esistenza e la dignità. La fotografia oltre ad essere uno specchio della realtà è anche uno specchio dell’interiorità del fotografo stesso; nell’immagine fotografata vediamo la realtà rappresentata e leggiamo allo n. 1/2007 Rosa D’Ettore, Università Sr Orsola Benincasa, Napoli Il testo conclude la tesi di laurea in storia del giornalismo e della comunicazione sociale DESK P R O F E S S I O N E stesso tempo la scelta interpretativa del fotografo, e con essa il suo proprio universo culturale ed etico. Una buona fotografia giornalistica ha a che fare molto con il rispetto che il fotogiornalista ha del mondo e dei suoi abitanti. Ci sono dei fotografi che sono stati una sorta di punto di riferimento per il suo percorso formativo? Ci sono stati fotografi, ma soprattutto direi che ci sono state fotografie. Scolpita nella mia coscienza ho la fotografia della bambina ustionata che scappa nuda e a braccia aperte da un bombardamento di un villaggio in Vietnam. Un’immagine che viene dalla mia infanzia è quella del bambino scheletrico in braccio alla madre che porge la mano chiedendo cibo, relativa alla carestia in Biafra. Poi, crescendo, ho scoperto le fotografie di Cartier-Bresson, di William Klein, di Joseph Koudelka, di Robert Capa. Di fotografi che ammiro ce ne sono tanti ed ognuno mi ha donato una visione. Ogni giorno riceviamo immagini da ogni parte del mondo e di ogni tipo. Io cerco di far tesoro della capacità di alcuni di vedere, di applicare alla realtà fuggevole della vita la disciplina che ne consente la sintesi emotiva e reale in una frazione di secondo. Questa è la magia della fotografia e questa visione è ciò che ancora oggi mi emoziona. DESK Dal 2001 al 2005 ha fatto parte della storica Agenzia Magnum Photos. Cosa ha imparato lavorando per la Magnum e per quale motivo è andato via? Nel 2000 ho ricevuto l’invito a presentare il mio lavoro alla Magnum ed ero felice perchè molti dei fotografi che ammiravo e che avevano formato la mia n. 1/2007 passione per la fotografia erano passati dalla Magnum o vi lavoravano ancora. Il percorso con cui si diventa fotografi soci dell’agenzia è lungo. Durante la mia permanenza si sono verificate delle chiare idiosincrasie con una nuova generazione di fotografi che ha la pretesa di “rinnovare” Magnum a scapito della storia e dei valori espressi dai fondatori. Per questo, o più banalmente perchè le mie fotografie non si adeguavano al rinnovamento auspicato, non faccio più parte della Magnum. Dei numerosi riconoscimenti ricevuti, come il World Press Photo vinto nel 1995, 1997, 1998, 2002, 2005, a quali si sente più legato, e perchè? Devo molto a tutti i riconoscimenti internazionali ricevuti in questi anni, ma quelli più importanti li ho ricevuti da alcune persone, per esempio da una farmacista che leggendo il mio nome sulla carta di credito mi chiese se fossi il Zizola fotografo, le cui fotografie dei bambini di strada del Brasile la sensibilizzarono tanto da indurla ad adottare una bambina. Ha lavorato come fotogiornalista per testate italiane e straniere, come Life, Epoca, Panorama, ma ha sempre dimostrato il suo interesse per l’attualità internazionale. Cosa l’ha portato alla decisione di raccontare delle storie, soprattutto sulla vita dei bambini, attraverso la fotografia? I reportage sulla condizione dell’infanzia nel mondo non sono stati promossi dai giornali. E’ stata una mia idea e una mia iniziativa per cercare di raccontare il mondo da una prospettiva inedita ed inusuale. 8 P Alla fine degli anni Ottanta giravo il mondo per raccontare dei grandi cambiamenti che iniziavano a stravolgere gli equilibri che avevano segnato la storia europea e mondiale con la guerra fredda. Ero sempre alla ricerca delle foto che fossero “buone” per le esigenze dei giornali e dei periodici che mettevano in pagina queste realtà. Rapidamente mi accorsi che nella Hot News si perdeva sempre di più la complessità a favore dell’immediatezza e della velocità. Inizialmente in tutti i luoghi di guerra vedevo e non fotografavo i bambini testimoni di questi fatti cruenti, ma ad un certo punto ho valutato che la visione di questi bambini e delle loro vite potesse essere il miglior racconto del nostro mondo contemporaneo e del suo immediato futuro. Come e quando nasce la sua collaborazione con l’UNICEF per realizzare reportage sulla condizione dei bambini nel mondo? L’UNICEF ha fornito un aiuto logistico in alcuni dei paesi dove mi sono recato nell’ambito della mia inchiesta. Poi ho prestato le mie immagini 10 anni fa per una mostra storica celebrativa per la sezione italiana dell’agenzia delle Nazioni Unite. Dai suoi scatti, anche quelli raccolti in Born Sowewhere, in mostra a Roma nel 2006, sembra che lei preferisca il bianco e nero. Cosa rappresenta per lei? Il bianco e nero è stata una scelta linguistica precisa per l’inchiesta sulla condizione dell’infanzia. Con le mie fotografie cerco di raccontare la realtà, che è il primo grado della rappresentazione, e poi cerco di 9 R O F E S S I O N E fare in modo che questo primo grado ne contenga un secondo, il senso, più simbolico. Il B/N è una scelta conseguente perché aiuta il lettore a cercare questo secondo grado; è già esso stesso un’astrazione dalla realtà (che è colorata) percepita comunemente. Qual è, secondo lei, la situazione del fotogiornalismo in Italia oggi e come viene percepito? È informazione o altro? In Italia l’editoria giornalistica ha sempre più abdicato alla funzione informativa a favore di una sempre maggiore dipendenza dall’informazione pubblicitaria e di propaganda. Questo ha penalizzato il giornalismo, specie nelle sue forme più legate al racconto della realtà, che è antitetica ai valori edulcorati e virtuali del messaggio pubblicitario. Come tollerare una pagina di pubblicità del nuovo modello de-lux della spider 4000 di cilindrata accanto ad una foto proveniente dal paese dove questa automobile è prodotta e che mostra un bambino ridotto alla fame? Tra le due pagine oggi è censurata quella prodotta dal fotogiornalista. Oggi, alcuni di questi, considerando la battaglia persa si sono adeguati all’esigenza dei photoeditor di rendere meno difficile questo confronto; sono sempre maggiori le fotografie scattate in realtà difficili che fanno “solo intravedere”, che accennano alla realtà con abili fuori fuoco o dei mossi. Insomma la premessa della fine del fotogiornalismo o se preferiamo un comodo compromesso con la dittatura della pubblicità e della propaganda. Rosa D’Ettore n. 1/2007 DESK P R O F E S S I O N E LA COMUNICAZIONE DEI DUE PAPI: CONTINUITÀ E DIFFERENZE TRA GIOVANNI PAOLO II E BENEDETTO XVI VALENTINA ALAZRAKI N Valentina Alazraki, inviata di Televisa Tv Messico (RTV), già presidente dell’Associazione stampa estera in Italia DESK on ci sono dubbi che il pontificato di Giovanni Paolo II ha rappresentato uno spartiacque senza precedenti nella maniera di comunicare del Vaticano, ma anche del nostro comunicare sul tema del Vaticano. Prima di Giovanni Paolo II l’informazione vaticana e religiosa era presente solo in qualche giornale europeo; dall’inizio del pontificato di Giovanni Paolo II, invece, l’informazione sul Vaticano si è imposta con prepotenza in tutti i mezzi di comunicazione a livello planetario. Credo che Giovanni Paolo II abbia rivoluzionato il modo di comunicare del Vaticano dal momento in cui apparve per la prima volta dalla loggia centrale della basilica di S. Pietro e, dopo che i suoi collaboratori gli dissero che avrebbe dovuto impartire solo una benedizione, sorprendentemente decise di stabilire un dialogo diretto ed immediato con la folla riunita in piazza. Sia il suo linguaggio cosi nuovo che la sua gestualità furono un’autentica lezione di comunicazione, anche se va n. 1/2007 subito precisato che questa lezione non era frutto di una tecnica di comunicazione, bensì, come capimmo più tardi, di una profonda armonia tra il suo essere e il suo apparire. Di lì a pochi giorni, nella sua prima udienza alla stampa mondiale, ci lasciò senza parole, passando tra noi con un passo che sembrava una cavalcata e rispondendo come se fosse la cosa più normale del mondo a delle domande che mai prima di quel momento erano state formulate ad un Papa. Gli chiedemmo se sarebbe tornato in Polonia. “Se me lo permetteranno” ripose. “Si sente prigioniero in Vaticano?” “Sono trascorsi solo 5 giorni”. “Continuerà a sciare?” “Non so se me lo permetteranno.” Uscimmo da quell’udienza con la sensazione di aver vissuto un sogno. Tutti sapevano che durante il Pontificato di Paolo VI, era il Papa che si avvicinava ai giornalisti e non il contrario. In aereo, ricordano i colleghi che viaggiavano con Lui, era il Papa che li salutava e faceva loro qualche domanda, di tipo personale, sul lavoro o la famiglia. Capimmo che non avevamo sognato 10 P 11 quando in aereo, all’inizio del suo primo viaggio in Messico, nel gennaio del ’79 passò alla nostra cabina e ci rimase per più di un’ora, fermandosi presso ognuno di noi, per rispondere alle nostre domande nella lingua in cui le formulavamo. Da quel preciso momento fino alla sua morte, la comunicazione in Vaticano sarebbe stata un fenomeno assolutamente nuovo e, aggiungerei, vincente, che meriterebbe ancora oggi, a due anni dalla scomparsa del Papa, uno studio approfondito. Giovanni Paolo II pur venendo da un paese in cui paradossalmente non c’era libertà di stampa e quindi di opinione pubblica, sapeva esattamente cos’era la comunicazione. Non solo: contrariamente a molti uomini di chiesa non temeva minimamente i mezzi di comunicazione. Intuì, nonostante non mancassero all’inizio le critiche al suo pontificato, che i mezzi di comunicazione sarebbero stati i suoi principali alleati. Il fenomeno mediatico senza precedenti e probabilmente irrepetibile a cui abbiamo assistito soprattutto alla fine della sua vita, ne è una chiara dimostrazione. Il suo segreto si trovava probabilmente nella naturalezza con cui si presentava davanti agli obiettivi di fotografi e operatori televisivi. Giovanni Paolo II era sempre se stesso e si comportava come se non ci fossero né macchine fotografiche né telecamere, eppure “bucava” gli obiettivi e gli schermi, non solo quando con la sua gioventù, la sua energia, la sua simpatia, la sua bellezza, rappresentava per noi una fonte inesauribile R O F E S S I O N E di sorprese, ma anche quando si trovava paralizzato su una sedia a rotelle con il corpo martoriato, il volto rigido per colpa del parkinson che gli aveva tolto il sorriso o quando affacciato alla finestra del suo studio, si scoprì muto e batté la mano sul leggio per comunicare al mondo la sua impotenza e la sua frustrazione. Un altro spartiacque nel modo di comunicare del Vaticano fu sicuramente la sua apparizione, per la recita dell’Angelus, all’inizio del luglio 1992, quando rompendo un tabù secolare dell’informazione Vaticana, secondo il quale “il Papa sta bene fino al momento del suo decesso” Giovanni Paolo II annunciò al mondo che quella sera sarebbe entrato in ospedale per degli accertamenti. Da quel momento in poi, seppure solo nel certificato di morte si riconobbe ufficialmente per la prima volta che il papa aveva avuto il parkinson, Giovanni Paolo II divise con i mezzi di comunicazione tutte le sue malattie e tutti i suoi limiti fisici. Sicuramente Giovanni Paolo II non aveva bisogno di un portavoce per comunicare, ma la sua convinzione sull’importanza dei mezzi di comunicazione lo portò a rivoluzionare la sala stampa della Santa Sede scegliendo alla sua guida Joaquin Navarro Valls, un laico che negli ultimi anni era stato corrispondente del giornale spagnolo ABC e che impose uno stile assolutamente nuovo, non esente da critiche in varie circostanze, ma fatto di charme, eleganza, conoscenza delle lingue, presenza nelle principali testate mondiali, persino nei grandi network americani che fino al Pontificato di Gion. 1/2007 DESK P DESK R O F E S S I O N E vanni Paolo II non si erano mai curati troppo del mondo Vaticano - considerato un tema esclusivamente religioso e quindi non da prima pagina. Giovanni Paolo II gli concesse due elementi fondamentali: un filo diretto con l’appartamento pontificio che si traduceva in informazioni di prima mano, una libertà di azione e a volte di “interpretazione” degli avvenimenti ed un protagonismo indiscusso. Se da una parte queste concessioni si traducevano in un grosso flusso di informazioni, dall’altro provocavano probabilmente una certa sorpresa da parte di un organo come la Segreteria di Stato, da cui teoricamente la sala stampa dipendeva. Questa “indipendenza” della Sala Stampa Vaticana creò indubbiamente delle tensioni e in occasione di alcuni avvenimenti mondiali di primissima importanza come il conflitto nei balcani, la guerra nel Golfo, la guerra contro l’Iraq o la posizione sul conflitto Israelo-Palestinese, ci trovammo a dover far fronte a informazioni o interpretazioni frutto di un approccio a addirittura di una visione differente in cui risultava complicato capire qual’era la vera posizione del Papa. Questa “dicotomia” aumentò con il progredire della malattia di Giovanni Paolo II che lasciava maggior margine di manovra ai suoi diversi collaboratori, ma credo che nulla abbia intaccato l’essenza della rivoluzione che Giovanni Paolo II fece per ciò che riguarda il mondo della comunicazione. Dopo la sua morte, il modo di comunicare del Vaticano è cambiato, e ciò è dovuto alla diversa personalità di Ben. 1/2007 nedetto XVI, più introverso e timido, e alla sua convinzione che non deve essere Lui il “protagonista” del messaggio, bensì il messaggio stesso. Questo approccio, se vogliamo, più “discreto”, rispetto ai mezzi di comunicazione, mi sembra abbia portato a una maggiore “spersonalizzazione” del modo di comunicare sia da parte del Papa che ha fatto un passo indietro, rispetto alla visibilità senza precedenti del suo predecessore, che da parte del nuovo direttore della Sala Stampa della Santa Sede, padre Federico Lombardi che Benedetto XVI ha scelto come successore di Joaquin Navarro Valls dopo 15 mesi di pontificato in cui l’ex portavoce vaticano non appariva più vicino al Papa negli avvenimenti pubblici e molto probabilmente non aveva più il filo diretto con l’appartamento pontificio e doveva quindi attenersi - come succedeva prima del Pontificato di Giovanni Paolo II - alle indicazioni della Segreteria di Stato. Abbiamo avuto modo di constatare i differenti stili di comunicazione sin dalla prima udienza di Papa Benedetto XVI con la stampa, quando il Papa non attraversò l’Aula Nervi bensì entrò ed uscì dalla porta laterale dell’aula senza avere un contatto con i giornalisti, che quindi non ebbero l’occasione di porre delle domande o salutarlo da vicino. Anche per ciò che riguarda gli incontri in aereo in occasione dei viaggi papali, sono cambiate le modalità. In occasione del 1° viaggio a Colonia, il Papa si fermò all’entrata della nostra cabina per un brevissimo saluto. In occasione 12 P dei viaggi in Polonia, Germania e Valencia, ha risposto a due o tre domande ma senza altoparlanti, sempre all’entrata della sezione dedicata ai giornalisti, il che ha significato che solo i giornalisti seduti nelle prime due file lo hanno visto e sentito, dato che all’altezza della terza fila c’era il blocco formato da operatori e fotografi. In occasione del viaggio in Turchia, si è ripetuto questo schema, ma fortunatamente il microfono è stato collegato agli altoparlanti e quindi abbiamo potuto ascoltare le risposte ad alcune domande. È probabile che in occasione del viaggio in Brasile, grazie ad un aereo molto più capiente e a un volo lungo, Benedetto XVI si intratterrà maggiormente con noi giornalisti. Fino ad oggi però questo nuovo stile si è tradotto nella pratica in un minore contatto tra i giornalisti e il Papa, e quindi ad una minor conoscenza reciproca da un punto di vista umano. È in questo senso che intendo il concetto di un’informazione più “spersonalizzata”. Avverto questa spersonalizzazione anche nei modi di comunicare della Sala Stampa che appare come “fonte” di informazioni molto più del suo Direttore che non si definisce praticamente mai come portavoce di Benedetto XVI e non ha l’abitudine di “interpretare” il Pontefice. Ci troviamo quindi di fronte ad un’informazione più asciutta e sicuramente più rigorosa, che si centra sul messaggio papale e non sul Papa. Sono scomparse, di pari passo e come logica conseguenza, molte “spettacolarizzazioni” degli avvenimenti papali. Credo sia troppo presto per capire qua- 13 R O F E S S I O N E li dei 2 stili sia il vincente, nel mondo di oggi, seppure devo riconoscere che, come giornalista televisiva, ho riscontrato in questi 2 anni una maggiore difficoltà a trasmettere i messaggi papali, la cui profondità ed evidente bellezza, scissa però dai gesti umani molto efficaci che accompagnavano la parola di Giovanni Paolo II, risulta meno adatta al mezzo televisivo, ma forse più idoneo a un mezzo radiofonico. Come ebbe a dirmi in occasione del 75° anniversario della Radio Vaticana, Padre Federico Lombardi, “Giovanni Paolo II lo si voleva vedere, papa Benedetto XVI lo si vuole ascoltare”. Vivendo però in un mondo dominato dalle immagini, il Vaticano dovrà forse realizzare uno sforzo per rendere il suo messaggio più “visibile”. Durante questi due anni, si sono levate voci sui presunti problemi di comunicazione che ci sarebbero in Vaticano. Lo stesso ex portavoce Joaquin Navarro Valls, dopo l’ormai famoso discorso di Ratisbona, ammise al collega di Panorama Ignazio Ingrao, l’esistenza di questi problemi. L’impatto mediatico del discorso di Ratisbona nel mondo intero e non solo nel mondo musulmano, è stato in effetti interpretato da esperti e colleghi come un errore di comunicazione. Da quanto riferitomi da colleghi italiani, immediatamente dopo aver letto il discorso, che come al solito nei viaggi papali ci era stato distribuito di prima mattina, fecero sapere al padre Lombardi che la famosa citazione di Maometto avrebbe provocato forti reazioni. È assolutamente lecito pensare che padre Lombardi abbia informato i n. 1/2007 DESK P DESK R O F E S S I O N E suoi superiori senza sortire però nessun cambiamento nel discorso. Sarebbe forse bastato che il Papa aggiungesse immediatamente che la citazione non rispondeva in nessun modo al suo pensiero, chiarimento fatto poi in seguito. Cosa c’è all’origine di quello che potrebbe essere stato un errore di comunicazione? Una scarsa conoscenza dei meccanismi dei mezzi di comunicazione o una sottovalutazione dell’impatto della citazione stessa? In un’occasione anteriore, la segnalazione dei giornalisti del volo papale all’ancora direttore Joaquin Navarro Valls, sull’assenza della parola Shoa nel discorso di Austwitz, fece sì che la parola apparisse nel discorso pronunciato dal Papa evitando sicure critiche da parte del mondo ebraico. Difficile sapere cosa ha funzionato in questa occasione e cosa non ha funzionato in quella successiva. Negli ultimi mesi si sono registrati altri piccoli incidenti di percorso che hanno fatto pensare che l’informazione vaticana stia attraversando ancora una fase di rodaggio. È stato il caso del discorso del Papa ai vescovi svizzeri nel novembre 2006. Sul bollettino della Sala Stampa è apparso quello che era stato preparato per Giovanni Paolo II ma che non aveva mai pronunciato perché impedito dai suoi ultimi ricoveri al Gemelli e che gli era stato trasmesso dalla Segreteria di Stato. In quest’occasione Benedetto XVI ha fatto distruggere tutte le copie dell’Osservatore Romano con il discorso sbagliato. La Sala Stampa dovette ritirare nel pomeriggio spiegando n. 1/2007 che si trattava di una bozza del 2005 e il giorno dopo pubblicò il vero discorso che il Papa aveva letto a braccio in tedesco. Una conseguenza di quest’episodio è che il testo dell’udienza generale del mercoledì è distribuito verso le 2 del pomeriggio e non più durante la mattinata in modo da avere la certezza di pubblicare quello che il Papa ha effettivamente pronunciato. Ci sono state anche delle “mancanze” in qualche Angelus del Papa che sono state interpretate come un errore di comunicazione. In una occasione il Papa denunciò vari attentati delle ultime ore senza far riferimento a un attentato avvenuto in Israele. In un altro non si riferì all’uccisione del poliziotto Filippo Raciti durante i tragici fatti alla fine di una partita di calcio a Catania. Silenzio che fu criticato inaspettatamente da Pippo Baudo sulla prima rete della Rai. Credo che senza fare troppa dietrologia, ci troviamo davanti a un meccanismo che non è ancora ben “ lubrificato” dovuto forse ad una mancanza di coordinamento tra i diversi organi che si occupano dell’informazione. Da mesi infatti si parla di un progetto di accorparli in un unico gran organismo che ne coordini le diverse attività. Il nuovo Segretario di Stato, il Cardinale Tarcisio Bertone, ha riconosciuto pubblicamente che ha intenzione di mettere un po’ d’ordine in questo settore così importante. A lui facciamo quindi i nostri migliori auguri. Valentina Alazraky 14 P R O F E S S I O N E DALLE PIAZZE AL POTERE EDITORIALE IL “RISVEGLIO” DEI CATTOLICI SUI MEDIA GIORGIO TONELLI G uidano giornali, settimanali e Tg di Destra, di Centro e di Sinistra. Ma, in gran parte, vengono dalle esperienze degli anni sessanta e settanta di quella che veniva definita la ‘sinistra extraparlamentare’. Basta scorrere un po’ di nomi. La mappa delle origini dell’attuale potere editoriale in Italia è illuminante più di ogni teorizzazione. Gianni Riotta, direttore del Tg1, già vicedirettore del “Corriere della Sera” per dieci anni si è fatto le ossa nella “stalla” del ‘Manifesto’ (la terminologia ‘equina’ è di Valentino Parlato). “Venti anni fa era impensabile che io facessi il direttore del Tg1” ha sospirato Riotta dal palco della Festa Nazionale dell’Unità a Pesaro. In precedenza, sulla stessa poltrona dell’Ammiraglia Rai, si era seduto fra gli altri Gad Lerner, ex “Lotta Continua” e giornalista a ‘Radio Popolare’ ed ora intelligente conduttore di un programma di nicchia e di qualità come “L’Infedele”. Il direttore del “Corriere della Sera” Paolo Mieli si è fatto le ossa in quel “Potere 15 Operaio” di Franco Piperno ed Oreste Scalzone prima di diventare allievo e poi assistente dello storico Renzo De Felice. Giuliano Ferrara, attualmente direttore del “Foglio” e conduttore di “Otto e mezzo” in onda sul ‘La7’, già direttore di “Panorama”, nasce comunista (figlio di Maurizio Ferrara, dirigente del Pci e poi direttore dell’ “Unità” e di Marcella, prima segretaria di Togliatti), partecipa anche agli scontri di valle Giulia a Roma. Giancarlo Pajetta lo spedisce a Torino dove scrive per la rivista “Nuovasocietà” ideata da Diego Novelli . Fa anche i picchetti nelle fabbriche e lancia uova agli impiegati che vogliono entrare. In un editoriale scrive che Breznev è “fascista”. Dopo alcuni screzi col Bottegone, diventa socialista incontrando Craxi (e comincia a fare il giornalista a tempo pieno a “Reporter”, Il “Corriere della Sera”, “L’Europeo”, “Epoca”. Poi arrivano prima la Rai poi la Fininvest con “Linea Rovente”, “Il Testimone” “Radio Londra”, “Il Gatto”, ma anche “Lezioni d’amore” con la moglie Anselma Dall’Olio). Inevitabile l’approdo forzista quando Berlusconi decide n. 1/2007 Giorgio Tonelli, giornalista Rai Bologna, segretario nazionale Ucsi DESK P Una generazione che ha ben imparato i meccanismi della comunicazione DESK R O F E S S I O N E di ‘scendere in campo’. Del leader azzurro diventa anche portavoce e ministro “il primo comunista a palazzo Chigi sono stato io”, dirà di sè. Lucia Annunziata, già presidente della Rai e notista politica, nasce in “Lotta Continua” per poi entrare in “Avanguardia Operaia”, diventando quindi corrispondente prima del “Manifesto” poi di “Repubblica”. Più lineare l’attuale presidente Rai Claudio Petruccioli, direttore dell’ “Unità” dal 1980 al 1983, che ha seguito l’iter canonico Pci-Pds-Ds. Più zigzagante Michele Santoro partito da “Servire il popolo” formazione maoista con tanto di celebrazione di matrimoni ‘politici’ (cammeo d’epoca nel “Caimano”di Nanni Moretti) per poi passare al Pci e ad una breve parentesi da parlamentare europeo per l’Ulivo, dopo il cosiddetto “editto di Sofia” di Silvio Berlusconi. Viene dal “Manifesto” il neo-direttore di RaiNews Corradino Mineo, dopo essere stato inviato a Parigi e a New York. Nini Briglia, già capo del servizio d’ordine milanese di “Lotta continua” poi direttore di “Epoca” ed oggi direttore editoriale della Mondadori. Claudio Rinaldi, ex “Movimento Studentesco” ed ex “Lotta Continua” è stato fra l’altro direttore sia di “Panorama” che dell’ “Espresso”. Era iscritto al Pci negli anni 70 con pugno chiuso, occhialini e capelli lunghi, il direttore del Tg5 Carlo Rossella, già direttore della “Stampa”, Tg1 e Panorama. Con Roberto Faenza ed Antonio Padellaro realizzò il documentario “Forza Italia” contro le ‘malefatte’ della Dc. Mai titolo fu più profetico. n. 1/2007 Divenne infatti la sua nuova casa politica. Vicedirettore del Tg5 è Toni Capuozzo. Da sempre grande inviato, fin dai tempi in cui, giovane contestatore, viene mandato da “Lotta Continua” in Nicaragua, in Bolivia e in Argentina. Paolo Liguori, attuale direttore di ‘TgCom’ di Mediaset , già direttore di “Studio Aperto” ed ospite assiduo di “Controcampo” era uno dei leader del 68 romano. Nasce come giornalista a “Lotta Continua” ma diventa anche direttore del settimanale cattolico “Il Sabato” (alla domanda: crede in Dio? Rispose “qualche volta sì, qualche volta no”). Così è definito nel “Catalogo dei viventi” di Dell’Arti e Parrini edito da Marsilio “ Liguori piace alla destra perché è di destra e alla sinistra perché era di sinistra”. Più giovane (nasce nel 1960) è invece Stefano Menichini, il direttore di “Europa” il quotidiano della “Margherita”. Comincia a lavorare al “Manifesto” a 19 anni rimanendo nella redazione del quotidiano comunista per 18 anni. Nasce invece in “Lotta Continua” Enrico Deaglio, direttore del settimanale “Il Diario”. Ferdinando Adornato ha fondato e diretto “Liberal” ma è nato nel Pci, ha lavorato all’ “Espresso” e a “Panorama” quindi è diventato deputato con “Alleanza Democratica” nel 1994. Scrive il libro “Oltre la sinistra” prima della caduta del muro, per poi approdare in “Forza Italia”, dove risiede stabilmente. Percorso simile quello di Renzo Foa , già direttore de “L’Unità”, figlio del mitico Vittorio, (personaggio fondamentale della storia della sinistra italiana), approdato a “Forza Italia” ed abituale 16 P notista su “Il Giornale”. E’ il più accreditato futuro direttore del rinnovato “Liberal”. Michele Cucuzza passa dal Movimento Studentesco e dai microfoni di “Radio Popolare” a Milano, al gossip ed alle frivolezze de “La vita in diretta” di Raiuno. Ma forse il più bravo di tutti della covata di quegli anni è Adriano Sofri, fondatore di “Lotta Continua”, robusti studi alla ‘Normale’ di Pisa, eterna vocazione da leader, anzi da monarca (secondo Giampaolo Pansa) e condannato a 22 anni di carcere come mandante dell’omicidio Calabresi. Pena sospesa per motivi di salute. Per quel delitto Sofri si è sempre dichiarato innocente. Scrive regolarmente per “Repubblica”, “Panorama” “Il Foglio”. E l’elenco potrebbe continuare... 17 L’impaginazione al potere Nessun pregiudizio politico. Non c’é del resto alcun complotto, nessuna egemonia. Chi la denuncia è consapevole di fare solo propaganda, poiché gli esiti politici di quella stagione si sono spalmati su tutto l’arco parlamentare. Solo una constatazione persino un po’ banale: quella parte di generazione che voleva cambiare radicalmente la società oggi è alla guida del sistema della comunicazione in Italia. Non si può dire altrettanto di chi, in quegli anni, proveniva dall’esperienza del mondo cattolico. Eppure - scriveva il compianto Leonardo Valente (“Lo sfascio dell’Italia, la disunità e le certezze morali dei cattolici” ‘Avvenire’ 15 agosto 1993) - nel dopoguerra “cattolici e sinistre furono impegnati nel cambiamento della struttura della comunicazione in Ita- R O F E S S I O N E lia” e “nella nascita, nella crescita e nella difesa della televisione pubblica che fu prima e unica voce nazionale di quel 97% che la stampa borghese aveva escluso per quasi cento anni”. Quella stampa borghese che aveva “con genetico trasformismo, esaltato e difeso insieme valori e interessi della monarchia e della finanza, del fascismo e di quanto restò di quell’esperienza e cioè lo Stato romano e centralistico inefficiente e corrotto”. Se dunque allo ‘start’ di partenza cattolici e sinistre correvano insieme nella comune volontà di dar voce a quel 97% di italiani esclusi dalla rappresentazione mediatica, evidentemente molti si sono fermati (o sono stati fermati) per strada. E’ una storia tutta da scrivere quella dei cattolici impegnati nella comunicazione dagli anni settanta ad oggi. Ma è anche una storia dai tratti ambigui, poiché non pochi sono stati ‘fermati per strada’ non solo dalla legittima competizione fra colleghi, ma anche da vere e proprie esclusioni aprioristiche, per arrivare anche ad azioni di “killeraggio professionale”. Né è ininfluente il fatto che gran parte dell’area cattolica ha eccessivamente riposto le proprie speranze nella Democrazia cristiana. Confidando in una Dc eterna come la Chiesa. Una Dc, partito del maggioritario (nel senso che conteneva tutto: destra, sinistra e centro) nell’epoca del proporzionale ma che, come ogni creatura dell’uomo, prima o poi era destinata a finire. E infatti… Con grandissima approssimazione è comunque possibile tentare una risposta su quanto è avvenuto: perché chi è nato a sinistra oggi è alla guida n. 1/2007 DESK P R O F E S S I O N E del sistema della comunicazione? Con una battuta: come si è passati, dall’immaginazione al potere all’impaginazione al potere? DESK 1) La lezione di Gramsci. Una lezione oggi dimenticata e che consiste nella ricerca sulla formazione dello spirito pubblico in Italia. Nella sua analisi dello Stato moderno, Gramsci è superiore allo stesso Marx, poiché pone come prioritario lo studio degli elementi che per il filosofo tedesco erano semplicemente sovrastrutturali. Gramsci, già 80 anni fa, mostrava che il potere dei governanti non è basato sulla capacità coercitiva dello Stato ma piuttosto sulla capacità di coltivare il consenso dei governati. Il consenso è creato soprattutto sul terreno della cultura. Gramsci insegna (a tutti, non solo a chi è di sinistra) che per capire uno Stato moderno non basta studiare i partiti politici e la struttura economica ma è necessario analizzare quell’insieme di fenomeni che il fondatore dell’ “Unità” chiamò “l’organizzazione della cultura”: soprattutto la scuola, i giornali, le riviste, il cinema, il romanzo d’appendice. Quando nel 1987 l’allora presidente della Rai Enrico Manca definì i programmi di Pippo Baudo ‘nazionalpopolari’ fece una citazione dotta e compatibile con il mezzo televisivo. Ma il Pippo nazionale (che forse non aveva letto Gramsci) la prese male e se ne andò alla Fininvest (per poi tornare in Rai con la porta girevole). 2) La riflessione sulla comunicazione attraversa tutta l’esperienza della sinistra ed in particolare dell’ultrasinistra. n. 1/2007 Per contrastare la comunicazione ‘borghese’ sono state ben studiate le tecniche linguistiche ed argomentative poi riproposte ed applicate con contenuti diversi e ‘alternativi’. Sono gli anni in cui si cominciano a studiare le scienze umane, antropologia, sociologia, semiotica. Dai tatzebao e dai ciclostilati si passa ai mille giornali dei gruppi più vari, mentre nell’etere comincia la stagione dei cento fiori: le radio locali con i microfoni aperti “dalle masse alle masse”, l’uso del videotape con le esperienze di televisione fra la gente per “rompere il monopolio della Rai”. Forse, un po’ a caso, è giusto ricordare qualche nome. Nel 1973 Umberto Eco, messi in soffitta gli anni dell’ ‘Azione Cattolica’ dove fece intelligente palestra di scrittura, annotava su “Il costume di casa” la sua proposta di ‘guerriglia semiologica’. “Bisogna occupare, in ogni luogo del mondo, la prima sedia davanti ad ogni apparecchio televisivo (e, naturalmente la sedia del leader di gruppo davanti ad ogni schermo cinematografico, ad ogni transistor, ad ogni pagina di quotidiano)” (p.297). Eco ha insegnato ad una generazione priva di mezzi di comunicazione ad interpretare in maniera alternativa quanto il sistema veicolava. Un’attività che, secondo le intenzioni del professore, avrebbe portato ad uno smascheramento di massa dell’ideologia che veniva nascosta in ogni articolo di giornale, in ogni brano di telegiornale e così via. Usare tutti i mezzi- questo l’invito- per ‘fare le pulci’ a ciò che il potere ci vuol far credere. Appunto, una ‘guerriglia’ nei con- 18 P 19 fronti della costruzione del senso. Così come libri ‘cult’ furono “Informazione e Controinformazione” di Pio Baldelli (recentemente ristampato per chi ha i capelli bianchi o non era ancora nato ma vuole ritrovare il clima di quegli anni) o “Senza chiedere permesso. Come rivoluzionare l’informazione” di Roberto Faenza: vero e proprio manuale sull’uso del videotape e sulla televisione alternativa e gli audiovisivi in Italia, Nordamerica e America latina. Un testo base per i corsi dell’ Arci e delle Acli sparsi per l’Italia e per tutti i futuri giornalisti e programmisti-registi che sarebbero entrati in Rai con la nascita del decentramento regionale ideativo e produttivo. Ma il più fantasioso, forse il più avanti di tutti era il francese Jean Baudrillard (scomparso il 6 marzo scorso) e la sua multiforme produzione che lo ha portato ad essere l’intellettuale del paradosso, passato dalla contestazione del Sessantotto alla teorizzazione della fine di tutto, dell’arte, della politica,della storia e persino della realtà: filosofo della simulazione e del simulacro. Dove, parlando della ‘Guerra del Golfo’ sosteneva che la Tv aveva cancellato ogni confine fra la drammaticità del conflitto e la sua messa in scena. Si era compiuto quello che era “il delitto perfetto”: l’Immagine ha ucciso la Realtà. 3) La grande stampa che in Italia- come ricordava Leonardo Valente- era sempre stata di tradizione massonica e liberale si apre a direttori provenienti dall’area di sinistra. Le interpretazioni sui motivi che hanno portato a queste scelte possono essere le più varie. R O F E S S I O N E E’ indubbio che chi prima scopre il mondo prima sarà scoperto dal mondo. La voglia di fare politica a 18-20 anni ha portato alla ribalta giovani pieni di entusiasmo e di voglia di raccontare il mondo per cambiarlo e possibilmente migliorarlo. E’ innegabile che nelle biografie di molti giornalisti, nati a sinistra, si rifletta anche la transizione del sistema politico italiano. Una transizione iniziata con Tangentopoli e con i referendum del 1991-93 e non ancora terminata. Caduti i muri, morto il secolo delle ideologie e morti i suoi principali protagonisti, rimangono i vizi e le virtù di una formazione magari discontinua, comunque solida. Fatta anche di strade separate, ma anche di “soccorso” (magari non più ‘rosso’ , ma con sfumature ben diverse). In nome della “meglio gioventù”, cadono infatti le contraddizioni editoriali e si può scrivere per esempio sia sul berlusconiano “Panorama” che sulla debenedettiana “Repubblica”. Opportunismi e tatticismi del resto contrassegnano anche l’imprenditoria più o meno ‘illuminata’ capace anche di fare giornali di Destra con direttori di Sinistra. Magari per “coprirsi le spalle”. Fenomeni analoghi del resto sono avvenuti un po’ ovunque nel mondo. Non a caso il quotidiano conservatore inglese “Daily Telegraph” ha scritto con sarcasmo, in un articolo sugli ex sessantottini al potere, che “volevano cambiare la società ma finirono solo col cambiare la casacca”. Cattolici nei media: per una cultura del dialogo Quanto succitamente ricordato non deve comunque far ritenere insignificante il contributo dei cattolici nei men. 1/2007 DESK P DESK R O F E S S I O N E dia, come invece ha fatto Galli Della Loggia (“Una società senza cattolici” Corriere della Sera 20 dicembre 2006), in cui, forse provocatoriamente, sottolinea come “ i più diffusi quotidiani del Paese, le case editrici più importanti, gli spazi televisivi più ampi, vedono perlopiù una larghissima prevalenza di addetti ai lavori, di collaboratori, di autori, di uomini e donne di spettacolo e di intrattenimento, che sono ideologicamente e culturalmente lontani dalle posizioni cristiane e cattoliche in specie”. I giornali, in sostanza -sottolinea Galli Della Loggia - danno l’immagine di una Chiesa che è solo gerarchia, senza popolo. Eppure gli italiani continuano a dirsi cattolici ( lo certifica fra l’altro un sondaggio Demos-Eurisko curato da Ilvo Diamanti e commissionato da “Repubblica” dove si scopre che l’86,4% della popolazione si professa cattolica e che il 75% dei non praticanti ritiene importante dare ai propri figli una educazione cattolica). Ma i cattolici, anche se non in posizioni di comando, nei media comunque ci sono. Non guidano corazzate, hanno magari dei barchini da pasdaran, come la rete dei 160 settimanali diocesani, però con oltre un milione di copie concentrate soprattutto nel Nord d’Italia. Per Giorgio Zucchelli, presidente della Fisc, federazione italiana settimanali cattolici, intervistato dall’Agenzia SIR “Galli Della Loggia cade nel trabocchetto della nuova massima cartesiana ‘ video ergo sum’ per cui coloro di cui non si parla non esistono, anche n. 1/2007 se in realtà esistono davvero. E’ molto triste ed allo stesso modo comico essere oggetto di esclusione e poi sentirsene dare la colpa”. E Fausto Colombo, sociologo dell’Università Cattolica di Milano, sottolinea la diversità di stile comunicativo:” credo che si possa storicamente iscrivere al mondo cattolico italiano una presenza massmediale che è impostata sull’ascoltare e sul dire, sul dialogo, sull’argomentare. E’ una comunicazione che intende trasmettere valori e sensibilità più che urlare con l’altoparlante”. Colombo definisce questo stile con la formula della “cultura sottile”. Lo studioso aggiunge ”c’è poi un’altra considerazione relativa agli strumenti che i cattolici usano per comunicare. Noi abbiamo mezzi fortemente identitari che per questo talvolta faticano a farsi sentire da un target non cattolico”. Insomma è debolezza argomentare e dialogare? Apparire meno sullo scenario della grande comunicazione significa anche minore incisività? A questi interrogativi che riguardano l’oggi, si aggiunge il lavoro di formazione per il domani. Significativamente, anche con il ‘Progetto Culturale’, la Chiesa ha posto all’attenzione della comunità cristiana il tema della comunicazione e della cultura mass-mediale. Se negli anni sessanta, all’ombra dei campanili, c’è stata una reale formazione di massa attraverso i cineforum e successivo dibattito, oggi l’analisi e lo studio del sistema comunicativo è all’attenzione di educatori e formatori, grazie anche al lavoro degli uffici dio- 20 P cesani per la comunicazione sociale, diverse parrocchie e movimenti, associazioni come l’Aiart e l’Ucsi. Né si può dimenticare l’importante ruolo dell’università nella formazione di massa dei nuovi comunicatori. Dagli insegnamenti pionieristici all’Università Cattolica di Gianfranco Bettetini si sono sviluppate competenze e professionalità sulla comunicazione. Consapevole di far torto a molti, vorrei tuttavia ricordare gli studi e le ricerche sul sistema comunicativo di professori ordinari e straordinari, associati, ricercatori o a contratto. Fra i tanti: Francesco Casetti, Donatella Pacelli, Massimo Baldini, Giuseppe Costa, Paolo Scandaletti, Ruggero Eugeni, Giorgio Simonelli, Guido Michelone, don Dario Viganò, Armando R O F E S S I O N E Fumagalli, Paolo Braga, Guido Gili, Fabio Ferrucci, Stefano Martelli, Agata Gambardella, Giovannella Greco, M.Grazia Onorati, M.Vittoria Gatti, Michele Sorice, Nicola Strizzolo, Giovanna Gadotti, Ivano Germano, Giorgio Porcelli, don Franco De Marchi, Arturo Lando, Roberta Paltrinieri, Paola Parmeggiani, Sandro Stanzani. Insomma, non siamo all’anno zero. Giovanni Paolo II al convegno Cei “Parabole mediatiche” nel novembre 2002 sollecitò “operai, col genio della fede, capaci di leggere il presente”. Le premesse per una buona semina, in questo momento, ci sono. Speriamo che sia buono anche il raccolto. Giorgio Tonelli ETICA E MEDIA Lo scorso 6 febbraio, presso il Ministero delle Comunicazioni, Giovanna Melandri, ministro per le Politiche giovanili e le Attività sportive, e Paolo Gentiloni, ministro delle Comunicazioni, hanno incontrato i rappresentanti dell’emittenza radiotelevisiva, dell’editoria e dei giornalisti con lo scopo di valutare le possibili iniziative per evitare una strumentalizzazione dei media nell’ambito dell’informazione sportiva. Alla luce dei recenti fatti di Catania, dove ha perso la vita un poliziotto impegnato a placare uno scontro tra tifoserie, tutti i partecipanti all’incontro hanno concordato sulla necessità di elaborare un “Codice di comportamento” per l’informazione sportiva che rifletta in questo settore i principi di civiltà, di deontologia professionale e buon senso, propri del giornalismo e dell’editoria, così da concorrere, anche dal versante dell’informazione, all’isolamento dei fenomeni di violenza nel calcio. Una nobile iniziativa, anticipata già nel novembre del 1999 dalla proposta avanzata dall’UCSI (Unione Cattolica Stampa Italiana), all’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, di istituire un “Comitato di Medietica” con il compito di offrire indirizzi adeguati in materia di etica e deontologia dell’informazione e della comunicazione. (C. R.) 21 n. 1/2007 DESK P R O F E S S I O N E INFORMAZIONE RELIGIOSA? FA SEMPRE PIÙ NOTIZIA GUIDO MOCELLIN N Guido Mocellin, giornalista, caporedattore “Il Regno”, Bologna 1 In questo senso rimando, anche se un po’ datato, a G. MOCELLIN, «C’era una volta il vaticanista: l’informazione religiosa sui giornali italiani», in Desk 8(2001) 4, 21-24. 2 Un interessante e approfondita ricognizione sui vaticanisti italiani e su come percepiscono il loro lavoro è stata compiuta qualche anno fa da M. CARROGGIO - F. NJOROGE, «Media e religione tra dialogo e conflitto», in Chiesa in Italia ed. 2004. Annale de Il Regno, supplemento a Il Regno n. 22, 15.12.2004, 113-138. DESK on c’è bisogno di essere accaniti consumatori di giornali per rendersi conto che le notizie a soggetto religioso, o nelle quali il tema religioso rappresenta una componente significativa, hanno occupato negli ultimi tempi uno spazio considerevole sui mass-media italiani. Il riproporsi dell’appartenenza religiosa come elemento costitutivo dell’identità culturale, o il maggiore protagonismo pubblico di alcune istituzioni ecclesiastiche, o anche l’indubbia «notiziabilità» di eventi in cui sembri presente una componente di tipo soprannaturale: questi e altri fattori possono contribuire a spiegare un fenomeno che può essere analizzato sotto molteplici aspetti1 e che si presenta in forme diverse a seconda degli autori e dei mezzi su cui la notizia a soggetto religioso compare. In particolare, e schematizzando molto il ragionamento, si possono oggi distinguere, nell’informazione religiosa, tre casi: a) Giornalisti specializzati sui temi religiosi che scrivono per i grandi mezzi di comunicazione di massa (agenzie, GR, TG e quotidiani), ma limitandosi sostanzialmente alle corrispondenze dalla Santa Sede, dal Vaticano: e infatti in gergo si chiamano vaticanisti. Sono qualche decina, e stanno al giornalismo religioso in genere come i piloti di Formula 1 stanno all’insieme dell’automobilismo sportivo: sono cioè un’én. 1/2007 lite di eccezionale qualità professionale, stimata e ben remunerata, ma sostanzialmente costretta quasi sempre a rimanere dentro alla «riserva» mediatica dell’informazione religiosa in senso tradizionale, che poi in Italia è l’informazione vaticana. Le notizie che scrivono riscuotono, secondo le recenti inchieste CENSIS-UCSI, solo il 2-3% di interesse del lettore, anche perché, se proprio non c’è in ballo un grande evento – un’enciclica, un sinodo dei vescovi, o ancor meglio un viaggio del papa, che rimane, giornalisticamente, l’evento che più fa notizia nella vita delle Chiese – ma «solo» il raggiungimento di un accordo ecumenico o l’uscita di una nota pastorale della CEI, i capiredattori non lasciano loro più di trenta righe.2 b) Giornalisti ugualmente specializzati sui temi religiosi (potremmo chiamarli religionisti, per analogia con i curricoli universitari di scienze religiose) che scrivono per mezzi editi da un’istituzione ecclesiastica e/o specializzati nelle tematiche religiose,3 destinati perlopiù ai membri attivi, “impegnati”, delle comunità religiose stesse. Questi mezzi sono molto numerosi: limitandoci a quelli «cattolici», si contano 2.000 testate complessive, il 20% di tutte quelle registrate in Italia. È un mondo tanto plurale quanto è plurale la Chiesa italiana: c’è il SIR e c’è ADISTA, la Radio Vaticana e Radio Maria, Avvenire e Famiglia cristiana, Il Timone e Mes- 22 P saggero di Sant’Antonio, Nigrizia e Mondo e missione, Sat2000 e Telepace, Città Nuova e Tracce, i 130 settimanali diocesani, fino ai 200 periodici di cultura e di dibattito (tra cui alcune «punte» come La Civiltà cattolica, Il Regno, Jesus, 30 Giorni).4 In questi anni, nell’ambito del suo «progetto culturale», la Conferenza episcopale italiana (CEI) ha investito molte energie in questo comparto, ma in termini di audience i risultati non sono stati significativi. L’informazione religiosa di queste testate talvolta è ancora (o di nuovo) viziata dall’apologetica, o dal saper presentare la Chiesa solo in quanto istituzione, talaltra è ipercritica e pare che assuma passivamente l’agenda delle priorità ecclesiali dai media laici, talaltra ancora è vivace, rigorosa, professionale, capace di mettere l’istituzione e le comunità in dialogo, rendendo presente a ciascun soggetto le ragioni interne dell’altro; ma raramente essa arriva a essere significativa rispetto alla più vasta opinione pubblica del paese: tuttalpiù (come recita lo slogan di una omologa rivista americana) riesce a «rivolgersi ai cattolici che pensano e insieme a servire a capire cosa pensano i cattolici». c) Giornalisti specializzati in «tutto» (politica, economia, spettacolo, sport, costume...) fuorché sui temi religiosi che scrivono e commentano per i grandi mezzi la grandissima maggioranza delle notizie religiose non «vaticane». Chi provasse a ripercorrere a memoria le rassegne-stampa degli ultimi anni, vedrebbe che per ciascuna sezione del giornale è stato sempre presente almeno un grande tema legato alla religione, coinvolgendo le firme più prestigiose o relegato nelle brevi senza firma: negli interni (religioni e identità nazionale, FerraraButtiglione, il card. Ruini e il referendum sulla legge 40 o il ddl sui DICO), negli esteri (il terrorismo di matrice fondamentalista islamica, i teocon di Bush, la men- 23 R O F E S S I O N E zione delle radici cristiane nel preambolo della Costituzione europea), in cronaca (immigrati tra integrazione e difesa della propria identità culturale-religiosa, chierici accusati di pedofilia o di altri disordini sessuali), nelle pagine economiche (il volontariato e la ridefinizione del Welfare), in quelle culturali (dibattiti sulla bioetica o, ancora, sullo “scontro di civiltà”), negli spettacoli (la fiction televisiva a soggetto biblico e le tante agiografie dei papi e dei santi del Novecento). È a questa terza categoria di (futuri) redattori e titolisti di notizie religiose che intende rivolgersi la «specializzazione» in «giornalismo religioso» attiva da 5 anni presso la Scuola superiore di giornalismo (SSG) dell’Università di Bologna (Facoltà di lettere e filosofia, Master di II livello), di cui sono titolare. A quanto mi risulta, è l’unico caso del genere in Italia, almeno tra le scuole di giornalismo sostitutive del praticantato.5 Il corso si articola in 16 ore e il suo presupposto, che il direttore della SSG, prof. Angelo Varni, ha caldamente condiviso sin dall’inizio, è che la tendenziale separazione dell’informazione religiosa non vaticana dal suo specialista che ho appena cercato di sintetizzare, con il corollario della crescita quantitativa e qualitativa degli uffici stampa delle istituzioni religiose, renda necessario che chi opera nelle redazioni sia provvisto di un minimo grado di alfabetizzazione religiosa. Vorremmo cioè dare a ciascun futuro giornalista gli strumenti minimi per occuparsi, all’occorrenza, di eventi a sfondo religioso senza incorrere in infortuni tali da minare, presso i lettori interessati e i soggetti coinvolti in quell’evento, la credibilità propria e del giornale stesso.6 Come ripeto ogni anno agli studenti, se nella cronaca di una partita di basket l’autore scrive che è stato annullato un canestro perché chi ha tirato era in fuorigioco, i letn. 1/2007 3 Anche quando, come per Famiglia cristiana, Messaggero di Sant’Antonio, Avvenire o per i settimanali diocesani, l’impianto è generalista. 4 A proposito del profilo di queste ultime ho recentemente scritto un articolo uscito contemporaneamente su Problemi dell’informazione 32(2007) 1 e su Chiesa in Italia ed. 2006. Annale de Il Regno, supplemento a Il Regno n. 22, 15.12.2006, 137151. 5 Sono invece a conoscenza di un master di I livello organizzato dall’Università di Siena con il patrocinio del Centro internazionale per lo studio del fenomeno religioso e volto a formare un «Esperto di informazione religiosa nel pluralismo contemporaneo». Dal canto suo la CEI, in collaborazione con l’Università cattolica del Sacro Cuore e la Pontificia università lateranense, ha attivato nel 2007 un «Corso di alta formazione in elearning per gli animatori della comunicazione e della cultura» (www.anicec.it), di durata annuale. Accessibile anche col diploma di suola media superiore, è riconosciuto a livello universitario e conferisce 60 crediti. Come è noto (cf. il direttorio CEI del 2004 Comunicazione e missione) il profilo dell’«animatore della cultura e della comunicazione» è diverso e più vasto di quello dell’informatore religioso. DESK P 6 In uno studio della RAI, pochi mesi fa, ho visto il conduttore perdere l’abituale lucidità quando, a commento dell’incontro tra Bartolomeo I e Benedetto XVI a Istanbul, un ospite ha parlato di un rinnovato abbraccio tra Andrea e Pietro. 7 Il proposito di ampliare, in questo ambito, lo spazio riservato all’islam, sia per il dato oggettivo della sua diffusione attraverso l’immigrazione, sia per lo specifico interesse che esso riscuote presso i media, non ha ancora avuto da parte mia adeguata attuazione: talvolta è venuto meno l’ospite che avevo destinato a sviluppare questi argomenti, talaltra è venuto meno il tempo. 8 Così lo definisce, nel suo libro uscito postumo Karol il grande (Paoline, Milano 2003) il compianto Domenico Del Rio. 9 Li cito in ordine alfabetico: AnnaLisa Bellocchi (l’ufficio stampa diocesano), Paolo Bustaffa (le fonti istituzionali: il SIR), Marc Carroggio (la comunicazione delle istituzioni ecclesiastiche), Pietro Cocco (le fonti istituzionali: la Radio Vaticana), Girolamo Fazzini (la stampa missionaria come fonte dal terzo mondo), Ignazio Ingrao (l’inf. religiosa sul grande magazine laico), Salvatore Izzo (il condizionamento delle agenzie sull’inf. religiosa), Sandro Magister (l’inf. religiosa e Internet), Fabrizio Mastrofini (l’ufficio stampa di un evento ecclesiale), Roberto Monteforte (una pagina settimanale di inf. religiosa su un quotidiano laico). DESK R O F E S S I O N E tori lo giudicheranno un totale incompetente di basket, e nessuno di quella squadra, dal presidente al massaggiatore, gli rilascerà mai un’intervista. Pertanto l’impianto che ho messo a punto è molto semplice. La prima parte del corso mira a precisare «di chi si parla», ovvero presenta i soggetti dell’informazione religiosa. Ad esempio: chi è il papa, chi sono i vescovi, che differenza passa tra la Santa Sede e la CEI, o tra la Chiesa diocesana (clero e laici), le varie forme della vita religiosa e i movimenti, a cosa serve e come funziona il sistema dell’otto per mille, quali sono in Italia le altre confessioni cristiane e le altre religioni e quali istituzioni le rappresentano.7 La seconda descrive «come se ne parla»: l’evoluzione complessiva dell’informazione religiosa e l’analisi di alcuni casi concreti, che l’attualità, di anno in anno, non ci ha certo risparmiato: dalle polemiche sul film di Mel Gibson The Passion e sul suo “anticristo”, il Codice da Vinci, alla cronaca dell’assedio israeliano alla Basilica della Natività a Betlemme; dalle accuse alla Radio Vaticana per il cosiddetto elettrosmog fino, naturalmente, all’agonia e alla morte di Giovanni Paolo II, «il più grande personaggio di consumo per l’opinione pubblica mondiale».8 La terza, infine, mostra «dove se ne parla», ovvero quali sono e come si consultano le fonti pubbliche dell’informazione religiosa, a cominciare dal Bollettino della Sala stampa della Santa Sede per poi procedere all’interno di quella vasta galassia di 2000 testate che ho già richiamato sopra, e riservando una particolare attenzione, come è ovvio, all’accesso a tali fonti tramite Internet: uno strumento su cui «tutte» le istituzioni religiose offrono una più o meno fedele immagine di sé. Per ciascuno di questi tre ambiti, di anno in anno mi sono giovato della collaborazione di numerosi ospiti (mediamente n. 1/2007 due all’anno), che desidero ringraziare qui pubblicamente per la disponibilità con cui hanno aderito al mio invito e la passione con cui hanno portato la loro testimonianza professionale.9 Resta da dire qualcosa dell’accoglienza riservatami dagli studenti, e che è sempre stata molto positiva: superata l’iniziale diffidenza, verificato il profilo professionale e non confessionale del corso, hanno volentieri approfittato dell’occasione per condividere e verificare dubbi, precomprensioni e pregiudizi intorno alla dimensione pubblica delle esperienze e delle istituzioni religiose, anche se la domanda più frequente che mi è stata rivolta – «per fare gli informatori religiosi bisogna essere credenti, vero?» – ha più a che fare con la ricerca di una collocazione sul mercato del lavoro che non con la consapevolezza della responsabilità che il sistema dei media porta, nelle nostre società secolarizzate e pluraliste, rispetto alla conoscenza di una religione e perfino alla maturazione di un proposito di adesione. D’altronde, giova ripeterlo, questo corso non è mirato a istradare qualche futuro giornalista verso l’informazione religiosa10 ma, piuttosto, a indurlo a trattare la notizia di argomento religioso con più professionalità: senza né appiattirsi sui molti stereotipi anticlericali che spesso, nelle redazioni, sono ancora particolarmente radicati, né assoggettarsi alla congenita diffidenza che i soggetti religiosi tendenzialmente continuano a coltivare nei confronti dell’informazione, e che rende la loro comunicazione pubblica asettica o, peggio, criptica. Guido Mocellin 10 Non mi risulta che sia accaduto. Piuttosto, ogni anno, è capitato che, su una trentina di allievi, almeno uno stesse già coltivando un interesse specifico per l’informazione religiosa, e che l’esperienza del corso lo stimolasse ad approfondire e precisare tale interesse. 24 S T O R I A E C U L T U R A LE MUTAZIONI DEL LINGUAGGIO POLITICO NATASCIA VILLANI Q uando Polo, discepolo di Gorgia, contesta Socrate, convinto del potere immenso che hanno i retori, si esprime in questi termini: «Non mandano forse a morte chi vogliono, come fanno i tiranni, e non spogliano dei beni e non scacciano dalle città chiunque loro piaccia?». La visione negativa che Socrate/Platone aveva della retorica è nota a tutti, anche se nei fatti il discorso politico sin dagli albori ha dato spazio agli elementi persuasivi facendo ricorso agli strumenti della retorica al fine di ottenere, mantenere e rafforzare il potere. Da allora l’interesse per lo studio del linguaggio politico è andato via via aumentando, soprattutto a partire dai primi decenni del Novecento con il riconoscimento dell’importanza delle parole in politica, asservite ai grandi regimi totalitari, quali mezzi di mobilitazione di massa. Linguaggio/potere e linguaggio/retorica sono binomi entrati nel pensiero comune, che, però ad una più attenta analisi, occorre considerare, come ci avverte Fedel, superando due pregiudizi diffusi nella cultura: il «panpoliticismo», ossia la concezione per cui il linguaggio politico non è un lin- 25 guaggio particolare bensì è il linguaggio stesso, linguaggio in quanto istituzione sociale; e il «patologismo», che caratterizza il linguaggio politico come linguaggio patologico, che tramite gli strumenti della retorica, danneggia o distrugge funzioni comunicative reputate essenziali. D’altronde, se il linguaggio non è un ente dotato di una identità compatta, bensì è una realtà fluida e pluridimensionale, lo stesso vale per il linguaggio politico, le cui tipologie, ampiamente studiate e commentate da una letteratura specifica sempre più ricca, aiutano a spiegare il perché certe cose avvengono in un determinato modo. A tale approccio tipologico può essere affiancato uno fenomenologico, di tipo descrittivo, e quindi per così dire a posteriori, che studia l’evoluzione del linguaggio politico così come si sono evolute le campagne elettorali (Blumler, 1995). Da una prima fase definita pre-moderna, caratterizzata dalla presenza di partiti forti, organizzati e presenti sul territorio, si è passati ad una fase moderna, nella quale si ricorre all’uso dei professionisti della comunicazione, per giungere alla stagione post-moderna, l’attuale, nella quale sempre più massiccio è l’avvento del marketing politico e della segmentazione dell’elettorato. Utilizzando poi la distinzione di n. 1/2007 Natascia Villani, professore associato Università Sr Orsola Benincasa, Napoli DESK S RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI ANTONELLI G., Sull’italiano dei politici nella seconda Repubblica, in L’italiano oltre frontiera, atti del V convegno Interazionale (Lovanio, 22-25 aprile 1998), Leuven-University Press, Lovanio-Firenze, 2000, Vol. I, pp. 211-234. BENDICENTI D., Con-vincere. Piccola storia della comunicazione politica nell’era della piazza virtuale, Donzelli Editore, Roma, 2005. BLUMLER J.G. – GUREVITCH M., The Crisis of Public Communication, Routledge, London, 1995. CALISE M., Dopo la partitocrazia, Einaudi, Torino, 1994. CUPERLO G., Appunti per il corso di comunicazione politica, Facoltà di Scienze della Comunicazione Università di Teramo, DESK T O R I A E C U Edelman, che individua quattro tipologie di linguaggio politico - esortativo, della contrattazione, giuridico e amministrativo - si può affermare in piena coscienza che nella stagione attuale il primo, quello esortativo, è il linguaggio politico per eccellenza. Ai due protagonisti del dialogo politico, emittente (uomo politico), e destinatario (cittadino) se ne è aggiunto un terzo: il sistema dei media (Mazzoleni, 1998). Mai come in questo caso il termine è usato in modo equivoco: non funge infatti da semplice mezzo, ma diventa un vero e proprio attore. Sia che il modello interpretativo sia quello, solitamente definito dalla comunicazione politica, «pubblicistico-dialogico», secondo cui i media non coincidono totalmente con lo spazio pubblico, spazio nel quale esiste anche una porzione riservata ad una interazione diretta tra cittadini e politici, o il modello solitamente definito «mediatico», che considera i massmedia come l’onnipresente riferimento, lo spazio entro cui si svolge necessariamente ogni forma di comunicazione politica, a prescindere dai due modelli di riferimento, dicevo, i tre attori della comunicazione politica hanno nell’attualità concreta interazioni attraverso tre punti fermi: 1. la centralità dei media; 2. la preponderanza delle dinamiche bidirezionali di flusso tra politica e informazione; 3. la marginalità del ruolo dei cittadini elettori, più spettatori che attori. Fatta questa premessa che cosa sta accadendo al linguaggio politico della nostra repubblica? A volte è utile, da un punto di vista metodologico, partire da una situazione di crisi, di rottura, tale da avere innescato profondi mutamenti, per cogliere meglio la situazione presente e per figurarci, timidamente, scenari futuri. Nel 1973 Umberto Eco scriveva: «la clasn. 1/2007 L T U R A se politica tradizionale italiana non è tanto una classe di tecnici quanto una classe di intellettuali letterati che non rinuncia al parlare ornato come simbolo di prestigio [...] il mondo industriale si esprime in modo ben più concreto». Nel leggerla ora, potrebbe quasi sembrare una vignetta satirica. Che cosa è avvenuto in questi trent’anni da farci sorridere ad un tale giudizio? Tra il 1989 e il 1994 il sistema politico italiano è percorso da un «violento terremoto», a cui comunemente ci si riferisce come alla transizione da un vecchio a un nuovo sistema politico, impropriamente definito «seconda repubblica». Dalla legge 223 dell’agosto ‘90, meglio conosciuta come legge Mammì in cui veniva scandita la formula di pluralismo dell’informazione, allo scandalo di tangentopoli, che fece tremare la classe politica di allora e gettò sfiducia su di un elettorato smarrito e antipolitico, alla riforma elettorale, che sanciva l’adozione si un sistema maggioritario, verso un bipolarismo, già agognato negli anni ‘70 e ‘80, schiacciando le forze del centro costrette a scegliere da quale parte schierarsi. In questo quadro la «discesa in campo» di Berlusconi è esemplarmente significativa. Il 26 gennaio 1994, a tutte le redazioni dei telegiornali pubblici e privati e a tutti i maggiori organi di informazione, è racapitato, un’ora prima di andare in onda, un messaggio agli italiani del Cavalier Silvio Berlusconi, registrato su di una cassetta audiovisiva. Si è detto e scritto moltissimo sui contenuti di quei nove minuti e trenta secondi di «comizio catodico» (Bendicenti, 2005). Due passaggi, però, è d’obbligo ricordare a mo’ di esempio: l’annuncio e l’appello. L’annuncio: «L’Italia è il paese che amo. Qui ho le mie radici, le mie speranze, i 26 S T O R miei orizzonti. Qui ho imparato, da mio padre e dalla vita, il mio mestiere di imprenditore. Qui ho appreso la passione per la libertà. Ho scelto di scendere in campo e di occuparmi della cosa pubblica perché non voglio vivere in un paese illiberale, governato da forze immature e da uomini legati a doppio filo ad un passato politicamente ed economicamente fallimentare». L’appello: «Vi dico che è possibile realizzare insieme un grande sogno: quello di un’Italia più giusta, più generosa verso chi ha bisogno, più prospera e serena, più moderna ed efficiente, protagonista in Europa e nel mondo. Vi dico che possiamo costruire insieme, per noi e per i nostri figli, un nuovo miracolo italiano». In poche righe ci si profila un capolavoro di discorso politico, un esempio di penetrazione comunicativa, esemplare perché basata sulla personale decisione di concorrere non inserita in logiche di partito (Volli, 2000), passata alla storia della comunicazione politica post-moderna italiana, punto di svolta che ci annuncia che qualcosa è cambiato. La svolta a cui si assiste è radicale. Il primo rilievo è la personalizzazione della politica (Mazzoleni, 1998; Livolsi, 2000) legata all’aspetto leaderistico della politica. La Seconda Repubblica vede l’emergere di forze nuove decise a presentarsi in posizione antagonistica rispetto ai partiti tradizionali. «In luogo di un sistema basato sullo spirito di partito e sull’unità di partito come principale risorsa si afferma un nuovo stile politico che fa risaltare individualità e personalismi» (Calise, 1994). Tale forma leaderistica passa attraverso una centralità comunicativa. I leader hanno imparato a sfruttare le opportunità offerte dai media, per costruire l’immagine più de- 27 I A E C U L T U R A siderabile di sé e potenziare lo stile comunicativo. Un leader oggi non può essere tale - pena il calo del consenso - se non possiede doti dialettiche e comunicative. La mediatizzazione accelera, in questo nuovo sistema elettorale la spettacolarizzazione, e la dimensione permanente della competizione: le competizioni cominciano il giorno dopo le elezioni e terminano il giorno prima che si ritorni a votare. Tale continuità è dovuta alla necessità di legittimare il consenso attraverso la promozione e la comunicazione delle azioni di governo e, da chi è invece all’opposizione, di far sentire la propria voce. Si assiste ad un vero e proprio posizionamento comunicativo, nel quale si segna il territorio tra me e il mio avversario. Tutto questo è ben rappresentato dalla metafora del match: alla vigilia delle elezioni del ‘94, dopo più di trent’anni da un altro storico match che contrappose Nixon a Kennedy, Silvio Berlusconi si confronta con Achille Occhetto. L’occhio spietato delle telecamere fungono da amplificatore di quegli aspetti pragmatici della comunicazione, la prossemica, la mimica facciale, l’insieme dei gesti del corpo, che distraggono l’ascoltatore dal contenuto del discorso, ma giocano un ruolo importantissimo nel rafforzamento del frame di riferimento. Il rilievo della mediatizzazione e spettacolarizzazione induce i politici a sviluppare strategie comunicative nuove sia pure in linea nel solco della retorica tradizionale. Un tempo i politici venivano rimproverati di parlare un linguaggio oscuro, fumoso, comprensibile da pochi addetti ai lavori, definito politichese. In quest’ultimo decennio il linguaggio si è drasticamente semplificato. Si è passati secondo Giuseppe Antonelli da un paradigma della n. 1/2007 Roma, 2002 EDELMAN, M., Gli usi simbolici della politica, tr. it., Napoli, Guida, 1987. FEDEL G., Saggi sul linguaggio e l’oratoria politica, Giuffrè Editore, Milano, 1999. GUALDO R. – DELL’ANNA M.V., La faconda Repubblica. La lingua della politica in Italia (1992-2004), Manni, San Cesario di Lecce, 2004. LIVOLSI M., Partecipazione politica e comportamento elettorale, in Personalizzazione e distacco. Le lezioni europee e regionali (1999), a cura di Livolsi M e Volli U., Franco Angeli, Milano, 2000, pp. 1751. MAZZOLENI G., La comunicazione politica, Il Mulino, Bologna, 1998. SANTULLI F., Le parole del potere, il potere delle parole. Retorica e di- DESK S scorso politico, Franco Angeli, Milano, 2005. SARTORI G., Democrazia. Ha un futuro?, in AA.VV., Lezioni Bobbio. Sette interventi su etica e politica, Einaudi, Torino, 2006, pp. 40-54. SCANDALETTI P., Come parla il potere. Realtà e apparenze della comunicazione pubblica e politica, Sperling & Kupfer, Milano, 2003 VOLLI U., Rappresentanza e rappresentazione politica, in Personalizzazione e distacco. Le lezioni europee e regionali (1999), a cura di Livolsi M e Volli U., Franco Angeli, Milano, 2000, pp. 6171. DESK T O R I A E C U superiorità – che si avvaleva di un armamento retorico di impronta umanisticogiuridica, che intimidiva, ad un paradigma del rispecchiamento, con un linguaggio chiaro e comprensibile in cui gli elettori potessero riconoscersi. Dal politichese al gentese. Certo, ad una certa dose di oscurità non può però rinunciare o utilizzando il lessico dell’economia e della finanza, condito da una nutrita dose di cifre, o ostentando anglicismo. L’effetto della frammentazione porta a esporre il proprio punto di vista in quindici secondi. Più delle argomentazioni ideologiche conseguenzialmente strutturate, alleggerite a vantaggio di altri elementi che meglio identificano la persona (aspetto fisico, hobby, simpatie sportive), contano le frasi a effetto, le battute pronte, le metafore colorite che restano impresse nella memoria e che rispettano il «tempo del mezzo mediatico». Il discorso è un discorso in pillole, che spesso non consente al cittadino elettore di inquadrare la tematica e il contesto. Tra le forme di semplificazione rientrano anche l’aggressività verbale, l’infantilismo della comunicazione, gli usi dialettali e gergali (come non evidenziare che a partire dalle regionali del 2005 si è assistito a confornti politici con un elevato tasso di aggressività comunicativa). In questo panorama senz’altro risulta vincente che «ha le capacità e i mezzi per recepire e farsi carico di queste domande: non necessariamente nel senso di saper offrire ad esse delle risposte convincenti, ma nel senso di “apparire” come quello che le interpreta correttamente e che le rappresenta anche nella dimensione mediatica, del linguaggio di massa e della comunicazione diretta». (Cuperlo, 2002). Quale sarà il futuro? Una democrazia, per dirla con Sartori, è un regime di spen. 1/2007 L T U R A ranza, è l’unico regime in grado in qualche misura di realizzare le speranze, la cui formulazione si trova espressa in una serie di ideali. Ma dietro ogni ideale ci sono idee, che li presuppongono, idee come prodotto della ragione, frutto del pensare ragionando. Riesce oggi il linguaggio politico a veicolare tali idee, o a farsene interprete? Ci riuscirà domani? Se il sistema mediatico è diventato, come abbiamo visto, in quest’ultimo decennio un attore protagonista, se non in alcuni casi regista, se è vero che stiamo assistendo ad un radicale cambiamento «antropogenico» (Sartori, 2006), che ci ha fatto passare dall’homo sapiens, che capisce senza vedere, all’homo videns, che vede senza capire, di speranza qui sembra che non ce ne sia nessuna e apocalittica, ma vera, risulta la frase del politologo: «la televisione si esibisce come portavoce di una pubblica opinione che in realtà è l’eco di ritorno della propria voce». Forse volendo prudentemente nutrire maggiori speranze, l’apparizione di internet nell’orizzonte della politica italiana, seppure ancora timida, potrebbe tendere a rivitalizzare un cervello atrofizzato incapace di comprendere i grandi problemi della contemporaneità: l’ascolto in viva voce delle parole dei leader, la possibilità di accesso diretto ad archivi di documenti, atti congressuali, la creazione sempre più diffusa di blog (diari in rete) dei politici, potrebbe essere un ottimo strumento per superare l’unidirezionalità della comunicazione di massa e veicolare contenuti diversi e più ricchi che la televisione non è in grado di fare. Forse siamo in attesa di una nuova mutazione antropogenica a cui il linguaggio politico riuscirà a star dietro. Natascia Villani 28 S T O R I A E C U L T U R A CITTADINI MERCE DI CONSUMO? ALLORA NON È TV PUBBLICA EMILIO ROSSI T elevisione e servizio pubblico: il tema – per fortuna – è in tutta evidenza nell’agenda politica italiana. Provo dunque a delinearne alcuni tratti, non senza avvertire, per lealtà, di aver speso gran parte della mia vita professionale alla RAI. Da questo passato, ormai lontano, deriva certo un’esperienza sul campo; potrebbe anche derivare un pregiudizio. Non a me spetta la verifica. Premessa – Il servizio pubblico non è un’anomalia italiana, un fastidioso residuo statalista e autoritario . Non solo è legittimato in sede europea (trattato di Amsterdam) ma appartiene alla cultura umanistica dell’Europa liberal democratica. Punto 1 – Che cosa sta a dire la presenza del servizio pubblico all’interno di un sistema misto? E’ un modo, anche simbolico ma non solo simbolico, per avvertire che la televisione – pur con la massa di risorse economiche che richiede e movimenta - non è riducibile a business. E’ un modo per riconoscere che, con la sua pervasività in tempo reale, la televisione è erogazione ininterrotta di idee, emozioni, 29 impulsi, modelli, stili, invisibili pollini socio-culturali. E dunque è oggettivamente agenzia educativa, lo voglia o no, lo sappia o no. Insomma non è spazio innocente, irrilevante quanto ad etica civile e non civile soltanto. Non a caso si è soliti confrontare il numero delle ore che un ragazzo passa davanti al televisore con quello delle ore che passa seduto sui banchi di scuola. Non a caso ancora uno studioso francese, Dominique Wolton, mette in parallelo la TV generalista addirittura con il suffragio universale: con la sfera minimale di interessi fondamentali che tutti ci accumuna nell’una come nell’altra sede, come telespettatori e come cittadini votanti. La soluzione che fa posto al servizio pubblico certo non è in principio l’unica possibile per un grande problema della modernità: è però, in concreto, la soluzione realisticamente praticata, all’interno di un regime misto, nella nostra forse vecchia, ma matura e saggia Europa. Punto 2 –All’interno del sistema misto, il servizio pubblico ha diritti ma anche obblighi, da prender sul serio. Gli si chiede l’arricchimento della n. 1/2007 Emilio Rossi, giornalista, presidente del Comitato di controllo sul codice tv e minori DESK S DESK T O R I A E C U persona, la promozione dei valori costituzionali, il rispetto del pluralismo, il massimo di correttezza informativa, un riguardo particolare ai minori, la tutela delle minoranze. Ciò vale per l’offerta programmi in vista di un mix equilibrato dei così detti “generi” e ancor più per lo stile della programmazione tutta quanta. Giustamente il nuovo contratto di servizio tra lo Stato e la concessionaria mette a fuoco il criterio della riconoscibilità del servizio pubblico. Obiettivo utopico, ma non così utopico come potrebbe sembrare: passando con lo zapping da emittente a emittente, dovrebbe potersi indovinare dopo breve visione se ci si sia sintonizzati entro o fuori il servizio pubblico. Punto 3 – Fare servizio pubblico non significa offrire solo o prevalentemente documentari, musica colta, balletti, dibattiti, sperimentazioni. Non significa fare élites – media, dove si è tenuti invece a fare mass-media. Un servizio pubblico per pochi, che già coltivano certi interessi o previlegiatamente riescono ad accostarvisi, sarebbe un servizio pubblico fallito, in contraddizione con se stesso; sarebbe una caricatura di servizio pubblico, provocatoria e rinnegatrice di sé, tanto più in un paese come il nostro da secoli caratterizzato da una cultura ufficiale di corte o di accademia, spesso distaccata dall’humus popolare . Non ci si deve vergognare dei grandi ascolti. Solo che i grandi ascolti non vanno conquistati a qualsiasi costo. Per essere chiari, al servizio pubblico l’intrattenimento non è precluso, ma affidato perché lo produca in modi non volgari, dedin. 1/2007 L T U R A candovi attenzione speciale proprio perché si rivolge al pubblico più vasto. Rispetto all’emittenza commerciale – che ha suoi obiettivi, suoi pregi, suoi limiti – il servizio publico deve porsi non come complementare, ma come alternativo: così, certo non su tempi brevi, può esercitare funzione calmieratrice-stimolatrice nel senso più ampio. In quest’ultima ottica al servizio pubblico spetta anche un ruolo pionieristico, oltre l’immediata rimunerabilità, in tutta l’area delle nuove tecnologie e dei nuovi servizi. Punto 4 – Quella del servizio pubblico non deve essere una televisione mortificata, mutilata, castrata. Semmai una televisione “garantita” e onorata di esserlo. Certo però una televisione cui non tutto – a cominciare dalla faziosità politica e dal libertinaggio – è permesso: del che una televisione così qualificata non si vergogna, ma semmai si vanta, anche se gliene deriva qualche preclusione, qualche rinuncia. Ha bisogno, il servizio pubblico, di non giocarsi spericolatamente credibilità, ma di legittimarsi e rilegittimarsi continuamente. Per contro il servizio pubblico deve saper accettare sfide difficili. Ad esempio, tra le più ardue: il il ricupero di ascolto giovanile, rispetto alla TV commerciale, Punto 5 – A un servizio pubblico così concepito si oppongono difficoltà che bisogna mettere realisticamente in conto. La prima è l’esigenza del così detto “passo indietro” dei partiti. La quale esigenza impone la ricerca di ogni possibile accorgimento di carattere istituzionale quanto a proprietà, formazione di organi di garanzia o di 30 S T O R gestione: senza scetticismo, ma anche senza astratte illusioni. Congegni normativi e comportamenti si auto-alimentano reciprocamente, ma è il costume il fattore determinante. E sarebbe pur tempo di sentire tutto il valore etico di una sfida: davvero si deve rassegnatamente prender atto che la terzietà del mercato può talvolta favorire l’equanimità informativa più che i principi ideali? In ogni caso non sarebbe tempo di convenire che il miglior modo di onorare una bandiera – per chi una ne abbia – è quello di far bene il proprio mestiere a vantaggio di tutti? L’altra difficoltà sta nel riparto delle risorse tra pubblico e privato, compreso l’ormai affermato polo satellitare. Basti dire al riguardo che non ha senso, o ha solo senso demagogico, lamentare certa degradante mercificazione dei programmi e nello stesso tempo pretendere di porvi rimedio attraverso farmaci come la privatizzazione o come il diniego al servizio pubblico di un canone adeguato: dimenticando che, se non vuole soccombere, ogni euro che gli viene negato come canone, il servizio pubblico deve ricuperarlo acquisendo più pubblicità con tutto quel che ne consegue. Se poi anziché al canone si debba far ricorso alla fiscalità generale, è scelta secondaria. Codicillo a) – Il criterio (peraltro, avallato in sede europea) di distinguere nelle attività del servizio pubblico quelle finanziate dal canone rispetto a quelle finanziate dalla pubblicità mi pare a dir poco peccare di schematismo. Faccio l’esempio di una scelta che sarebbe tipicamente da servizio 31 I A E C U L T U R A pubblico: produrre per la prima serata un intrattenimento affidato ad Arbore piuttosto che l’”Isola dei Famosi”, mettendo in conto la rinuncia ad una quota calcolata di ascolto. Come si contabilizzerebbe questa rinuncia? Codicillo b) Tra le terapie oggi raccomandate c’è la separazione fra emittenza e produzione. Credo che il nostro servizio pubblico dovrebbe piuttosto – senza pretese autarchiche e nei limiti compatibili con il contenimento dei costi fissi – riappropriarsi di quote di ideazione-produzione. Con un duplice scopo: ridiventare a tutti gli effetti dominus responsabile del “prodotto”, ricostituire un patrimonio interno di professionalità non meramente organizzative. Conclusione – Il servizio pubblico (come di fatto è avvenuto soddisfacentemente in periodi passati) dovrebbe reggere su un patto di mutua lealtà con i telespettatori: intesi non come consumatori da cedere agli inserzionisti, ma come cittadini, persone, famiglie. Un servizio pubblico che in qualche modo barasse si autodistruggerebbe. A loro volta cittadini, che se ne stessero pigri, ricettivi come spugne, mai reattivi al di là del mugugno qualunquistico, finirebbero per essere sempre meno rispettati. Patto vuol dire ethos comune. E sappiamo bene di quanto ethos comune abbia bisogno, su più vasta scala, l’Italia di oggi. Anche per questo il regime della televisione e più in generale dei mass media è, se non materia costituzionale, problema di democrazia, partita di portata alta e a responsabilità diffusa. Emilio Rossi n. 1/2007 DESK S T O R I A E C U L T U R A MEDICI DETECTIVE IN TV: E NEGLI OSPEDALI NORMALI SI MUORE ALESSANDRA DIONISIO E’ Alessandra Dionisio, Università Sr Orsola Benincasa, Napoli DESK il 26 gennaio quando si spegne la vita della sedicenne Federica Monteleone, entrata in coma mentre era sottoposta ad un’operazione di appendicite nell’ospedale di Vibo Valentia, a causa di un black out durante il quale non è entrato in funzione il gruppo di continuità, forse perché non collegato alla presa1. La tragedia coinvolge i giovani di Vibo che manifestano in piazza il loro dolore, e la sfiducia nel Servizio sanitario, mentre Cittadinanzattiva richiede con forza risposte chiare, ed in tempi brevi, da parte della Giustizia. Tutto questo accade solo pochi giorni dopo i controlli che i Nas hanno condotto in 321 ospedali, su 672 strutture pubbliche, che però assorbono, per dimensioni e capacità operativa, oltre il 70% dell’assistenza. Insuccesso dichiarato per quattro Regioni, in cui si concentra quasi un terzo degli ospedali monitorati: Lazio, Sicilia, Campania e Calabria, “fanalino di coda” con 19 irregolarità segnalate all’autorità giudiziaria. Emergono carenza di requisiti minimi strutturali, mancato adeguan. 1/2007 mento degli impianti antinfortuni e antincendio, farmaci scaduti, poca pulizia e disfunzioni nello smaltimento di rifiuti speciali, abusivismo2. L’universo salute è oggetto, quindi, di una violenta tempesta mediatica che rinsalda il concetto di mala sanità in contrasto con ulteriori rappresentazioni della salute e della medicina che gli stessi media veicolano. Contestualmente, infatti, i “luoghi” del nostro immaginario vengono interessati dall’imperversare di un fenomeno televisivo che segna una significativa rottura nelle modalità di rappresentazione della salute e della medicina. Debutta su Italia 1 il 1° Luglio del 2005 ed è subito trionfo; 3.440.000 spettatori di media, 17,5% di share; la seconda stagione, in onda da settembre 2006 (dal 19/01 è partita la terza serie), sempre sulla stessa rete, naviga su medie ancora più alte, al punto che il 17 settembre, “Dr.House Medical Divsion” è stato il programma più visto della serata (4.774.000 spettatori, 19,73% di share). Dr.House, personaggio creato da Da- 32 S T O R vid Shore, ed ispirato al leggendario investigatore Sherlock Holmes, protagonista dei romanzi di Conan Doyle, è un medico cinico, scorbutico ma soprattutto geniale nelle modalità dei suoi approcci terapeutici, politicamente scorretto, riduce al minimo i suoi rapporti con i pazienti; irriverente al punto da pronunciare frasi del tipo “Preferisce un dottore che le tiene la mano mentre lei muore o uno che la ignora mentre cerca di guarirla?”, maltratta costantemente il suo staff di collaboratori nel tentativo di risolvere il “caso”, che sceglie di seguire solo se altri lo definiscono impossibile da risolvere. Detesta il banale servizio ambulatoriale, supera a volte i limiti dell’etica, con l’unico obiettivo di salvare i suoi pazienti. Ma cosa succede al “pianeta salute”? Non si sostiene con insistenza la necessità di costruire un dialogo tra discipline finalizzato all’armonizzazione del rapporto medico- paziente e con l’obiettivo di raggiungere un miglioramento continuo della qualità dell’assistenza? Come può raccogliere consensi così elevati un serial in cui il protagonista è la rappresentazione dell’esatto contrario di ciò che dagli studi, dalle ricerche, dalla normative si evince essere il modello di qualità del professionista della salute? Forse si tratta solo di un’apparente contraddizione che un’analisi più attenta è, infatti, in grado di disvelare. Gregory House, capo del Dipartimento di Medicina diagnostica al Princeton- Plainsboro Teaching Hospital, 33 I A E C U L T U R A una clinica universitaria del New Jersey, a causa della morte di un muscolo della gamba destra, provocata da un trombo diagnosticato troppo tardi, zoppica ed usa un bastone per camminare, incarnando contemporaneamente la figura del medico risolutore ed i limiti della medicina, essendo egli stesso un paziente sofferente, che fa un uso smodato di antidolorifici. Gli episodi seguono uno schema rigido in cui nella prima fase si presenta il caso attraverso la manifestazione della disfunzione o anomalia, seguono le riunioni di staff per le diagnosi ed i tentativi di cura trials and errors, fino al climax: l’intuizione del Dr.House che svela il mistero e, trovando la causa, a volte salva il paziente. L’approccio è illness centered, non patient centered. L’oggetto è la malattia, bisogna scoprirne la causa. Non è detto che il lieto fine arrivi, ma gli episodi si concludono sempre con la vittoria della ratio e quindi con l’identificazione delle cause, in un modello bio-medico scientista. “Interruzione, incoerenza, sorpresa sono le condizioni della nostra vita” sottolinea Paul Valery in una della sue poesie, che apre tra l’altro il testo di Bauman “La modernità liquida”. La fluidità dei sistemi fa dissolvere persino il valore dell’autorevolezza e nella società dell’incertezza e del rischio, House ricompone la frattura del sistema fiduciario, non “vende” la cultura della sicurezza3, del buonismo o della falsa aspettativa, propone una sua cultura dell’insicurezza che rompe i tabù n. 1/2007 DESK S T O R I A E C U con la cultura del rischio residuale, presupponendo la disponibilità a discutere e a riformare apertamente e pubblicamente i fondamenti dei suoi approcci che nascono dal confronto con la sua equipe. Pone le carte sul tavolo, e non ha atteggiamenti paternalistici e se usa l’inganno, e lo fa con frequenza, è sempre poi rivelato in ragione di un’esasperata chiarezza e a volte impudenza. Un altro aspetto che induce alla riflessione è il concetto di qualità che non si rappresenta come umanizzazione delle relazioni, ma come efficienza dell’intero sistema, come “infallibilità” del professionista, sempre più vicino alla figura del detective tratteggiata da Kracauer nel suo “Il romanzo Poliziesco”. A volte con l’assenso del paziente, altre volte furtivamente, House va direttamente, o delega il suo staff, a frugare nella casa del degente, per scoprire probabili cause della malattia, o anche solo per sbugiardare le false dichiarazioni del paziente, che messo alle strette rende più facile l’individuazione del vero colpevole del suo dramma psico- fisico. Infatti, come il romanzo poliziesco anche Dr.House inaugura un genere stilistico ben determinato che presenta dichiaratamente un suo proprio mondo per mezzi di strumenti estetici caratteristici e peculiari4. House incarna una società razionalizzata, in cui l’intelletto privo di qualsiasi vincolo riporta la vittoria finale sulla risoluzione dei casi, veicolando ordine nel caos dell’organismo e dell’individuo. DESK n. 1/2007 L T U R A Niente liste di attesa, non ci sono guasti ai macchinari. Il sistema di servizi è impeccabile. L’efficienza è sovrana. La precarietà e l’instabilità caratteristiche più diffuse della condizione della vita contemporanea, avvertita come particolarmente snervante e deprimente, non trova posto nella macchina organizzativa del Princeton- Plainsboro Teaching Hospital. Nell’evitare il dialogo con i pazienti, Dr.House valorizza la narrativizzazione della situazione clinica. Infatti, racconto e messa in dialogo che, anche se non avviene secondo un modello di comunicazione negoziale, che per House è solo una “messa in scena” in cui il territorio viene inquinato dalle bugie che i pazienti raccontano, rappresentano sempre il luogo in cui si rintracciano le cause delle malattia e quindi dove risiedono anche le possibili soluzioni del caso. Nel negare la comunicazione ne si accentua il suo valore terapeutico, nell’elogiare la ratio come unico strumento di “illuminazione” si dà luce nel contempo alle debolezze umane, e alle ricchezze dell’individuo. Dr.House nel negare l’importanza dell’umanizzazione, non fa che esaltarne la straordinaria utilità, evidenziando l’unicità dei singoli individui e la straordinaria ricchezze delle storie personali. Di fronte alle quali anche lui, il medico, il diagnostica, la Ragione e la Scienza a volte resta sorpreso. Il paziente è lettore del testo di cui è protagonista, ed è chiamato anche senza la sua volontà a cooperare alla costruzione di senso di sintomi e 34 S T O R disturbi, attraverso una lettura di testo che rende così possibile l’interpretazione dell’evento- malattia. Il medico non è solo il Dio-detective che governa il gioco dell’indagine, non è solo l’eroe che vuole affermare in ogni circostanza la verità certa, ma è colui che ricostruisce la storia clinica, leggendo ed interpretando anche in assenza di una comunicazione bidirezionale la storia clinica e la storia individuale del paziente. House costruisce con i degenti una relazione di assoluta, silente e di invisibile complicità. Il metodo di lettura del vissuto di disagio è atipico: riannodare i fili spezzati dall’irrompere dell’evento patologico non attraverso il dialogo, ma utilizzando gli strumenti dell’indagine. Indagine psicologica, osservazione dei particolari, messa in scena di psico-drammi, ma anche indagini invasive, test clinici ad alto rischio, tutto è concesso in questo “gioco” di scoperte. La dimensione singolare e biografica del paziente viene recuperata attraverso un susseguirsi di inferenze e deduzioni, senza dover richiedere un atteggiamento empatico da parte del medico, rispondente alle esigenze di “riumanizzazione” del lavoro clinico. La dimensione storicoevolutivo della malattia viene recuperata grazie alle capacità semiologiche del Dr.House, che a dispetto di quanto brutalmente ostentato, è un ottimo comunicatore, nelle sue capacità di ascoltatore e di lettore di segni e significati. Anche in questa narrazione mediatica l’espletarsi della trama narrativa, del vissuto individuale del paziente 35 I A E C U L T U R A si dimostra centro del percorso diagnostico e terapeutico. Il recupero della dimensione individuale intesa come attenzione al vissuto del singolo nella sua sfera personale, non in un’ottica di buonistica umanizzazione, dimostra di essere la vera chiave di volta per l’individuazione del nodo patologico che irrompe nell’iter della routine quotidiana del paziente. Sebbene, quindi, la pratica dialettica rappresentata nel serial risulti contraddittoria con un approccio medico- paziente indirizzato alla ricostituzione di una bidirezionalità del flusso comunicativo, il valore della cooperazione terapeutica e dell’anamnesi è enfatizzato come momento di liberazione del paziente dal suo mal- essere. Spunti di riflessione nella rivisitazione del ruolo del medico e del valore della qualità assistenziale proposta da DR.House possono, quindi, persino innestarsi nella fase di trasformazione e cambiamento che nell’ultimo quindicennio ha attraversato il Servizio Sanitario Nazionale, mettendo seriamente in discussione consolidate pratiche relazionali interne e stili di rappresentazione esterna, incidendo in modo determinante sul rapporto tra l’istituzione ospedaliera e territoriale e la sua utenza5. Possiamo ritenere queste dinamiche come parte di un ampio mutamento sociale e culturale che vede una crescente responsabilizzazione da parte degli enti erogatori6, che sono chiamati ad una partecipazione collettiva volta al take care dell’utente. Si tratta infatn. 1/2007 Note 1http://qn.qu otidiano.net/ Il Sole24 ore Sanità, 11-01-2007 2 3 Beck U.- "La società mondiale del rischio"- La Repubblica 13 dicembre 2002 4 Kracauer S."Il romanzo poliziesco"1984, Editori Riuniti 5 A questo proposito vanno ricordate le indicazioni del Piano Sanitario 2001-2003 che indica come principi di riferimento l'umanizzazione e la centralità della persona, tracciando i confini i quello che viene definito "patto di solidarietà sociale prevdedendo il necessario impegno e coinvolgimento dei cittadini, degli operatori e del mondo della comunicazione. DESK S 6 Leonzi S- La salute tra norma e desiderio", Meltemi, 1999 7 Grilli R.- "Governo Clinico: innovazione o dejà vù?" in Grilli R.Taroni F. (a cura di) "Governo Clinico" T O R I A E C U ti di orientare la scelta del paziente, di seguirlo all’interno della struttura- rispettando vincoli di efficienza e di efficacia clinica, curando il processo di accoglienza in un’ottica di umanizzazione dell’assistenza-, di supportarlo nel comprendere le scelte terapeutiche (consenso informato), fino alla fase della dimissione e alla continuità della cura nella post-dimissione7. Un lavoro corale che richiede consapevolezza da parte di tutti i partecipanti, con la necessità di organizzare procedure e processi condivisi dal team. Risulta, L T U R A quindi, strategico il ruolo della comunicazione, non solo sapere esperto che si innesta nel già consolidato universo della medicina, rischiando di collidere con esso, ma strumento per analizzare e decodificare lo scenario socio- ambientale che alimenta l’immaginario collettivo e per rispondere concretamente, ed in modo flessibile, alle esigenze di qualità espresse dai cittadini, ma anche alle necessità organizzative degli operatori. Alessandra Dionisio L'INGRESSO DI SKY NELL'AUDITEL Dal primo aprile di quest'anno anche Sky ha fatto il suo ingresso nell'Auditel, il sistema di rilevazione degli ascolti radio-televisivi. E’ stato finalmente possibile conoscere audience e share della pay-tv italiana, eccezion fatta per i canali ospitati sulla piattaforma che dovranno decidere autonomamente se aderire alla proposta. "In questo momento - ha affermato Tom Mockridge, amministratore delegato di Sky Italia - stiamo finalizzando il contratto con l'organismo di rilevazione. Abbiamo sempre detto che l'unica condizione fosse l'aggiornamento del panel in linea anche con gli sviluppi della tecnologia". Il Comitato tecnico dell'Auditel ha così varato il nuovo panel control (il campione sulla base del quale verranno effettuate le rilevazioni) comprensivo della possibilità di monitorare quattro milioni di famiglie abbonate alla paytv. L'Auditel potrà rendere noti gli ascolti dei singoli canali satellitari al pubblico e, soprattutto, agli inserzionisti pubblicitari che fino a questo momento avevano investito (circa 200 milioni di euro nel 2006) senza sapere quanto fossero effettivamente seguiti i programmi sponsorizzati. (Camilla Rumi) DESK n. 1/2007 36 S T O R I A E C U L T U R A COMUNICARE PER RASSICURARE: UN IMPEGNO DELLA POLIZIA ROBERTO SGALLA L’ aspirazione dei cittadini a vivere liberi dalla “paura” ha ampliato notevolmente il concetto di sicurezza che oggi ricomprende tutti i fenomeni che incidono sulla qualità e la tranquillità nella vita. Ciò ha generato un concetto di percezione della sicurezza che è tutt’altro rispetto alla nozione di sicurezza oggettivamente intesa e che si declina attraverso i dati e le statistiche. La sicurezza è sempre più un indice di qualità della vita e quindi non più determinata solo dalla nozione di ordine e sicurezza pubblica. Ciò ha portato profondi cambiamenti anche nell’attività delle Forze di Polizia poiché accanto alla tradizionale attività reattivo-preventiva assume sempre più importanza il tema della “rassicurazione” tesa ad attenuare quei comportamenti che creano disagio o allarme sociale. È evidente che tale attività di carattere prevalentemente preventivo non può riguardare solo l’azione delle Forze di Polizia nazionali, ma essa diventa un’attività di tanti “soggetti privati e pubblici” che possono contribuire a 37 rendere più sicuri i territori. In tale ottica la Polizia di Stato ha individuato nella “sicurezza partecipata” una strategia in grado di coinvolgere i soggetti interessati, di attivare ognuno in relazione alle responsabilità e alle funzioni la parte di “missione” che risponde all’esigenza di incidere nella tranquillità sociale e ha adottato il tema della “polizia di prossimità” come ulteriore elemento strategico della propria attività. La Polizia di prossimità si deve intendere come polizia sempre più vicina al cittadino attenta ai suoi bisogni, in grado di intercettare la domanda di sicurezza e fornire una risposta adeguata anche per quanto concerne il tema della “rassicurazione”. Tutto questo è avvenuto non solo attraverso una riconfigurazione degli assetti organizzativi interni ma anche attraverso innovazioni nel rapporto con i diversi attori sociali che concorrono nel governo della sicurezza. Enti territoriali, rappresentanze di categorie socio-produttive, mezzi di informazione, istituti di vigilanza, operatori sociali, società di assicurazione, esperti in innovazioni tecnologiche, hanno così affiancato la polizia, n. 1/2007 Roberto Sgalla, Questore, direttore ufficio relazioni esterne e cerimoniale dipartimento della pubblica sicurezza DESK S DESK T O R I A E C U condividendo l’onere di una nuova disciplina sociale della sicurezza. La strategia della Polizia di prossimità è quindi il frutto di un’evoluzione che indubbiamente risente di fattori esogeni ed endogeni. Quelli esterni derivano da un mutato quadro di riferimento dei valori della collettività e, come accennavo all’inizio, il diritto alla sicurezza come uno dei principali diritti rivendicati e che ha allargato la sua sfera al tema della qualità della vita, facendo rientrare nel concetto di sicurezza tutti gli eventi e i fenomeni comunque in grado di incidere nella tranquillità sociale. Sul fronte interno la Polizia di prossimità, pur senza far venir meno la missione tradizionale dell’azione di polizia basata sul controllo del territorio e le attività di prevenzione e il contrasto alle varie forme di criminalità, è diventata una cornice con elementi anche interistituzionali che è la grande novità nelle politiche di sicurezza portate avanti negli ultimi anni. Nell’ambito delle società democratiche avanzate il consenso, la legittimazione sociale e il sostegno dei cittadini sono elementi fondamentali per un’istituzione come la Polizia. La sua stessa immagine, interna ed esterna, viene continuamente sottoposta a conferme o disconferme. Oggi che ogni forma di esercizio della potestà, di concorrenza e di conflitto viene combattuta anche a livello comunicativo, è fondamentale per ogni amministrazione pubblica elaborare una strategia globale e coordinata per comunicare la propria identità, le proprie iniziative e le relative attività. Similmente alle altre organizzazioni pubbliche anche la Polizia di Stato che n. 1/2007 L T U R A - nel suo duplice ruolo di creatore e garante della sicurezza pubblica e di facilitatore della realizzazione di una “sicurezza partecipata” - ha come fine ultimo la cura concreta degli interessi della comunità, deve con questa continuamente interagire, tenendo conto del fatto che molti dei cambiamenti intercorsi nell’ultimo decennio nelle istituzioni pubbliche italiane hanno riguardato proprio questa relazione, trasformando i rapporti con i cittadini e dando vita a nuove esigenze e a nuovi modelli di relazione. In questo quadro il tema della comunicazione istituzionale assume un ruolo centrale e strategico. Non si può infatti parlare di Polizia di prossimità senza associarla ad una strategia di comunicazione adeguata e integrata. La comunicazione pubblica è un indicatore della qualità dei rapporti fra cittadini e amministrazioni, ed è ormai un dovere della pubblica amministrazione e quindi anche della Polizia di Stato; un mezzo strategico che favorisce il conseguimento di un bene pubblico. Deve essere realizzata sempre con maggiore professionalità e competenza. La Polizia di Stato ha oggi un’organizzazione centrale e periferica che parte dall’ufficio relazioni esterne del Dipartimento della Pubblica Sicurezza e si articola in ogni questura con un funzionario con l’incarico di portavoce responsabile ufficio stampa, pagine web e U.R.P., supportato da personale dei vari ruoli della Polizia di Stato e dell’Amministrazione civile dell’Interno. Nel tempo è stato programmato e realizzato un percorso di formazione permanente dei portavoce e del personale addetto per evitare improvvisazioni e per fornire i necessari strumenti ope- 38 S T O R rativi. La comunicazione per la Polizia di Stato è diventata così strategica perchè collabora al raggiungimento degli obiettivi dell’istituzione, in particolare sul versante preventivo-rassicurativo. Prima del 2000 per la Polizia di Stato la comunicazione istituzionale aveva carattere episodico, personalistico, non strutturata sia a livello centrale che periferico. La comunicazione non era considerata un elemento strategico e si limitava al più ad offrire un valore aggiunto all’operatività della Polizia di Stato. Da anni si è compreso che la comunicazione ha un ruolo importante nella strategia rassicurativa, partendo da alcune osservazioni anche banali dalle quali si è compreso che il crimine fa ascolto e la violenza spettacolo. La forza mediatica della TV ha fatto sì che la paura e l’insicurezza si estendesse più o meno omogeneamente in tutta Italia. I mass media hanno un forte potere di influenzare la percezione fino a generare sentimenti di paura e insicurezza. La parola sicurezza è associata troppo spesso a fenomeni come emergenza o allarme. Va sottolineato che i sistemi di comunicazione rompono la segregazione istituzionale e ciò che accade in qualsiasi luogo è come se accadesse dove noi siamo. L’aforisma “bad news are good news” sembra costruito sul paradigma della sicurezza. Vanno ulteriormente segnalati, in termini di generazione di insicurezza, alcuni aspetti antropologici che gli studiosi hanno racchiuso nelle affermazioni “segni di Caino” e “sentimenti patibolari”. Sono rappresentazioni che i lettori danno della devianza e che i produttori di mass media forniscono in modo simbolico. I mezzi di comunicazione cercano di 39 I A E C U L T U R A “valorizzare” questi sentimenti dei consumatori; usando una metafora medievale possiamo affermare che spesso assistiamo ad una forma di “gogna virtuale”. E’ evidente che anche se in modo inconscio ciò può provocare sentimenti di insicurezza, incertezza, alimentando in alcuni casi l’intolleranza verso il diverso, la “paura” verso fenomeni di cui non si conoscono bene i contorni. Spesso infatti alcuni “fatti criminali” sono rappresentati e raccontati con una logica prevalentemente aliena da una dimensione esplicativa che potrebbe invece aiutare a stemperare la paura. Ma è altrettanto vero che la comunicazione può giocare un ruolo positivo. In questo quadro, il CENSIS nel 2003, nel suo 37° Rapporto annuale enunciava: “...Infine, nel parlare di comunicazione istituzionale non si può far a meno di menzionare l’attività di comunicazione della Polizia di Stato che negli ultimi anni si è posta esplicitamente l’obiettiva di comunicare per rassicurare. A questo scopo ha adottato una strategia integrata per il miglioramento ed il rafforzamento dell’immagine, che ha incluso la riorganizzazione del settore comunicazione e l’estensione anche a livello periferico della capacità di dialogare con i media. ...” In modo sintetico è l’individuazione della missione della comunicazione della Polizia di Stato. Nell’esame dei rapporti tra i mass-media e i comunicatori della Polizia di Stato non va sottaciuto che alcune volte c’è un “conflitto” tra le esigenze dei giornalisti e quelle più generali di sicurezza. La riservatezza dei comunicatori della Polizia di Stato non è una volontà di censurare la notizia o non adempiere al dovere di informazione ma è la premessa per garantire la sicurezza, per evitare che open. 1/2007 DESK S DESK T O R I A E C U razioni, indagini possano essere depotenziate da fughe di notizie oppure creare un allarme inutile e dannoso per le attività sociali ed economiche. Su questo tema il dibattito è aperto e le opinioni sono tutte legittime, ma credo che un forte ruolo lo possano giocare gli stessi mass media con la capacità di “autolimitarsi” nella ricerca e divulgazione delle notizie e della fonte quando queste possano mettere in gioco il valore da proteggere. Per la Polizia di Stato all’interno della mission della comunicazione ci sono altri obiettivi, incrementare la visibilità della stessa, offrire un valore aggiunto all’operatività, raccontare chi è, cosa fa, promuovere l’immagine, adempiere al dovere di informare, trasferire conoscenze e saperi, migliorare la percezione della sicurezza, generare domanda dei servizi e migliorarne il risultato. Per realizzare ciò si utilizzano strumenti tradizionali ed innovativi: l’ufficio stampa, il sito www.poliziadistato.it, considerato uno dei migliori siti di servizio della Pubblica Amministrazione, la rivista ufficiale Poliziamoderna. Ma accanto a questi vanno segnalati i progetti di educazione alla legalità realizzati con il mondo della scuola e partners sociali che in sei anni hanno permesso di incontrare migliaia di bambini/e, ragazzi/e ed adolescenti. “Icaro”, “Un pallone per amico”, “Il poliziotto un amico in più”, sono quelli che hanno riscosso maggior consenso. Sono a pieno titolo attività di prevenzione primarie necessarie ed utili per costruire un tessuto sicuritario e maggiormente rispettoso delle regole. Gli obiettivi e gli strumenti citati sono funzionali a favorire un circuito virtuoso fondato sulla fiducia del cittadino, il n. 1/2007 L T U R A consenso la legittimazione. Ciò è importante perchè in un sistema di relazioni quali sono i processi di comunicazione la fiducia è un pilastro importante per creare condizioni rassicurative. E’ altresì importante e centrale in tale contesto, cioè nei processi di comunicazione, il tema della fonte. Per la Polizia di Stato è “conveniente” comunicare perchè ha la conoscenza specifica di alcuni temi e questo può portare ad un ridimensionamento della paura prodotta da parte dei media perchè è possibile orientare, chiarire, illustrare, fornire dati, informare. Oggi anche all’interno della Polizia di Stato si avverte come il rapporto con i media è vissuto come una “risorsa” che va valorizzata per apportare benefici di immagine e di visibilità pubblica all’istituzione ed i suoi rappresentanti. Infine, nel parlare della fonte non si può non indicare i criteri che informano il lavoro del portavoce. Trasparenza, credibilità, affidabilità, disponibilità completa sono dei capisaldi da cui non si può prescindere. Il sistema di relazioni instaurato con i mezzi di comunicazione ha fatto sì che oggi la credibilità sia un elemento fondamentale per poter orientarsi nella comunicazione, per cercare di “disinnescare” alcune volte problematiche e situazioni che potrebbero deflagrare. Un esempio per tutti a riprova dei valori e dei criteri che improntano il lavoro di comunicazione è la pubblicazione sul sito della Polizia di Stato e su alcuni giornali a tiratura nazionale e locale delle località dove vengono istallati gli autovelox e dove sono posizionati i sorpassometri. Roberto Sgalla 40 T E S I D I L AU R E A Il giornalismo musicale di Filippo Storani Università LUISS, Roma Relatore Prof. Massimo Baldini F in dalla sua nascita, negli Anni ’50, la musica pop è caratterizzata da una diffusione intermediale che ne permette l’ascolto ad un pubblico massificato. Ancora oggi i suoni della canzone pop ci avvolgono continuamente accompagnando la nostra quotidianità. In questa tesi ho indagato il rapporto imprescindibile e indissolubile tra la musica pop e i media evidenziando come la promozione e l’informazione musicale si avvalgano dei mezzi di comunicazione per presentare al pubblico la canzone pop attraverso linguaggi diversi e strategie precise. Adottando una prospettiva socio-semiotica ho esplorato il sistema intermediale attraverso cui la musica pop si manifesta e che stravolge la natura originaria della canzone stessa dando origine a linguaggi e fruizioni diverse. In particolare mi sono soffermato sul rapporto tra musica e Tv dando ampio spazio al ruolo svolto da MTV e dal videoclip, sull’ iconografia pop attraverso l’analisi delle fotografie e delle copertine degli album e, infine, sulla stampa musicale. L’esclusione della radio è stata motivata dalla scelta di studiare attentamente quei luoghi nei quali la canzone viene sconvolta e riformulata totalmente in nuove forme. Alcuni casi esemplari dell’importanza svolta dai media per la promozione degli artisti sono stati analizzati con cura con lo scopo di portare alla luce il contributo che la stampa, le copertine musicali e i videoclip svolgono, non solo a livello promozionale, ma anche a livello culturale nel completare l’ ascolto di un brano. Per quanto riguarda la stampa ho scelto la storica rivista inglese NME (New Musical Express). Ho individuato e distinto quattro dimensioni del testo: il piano dell’espressione, la dimensione enunciativa, la dimensione cognitiva e la dimensione passionale. Ognuno di questi livelli del testo determina specifici “effetti di senso” nel suo rapporto con gli altri piani del discorso. Il secondo caso scelto è quello delle copertine degli album delle band inglesi Blur e Oasis. L’analisi avviene attraverso la segmentazione di ogni testo scelto e l’individuazione delle due componenti, quella visiva e quella verbale. Il terzo e ultimo caso proposto riguarda il ruolo del videoclip nella creazione dell’identità della band inglese Blur. Nel corso dell’analisi vengono messi in risalto gli elementi verbali, sonori e visivi che caratterizzano alcuni sequenze di videoclip accuratamente sele- 41 n. 1/2007 DESK T E S I D I L AU R E A zionate e che mostrano il graduale cambiamento della band negli anni. Infine uno spazio importante è stato assegnato al processo di smaterializzazione della musica che ha dato vita a nuove forme di comunicazione basate sulla multimedialità e sull’interattività. Con la diffusione di Internet è stato possibile scavalcare i passaggi del tradizionale schema di distribuzione e comunicazione della musica (disintermediazione) e permettere il passaggio dai vecchi ai nuovi media attraverso la rielaborazione delle forme sociali, dei canali e dei linguaggi dei media tradizionali (rimediazione). TESI DI DOTTORATO IN SCIENZE DELLA COMUNICAZIONE E ORGANIZZAZIONI COMPLESSE Gli spazi d’inclusione degli stranieri in città. Attori collettivi e prassi quotidiane nell’esperienza romana di Cristiana Paladini Università LUMSA, Roma Relatore Prof. Donatella Pacelli DESK Il lavoro di ricerca è stato volto ad indagare alcuni aspetti della convivenza interculturale mettendo in luce le dinamiche di inclusione sociale dei migranti nelle nostre metropoli. Tenendo presente l’estrema varietà del tessuto sociale contemporaneo, si cercato di non perdere di vista l’idea che le migrazioni siano - come sosteneva Sayad - ‘fatti sociali totali’ e in quanto tali da approfondire nella loro complessità. Ciò determina un cambio di prospettive: il migrante non è solo colui che arriva e si inserisce nella società di accoglienza, è colui che parte, sradicandosi da uno specifico contesto socio-culturale e da una realtà in continuo mutamento. Le relazioni che tesse, gli esiti del suo inserimento, sono segnati dalla memoria, dal viaggio, dalla situazione politico-economica per cui questo viaggio avviene, non meno che dal trauma dell’impatto, dalle politiche migratorie del paese di destinazione, dai legami preesistenti e dagli incontri quotidiani in una realtà nuova per lui, ma anche per chi in lui vede ‘ lo straniero ’. Sintetizzare questa realtà in modelli predefiniti, discutere del fallimento di politiche migratorie in termini di conflitti di civiltà e insanabili divari culturali, significa oggi imprigionare fenomeni soggetti a continuo mutamento in strutture rigide destinate a non contenerli oltre che a non spiegarli. Ripensare le vecchie modalità di incontro con l’alterità includendo una pluralità di prospettive implica invece lo sforzo di reimmaginare le relazioni e n. 1/2007 42 T E S I D I L AU R E A con esse le parole che spiegano e producono la realtà. Si tratta di un’esigenza di rinnovamento che coinvolge direttamente il linguaggio scientifico insieme a quello politico e mediale, in quanto produttori e riproduttori delle forme del parlare e del relazionarsi nella quotidianità. Questo lavoro ha cercato di mettere in luce alcuni spazi fisici e simbolici di costruzione di tali relazioni, e, nella convinzione che l’incontro avvenga tra individui, prima ancora che tra culture, lo ha fatto guardando alle pratiche sociali della responsabilità che sono agite dalle persone. Si è quindi scelto di osservare la mobilitazione dei movimenti, delle associazioni, di quegli attori della società civile che si adoperano quotidianamente per facilitare l’inclusione sociale degli stranieri e la convivenza interculturale. La riflessione, in una prima parte strettamente teorica, muove dal concetto di alterità per indagare la costruzione del legame sociale e del senso di appartenenza, ma anche dello stereotipo e dello stigma goffmaniano, nell’idea che lo straniero, prima di essere tale, è innanzi tutto “altro”. Colui che segna il confine nell’analisi simmeliana, chi ci obbliga a smettere di ‘pensare come il solito’ in Schutz, l’outsider in Elias, spingono da punti di vista distinti ad un’osservazione attenta delle relazioni che si instaurano nelle società in cui entrano i nuovi arrivati. Guardare ai classici e alla loro rappresentazione dello “straniero” diviene così un modo per dare complessità alla lettura del presente ma anche per recuperare un filo conduttore con il passato. Emerge così un rapporto con l’alterità tutt’altro che semplice, che si realizza in spazi di convivenza che spesso sono luoghi di indifferenza, di non coinvolgimento, in cui il timore nei confronti di un’alterità indefinita facilita il proliferare di vecchie e nuove forme di razzismo, da quello popolare che si nutre di ignoranza a quello ‘colto’ che, si alimenta col discorso comune e lo riproduce. In una seconda parte l’osservazione si è spostata dalla prospettiva micro a quella macrosociale, la figura dello straniero è stata ricollocata in un’analisi degli attuali flussi migratori e delle scelte politiche italiane ed europee in materia di gestione degli ingressi e di integrazione. Muovendosi da queste premesse lo studio empirico che ha interessato l’area romana, ha sottolineato il ruolo di alcuni attori collettivi provenienti dal mondo dell’associazionismo operante nel settore dell’immigrazione, con l’idea che il radicamento nel territorio di questi gruppi, la flessibilità dei loro interventi, il coinvolgimento di autoctoni e operatori, potessero rappresentare dei punti di forza e di completamento rispetto all’azione istituzionale, nel costruire momenti di dialogo e reti di inclusione sociale nella capitale. Il lavoro si è svolto seguendo due direzioni fondamentali di ricerca: la prima ha avuto come obiettivo la mappatura degli attori sul territorio e l’analisi, attraverso l’utilizzo di un questionario, dei loro interventi, delle reti di relazioni costruite, della distribuzione nei municipi, degli ambiti privilegiati 43 n. 1/2007 DESK T E S I D I L AU R E A di azione. Questa osservazione ha rappresentato uno strumento utile per mettere a fuoco le peculiarità di alcune organizzazioni ma soprattutto le tendenze principali messe in atto da attori tanto eterogenei. In secondo luogo, per approfondire alcuni temi rimasti inevitabilmente esclusi da una prima analisi quantitativa, legati maggiormente alle scelte individuali, alle motivazioni, ai legami con la politica e ai modi di intendere il rapporto con l’alterità nel lavoro svolto dalle varie associazioni, sono stati interpellati i protagonisti di queste attività. Sono stati quindi intervistati venti operatori e volontari che, scelti per i loro incarichi all’interno delle rispettive organizzazioni, potevano essere considerati testimoni privilegiati, nel duplice ruolo di portatori delle istanze del gruppo e delle storie di vita personali legate alla loro esperienza sul campo. Il duplice approccio alla questione ha permesso l’emergere di luci ed ombre nell’osservazione di queste realtà e dei processi di inclusione nello spazio romano: al lavoro di alcuni si affianca il disinteresse di molti, al dialogo la difficoltà di interazione, tuttavia, proprio alla luce della complessità delle relazioni stabilite, l’impegno di molti operatori nella lotta all’esclusione sociale diviene risorsa preziosa per rispondere alle esigenze di una società che si confronta quotidianamente con le diversità. a in No- mutico o raone epo- istiqua nda, n li- TESI DI DOTTORATO COMUNICAZIONE E ORGANIZZAZIONI COMPLESSE ista, o in gior- IN SCIENZE DELLA Processi di produzione e riproduzione culturale nella postmodernità. Auditorium Parco della Musica e Notte Bianca: due industrie culturali a confronto. smo bels, di Francesca Ieracitano Università LUMSA, Roma Relatore Prof. Donatella Pacelli I DESK l clima postmoderno ha portato con sé una serie di ricadute che hanno generato una trasformazione nelle forme e nei fenomeni culturali che caratterizzano la società e sui quali essa si fonda. Per affrontare un’analisi della società postmoderna si è scelto di adottare una prospettiva di tipo culturologico mettendo in rilievo l’elemento normativo, inteso come una vera e propria forma di controllo che la cultura esercita sulla società e sugli individui. Ciò consente di ragionare su una realtà non de-contestualizzata, ma che riflette i limiti e le problematiche dell’epoca nella quale è inserita, mettendo così in primo piano il rapporto dialogico n. 1/2007 44 T E S I D I L AU R E A che lega l’individuo contemporaneo alla cultura del suo tempo. La letteratura sulla postmodernità ha intravisto nei modelli di comportamento oggi diffusi delle nuove esigenze individuali o collettive. Malgrado ciò, essa difficilmente si è soffermata a riflettere sui modi in cui la cultura risponde e interpreta tali esigenze più o meno temporanee. Pertanto, obiettivo di questo lavoro, non è solo quello di comprendere meglio il clima dionisiaco che si respira nella società contemporanea, ma anche quello di studiare i processi che si collocano a monte di certe effervescenze sociali. Per farlo si è fatto riferimento ad alcuni autori classici del pensiero sociologico che hanno utilizzato l’elemento culturale come chiave interpretativa della società e che hanno dato i contributi più significativi in merito ad una lettura dei fenomeni e dei processi culturali che hanno connotato la società moderna. La rivisitazione di questi contributi ha sollevato una serie di interrogativi circa la necessità di rimanere ancorati a delle categorie interpretative come quelle di cultura, produzione e riproduzione che, evidentemente, in un altro contesto storico sociale, trovavano la loro ragion d’essere in una concezione totalitaria e totalizzante di cultura. Diviene, allora, inevitabile chiedersi come avvengano e come incidano i processi di produzione e riproduzione della cultura sulla creazione di nuovi fenomeni e dinamiche culturali, fondamentali per la definizione di un articolato scenario quale è quello attuale. Per rispondere a questo quesito, nella parte empirica del lavoro, sono stati scelti due ambiti di osservazione privilegiati come: L’Auditorium Parco della Musica di Roma e la Notte Bianca. All’interno di questi due contesti è stato possibile analizzare in modo diretto i contenuti dell’attuale trasformazione culturale isolando tre ordini di fattori che a vari livelli si inseriscono all’interno dei processi produttivi e riproduttivi e si rivelano influenti nel contribuire alla creazione di certi fenomeni culturali e nel condizionarne l’esito: Le Organizzazioni complesse: sistemi istituzionali, e non, preposti alla produzione culturale e al controllo di essa, attraverso dinamiche di riproduzione. L’Auditorium Parco della Musica di Roma e la Notte Bianca ne sono un esempio concreto, al loro interno è stato possibile osservare in modo diretto i meccanismi di funzionamento delle nuove “industrie culturali”. L’universo dei fruitori di prodotti/oggetti culturali: è il pubblico di questi due contesti culturali sottoposto ad indagine attraverso due questionari strutturati che hanno permesso di comprendere perché oggi ha più senso parlare di esperienza culturale più che di fruizione. L’oggetto culturale è stato studiato attraverso un’analisi del contenuto incentrata sull’offerta dell’Auditorium Parco della Musica dalla quale si è evinto che i contenuti culturali contemporanei, oltre al bisogno di loisir, si sforzano di soddisfare anche il bisogno di autocomprensione dell’uomo contem- 45 n. 1/2007 DESK T E S I D I L AU R E A poraneo. L’ipotesi che fa da sfondo a tutto il lavoro si fonda sul presupposto che, malgrado le trasformazioni che li hanno segnati, i processi di produzione e riproduzione culturale, in realtà, non rinunciano - neanche in uno scenario postmoderno - ad esercitare delle forme “creative” di controllo sociale nei confronti di individui/fruitori animati dal desiderio di sfuggire a qualsiasi condizionamento. Nasce da qui l’urgenza di soffermarsi a riflettere sui cambiamenti che hanno investito gli ordini di idee e le categorie interpretative dell’individuo postmoderno. Il giornalismo di Walter Tobagi di Cimmino Valentina Relatore: Paolo Scandaletti Università degli Studi Suor Orsola Benincasa L DESK ’obiettivo del lavoro è quello di ripercorrere la vita di Walter Tobagi, dirigente sindacale e giornalista del “Corriere della Sera”, ucciso il 28 maggio 1980, a soli 33 anni, da un commando terroristico. Lo studio si sviluppa attraverso l’analisi dei momenti più importanti della vita di Tobagi, nonché dei ruoli da lui svolti nel mondo giornalistico e sindacalista. Oltre l’utilizzo di libri sulla figura di Tobagi, la ricerca bibliografica si è avvalsa dei volumi scritti dallo stesso e, soprattutto, dei numerosi articoli scritti dal giornalista per le testate per le quali ha lavorato. Attraverso questi, infatti, si è potuto ricostruire il periodo storico-politico-sociale in cui Tobagi viveva: dalla contestazione giovanile del 1968, al “compromesso storico”, alle prime lotte operaie, alle trasformazioni del sindacato negli anni Settanta, fino allo scoppio del terrorismo degli “anni di piombo”. Il lavoro è diviso in cinque capitoli: Il primo capitolo si concentra sull’esordio giornalistico di Tobagi, avvenuto sui banchi di scuola, al Liceo Giuseppe Parini di Milano. Egli iniziò a scrivere, quindi, per “la Zanzara”, il giornalino pariniano occupandosi di argomenti quali: la storia della Resistenza, lo sport, la politica, ma anche temi di costume. Il secondo capitolo ripercorre l’attività lavorativa di Tobagi nelle testate giornalistiche per le quali ha lavorato. Dopo “la Zanzara”, scrisse per due giornali sportivi: il primo, “Milan-Inter”, per il quale si occupò non tanto della cronaca degli incontri dei rossoneri, ma delle reazioni, dei pensieri e delle opinioni dei tifosi; il secondo, “Sciare”, grazie al quale intraprese i suoi primi viaggi lavorativi, come a Grenoble e a Sapporo per le olimpiadi. Dopo alcuni anni dedicati al giornalismo sportivo, Tobagi decise di lavorare n. 1/2007 46 T E S I D I L AU R E A per l’“Avanti!”; iniziò a scrivere, così, di politica, di sindacato e dei problemi sociali di fine anni Sessanta. In particolare Tobagi si dedicò fortemente al problema della contestazione giovanile essendo anch’egli studente universitario alla facoltà di lettere e filosofia della Statale di Milano. Dall’”Avanti!” ci fu il passaggio all’”Avvenire”, per il quale continuò a scrivere pezzi di costume, politici ed economici. Arrivò quindi al “Corriere di Informazione” e dopo poco alla sua meta: il “Corriere della Sera”. Fu per quest’ultima testata che Tobagi iniziò a scrivere più assiduamente di terrorismo, diventando inviato sul campo e cercando di capire la verità per poterla spiegare. Non mancarono inoltre articoli sui problemi sindacali, nei quali intervistava e descriveva non solo personaggi di rilievo nel mondo industriale ma anche e soprattutto i lavoratori, i loro pensieri e le loro opinioni. Il terzo capitolo si sofferma sul ruolo svolto da Tobagi all’interno dell’Associazione Lombarda dei Giornalisti, il sindacato lombardo della categoria. Da subito manifestò il suo malcontento per il forte legame che il sindacato aveva nei confronti della politica e dei suoi leader. Con alcuni colleghi e amici formò un nuovo gruppo, una nuova corrente all’interno dell’Assocaizione dal nome “Stampa Democratica”, manifestando in pieno le sue idee riformiste. Il gruppo ricevette la maggioranza e Tobagi fu eletto per ben due volte Presidente. Oltre alla sua diretta attività sindacalista, Tobagi fu anche uno “storico del sindacato”: scrisse infatti diversi volumi sulla storia e i cambiamenti del sindacato italiano dal secondo dopo guerra ai “caldi” anni Settanta. Il quarto capitolo è incentrato sugli articoli e sulle inchieste sul terrorismo rosso e nero, che Tobagi svolse per il “Corriere della Sera”. Egli fu cronista sul campo, seguì da vicino tutti gli attentati che in quegli anni sconvolsero l’Italia cercando di capire sempre il perché di tali azioni. Attraverso i suoi articoli manifestò le sue idee riformiste al riguardo, tanto da essere anch’egli, poi, preso di mira dagli stessi terroristi. Il quinto e ultimo capitolo descrive le dinamiche del delitto, le indagini che seguirono, il processo e le sentenze. Gli assassini furono dei giovani ventenni riuniti con il nome di “Brigata 28 Marzo”, che aspiravano ad entrare nelle BR e che decisero di colpire il mondo della stampa e lo stesso Tobagi per il ruolo svolto nell’opinione pubblica. Il caso non fu semplice, moltissimi furono gli interrogativi posti e mai risolti; l’omicidio Tobagi divenne un vero e proprio caso politico tra i socialisti di Bettino Craxi che sostenevano la presenza di un “regista”, un mandante, mai dimostrata. Dopo anni “l’affaire Tobagi” pone ancora interrogativi: nonostante le sentenze da parte del Tribunale di Milano, gli amici, i colleghi e i parenti di Tobagi non smettono di cercare la verità sul perché fu ucciso e perché non fu fatto niente per salvarlo. 47 n. 1/2007 DESK C O N V E G N I E C O N G R E S S I Napoli Le professioni della comunicazione: il ddl Mastella R iforma degli Ordini professionali, adeguata formazione e necessità di una maggior attenzione all’etica e alla deontologia. Sono stati questi i temi principali affrontati nel convegno “Identità e regole delle professioni della comunicazione”, tenutosi il 5 marzo presso l’università Suor Orsola Benincasa e promosso dalla scuola di giornalismo della stessa. Un incontro - dibattito, in cui operatori del settore hanno espresso le loro opinioni e perplessità al ministro della giustizia Clemente Mastella, autore di un disegno di legge per la riforma degli Ordini professionali. Per la prima volta nel mondo della comunicazione, in cui emergono, accanto al giornalismo, sempre nuove professioni, nasce l’idea di una regolamentazione professionale che guardi alla formazione, ma anche al sistema delle regole che le riguardano. «Il disegno di legge Mastella tenta di dare delle regole che tengano conto di interessi pubblici e privati, senza penalizzare, ma anzi valorizzando il mondo professionaleosserva il preside della facoltà di scienze della formazione Lucio D’Alessandro -c’è qualche criticità, ma è comunque un passo avanti importante». Una regolamentazione, quindi, sentita da più parti: «ce n’era bisogno, la libertà è anche questo, non è svincolamento da qualsiasi tipo di obbligo» dichiara il rettore Francesco De Sanctis «era impensabile procedere nel caos, la comunicazione ormai accompagna quasi tutti i momenti della nostra vita. Anche l’università deve adeguarvisi, cercando di contribuire maggiormente alla formazione dei professionisti del settore». Un problema, quello della formazione, evidenziato dal moderatore dell’evento, Paolo Scandaletti, docente di storia del giornalismo e della comunicazione sociale: «l’università – ha affermato – deve avere un’offerta formativa in grado di fondere saperi accademici e professionali». C’è la necessità, ha sottolineato Scandaletti, di tutelare il sistema paese e i diritti dei cittadini, evitando i corporativismi e recuperando credibilità sociale: l’obiettivo principale deve essere il servizio agli utenti, e poi la tutela professionale. «Bisogna ringraziare il ministro Mastella perchè ha preso in mano un tema scottante; erano dieci anni che se ne parlava senza poi fare nulla di concreto». A difendere le categorie professionali c’erano, oltre all’Ordine dei giornalisti, anche le associazioni professionali. Unica assente ingiustificata Assocomunicazione, associazione che riunisce per lo più il mondo pubblicitario. L’incontro ha rappresentato una vera novità, che lascia intendere una volontà di concertazione della gran parte dell’universo della comunicazione. A favore delle associazioni, «riconoscimento professionale che dà una certa libertà di scelta al mercato», più che degli Ordini, il presidente Assorel Furio Garbagnati: «non sono d’accordo su come una legge possa intervenire per eliminare i criteri autoreferenziali degli Ordini professionali – ha detto, criticando il disegno Mastella – ma credo sia importante una regolamentazione che coinvolga tutti gli operatori della comunicazione. C’è bisogno di tutele anche per gli utenti, e in questo possono dare un contributo significativo i codici deontologici e la formazione professionale». DESK n. 1/2007 48 C O N V E G N I E C O N G R E S S I Attenzione, però all’offerta formativa: bisogna chiedersi, secondo Garbagnati, se alla crescita quantitativa dei corsi universitari corrisponda una reale crescita qualitativa, o se non contribuisca soltanto all’aumento dei precari. Ben vengano anche i tirocini, «ma che non siano forme nascoste di sfruttamento professionale». Il sistema della comunicazione, osserva Andrea Prandi, presidente Ferpi, va adattato rapidamente alle nuove realtà: ben venga dunque il progetto di Mastella. «C’è bisogno di regole che siano simili per l’intero settore, pur mantenendo distinte le professioni – osserva – comunque è fondamentale non lasciare la deontologia professionale in balia delle etiche personali». A chi critica il ruolo degli Ordini, considerati da qualcuno “superati”, Vittorio Roidi, segretario nazionale dell’Ordine dei giornalisti risponde: «vogliamo abolirli? Perfetto, ma ditemi qual è la soluzione alternativa. La professione sta cambiando in modo tumultuoso, e non è solo una questione di nuove tecnologie. Si deve chiarire cosa questo paese vuole dai giornalisti, con le conseguenze normative che ciò comporta. Tutti comunicano, ma tra Pippo Baudo e Bruno Vespa qual è la differenza? Che Pippo Baudo non ha gli obblighi di un giornalista». Siamo di fronte, accusa Roidi, ad un vero e proprio attacco da parte degli editori, che favoriscono il precariato, sfruttando i giovani per 4, 5 euro ad articolo: l’Ordine deve denunciare questo “schiavismo”, e favorire la formazione professionale all’interno delle università, indispensabile per avere mercato in Europa. Tanti gli interventi anche del pubblico in sala, che si sono dichiarati a favore della formazione professionale perenne, dell’osservanza delle deontologie professionali, e hanno sottolineato la necessità di un discorso sull’informazione in Campania, dove l’editoria è penalizzata. A tutte le questioni sollevate ha risposto il ministro Mastella, che ha sottolineato la necessità di trovare criteri di regolamentazione professionale che vadano al di là delle singole professioni, comprendendo gli Ordini ma anche gli elementi al di fuori di essi. E proprio sugli Ordini si è soffermato a lungo: «sono incredibilmente gonfiati - ha osservato – ed è indubbio che una depurazione va fatta. Non ho intenzione di abolirli, credo anzi che siano una fonte economica e sociale di grande interesse, ma vanno riconsiderati alla luce dell’Europa, con la quale dobbiamo necessariamente raccordarci». Anche per questo bisogna garantire la qualità delle professioni: c’è bisogno di una formazione costante, soprattutto per i giovani che ora si affacciano nel mondo del lavoro, perchè «bisogna evitare che chi arriva all’interno dell’Ordine si sieda, invece di allinearsi continuamente con la realtà circostante». Per quanto riguarda le associazioni, Mastella dice di ritenerle importanti, e anzi c’è bisogno «che siano riconosciute e regolarizzate. Quello che molti non capiscono è che le regole, pure nella logica del mercato, devono esistere; sennò cadiamo nella legge della giungla». (Antonella Scutiero) 49 n. 1/2007 DESK C O N V E G N I E C O N G R E S S I Roma - Tv e Minori: il bilancio del 2006 “ Non si può ignorare l’esigenza di riservare la massima attenzione alle condizioni in cui di fatto vengono formandosi le nuove generazioni e ai diversi fattori che vi concorrono: tra questi la televisione conserva un ruolo di innegabile rilievo”. Questo, il passo conclusivo del Consutivo annuale sull’attività del Comitato Tv e Minori, presentato lo scorso 22 gennaio presso il Ministero delle Comunicazioni. L’insieme degli interventi del Comitato ha riguardato, in quest’ultimo anno, i profili della violenza televisiva nelle sue varie forme, le lesioni più o meno esplicite della dignità della persona, la volgarità di situazioni e linguaggi con effetti banalizzanti nei rapporti interpersonali, anche i più delicati per l’equilibrio esistenziale del minore. Nel rispetto di tali criteri, nel 2006 sono stati complessivamente presi in esame 296 casi, a dispetto dei 379 del 2005, instaurati 98 procedimenti contro i 119 dell’anno precedente, ed accertati, infine, 31 casi di violazione, molti dei quali da riferire a trasmissioni rientranti nella cosiddetta “fascia protetta”. Tali violazioni sono state riscontrate in tutti i principali generi della Tv generalista, dal talk show al varietà, dalla pubblicità al reality show, passando attraverso fiction, film, telefilm e cartoni animati, mettendo in evidenza come ciascun format sia esposto a più di un rischio. Rispetto ai consuntivi degli anni precedenti, quello del 2006 si è però distinto per tutta una serie di ragioni interne ed esterne al Comitato presieduto da Emilio Rossi. Oltre a segnare il passaggio dal primo al secondo triennio di attività, con la conseguente nomina dei nuovi membri, esso è stato oggetto di molteplici iniziative a carattere legislativo volte a ribadire l’importanza di quella tutela dei minori in Tv che, soprattutto attraverso l’applicazione del Codice di autoregolamentazione, costituisce la ragion d’essere del Comitato. Accanto alle nuove linee guida fissate dall’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni in vista del nuovo Contratto di servizio Rai, vanno infatti menzionati l’atto d’indirizzo dell’Agcom riguardante le trasmissioni di intrattenimento, emanato sulla base delle preoccupazioni avanzate dal Comitato soprattutto in materia di reality show, e la comunicazione del 29 novembre 2006 attraverso cui l’Autorità ha confermato la natura ed i poteri accertativi e sanzionatori del Comitato. Da sottolineare è anche la nuova edizione della Carta di Treviso, diretta a tutelare i minori principalmente sotto il profilo della privacy nell’informazione. Il testo, rielaborato dai promotori (Ordine dei Giornalisti, Telefono Azzurro e Federazione Nazionale Stampa Italiana), è stato varato, grazie al contributo del Comitato, con il consenso del Garante per la Protezione dei dati personali. A ciò va anche aggiunta la specifica attenzione, posta dai ministri europei, alla tutela dei giovani telespettatori nella laboriosa revisione della direttiva “Tv senza frontiere”, in attesa della definitiva approvazione. Il 2006 è stato caratterizzato anche da un decisivo rafforzamento dei rapporti tra il Comitato e la Rai che, nel nuovo Contratto di servizio, oltre a prevedere un incre- DESK n. 1/2007 50 C O N V E G N I E C O N G R E S S I mento della qualità della programmazione anche ai fini della riconoscibilità e della credibilità del servizio pubblico, all’art. 7 specifica di “tenere nel massimo conto le raccomandazioni e le decisioni del Comitato di applicazione del Codice di autoregolamentazione Tv e Minori”. La Rai si impegna altresì a potenziare il sistema di avvertimenti e segnali simbolici per distinguere i programmi adatti ad una visione congiunta con un adulto da quelli diretti ad un pubblico esclusivamente maggiorenne. Il Comitato aveva infatti più volte evidenziato la necessità di aggiornare la segnaletica televisiva, definita come “un richiamo di responsabilità, doverosa soprattutto per impegnare ed aiutare le famiglie”, affinché alle modalità proprie di ciascuna emittente fosse sostituito un sistema omogeneo facilmente leggibile dalla totalità degli spettatori. L’attenzione del Comitato si è estesa nell’ultimo anno anche alla televisione satellitare, sempre più attenta a soddisfare le esigenze delle nuove generazioni, come mostrano i dati relativi alla fruizione di Sky da parte dei giovani telespettatori. Tale motivazione, unita a ragioni di correttezza concorrenziale, ha portato alla definizione di un insieme di norme di portata generale, sancite anche legislativamente, tra cui merita di essere ricordato il divieto di trasmettere nella fascia oraria definibile come “televisione per tutti” i film vietati ai minori di 14 anni. Nessuna piattaforma televisiva dovrebbe, infatti, ritenersi libera dal dovere morale di contribuire alla formazione di una cultura che promuova l’assoluto rispetto per la persona in età evolutiva. (Camilla Rumi) Roma La riforma del sistema della comunicazione: prospettive “ I sistemi della comunicazione sono sottoposti da tempo ad una profonda fase evolutiva che chiama gli operatori ad un costante adeguamento delle strategie aziendali, il Governo e il Parlamento alla riscrittura di leggi e regolamenti, le Autorità a ricalibrare ed affinare l’azione di controllo e garanzia”. Questo il motivo per il quale Mediacoop, in collaborazione con la Provincia di Roma e l’associazione Articolo 21, ha deciso di organizzare, lo scorso 29 gennaio presso il Grand Hotel de la Minerve di Roma, una giornata di riflessione sul tema “La riforma del sistema della comunicazione: libertà e pluralismo”. Il convegno ha visto la partecipazione di giornalisti, operatori del settore, esponenti del mondo politico e sindacale, rappresentanti dell’area accademica e culturale, con il preciso intento di fare chiarezza su una problematica di grande attualità e, soprattutto, di vitale importanza per la vita democratica di un Paese. Nei prossimi mesi, infatti, si terranno cinque appuntamenti degni della massima attenzione: il varo della nuova direttiva Tv senza frontiere, l’iter parlamentare del Ddl Gentiloni per la riforma del settore radio-televisivo, la nuova legislazione delle Regioni, richiesta dal loro potere concorrente in materia e sollecitata dall’Unione Europea, la definizione del redigendo Ddl per la riforma dell’editoria e la redazione dei decreti delegati in materia ai contributi pubblici al settore editoriale. La riflessione delle personalità in- 51 n. 1/2007 DESK C O N V E G N I DESK E C O N G R E S S I tervenute al convegno si è concentrata in particolar modo sulle problematiche attinenti il settore radio-televisivo, essendo caratterizzate da un punto di vista cronologico da una scadenza più immediata rispetto ai provvedimenti relativi al mondo dell’editoria e alla nuova legislazione riguardante le Regioni. Per ciò che riguarda la revisione della direttiva Tv senza Frontiere, i partecipanti al convegno hanno espresso le loro perplessità verso una scelta che, a loro parere, non fa che riproporre in ambito europeo una tendenza già da tempo consolidatasi in Italia, quella cioè di spostare ulteriori risorse verso il sistema televisivo. Favorire ulteriormente i grandi network significherebbe contribuire a danneggiare in maniera sostanziale il settore della carta stampata, dell’emittenza locale, dell’informazione, di una televisione che fa delle idee e dei valori il suo punto di forza. “Tale revisione ha sostenuto Lelio Grassucci, presidente di Mediacoop - renderebbe ancora più difficile nel nostro Paese la tutela del pluralismo, la riapertura del mercato, lo sviluppo equilibrato dei vari media, il superamento del duopolio televisivo che ingessa il settore”. L’augurio è quindi quello che vengano corretti gli attuali orientamenti comunitari nell’interesse generale e che, soprattutto, vengano gettate le basi per costruire un sistema pluralista, moderno ed avanzato, in grado di garantire l’affermazione dei nuovi processi tecnologici e di incrementare la competitività dell’industria multimediale europea. Quest’ultima dovrebbe, infatti, poter finalmente competere con il mercato americano e con quelli dei Paesi emergenti, rispettando le specificità del modello sociale, economico e culturale che da sempre l’hanno caratterizzata per la costituzione di un vero unico mercato europeo. Per quanto riguarda, invece, il Ddl Gentiloni per la riforma del settore radio-televisivo, è stata posta particolare attenzione agli obiettivi che tale provvedimento intende raggiungere: l’apertura del mercato intervenendo su pubblicità e frequenze, la definizione delle regole per il passaggio alla Tv digitale, la riforma del sistema dell’Auditel e di Audiradio, il superamento del SIC (Sistema Integrato delle Comunicazioni) e delle norme relative alla privatizzazione della Rai previste dalla legge 112/04. Il ministro Gentiloni, intervenuto alla giornata di riflessione, si è soffermato in particolar modo sulla necessità di aprire il settore radio-televisivo ad una maggiore concorrenza, dipendendo da tale aspetto la realizzazione del pluralismo, sull’importanza di rafforzare la produzione di contenuti audiovisivi e di sostenere in modo più consistente il servizio pubblico affinché possa rendersi finalmente autonomo dalla politica e dalla pubblicità. Il ministro delle Comunicazioni ha quindi ribadito l’importanza dell’accesso ai contenuti Rai da tutte le piattaforme tecnologiche, del rispetto delle categorie più deboli, del passaggio al digitale nella consapevolezza però che “è stato il servizio pubblico a giocare fino a questo momento nel nostro Paese un ruolo fondamentale per la formazione di una coscienza democratica generale”. Il dibattito è stato vivacizzato dalle dichiarazioni rilasciate durante la mattinata dal presidente dell’Antitrust, Antonio Catricalà, il quale ha sottolineato come il limite rigido del 45% fissato dal Ddl Gentiloni per la raccolta pubblicitaria dell’intero settore televisivo rappresenti una “misura incongrua e parziale quale soglia da non varn. 1/2007 52 C O N V E G N I E C O N G R E S S I care per non incorrere in sanzioni comminate allo scopo di eliminare una raggiunta posizione dominante”. Alle dichiarazioni di Antonio Catricalà sono seguite quelle del presidente dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, Corrado Calabrò, il quale, nei giorni successivi al convegno, ha dichiarato davanti alle Commissioni Cultura e Trasporti che tale limite può essere accettato solo se transitorio e mirato allo sviluppo del pluralismo e del digitale terrestre. “Se dovesse avere un carattere definitivo - ha aggiunto il presidente dell’Agcom - diventerebbe norma asimmetrica con effetti su un solo soggetto: tale tetto deve includere anche i proventi derivanti dagli abbonamenti e quelli delle pay-Tv”. A tali affermazioni il ministro Gentiloni ha risposto che “non c’è nessun tetto contro singole imprese: c’è il fatto che bisogna distribuire le risorse pubblicitarie in modo tale che ai telespettatori arrivi un’offerta maggiore, attraverso una maggiore concorrenza tra diversi editori. Sono le posizioni dominanti o eccessive di un’azienda su un determinato settore economico a bloccare lo sviluppo, e non gli eventuali limiti antitrust”. La riflessione sulla riforma del settore radio-televisivo e sulla revisione della nuova direttiva Tv senza Frontiere ha visto il contributo di numerosi esperti del settore ed esponenti del mondo politico-istituzionale intervenuti al convegno organizzato da Mediacop: Federico Orlando, Presidente di Articolo 21, Roberto Mastroianni, docente di Diritto comunitario all’Università di Napoli, Vincenzo Vita, assessore alla Cultura della Provincia di Roma, Ricardo Franco Levi, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Giulietto Chiesa, europarlamentare, Pietro Folena, presidente della Commissione Cultura della Camera dei Deputati, Beppe Giulietti e Rodolfo De Laurentiis, componenti della Commissione di Vigilanza Rai. La totalità delle relazioni ha puntato a mettere in luce come una seria regolamentazione del settore radio-televisivo rappresenti una necessità di primaria importanza e come essa debba, allo stesso tempo, assecondare l’affermazione delle nuove tecnologie, porre fine alle posizioni dominanti e, soprattutto, fare fronte all’esigenza di elevare qualità e cultura delle produzioni radio-televisive per il bene dell’intero Paese. (Camilla Rumi) Roma Informazione ed oggettività I l rapporto tra l’informazione giornalistica e l’oggettività è stato il tema dibattuto nel convegno organizzato dalla Luiss Guido Carli a Roma, presso la Sala Colonne della sede di viale Pola, il 6 febbraio scorso. Professori e professionisti della comunicazione hanno analizzato da diverse angolazioni il ruolo che l’oggettività ricopre nella produzione di notizie. Gli interventi sono stati distribuiti in due sessioni: nella prima ha fatto da chairman il professor Raffaele De Mucci (ordinario di Scienza Politica all’Università Luiss Giudo Carli), nella seconda il professor Paolo Scandaletti (docente di Etica della Comunicazione all’Università Luiss). Ad aprire la discussione è stato il professor Dario Antiseri (ordinario di Metodologia delle Scienze Sociali all’Università Luiss), il quale, da epistemologo, ha sostenuto che l’oggettività dell’informazione è possibile se inserita in un sistema sociale in 53 n. 1/2007 DESK C O N V E G N I E C O N G R E S S I cui ne sia consentita la controllabilità da parte dell’opinione pubblica. Un esempio di ciò potrebbero essere le lettere di smentita spedite dal lettore al giornale. Anche il professor Massimo Baldini (ordinario di Semiotica all’Università Luiss) ha invitato a non rinunciare all’oggettività e, secondo un approccio metodologico, ha paragonato il giornalista allo storico, citando una frase di Umberto Eco: “il giornalista è lo storico del presente”. Ma, a differenza dello studioso, chi lavora per i mass media ha a disposizione sempre tempi stretti: per questo il “mestieraccio” somiglia pure all’attività del medico, in entrambi i casi, infatti, le diagnosi vengono effettuate in condizioni di emergenza. Marica Spalletta, ricercatrice alla Luiss, ha sostenuto le difficoltà che l’oggettività incontra nel fotogiornalismo. La foto, essendo figlia del positivismo, potrebbe di primo acchito sembrare un tutt’uno con l’oggettività, tuttavia non è così, dato che c’è sempre qualcuno dietro l’obiettivo. Ciò che allontana la rappresentazione della realtà dalla realtà stessa non si esaurisce nell’apporto soggettivo del fotografo; l’immagine, infatti, è manipolabile e falsificabile, oggi ancor più di ieri grazie alla tecnica digitale. Le fotografie possono mentire, ma possono anche essere oggettive, oneste: esiste una deontologia che sancisce il dovere per le foto di rappresentare la realtà nel modo più accurato possibile. Il professor Paolo Mancini (ordinario di Sociologia della Comunicazione all’Università di Perugia), dichiarandosi più scettico nei confronti dell’oggettività, è passato ad analizzare il perché, e non più il come, dell’informazione oggettiva. Quest’ultima non deve essere considerata sempre e comunque un ideal tipo positivo, dato che non si può prescindere dal sistema sociale di riferimento. L’obiettivo è una dimensione legata al mercato, infatti, è proprio la necessità di vendere i giornali a tutti a disincentivare un taglio partigiano. Angelo Mellone, giornalista de “Il Giornale”, ha giudicato impossibile l’oggettività soprattutto quando la comunicazione è politica e quindi, per definizione, orientata alla persuasione. L’ideale regolativo discusso nasconde molte insidie tra cui la supposizione di un punto di vista super partes, privilegiato rispetto agli altri. Anche Linda Lombardo (direttrice dell’Istituto di Lingue Moderne dell’Università Luiss Guido Carli) nel suo intervento ha messo in discussione la bontà dell’oggettività: quest’ultima è un effetto creato dal linguaggio, infatti è la voce di chi parla, che viene percepita come impersonale o oggettiva proprio grazie a scelte linguistiche. Il dibattito intorno all’obiettività è risultato complesso e problematico, ma è apparsa comune la difficoltà di portare l’informazione giornalistica a perfezionarsi e ad essere indipendente dai condizionamenti del sistema sociale e culturale alla sua base. (Marianna Berti) U DESK Napoli UNICAMPANIA centro interuniversitario di orientamento per l’alta formazione niCampania, l’ambizioso progetto che sta portando alla costituzione di un centro interuniversitario di orientamento per l’alta formazione in Campania, è stato presentato al pubblico il 24 gennaio 2007 a Napoli. L’evento al quale hanno n. 1/2007 54 C O N V E G N I E C O N G R E S S I partecipato i rappresentanti delle principali istituzioni regionali della formazione, della ricerca e del lavoro, si è tenuto nella Sala delle Conferenze presso il Palazzo Du Mesnil in Via Chiatamone. Nel corso del convegno sono stati affrontati i temi che hanno ispirato l’implementazione del progetto UniCampania e sono stati esposti gli importanti obiettivi che saranno perseguiti dall’omonima ATS, l’Associazione Temporanea di Scopo costituita da numerosi soggetti: in primis le Università Campane L’Orientale, Parthenope, Napoli 2, Sannio, Suor Orsola Benincasa nonché il Consorzio Promos Ricerche come partner esterno, consorzio di cui fanno parte anche i sovracitati atenei, il CNR, il CEINGE e la Camera di Commercio di Napoli. UniCampania ha come finalità ultima proprio la realizzazione di un Centro Interuniversitario di Orientamento per l’Alta Formazione che possa diventare una struttura stabile e di riferimento per la formazione post-laurea della Regione Campania; un centro che sia in grado di fornire una guida ai giovani laureati che vogliano prendere in considerazione l’offerta formativa della propria regione senza perdersi nella marea di proposte spesso altrimenti vaghe e difficili da valutare. Non è infatti semplice per un neolaureato che voglia continuare il proprio percorso di formazione, così come per un ragazzo che voglia iscriversi per la prima volta all’università, orientarsi e scegliere consapevolmente la propria strada: basti pensare che in Campania esistono 7 Università (le cosiddette Sette Sorelle) per un totale di 24 Facoltà e 180 (circa) Corsi di laurea, oltre numerose organizzazioni che offrono corsi di formazione (chi scrive ne ha contate oltre 70 con le più svariate offerte formative). L’obiettivo di UniCampania, pertanto, è passare dai singoli sportelli di orientamento di Ateneo ad uno sportello unico interuniversitario affinché sia sancito un importante salto di qualità mirato a valorizzare una logica di rete e un’ottimizzazione delle risorse disponibili sul territorio. UniCampania, cerca di offrire una risposta ai giovani laureati campani affinché possano scegliere tra le molteplici offerte; in più, ponendosi quale ponte tra il mondo della formazione ed il mercato del lavoro, il Centro Interuniversitario di Orientamento per l’Alta Formazione, fornirà una risposta anche alle necessità di competenze e conoscenze richieste dalle aziende del territorio campano. In tal modo, il giovane laureato potrà adeguare la propria formazione non solo alle aspettative personali ma anche ai bisogni espressi dalle aziende con il conseguente aumento delle probabilità di impiego futuro. Inoltre il centro UniCampania, laddove l’offerta formativa presente nella regione Campania non soddisfi appieno le necessità dell’azienda richiedente, si farà esso stesso promotore di percorsi formativi creati ad hoc (master, corsi, seminari, dottorati, ecc) organizzati con l’apporto sinergico di risorse economiche, umane, e tecniche dei soggetti appartenenti all’ATS; in questo modo, si avrà una formazione al contempo di qualità nei suoi presupposti generali e precisa e rigorosa sui saperi specifici. Con appropriati strumenti economici, sociologici e statistici, si condurranno, poi, osservazioni e analisi per avere un’adeguata prospettica temporale degli incroci tra mondi dello studio e mercato del lavoro e, attraverso il monitoraggio del li- 55 n. 1/2007 DESK C O N V E G N I E C O N G R E S S I vello di efficienza e di efficacia raggiunto e del livello di soddisfazione generato, si attueranno sistemi di valutazione affinché siano assicurati degli elevati standard qualitativi. Questo è un obiettivo importante non solo da un punto di vista professionale ma anche da una prospettiva sociale; infatti se l’offerta formativa sarà in linea con le esigenze delle aziende campane, le persone altamente formate e professionalizzate, saranno più facilmente assorbite dal mercato del lavoro regionale ponendo così un freno all’allarmante fenomeno della “Fuga dei Cervelli”, l’abbandono cioè della propria terra d’origine da parte di professionisti o persone con un alto livello di istruzione, generalmente in seguito all’offerta di condizioni migliori di paga o di vita, fenomeno questo preoccupante non solo da un punto di vista umano per i tanti che affrontano un trasferimento non per scelta ma per allontanarsi da un presente privo di prospettive, ma soprattutto, ponendosi in una visione più ampia, per lo sviluppo dell’intera regione, per la crescita economica, sociale ed anche culturale che senza risorse umane specializzate e professionalizzate non riesce ad emergere. Solo contrastando l’emigrazione delle menti dalla Campania, si può sperare in un futuro non troppo lontano, una riqualificazione del territorio, una rinascita appunto sociale, culturale ed economica della nostra regione che potrà in questo modo diventare altamente competitiva in un mercato sempre più globale. Il Centro Interuniversitario di Orientamento per l’Alta Formazione in Campania, i cui servizi saranno organizzati ed erogati in modo da sostenere, con attività di tutorato ed orientamento, i discenti della formazione post-laurea durante tutta la loro vita lavorativa, sarà la prova tangibile della volontà propria dei soggetti dell’ATS UniCampania di attuare una gestione unitaria e centralizzata dei servizi di orientamento e a supporto dei destinatari della formazione post-laurea al fine di garantire loro stabilità, informazione, trasparenza ed assistenza; non si presenterà semplicemente come una struttura che, organizzata secondo i principi di una buona comunicazione, sarà in grado di fornire tutte le risposte alle domande dei propri utenti inerenti le molteplici e svariate possibilità formative offerte in tutta la regione Campania, ma sarà un vero e proprio ponte di collegamento con il mercato del lavoro, un organismo che opererà mantenendo costantemente una strategica connessione tra gli universi accademici e le realtà aziendali attraverso strumenti specifici ed adeguati alle singole necessità. Un centro interuniversitario realmente al servizio dei giovani laureati che, si spera, non saranno più costretti a lasciare la loro terra alla ricerca della realizzazione professionale ma che potranno finalmente scegliere di rimanere (o andare via). (Emilia Ferone) L’ Ucsi in Terra Santa: un viaggio alla ricerca della “notizia” U DESK n viaggio nella terra di Gesù può compiersi in serenità di spirito e pienezza religiosa seguendo una geografia particolare, consultando solo la mappa delle parole dei sacri Testi e le pietre dei luoghi santi. Con questo metodo il gruppo dei giornalisti dell’UCSI (Unione Cattolica della Stampa Italiana), organizzatrice del pellegrinaggio, ha compiuto il suo iti- n. 1/2007 56 C O N V E G N I E C O N G R E S S I nerario guidati da Mons. Edoardo Manichelli, Arcivescivo della Diocesi di Ancona-Osimo. Ma il metodo ha subito un duro colpo: il tempo di lasciare l’aeroporto di Tel Aviv e verso nord, vedere il muro, un tuffo nel concreto del quotidiano e nella sofferenza. E allora si è verificato un processo di sintesi, si è innestato nella spiritualità la realtà dell’oggi, una realtà che è ancor più pesante di altre perché viva nella terra che dovrebbe essere quella della pace e della fraternità. E così il viaggio ha avuto un significato più profondo, attento,penetrante e indagatore. La lunga storia di quella Terra era lì, testimoniata da innumerevoli segni, una lunga stratificazione di popoli e di civiltà, un filo ininterrotto di avvenimenti che hanno segnato il processo storico dell’umanità. E questo viaggio-pellegrinaggio non poteva non cominciare che a Nazareth, il luogo della sorgente della “Notizia”, il luogo del vero mistero. Non possiamo a questo punto non nominare Padre Frédèric Manns, un padre francescano, studioso illustre e di vasta cultura, un “archeologo-biblista”, che ha guidato il gruppo alla ricerca continua della “Notizia”, con assoluto rigore scientifico, ma nello stesso tempo con una severa intensità di fede. Amava ripetere: “le pietre, i documenti, la fede”. L’itinerario ha seguito uno svolgimento classico, ad ogni tappa emergevano cose nuove, mai sentite prima, che facevano impallidire le modeste conoscenze religiose e culturali di noi tutti, ma che hanno consentito di compenetrare sempre più il mistero e la grandezza di quella Terra. Dalla Basilica dell’Annunciazione al Lago di Tiberiade, dal Monte delle Beatitudini al Monte Tabor. A Nazareth il primo incontro con la realtà dei cristiani, l’incontro con il Vescovo Giacinto Boulos Marcuzzo, che ha illustrato le difficoltà dei cristiani, i loro problemi, i timori per il futuro. E si tratta poi di cristiani palestinesi, cittadini israeliani dal 1948, l’anno di nascita dello Stato di Israele e che quindi vivono in una condizione assai diversa dai palestinesi cristiani di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est. E’ apparso in tutta la sua serietà il problema dei cristiani oggi, colpiti da una diminuzione numerica preoccupante, che sembra non arrestarsi. Lo si è visto a Betlemme, chiusa dal muro, deserta di pellegrini, con una economia agonizzante e prodromi evidenti di una definitiva cancellazione. Ma anche la scoperta della volontà di non “mollare”. Due esempi fra i tanti: padre Ibrahim Faltas, egiziano di nascita e madre Sophie, libanese. Il primo, balzato alle cronache qualche hanno fa quando fu assediata la Basilica della Natività, dove si erano rifugiati un gruppo di “terroristi”, che si impegna nella costruzione di case per palestinesi cristiani nel tentativo di arrestare la diaspora cristiana. Madre Sophie, è un personaggio che ti si conficca nel cuore. Il suo mondo: “la Crèche” , che in francese vuol dire tante cose, presepio, mangiatoia, nido d’infanzia, stanza, casa. E’ parola che deriva da Greggio, 57 n. 1/2007 DESK C O N V E G N I E C O N G R E S S I il primo presepio francescano. E la “ Crèche”di madre Sophie è tutto questo, ma è primo fra tutto il luogo dove si salvano i neonati abbandonati , si proteggono giovani madri e si dà assistenza medica a tante donne. E’il luogo dove il vociare dei piccoli, lo sguardo dei loro occhi, ti fa precipitare nella realtà dura e difficile del presente, delle contraddizioni della politica e del peso delle incomprensioni religiose. A pochi metri la Basilica della Natività, il muro con i cancelli- varco da maximun security prison e poi l’eco della preghiera del muezzin. Le madri Sophie stanno lì a ricordare che il messaggio di Gesù è carità e a noi che dobbiamo fare qualcosa. Un assaggio di politica lo si ha, sempre a Betlemme, con il Ministro del Turismo, unico cristiano del precedente Governo palestinese, Judeh G. Morkus che, pur non nascondendo forti preoccupazioni, fa balenare qualche speranza per un possibile accordo per costituire un governo di unità nazionale fra Hamas e Al Fatah, quando nessuno avrebbe scommesso un centesimo. Il viaggio continua lungo dalla valle del Giordano verde e fonte di vita spirituale per noi cristiani, ma anche origine di millenari scontri mai sopiti, al Mar Morto, alla scoperta di Qumram con gli stimolanti segreti degli esseni, dove le pietre ogni giorno offrono nuove verità e padre Manns straordinarie spiegazioni. Si sale e alla luce del tramonto ci appare Gerusalemme. Gerusalemme! Tre giorni pieni di spiritualità, nel ripercorrere i Luoghi Santi per gli ebrei e i cristiani. L’emozione della basilica del santo Sepolcro, l’incontro con le altre Chiese, il pregare, l’entrare in processione con Mons Menichelli che ad ogni sosta trova le parole giuste per farci meditare. Un incontro con il Nunzio Apostolico Mons. Antonio Franco ci aiuta a capire la complessità della situazione e i rapporti anche con lo Stato di Israele e il ruolo importante della Chiesa Cattolica e della Santa Sede in Terra santa. Un altro incontro con la Comunità Ebraica Italiana, nella piccola ma splendida Sinagoga ( trasportata a Gerusalemme da Castelfranco Veneto), apre nuovi interessi e curiosità e ci svela la grande amicizia fra Mons. Edoardo Menichelli e il dottor Elio Di Segni. Ogni pellegrinaggio ha un suo significato. Questo dell’UCSI ha avuto certo quello della scoperta, scoperta di una situazione difficile, ma anche di volontà di pace, con tanti però.Ciò che è importante, lasciando la Terra Santa e non dimenticare tutti quelli che lì pregano, lavorano, soffrono. (Angelo Sferrazza) DESK n. 1/2007 58 L S I B R I LIBRI RECENSIONI correndo con attenzione questa gran mole di pagine, - tanto dense di fatti e valori, delitti e passione professionale, - viene da chiedersi se i due volumi, appartenendo alla storia del buon giornalismo, non rappresentino ancor più il “diario nero” di Torre Annunziata. Giancarlo Siani venne ammazzato sotto casa quando aveva compiuto i 26 anni e in tipografia era ultimata la composizione del suo libro Torre Annunziata un anno dopo la strage, dossier sugli affari camorristici nella città vesuviana. Quelle bozze, quegli originali, quelle righe di piombo sparirono con il loro autore. “Mai vista”, si disse l’indomani, col linguaggio arrogante dei boss di laggiù. Ora, Pasquale Testa e le sue edizioni phoebus, raccogliendo in due splendidi tomi le cronache di quel ragazzo dallo sguardo mite che aveva deciso: “da grande voglio fare il giornalista”, ne onora la memoria e la lucida determinazione; ma si offre anche come specchio limpido nel quale farebbe bene a guardarsi un po’ di gente che gravita intorno al Golfo. Come molte vocazioni precoci, Siani aveva esordito nel giornale scolastico e poi scrivendo sul periodico Il lavoro nel Sud. Approda al Mattino di agosto, quando tanti redattori sono in ferie, con l’inchiesta I giovani e la città. Cogliendone il talento e volendo inviare nei territori inquinati persone estranee all’ambiente, il direttore manda a Torre Annunziata come corrispondente proprio il poco più che ventenne Giancarlo, figlio della borghesia medio-alta di Napoli. Dall’83 inquadrato nella redazione di Castellammare di Stabia ma pur sempre precario, svolge un lavoro davvero straordinario. Economia in crisi per il processo di de-industrializzazione e terziario di là da venire, tanti lavori pubblici come ancora di salvezza costituiscono il terreno di coltura privilegiato dalla malavita, talora aiutata dalla dirigenza pubblica. E’ in questo terribile impasto che si muove il giovane aspirante giornalista. Racconta fatti di camorra, racket, droga e mercati violati, di famiglie malavitose in lotta, di sindaci e assessori deboli o concussi, come delle speranze dei giovani che sfilano a migliaia per quelle strade insanguinate. Accorgendosi dei rischi mortali che stava correndo, il giornale chiamò Siani alla redazione centrale per occuparsi di fatti napoletani: ma non bastò a salvarlo. “Giancarlo Siani sacrificò la giovane vita e il suo valore per essere fedele ai suoi ideali e al suo coraggio” annota Francesco Barbagallo nella prefazione. “Senza volere si è iscritto nella esigua schiera degli eroi e dei martiri, in un paese che purtroppo ne ha bisogno, dato che è popolato di opportunisti e di trasformisti. Giancarlo non sarebbe mai stato dei tanti che si occupano solo degli affari loro. Ma voleva fare solo il giornalista”. 59 n. 1/2007 GIANCARLO SIANI Le parole di una vita Gli scritti giornalistici Phoebus edizioni, 2 voll. pp. 875 s.i.p. GIOVANNINO GUARESCHI Mondo Candido (19581960) Rizzoli, pp. 550, € 40,00 LEO LONGANESI Una vita Longanesi , pp. 158, €14.60 DESK L I B R I Questi due volumi antologici si affiancano naturalmente alla biografia che di Siani ha scritto Antonio Franchini, oggi autorevole editor della narrativa Mondatori, allora amico e collega in precariato di Giancarlo. Era il 2001, e lo notò Carlo Bo che lo fece premiare col Fabriano. Peccato che di quel bel libro, che ne racconta la vita e le ansie viste così da vicino, fra i tanti che ne hanno scritto ora nessuno vi abbia fatto menzione. Giovannino Guareschi fu il fondatore, con Giovanni Mosca, del settimanale Candido nel 1945; dal ’50 al ’57 lo diresse da solo e vi scrisse fino al ’61; poi collaborò al Borghese, a La Notte e a Oggi. Gran giornalista, cattolico e orientato a destra, con gli scritti e le vignette – come allora si chiamavano – riuscì a incidere per davvero sugli uomini e i fatti della politica e del costume. E raggiunse l’apice del paradosso scrivendo sulla medesima pagina “Visto da destra” (con la firma Caesar) e “Visto da sinistra” (Spartacus). Qui ci interessa anche ricordare un suo tagliente giudizio sul giornalismo italiano di allora, espresso quando il medico Galeazzi Lisi vendette le foto di Pio XII morente. Alla stampa che si strappava le vesti per l’indignazione, Guareschi obiettò che “avrebbe fatto assai meglio a indignarsi con se stessa: in dieci e passa anni di scandalismo, la stampa italiana ha violato ogni intimità e ogni riservatezza. Ha abbattuto tutte le porte e, dove non ha potuto abbattere le porte, ha occhieggiato attraverso il buco della serratura o dal finestrino del gabinetto”. Erano gli anni dal ’50 al ’60. E questo è il quinto dei volumi che i figli Alberto e Carlotta continuano a selezionare e pubblicare. Un altro grande del giornalismo italiano del passato, del quale si vanno lodevolmente ripubblicando le pagine più significative, è certamente Leo Longanesi. Ora esce un libro tanto anomalo quanto straordinario: l’autobiografia, intitolata Una vita, raccontata attraverso settantatre incisioni, accompagnate da brevi e altrettanto nitide didascalie, affioranti fra puntini di sospensione. Autoironico e schietto, svela il proprio intimo di piccolo borghese italiano, sfidando il lettore a completare la trama del romanzo con la storia e le parole del suo proprio vissuto. Geniale. (Paolo Scandaletti) RYSZARD KAPUSCINSKI Autoritratto di un reporter Feltrinelli, pp. 116, € 10,00 DESK “ Fare il reporter è la mia vita. Anzi, un modo di vedere il mondo: un modo di vedere che non cambierei con nessun altro”. Tale affermazione, posta a chiusura del volume, riassume in modo estremamente chiaro l’alto valore attribuito alla professione giornalistica da Ryszard Kapuscinski, uno dei maggiori esponenti del giornalismo letterario internazionale. Il libro rappresenta una raccolta di alcune delle molteplici interviste, conversazioni e lezioni universitarie lasciateci dal giornalista polacco, recentemente scomparso, a testimonianza della sua intensa ed ineguagliabile carriera. Krystyna Straczek, curatrice del volume, da un materiale di migliaia di pagine, ha infatti selezionato i testi maggiormente significativi affinché si potesse evincere la straordinaria personalità di uno dei maggiori reporter del nostro tempo definito come un vero e proprio “giornalista-missionario”. n. 1/2007 60 L I B R I Il libro, suddiviso in cinque sezioni tematiche, ripercorre la vita del giornalista dall’infanzia trascorsa a Pinsk, nella Polonia orientale, oggi Bielorussia, alle ragioni che lo hanno condotto a scegliere la professione di reporter, a come essa sia cambiata nel tempo, passando attraverso la sua passione per i suoi viaggi, le letture compiute, gli esempi che lo hanno guidato e le principali tematiche trattate nei suoi libri. Testimone di ben 27 guerre scoppiate in tutto il mondo, prima come corrispondente dell’agenzia di stampa polacca PAP e poi in qualità di giornalista indipendente, Ryszard Kapuscinski è riuscito a cogliere, attraverso i drammi e le speranze della gente comune, il senso profondo di questi terribili eventi. “Descrivere avvenimenti autentici e persone autentiche - ha spiegato il giornalista polacco - usando le forme e lo stile di quella che noi chiamiamo narrativa e gli americani fiction”. I suoi reportage dall’Africa, dal Medio Oriente e dal vecchio impero sovietico rappresentano pagine di storia dal valore inestimabile, proprio perchè raccontate con gli occhi dei protagonisti e non per mezzo dei resoconti ufficiali dei detentori del potere. Questo il motivo per cui Kapuscinski appare così critico nei confronti dell’attuale sistema mediatico: non rappresentando più come in passato un’opposizione al mondo economico e politico, esso ha modificato la propria posizione affiancandosi al potere e rinunciando a contestare e polemizzare sulle questioni di principio. A parere dell’autore, ciò si è verificato a causa di un giornalismo che non è più uno stile di vita, un’attività intenzionale che si prefigge uno scopo e che auspica dei cambiamenti, ma semplicemente un modo di fare soldi, di una informazione, diventata il business più redditizio, guidata dal criterio dell’attrattiva e non più della verità, e della debolezza di un insegnamento universitario della professione che ha iniziato a privilegiare gli aspetti tecnici del mestiere a discapito della sensibilità e di ciò che il reporter definisce come “preparazione etica”. Una sorta di libro-testamento, volto non solo a rendere nota la straordinaria figura di Ryszard Kapuscinski, ma soprattutto a spiegare un modo di intendere la professione giornalistica che lo stesso reporter ammette "non essere più la norma, ma l'appannaggio di pochi franchi tiratori". (Camilla Rumi) “ Nell'attuale società, dove il digitale prevale sull'analogico, dove la digitalizzazione dei segnali ha permesso la globalizzazione della comunicazione, lo sport, gli avvenimenti sportivi, atleti, allenatori, sponsor e quant'altro ruota attorno a questo mondo entrano in modo dirompente nella vita quotidiana di ciascuno, diventando, molto spesso, fatto di costume”. In queste parole trova una giusta sintesi “Sport Comunicazione Scuola”, il volume di Lucina Salvato edito dall'Asis (associazione italiana stampa scolastica) di Messina, con la prefazione del compianto prof. Aldo Nigro. Quello che l'autrice (docente di un Liceo Classico di Messina) propone è un vero e proprio excursus storico che, partendo dalla parola sport, traccia l'itinerario, anche cronologico, del rapporto tra scuola, comunicazione e sport. “Sono certamente - scrive l'autrice - alcuni sport più di altri (grazie anche e so- 61 n. 1/2007 LUCINA SALVATO Sport Comunicazione Scuola Ed. Asis DESK L I B R I prattutto al business economico che ruota attorno a loro ed a cui la pubblicità, attraverso i mezzi di comunicazione, dedica molto spazio), che la fanno da padroni, come ad esempio il calcio. Le lunghe, quotidiane trasmissioni sul calcio bombardano in modo ossessionante un pubblico sempre più numeroso, di qualunque età, cultura e ceto sociale. Lo sport, che anche nella cultura delle civiltà primitive era utilizzato come mezzo di divulgazione, diventa (per usare un linguaggio moderno) un' "emittente" estremamente suggestiva, dove, spettacolo nello spettacolo, si rincorre la spettacolarità sensazionale, perdendo quella raffinata e ideale coscienza, che lo sport aveva conseguito nel mondo greco. Qui, lo sport, pur non trascurando un sano e acceso spirito agonistico, assurgeva a momento essenziale dell'educazione e la distinzione tra dilettantismo e professionismo, con la condanna di quest'ultimo, rivelava quale maturo senso etico avesse raggiunto. L'atleta era non solo espressione della vigoria fisica, ma anche di qualità morali; quindi, era anche un valoroso soldato”. Nel mondo antico l'esercizio fisico era scuola di formazione di virtù civili e militari; il raggiungimento della bellezza fisica, espressione delle classi sociali più alte. “Il professionismo esasperato dei tempi moderni, in una società dal consumismo spinto, velocizzato dall'era del computer, ha portato - sono ancora parole della professoressa Salvato - a puntare i riflettori sugli atleti (emissari), amplificandone smisuratamente "le gesta". Si sottolineano, in modo esasperato, gli ingaggi da capogiro e si dà eccessivo risalto, piuttosto che al fatto sportivo, all'aspetto economico-speculativo. Si trattano gli atleti come divi, corteggiandoli e viziandoli nel loro divismo (anche questo fa parte dello spettacolo e produce audience), che però troppo spesso sfocia in atteggiamenti discutibili sul piano della correttezza e della compostezza, diventando spettacolo spazzatura e violento, come al tempo dei Romani, nei giochi circensi, figli di una decadenza di costumi e frutto di una società pagana fondata su immagini”. Nella nostra era tutto è immagine, cioè, apparenza gestita dalla tecnologia. Gli atleti rivestono oggi, come ieri, un ruolo di veicoli di messaggi. “Secondo queste considerazioni, - sottolinea ancora l'autrice - lo sport diventa emittente, gli atleti gli emissari, il pubblico destinatario di questi messaggi. Attraverso questo suggestivo mezzo di comunicazione, al quale sin dai tempi più antichi si è riconosciuto un grande potere di divulgazione con immagini, suggestioni, simboli (esempi), si riesce sicuramente a raggiungere e condizionare un pubblico numeroso, svariato e sfaccettato. Da qui l'esigenza di un'etica sportiva quanto mai rigorosa, ispirata a principi di oggettiva moralità, buon gusto e onestà”. (Lorenzo Ruggiero) MASSIMO NAVA Il Francese di ferro Ed. Einaudi pag. 275 € 15,50 DESK L e elezioni del nuovo Presidente della Repubblica Francese passeranno alla storia come un caso di studio per il totale rinnovamento del modo di fare propaganda elettorale. E’ tramontata la vecchia Francia dei notabili, dell’ingessatura dei partiti, degli slogan tradizionali, dei comizi. Con forza sono apparse le nuove tecnologie e il modo di usarle, da internet ai blog. Un esempio: Segolène Royal, la prima candidata donna alla Presidenza nella storia francese, ha trascinato su internet un popolo nuovo, tanto che, proprio grazie ad internet, il n. 1/2007 62 L I B R I PS ha aumentato i suoi iscritti di un terzo in pochi giorni. Una campagna elettorale rivoluzionaria dunque rispetto al passato. E poi i sondaggi: anche questa una novità. Quotidianamente quattro o cinque maisons sondaggistiche tengono col fiato sospeso i candidati che debbono mutare le loro campagne e risvegliano gli indecisi. Massimo Nava corrispondente da Parigi de Il Corriere della Sera e certamente uno fra i più attenti conoscitore di cose francesi ha pubblicato con Einaudi un bel libro su Nicolas Sarkozy, candidato della “destra” e noto all’estero soprattutto per la durezza con cui ha guidato il Ministero degli Interni durante la rivolta delle periferie parigine e di altre città. Lo ha studiato a fondo e ce ne fornisce una immagine diversa e nuova: il figlio di emigrati ungheresi con “il cervello a destra e il cuore a sinistra”. Pieno di idee, progetti, mai un momento fermo, disponibile, diverso ed “estraneo” alla tradizione dei vecchi politici francesi, mentre Segoléne Royal non sembra sia riuscita a sganciarsi dalla struttura dell’apparato partitico. Sarkozy sembra dominare con estrema capacità e disinvoltura il rapporto con i mezzi di comunicazione e soprattutto con i giornalisti. Questa è la convinzione di Massimo Nava, che non nasconde una sua ammirazione per Sarkozy. Certo Sarkozy è un candidato ideale per i giornalisti, tanto che Nava intitola un capitolo” Giornalisti, amore mio”. Scriva Nava: “La parola è la sua cavalleria. E lui parla sempre”. E’ una analisi assai profonda quella che fa Nava del rapporto del candidato Sarkozy con la comunicazione e che va al di là del personaggio. Continua l’A. “fra il candidato e i giornalisti non esiste la barriera fra “off ” e “on”. C’è un qualcosa di kennediano nel personaggio, ma, crediamo forse per il modo di lavorare della sua squadra. Un libro interessante che aiuta a capire una elezione nuova con la trasformazione del linguaggio e il ruolo, anche se in parte previsto, della “rete”. Solo che nell’ultima parte della campagna elettorale, a libro pubblicato, è apparso, a scompaginare i giochi, un terzo incomodo, il centrista Francois Bayrou. Un candidato pacato, rassicurante e molto “francese”. Anche lui aiutato dai mezzi di comunicazione, più che per la politica, per aver aggiunto pepe ai sondaggi. Chissà come andrà a finire fra “il cavaliere elettrico”, la “prima donna di Francia” e l’”uomo tranquillo”. Sondaggi a parte. (Angelo Sferrazza) L a Francia è stata e con qualche difficoltà lo è ancora, uno dei Paesi che è riuscito a mantenere e difendere un suo ruolo, non solo di autonomia politica e per certi versi di guida, ma anche di uno dei centri culturali del mondo. La lingua, ora forse irrimediabilmente destinata al tramonto, è stata quella della grande letteratura, della diplomazia e…dell’amore. C’è stato in tutti i campi un modello francese e fra questi uno importante lo ha occupato il giornalismo. La veicolarità del francese, parlato e usato dalle classi dominanti e dalla politica, ha fatto sì che la stampa francese giocasse un ruolo politico importante che usciva dai confini nazionali. Fabrizio Tonello ed Elisa Giomi con questo accuratissimo studio ne hanno ripercorso la storia dal dopo Rivoluzione fino ai giorni nostri. Nella prossima edizione dovranno aggiungere un capitolo sul comportamento nuovo e per certi versi inedito della comunicazione nell’ultima campagna elettorale presidenziale! Le 144 pagine, che sembrano poche per raccontare più di duecento anni di giornalismo francese, in effetti sono così piene di analisi ed informazioni, che 63 n. 1/2007 FABRIZIO TONELLO ELISA GIOMI Il giornalismo francese Ed. Carocci pag. 144. € 9.50 DESK L I B R I il lettore alla fine ha un quadro completo della materia che va ben oltre lo specifico. Attraverso il racconto della stampa e poi delle nuove tecniche di comunicazione, si percorre la storia politica, economica e culturale della Francia. I giornali francesi hanno sempre colpito per la loro qualità, per la loro autorevolezza e la diffusione anche regionale con tirature incredibili. Già nel 1914, anno di entrata in guerra, si vendevano 244 copie ogni 1.000 abitanti con una tiratura complessiva di 9.500.000 copie. Nota importante: il tasso di analfabetismo alla leva militare di quell’anno risultava solo del 4%. All’occhio esterno ed attento e sensibile quello che ha sempre colpito della stampa francese è quell’impasto profumato di cultura che i giornali hanno sempre avuto nell’ottocento proseguito poi per gran parte del novecento, almeno fino alla sopravvivenza dei grandi “Maitres à penser” uno dei quali fu certo Francois Mauriac che abbandonò il vessillifero della grande borghesia, Le Figaro, in polemica per la guerra colonialista in Algeria ed iniziò la sua collaborazione con l’Express, quel famoso settimanale che tanto influì nella politica, non solo francese, dagli anni cinquanta per oltre un ventennio. Ma la stampa francese, certo più di quella italiana, ha avuto ed ha ancora un rapporto molto stretto, forse in certi momenti anche troppo, con la grande finanza e i centri di potere economico. Di grande rilievo le analisi degli AA.. Questa peculiarità distingue il giornalismo francese da quello americano, che i professori Tonello e Giomi portano giustamente come esempio di altro modello giornalistico. Nell’immagine più comunemente conosciuta anche dai non specialisti e da quelli che non sono esperti di cose francesi le due testate che incarnano le due facce del giornalismo francese sono il ricordato Le Figaro e Le Monde. Ma la storia avanza anche in Francia, anche se talvolta sembra più lentamente che altrove e anche il mondo della comunicazione deve fare i conti con tutti i cambiamenti, tecnologici, economici, culturali e di costume. Di notevole interesse la parte dedicata alla radio e alla televisione. Anche qui emergono profonde differenze fra Francia e Italia, se non altro per il diverso rapporto fra pubblico e non monopolistico assetto proprietario del privato. Per ora il fenomeno più appariscente è il crollo verticale delle tirature. Gli autori si chiedono giustamente alla fine del loro viaggio nel mondo del giornalismo francese: l’”anomalia” della Francia è finita? Per chi ama la Francia verrebbe da dire:”speriamo di no”. (a.s.) LIBRI RICEVUTI EZIO BERARD Il coraggio di testimoniare la fede Ed. Arti Grafiche e E.Duc, pag 160 sip DESK n. 1/2007 64