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Il caso Gela: Industrializzazione senza sviluppo
Salvatore Costantino
ECONOMIA SICILIANA
Il petrolchimico di Gela come simbolo di uno sviluppo distorto, dello sguardo corto di gruppi
monopolistici pubblici e privati e di classi dirigenti che non hanno saputo e voluto legare il
Mezzogiorno alla qualità dello sviluppo dell’intero paese. Industrializzazione senza sviluppo. Gela:
una storia meridionale, il libro di Eyvind Hytten e di Marco Marchioni apparso nel 1970, non è
stato utilizzato al fine di un’inversione di tendenza, come sostenevano i due autori, nelle politiche
per l’industrializzazione, per il Mezzogiorno, per un tipo di sviluppo in grado di avvicinare crescita
economica e benessere. E’ ancora possibile, tuttavia, sperare nella formazione di classi dirigenti
con lo sguardo meno corto. A queste ultime Industrializzazione senza sviluppo avrà ancora molto
da dire.
1. Industrializzazione senza sviluppo e disastri ecologici
Ritornare sulle politiche dei poli di sviluppo1 nel Mezzogiorno che continuano a produrre effetti
negativi sulla società e sull’ambiente, non vuol dire in alcun modo riproporre un mero scavo
archeologico su un periodo storico che accese grandi speranze, seguite purtroppo rapidamente, da
brucianti delusioni non avendo dato risposte adeguate alle due fondamentali “questioni” (già ben
individuate da Franchetti e Sonnino), che, dall’indomani dell’unità d’Italia, hanno condizionato e
continuano a condizionare profondamente la società italiana: la questione meridionale e la
questione mafiosa.
In verità, riflettere sulla genesi del fallimento delle politiche dei poli e, in particolare del caso
gelese, sui pochi risultati acquisiti, sugli effetti perversi che continua ad avere sul permanere e
1
“Il termine “polo di sviluppo”, quello di “sviluppo sbilanciato”, e quello a entrambi legato di “politica dei poli di
sviluppo” non sono privi di consistenti ambiguità, spaziali, cronologiche, relative all’unità definibile come polo, ai
rapporti tra poli e teorie della localizzazione, ai tipi di relazioni tra polo ed altre entità produttive. Qui si farà riferimento
all’accezione che il termine finì per assumere nel dibattito italiano, vale a dire una politica volta all’insediamento in aree
meridionali di grandi industrie esterne, prevalentemente, ma non esclusivamente, di base, al fine di promuovere la
soluzione del problema del minore sviluppo meridionale. Sarà bene ricordare che la politica dei poli si inseriva in una
più ampia politica di industrializzazione per il Mezzogiorno; questa da un lato portava prevalentemente
all’insediamento di tali impianti in aree che avessero già mostrato primi fenomeni di agglomerazione, dall’altro non si
esaurì nello sforzo per la costruzione di grandi imprese: varie forme di incentivazione alla polarizzazione furono rivolte
ad imprese piccole e medie all’interno delle aree e dei nuclei di sviluppo industriale” (Elio Cerrito, La politica dei poli
di sviluppo nel Mezzogiorno. Elementi per una prospettiva storica, in Banca d’Italia, “Quaderni di storia economica,
n.3, giugno 2010).
StrumentiRes -­‐ Rivista online della Fondazione Res Anno V -­‐ n° 4 -­‐ Settembre 2013 1 approfondirsi della questione meridionale e della questione mafiosa, può contribuire a gettare nuova
luce sugli errori del passato e sulla qualità dello sviluppo necessario e sostenibile non solo per il
Mezzogiorno, ma per l’intero paese.
Ritornare sulla genesi, pur nella dimensione apparentemente micro, del caso gelese, non è puro
esercizio storiografico, in quanto come si vedrà, coinvolge, in ogni suo aspetto, gli aspetti strutturali
macro riguardanti la sfera nazionale e, per molti versi, quella globale.
Dal punto di vista sociologico e di analisi delle politiche pubbliche, proprio in questa direzione
vanno le recenti considerazioni di John H Goldthorpe quando si propone di spiegare i macro
fenomeni attraverso l’analisi empirica dei micro processi “generativi” che possono “portare alla
luce configurazioni inedite e non intuitive dei fenomeni sociali, all’insegna della massima «nuovi
strumenti di osservazione producono nuova conoscenza”2. Ciò vale anche al fine di dare nuovo
impulso alla ricerca sociologica, in particolare nell’analisi delle politiche pubbliche e del futuro del
capitalismo3, in quanto si vengono a costituire “ottimi ambienti per il controllo empirico delle
teorie”. In particolare per dare una risposta in termini interdisciplinari ai problemi che riguardano la
migliore conoscenza dei problemi dello sviluppo e della sua qualità inserendo l’ambito locale in
quello nazionale e globale. Ciò è tanto più necessario e urgente quanto più le analisi più recenti
2
J.H. Goldthorpe, (2000), Sulla sociologia, il Mulino, Bologna 2006: 57.
Sulla crisi e sul futuro del capitalismo è necessario valorizzare e sviluppare lo spirito critico, centrato sulla riforma e
non sull’abolizione del capitalismo. Si tratta di quello spirito critico sul capitalismo contemporaneo che caratterizza le
più recenti riflessioni dello studioso italiano Giacomo Becattini su quel “capitalismo ruggente” che macroscopicamente
esibisce un contrasto profondo «fra la crescita generale di potenzialità di miglioramento umano e la loro realizzazione,
sempre monca e distorta» (G.Becattini, Per un capitalismo dal volto umano. Critica dell’economia politica, Bollati
Boringhieri, Torino: 23) Becattini ritiene disumani alcuni degli aspetti del capitalismo contemporaneo:
“Tali mi appaiono non solo le miserrime condizioni di vita di gran parte del pianeta a fronte di larghe zone di
scandalosamente esibita opulenza, ma anche l’imbarbarimento generale dei costumi che a me pare si leghi al trionfo del
principio che c’è un prezzo per tutto. In fondo a questa strada non ci sono il libero mercato e la democrazia, come si
vorrebbe far credere, ma, io penso, il ferino bellum omnium contra omnes. Per non parlare della poderosa spinta al
deterioramento dell’ambiente naturale di un’industrializzazione sfrenata, che eccede di molto la controspinta alla sua
conservazione (G. Becattini, Per un capitalismo dal volto umano: 23]. Guido Rossi, sviluppa la sua critica al
capitalismo contemporaneo dal versante della perversa, costante erosione delle norme: “La continua erosione delle
regole non si limita a far apparire accettabili comportamenti individuali o collettivi, che fino a poco tempo fa sarebbero
stati aspramente (e giuridicamente) sanzionati, ma tocca i valori su cui si reggono le società in cui viviamo, a
cominciare dal modello che, in forme neppure tanto diverse, le ispira tutte: il capitalismo avanzato” (G. Rossi, Il gioco
delle regole, Adelphi, Milano, 2006: 11-12). Il paradosso del sistema capitalistico diventa così “quello di un’economia
soffocata da un numero pressoché immaginario di norme legislative, ma in realtà governata da regole che i principali
attori del sistema di volta in volta scelgono, a seconda delle proprie convenienze, nascondendosi dietro lo slogan della
libertà contrattuale”(G. Rossi, Il gioco delle regole: 28). “La prima vittima di questo paradosso è il cuore del sistema:
cioè il mercato … La pratica negoziale, sorretta dalla legge, potrebbe trasformarsi in uno strumento attivo dello
sviluppo democratico che coinvolge gli stakeholders in maniera ufficiale e permette di pervenire a soluzioni e decisioni
ragionate, basate su una nuova forma di legittima quello di un’economia soffocata da un numero pressoché immaginario
di norme legislative, ma in realtà governata da regole che i principali attori del sistema di volta in volta scelgono, a
seconda delle proprie convenienze, nascondendosi dietro lo slogan della libertà contrattuale” (G. Rossi, Il gioco delle
regole: 28).
3
StrumentiRes -­‐ Rivista online della Fondazione Res Anno V -­‐ n° 4 -­‐ Settembre 2013 2 tracciano un profilo non nitido del Mezzogiorno e, pur rilevando una situazione variegata (non priva
di processi innovativi), segnalano vistosi processi di regressione che rendono la ricerca e lo stesso
discorso politico più difficile e l’oggetto d’analisi più opaco.
2. Il petrolchimico di Gela: conseguenze di uno sviluppo industriale mancato
Mentre restava dolorosamente aperta la ferità dei casi Thyssen, Eternit, e Ilva, ad approfondirla ha
contribuito, ancora una volta, l’esplosione di un caso Gela. Il nuovo “incidente” è avvenuto il 4
giugno scorso in uno dei più grossi impianti industriali di Sicilia, il petrolchimico di Gela. Il
disastro ecologico minaccia ancora la condizione del territorio, del mare e delle coste. Con la
fuoriuscita di almeno una tonnellata di greggio si conferma la tragica realtà di “quelle zone che da
decenni fanno già i conti con le mefitiche esalazioni dell’aria e con le infiltrazioni nelle falde
acquifere e nei terreni ritenuti causa dell’aumento esponenziale di gravi patologie”4. Siamo in
presenza di impianti altamente inquinanti, ormai obsoleti, mai bonificati, pur essendo state le opere
di bonifica finanziate con 40 milioni di euro serviti solo a mantenere strutture inutili. A proposito
dell’Ilva di Taranto, Adriano Sofri ha parlato di “Odissea”. Nel caso di Gela bisognerà parlare di
tragedia considerando l’allargarsi della portata del disastro ambientale. Secondo Legambiente sono
40 milioni le tonnellate di petrolio da raffinare che arrivano in Sicilia annualmente. Inoltre va tenuto
conto dei rischi derivanti dalle trivellazioni delle piattaforme in mare per la ricerca di idrocarburi
che coinvolgono ben 12 punti nel canale di Sicilia. Bisognerà ancora aggiungere, per avere una più
esatta cognizione del disastro, le centrali termoelettriche alimentate con combustibili ad alto rischio.
La situazione, stando a recentissimi rilevazioni tra la popolazione gelese, tende ancora a peggiorare.
L’aria è divenuta irrespirabile. Le emissioni gassose e marine dello stabilimento, protrattesi e
divenute sempre più pericolose nel tempo. Nel territorio gelese si sono diffuse particolari tipi di
malformazioni come per esempio le ipospadie, e particolari neoplasie. L’azione dei numerosi
comitati ambientalisti e dell`Organizzazione Mondiale della Sanità ha potuto accertare la gravità
dell’azione ambientale. La magistratura è intervenuta con condanne e l’imposizione di limiti alle
attività industriali.
La situazione diventa, di giorno in giorno, sempre più tragica, respingendo cinicamente nella più
vacua astrazione, nella più vuota retorica ogni discettazione sulla responsabilità sociale delle
4
A. Ziniti, Gela, greggio in mare tutti i rischi per le coste, la Repubblica-Palermo, 5 giugno 2013).
StrumentiRes -­‐ Rivista online della Fondazione Res Anno V -­‐ n° 4 -­‐ Settembre 2013 3 imprese. Sempre più cariche d’angoscia e di paura si fanno le denunce dei gelesi per l’aumento
crescente di bambini nati con gravissime malformazioni. Da un’indagine, svolta nel 2002, risulta
che in un solo anno sono nati nel comune di Gela 512 bambini affetti da gravi malformazioni.
Dai primi risultati acquisiti all’ARPA, l’Agenzia Regionale Protezione Ambiente, è stato possibile
verificare che la presenza di veleni nell’aria è superiore a quella consentita dalle leggi nazionali e
anche la falda acquifera sottostante risulta fortemente inquinata.
A Gela – (afferma un’indagine de L’Espresso che fa riferimento ad uno studio ancora inedito
dell'Osservatorio epidemiologico della Regione Sicilia intitolato Stato di salute della popolazione
residente nel sito di interesse nazionale per le bonifiche di Gela) - morte e malattia risparmiano
poche, fortunate famiglie. Non si salva nessuno: operai, impiegati, avvocati, casalinghe o
professionisti, le malattie sono democratiche e se ne fregano delle classi sociali. L'inquinamento
diffuso sembra ormai un dato acquisito, così come le sue conseguenze sulla salute della
popolazione. L'area della città, insieme a Niscemi e Butera (108 mila abitanti) è uno dei siti
d'interesse nazionale ad alto rischio. La devastazione di acque, terra e aria è stata causata secondo
esperti e ambientalisti dal polo industriale che come si legge in un report dell'Istituto superiore di
sanità pubblicato nel 2009, "ha comportato nel corso degli anni una progressiva contaminazione di
diverse matrici ambientali, nelle quali sono stati rilevati livelli estremamente elevati di inquinanti
chimici con caratteristiche di tossicità, persistenza e bioaccumulo". Traducendo, l'Eni ha
sparpagliato i veleni in lungo e largo per decenni. Anche i dati epidemiologici "hanno evidenziato"
ragiona l'Iss "la presenza di patologie in eccesso rispetto alle aree limitrofe e alla regione." Eppure il
nesso causa-effetto tra inquinamento industriale e malattie non è stato ancora provato, né in sede
scientifica né in quella giudiziaria: le norme e le leggi italiane sono spesso inefficaci, così l'Eni
finora se l'è cavata alla grande. Presto, però, la musica potrebbe cambiare. Se a Taranto nel mirino
della procura è finita l'Ilva e i Riva di Milano, anche nella punta orientale dell'isola di Leonardo
Sciascia ("Il petrolio? Mi creda, se lo succhiano, se lo succhiano. È così che finisce col petrolio: una
canna lunga da Gela a Milano, e se lo succhiano", scriveva lo scrittore in un racconto del 1966) i
magistrati sembrano aver messo il turbo. In pochi mesi i pm guidati da Lucia Lotti hanno aperto
varie inchieste, e oggi sono 14 i processi istruiti per reati gravissimi, da quelli ambientali
all'omicidio colposo. Sotto accusa sono finiti dirigenti ed ex quadri di aziende dell'Eni, il colosso
statale che controlla il petrolchimico nato per volontà di Enrico Mattei nel 1965. Qualcuno in città
spera che nei confronti dello stabilimento siano prese misure draconiane, che i pm facciano un salto
StrumentiRes -­‐ Rivista online della Fondazione Res Anno V -­‐ n° 4 -­‐ Settembre 2013 4 di qualità sequestrando la raffineria, come avvenuto per il siderurgico pugliese. Da un punto di vista
economico, sarebbe uno choc: nella sola raffineria – una delle più grandi e strategiche d'Europa –
lavorano circa 1100 persone, altre 500 nell'indotto, ma a questi vanno aggiunti altre migliaia di
operai delle ditte esterne. Non solo. A Gela vengono lavorati ogni anno circa 5 milioni di tonnellate
di greggio pesante e semilavorati proveniente dai pozzi di Gela, Ragusa, Egitto, Libia e Iran, che in
Sicilia viene trasformato in benzina, cherosene, gasolio, gas e gpl. Un blocco della produzione
rischierebbe di mettere in ginocchio l'azienda amministrata da Paolo Scaroni, mentre alle
ripercussioni sociali si sommerebbero quelle finanziare a Piazza Affari5.
5
Cfr. E dopo Taranto Gela. Nell'area del petrolchimico allarme malattie e tumori. Ecco in esclusiva i dati del disastro.
Nel mirino dei magistrati, L’Espresso, 7giugno 2013. L’articolo di approfondimento interno, La strage degli innocenti,
ha il seguente sottotitolo: Analisi della mortalità (anni 2004-2011) e della mortalità (ricoveri ospedalieri per gli anni
2007 – 2011 nell’area di Gela. Differenza percentuale rispetto ai comuni limitrofi. “Comune, Regione e ministero
dell'ambiente – scrive L’Espresso - sembrano voler puntare – per ridurre i danni all'ambiente e alla salute – sugli
investimenti di recente "imposti" all'Eni. Lo scorso gennaio la raffineria ha finalmente ottenuto l'autorizzazione di
impatto ambientale che prevede il rispetto di 200 adempimenti, "In ambito emissivo" spiegano dalla Raffineria "sono
stati prescritti limiti particolarmente restrittivi, il 50 per cento in meno rispetto alle precedenti autorizzazioni". L'Eni
puntualizza che nell'ultimo decennio sono stati comunque effettuati "una serie d'interventi migliorativi in campo
ambientale, con un investimento che si aggira sui 300 milioni: abbiamo realizzato un impianto di trattamento dei fumi
della centrale con la migliore tecnologia esistente, i doppi fondi sui serbatoi di stoccaggio, la copertura del parco coke.
Sarà. Ma i nuovi dati epidemiologici che "l'Espresso" ha consultato in esclusiva fotografano una situazione ancora
drammatica: “… Secondo gli studiosi il rischio degli uomini di Gela di morire rispetto a coloro che vivono nei Comuni
vicini è più alto del 6,8 per cento, mentre per le donne l'eccesso è statisticamente significativo sia sul confronto locale
(più 12,3 per cento) sia rispetto ai dati regionali (più 8,2 per cento). L'analisi delle tabelle sulla "mortalità" in alcuni casi
sono persino peggiori rispetto a quelle di Taranto. Rispetto alle città più vicine, a Gela i maschi muoiono di più per tutti
i tipi di tumore (più 18,3 per cento), per il cancro infantile (più 159,2 per cento), per il tumore allo stomaco (più 47,5
per cento), alla pleura (più 67,3 per cento) alla vescica (più 9,6 per cento), per non parlare dell'incidenza del morbo di
Hodgkin (più 72,4 per cento), del mieloma multiplo (più 31,8 per cento) e delle malattie del sistema circolatorio (più
14,2 per cento). Alto lo "spread" anche nei confronti delle statistiche regionali: a Gela l'incidenza dei tumori degli under
14 è maggiore del 68,1 per cento, più decessi anche per i tumori al fegato (più 20,9 per cento), alle ossa (32,8 per
cento), al testicolo (più 209,4 per cento) e per le malattie cerebrovascolari (più 36,6 per cento).
…Sono centinaia gli operai che hanno lavorato al petrolchimico ad esser finiti dentro i nosocomi sparsi nella
provincia di Caltanissetta. Molti di loro hanno lavorato all'ex impianto Clorosoda, chiuso a metà degli anni '90. Un
reparto foderato d'amianto con 52 celle piene zeppe di mercurio, usato per produrre soda caustica e idrogeno: secondo le
testimonianze delle tute blu, il metallo veniva raccolto con secchi e mestoli. Il genetista Bianca, perito di parte della
procura gelese che ha aperto un'inchiesta su 13 decessi sospetti indagando 17 dirigenti ed ex dirigenti delle società
dell'Eni che hanno gestito negli anni il Clorosoda (le accuse vanno dall'omicidio colposo alle lesioni personali gravi), ha
certificato le presenze di tumori ai polmoni, all'esofago e alla tiroide, senza parlare delle malattie cardiovascolari e
all'apparato respiratorio. Gli operai sopravvissuti oggi perdono unghie e capelli, ad alcuni si sono sbriciolati i denti,
probabilmente a causa dell'esposizione prolungata al mercurio.
I padri di famiglia impiegati al petrolchimico, però, non sonno le uniche (e per ora presunte) vittime del "Mostro".
Centinaia di figli maschi dei gelesi sono infatti nati malformati, colpiti in particolare dall'ipospadia, che secondo
Bianchi a Gela "risulta tra le più alte mai viste al mondo". Ma anche le donne che non hanno mai messo piede all'Eni
hanno probabilità record di ammalarsi. Secondo le tabelle dell'Osservatorio, oggi anziane, quarantenni e ragazze gelesi
finiscono in ospedale per tumori allo stomaco (più 25,1 per cento rispetto a chi risiede nei comuni vicini), alle ossa (più
28 per cento), alla tiroide (più 30), al sistema nervoso centrale (più 100,6 per cento), all'utero (più 52,6 per cento) e via
elencando.”
StrumentiRes -­‐ Rivista online della Fondazione Res Anno V -­‐ n° 4 -­‐ Settembre 2013 5 L’assessore ragionale all’economia Luca Bianchi, studioso della Svimez, preferisce non
commentare nel dettaglio questi dati ancora non pubblici. Tuttavia non può fare a meno di
dichiarare: “Ma di certo la situazione ambientale è pesante. Come a Taranto, anche a Gela servono
investimenti importanti per attenuare l’inquinamento. Oggi per motivi di congiuntura la raffineria
sta producendo di meno, ma non basta. Bisogna fare di più”6. Secondo un’analisi costi-benefici
pubblicata dalla rivista internazionale Environmental Health nel 2011, a Gela “i costi della bonifica
ammonterebbero a circa 6,6 miliardi di euro”.
Di fronte all’aggravarsi della situazione, giustamente è stato chiesto al presidente della Regione
Crocetta di farsi rendere conto per “omissioni e ritardi” che si accumulano sistematicamente da
decenni elevando progressivamente la mappa e la gravità del rischio e dell’insicurezza. Basteranno
le solite promesse? O, invece, non è necessaria una svolta radicale non solo a Gela e nel
Mezzogiorno, ma nelle politiche industriali e di sviluppo che riguardano l’intero paese?7
Questa fase di stallo non sarà mai concretamente avviata a superamento se non si comprenderà che
la questione meridionale, come si è già accennato, è parte integrante della questione italiana e che
riguarda il tipo di sviluppo della società italiana e la qualità stessa della sua democrazia8.
Di questo modo di intendere lo sviluppo del Mezzogiorno e paese c’è una grande consapevolezza
già in un testo importante del 1970 di sorprendente attualità, dal quale hanno origine le osservazioni
che precedono e che seguiranno.
Che lo si voglia o no, il Mezzogiorno, con la sua miseria e le sue prospettive, le sue contraddizioni e
contrasti, continuerà ad essere il banco di prova per tutto ciò che si fa e si cercherà di fare per creare
una società più giusta e civile per tutti gli italiani.
Anche sul faticoso cammino del progresso economico e sociale, teso a trasformare la società
tradizionale ed essenzialmente rurale in una moderna dinamica e fondata su una economia più
diversificata e propulsiva, quello che viene fatto e non fatto nel Mezzogiorno, condizionerà per vie
dirette ed indirette la validità dell’intero sviluppo nazionale.
6
Citazione ripresa dal già citato articolo E dopo Taranto Gela, L’Espresso, 7 giugno 2013. Su come le vicende giudiziarie hanno, assai spesso, accompagnato lo sviluppo dei poli industriali italiani, cfr S.
Adorno, S. Neri Serneri (a cura di Industria, ambiente e territorio. Per una storia ambientale delle aree industriali in
Italia, il Mulino, Bologna 2009. Il volume rilegge la storia dell'industrializzazione italiana, dalla ricostruzione
postbellica agli anni Novanta, in chiave ambientale mettendone in evidenza le conseguenze eccezionali, sul consumo
delle risorse, sulle le condizioni di vita e di salute delle popolazioni, sugli gli assetti territoriali.
7
8
“Abbiamo tutti bisogno dello sviluppo del Mezzogiorno” ha affermato l’ex Governatore della Banca d’Italia,Mario
Draghi, nel suo intervento d’apertura del convegno su “Il Mezzogiorno e la politica economica del’Italia”, Roma 26
novembre 2009.
StrumentiRes -­‐ Rivista online della Fondazione Res Anno V -­‐ n° 4 -­‐ Settembre 2013 6 E non è un paradosso affermare che la stessa arretratezza del Mezzogiorno rispetto al resto del
paese lo fa diventare oggi, una punta avanzata di tutta la tematica dello sviluppo; i suoi maggiori
bisogni e la conseguente reattività agli effetti sia benefici che nocivi delle trasformazioni, ci
permettono di misurare e prevedere quali siano i risultati, le prospettive ed i rischi di un processo di
trasformazione che investe la società italiana.
Se quindi vogliamo che il progresso economico e sociale, promosso e sollecitato dalle istituzioni
pubbliche e della collettività, diventi qualcosa di più che la semplice accelerazione di vari processi e
avvenimenti già in corso per conto proprio, è sempre al Mezzogiorno che bisogna guardare. Se cioè
si vuole che lo sviluppo della società sia l’espressione di una determinata politica.
È sempre difficile fare un discorso basato sul concetto della “volontà collettiva” di una determinata
società, e pressoché impossibile quando si tratta di una società ancora così lacerata e divisa nelle
sue idee e aspirazioni qual è quella italiana. Su due punti, però, è forse possibile fissare dei
parametri generalmente riconosciuti come guide valide per lo sforzo di trasformare in meglio la
società. L’uno riguarda, appunto, l’esigenza che le forze preposte allo scopo abbiano un ruolo
propulsivo e non solo di affrancamento a determinati processi autonomi al di fuori del loro
controllo: non vi è accordo di fondo su quale politica di sviluppo bisogna seguire, ma almeno sul
fatto che una politica ci deve essere; che la società attraverso le sue istituzioni dev’essere la
protagonista e non solo l’oggetto delle trasformazioni in corso.
In secondo luogo, potrebbe dirsi generalmente accettata l’idea che, in un modo o nell’altro queste
trasformazioni debbano risultare non solo un aumento globale delle risorse, delle opportunità, in
breve della somma dei valori materiali e spirituali di cui la società dispone, ma anche in una loro
diversa distribuzione all’interno della società stessa, in modo da assicurare relativamente di più a
chi attualmente ha di meno; cioè che lo sviluppo deve avere una finalità non soltanto quantitativa
ma anche qualitativa, in termini di maggiore giustizia sociale9.
3. Una Sicilia “senza”
Il brano citato fa parte dell’introduzione (Industria, sviluppo e Mezzogiorno) a Industrializzazione
senza sviluppo. Gela: una storia meridionale. Il volume pubblicato da Franco Angeli nel 1970, cioè
nel bel mezzo dello svolgimento della vicenda del petrolchimico gelese, sviluppa un’analisi critica,
rigorosamente scientifica, ricca di indicazioni per il futuro e di spessore progettuale. Il titolo
9
E.Hytten, M. Marchioni, Industrializzazione senza sviluppo. Gela: una storia meridionale, Franco Angeli, Milano,
1970: 9-10
StrumentiRes -­‐ Rivista online della Fondazione Res Anno V -­‐ n° 4 -­‐ Settembre 2013 7 inaugura la lunga serie delle “incompletezze”, delle “mancanze”, dei “senza”, dei fallimenti, dei
molti, inevitabili complementi di privazione attribuiti ora all’intero paese, ora al Mezzogiorno, ora
alla Sicilia. Del 1980 è il noto libro di Alberto Arbasino, Un paese senza; del 1992, Sviluppo senza
autonomia di Carlo Trigilia; dello stesso anno Mezzogiorno senza meridionalismo di Giuseppe
Giarrizzo. Lo scopo dichiarato e perseguito sistematicamente di Industrializzazione senza sviluppo è
quello di “misurare e prevedere quali siano i risultati, le prospettive ed i rischi di un processo di
trasformazione che investe tanto le aree sottosviluppate quanto quelle opulente, la società italiana
nel suo complesso10. Un obiettivo squisitamente scientifico, dunque. Non si parla soltanto di Gela,
ma la storia del paese mediterraneo è inserita nel quadro, molto più ampio, che riguarda il processo
di sviluppo (e della sua qualità) dell’intera società italiana, i risultati raggiunti, le sue
contraddizioni, le correzioni possibili. Autori del volume sono Eyvind Hytten, docente
all’Università di Stoccolma, che fino al 1964 dirige il Centro Studi e iniziative per la piena
occupazione presieduto da Danilo Dolci e Marco Marchioni, studioso dei problemi dello sviluppo e
collaboratore del Centro Studi di Dolci. Gli autori hanno il merito di esibire concretamente i dati di
un processo di sviluppo distorto, per diversi aspetti violento, nei confronti della natura e della
società. L’analisi critica dei due studiosi non si ferma solo al livello dell’individuazione degli effetti
perversi, nella misura in cui sa individuare i punti che avrebbero potuto trasformare
l’industrializzazione senza, in industrializzazione con, cioè non scorporata dal sociale e integrata nel
territorio.
10
“Questa mancanza di una vera accumulazione culturale e scientifica – scrivono Hytten e Marchioni – nei riguardi
della questione meridionale che fa sì che i suoi termini continuino ad essere affrontati – in sede teorica come in quella
pratica – con l’empirismo e l’improvvisazione – deriva da molti fattori diversi: Ricordiamo un fatto di cui non sempre si
tiene presente l’importanza, e cioè la diversità fra i modi di conoscere e far conoscere ad altri qual è la consistenza dei
problemi meridionali. Da un canto troviamo la testimonianza del giornalista, dello studioso o dello stesso intellettuale
d’estrazione meridionale, basata sull’esperienza diretta de vissuta; molte volte di una vivacità e immediatezza che ne
fanno un documento di valore anche letterario, ma allo stesso tempo legata a situazioni e punti di vista particolari per
permetterne l’estrazione di orientamenti di validità più generale. Dall’altro canto, l’analisi spassionata e documentata
che non tiene conto degli aspetti contingenti della situazione, né tantomeno si ferma a guardare i lati non misurabili e
sfuggenti all’analisi in termini generali; che però rischia di quantificare artificiosamente una situazione non inquadrabile
in parametri fissi, o di semplificare oltre misura una problematica che ha mille facce diverse.
Tra questi due modi di conoscere e analizzare i problemi del Sud, si è creata una sfasatura che impedisce ogni forma di
integrazione e di ulteriore elaborazione in termini che riuniscano il meglio della testimonianza diretta e dell’analisi
dall’esterno. Così le “immagini” che di volta in volta vengono offerte della situazione o sono del tutto specifiche al
punto da sfiorare il folklorismo o la narrativa, oppure talmente generiche da risultare asettiche e fuori della realtà. In
ambedue i casi, il passaggio dall’analisi o dall’interpretazione alle indicazioni pratiche diventa quasi impossibile;
dall’atto “culturale” non vi è un ponte all’atto “politico” (E.Hytten, M. Marchioni, Industrializzazione senza sviluppo.
Gela: una storia meridionale, Franco Angeli, Milano:12-13 ) .
StrumentiRes -­‐ Rivista online della Fondazione Res Anno V -­‐ n° 4 -­‐ Settembre 2013 8 Come è stato fatto osservare11 la cittadina affacciata sul Mediterraneo è diventata simbolo di una
vicenda storica molto più ampia:
Al suo interno confluiscono modalità di relazione e potere che comprendono caratteri generali e a
loro modo universali, connessi in sostanza alla relazione tra grande capitale e territori periferici.
Parlare di Gela significa infatti discutere della relazione tra centro e periferia, degli esiti
dell’industrializzazione diretta centralmente, del sottosviluppo (o dell’“industrializzazione senza
sviluppo”), delle relazioni “coloniali” (un’espressione forte, a mio avviso decisamente calzante, ma
riproposta frequentemente dagli attori sociali), del ricatto occupazionale, dell’incertezza, del rischio
sanitario e della resistenza che essa genera in ristretti gruppi, della passività delle masse e
dell’illegalità come risorsa…Il capitale, ovvero la relazione tra investimenti tecnologici e forza
lavoro impiegata, costituisce probabilmente la variabile indipendente e centrale dell’analisi; quella
da cui derivano effetti materiali (inquinamento, inclusione ed estromissione ciclica della forzalavoro, creazione di indotto, malattie ambientali, ecc. e “percezioni” (rischio, pericolosità degli
impianti, innocuità delle emissioni, ricchezza, miseria12.
Hytten e Marchioni sostengono che non si è verificato alcuno sviluppo economico-sociale di rilievo
nel “polo” di Gela nonostante il massiccio intervento dello Stato:
“Ci vuole più che l’industria per industrializzare”, affermano.
Il libro mostra, con dovizia di approfondimenti e ricchezza di indicazioni positive di grandissima
attualità, le ragioni del fallimento dell’industrializzazione e del mancato sviluppo integrato nel
territorio. Ma di quale sviluppo parlano i due autori all’inizio degli anni settanta?
Lo sviluppo basato sulla sola logica del profitto, affermano, sul concentramento del potere e delle
opportunità e sull’emarginazione della collettività, non solo è destinato al fallimento, ma ad
aggravare i problemi delle aree a sviluppo ritardato. Di più: il connubio tra tecnicismo e dirigismo
capitalista e “atteggiamenti borbonici”, impastato con visioni miracolistiche del progresso, aveva
gravemente ipotecato altre, più sostenibili e credibili, ipotesi di sviluppo:
Lo sviluppo basato sull’accumulazione – scrivono Hytten e Marchioni - anziché sulla distribuzione
dei beni, sul concentramento del potere e delle opportunità, sull’ulteriore emarginazione della
11
12
P. Saitta, Spazi e società a rischio ecologia, petrolio e mutamento a Gela, Think tank edizioni, Napoli, 2011
P.Saitta, Spazi e società a rischio ecologia, petrolio e mutamento a Gela: 32-33.
StrumentiRes -­‐ Rivista online della Fondazione Res Anno V -­‐ n° 4 -­‐ Settembre 2013 9 collettività anziché sulla maggiore partecipazione di questa alla vita pubblica, è un pericolo che
investe tanto la società opulenta quanto le comunità in via di trasformazione. A Gela abbiamo
potuto vedere una delle manifestazioni più crude di questo pericolo e allo steso tempo l’unica
soluzione possibile che quella di saper coinvolgere tutti nei processi che determinano il loro
futuro13.
I due autori citano una frase efficace di un ricercatore empirico, A. Mountjoy - autore di
Industrialization
and
Underdeveloped
Countries,:
“ci
vuole
più
che
l’industria
per
industrializzare”14.
Non basta la presenza né di una né di molte industrie perché il sistema economico e sociale di una
società finora statica faccia il”salto” alla civiltà industriale in tutti i suoi significati; tale civiltà
consiste in molto di più di un determinato modo di produzione e consumo. La seconda fase del
ragionamento, invece, tende a porre in dubbio se l’industrializzazione in questo senso, anche se
fosse possibile e prevedibile nel caso esaminato, corrisponderebbe a ciò che si può intendere per
“sviluppo”; se l’eventuale futuro accostamento dell’economia e della vita sociale del Meridione ai
“modelli del settentrione industrializzato, sia necessariamente l’unico parametro valutativo per una
politica di sviluppo del Sud15.
È inevitabile, oggi, pur con l’occhio puntato sul futuro, sui processi in atto, interrogarsi su quanto
avrebbe potuto influire sulle strategie di sviluppo la valorizzazione delle importanti indicazioni,
basate sulla rilevazione empirica, dei contenuti di Industrializzazione senza sviluppo che restò,
invece, ignorato. Eppure già nella prefazione il messaggio di Hytten e Marchioni era molto chiaro:
Non pensiamo…che quello di Gela sia un caso tanto “specifico”, né che il problema dell’intero
Mezzogiorno possa essere affrontato come uno a se stante; ci pare invece che i tanti aspetti dello
sviluppo incontrati in diversi posti del Meridione siano delle manifestazioni di una patologia sociale
che investe l’intera società, anche nelle sue zone e settori più evoluti materialmente16.
13
E.Hytten, M. Marchioni, Industrializzazione senza sviluppo. Gela: una storia meridionale,: 8.
A. Mountjoy, Industrialization and Underdeveloped Countries, Aldine Pub. Co., 1967.
15
E.Hytten, M. Marchioni, Industrializzazione senza sviluppo:15.
16
E.Hytten, M. Marchioni, Industrializzazione senza sviluppo: 7-8.
14
StrumentiRes -­‐ Rivista online della Fondazione Res Anno V -­‐ n° 4 -­‐ Settembre 2013 10 Si trattava di un messaggio che avrebbe potuto mettere in moto una progettualità programmata che
avrebbe potuto coinvolgere i rappresentanti del capitalismo italiano, dei grandi complessi pubblici e
privati, le forze politiche, sindacali, sociali, le classi dirigenti.
E’ una storia che ormai si trascina tragicamente da più di un sessantennio riducendo il nostro paese
alla sferzante, fortunata espressione di Arbasino.
Nel suo Mezzogiorno senza meridionalismo, Giuseppe Giarrizzo scrive che gli anni cinquanta e
sessanta sono stati i soli in cui “il meridionalismo”abbia fatto la sua prova di governo”17. Tuttavia il
giudizio su questo periodo, aggiunge Giarrizzo, resta controverso. Il Mezzogiorno in quegli anni
indubbiamente cresce, muta profondamente, “cancellando antichi squilibri e stabilendone di nuovi.
Ma. Si chiede Giarrizzo, si trattò di crescita con o senza sviluppo?
Già la disputa – scrive Giarrizzo – pone in evidenza due punti: a) il Mezzogiorno è negli anni 195070 profondamente cambiato; b) il cambiamento (o sviluppo?), anche quando è avvenuto per effetto
di misure o di interventi “meridionalisti”, non è avvenuto secondo gli esiti programmati o gli esiti
desiderati. La controversia, che dura tuttora tra politici e tra intellettuali, ha oscurato natura e portata
di quel cambiamento; e ha prodotto la conseguenza di “sprechi”, dovuti troppo spesso alla rincorsa
delle emergenze, quando sarebbe stato più efficace un intervento in tempi reali e riferito al
Mezzogiorno che è, piuttosto che al Mezzogiorno quale avrebbe dovuto essere18.
Giarrizzo non cita il libro di Hytten e Marchioni, ma sembra concordare con le loro analisi e
conclusioni.
Crescita, cambiamento, dunque, senza sviluppo. La preposizione privativa “senza”, ritorna in
Culture and Political economy in Western Sicily degli antropologi Jane e Peter Schneider, questa
volta riferita al “processo di modernizzazione in assenza di un reale sviluppo”, con una precisazione
di ordine socio-antropologica:
La distinzione è importante; mentre la modernizzazione e lo sviluppo implicano dei cambiamenti, lo
sviluppo muta anche i rapporti di una società rispetto ai sistemi sociali di cui fa parte e di
conseguenza aumenta la sua capacità di tenere testa al sistema. Invece la modernizzazione mantiene
un rapporto di ineguaglianza e di sfruttamento tra un’area dipendente e un centro metropolitano. In
17
18
G. Giarrizzo Mezzogiorno senza meridionalismo. La Sicilia, lo sviluppo, il potere, Marsilio, Venezia, 1992:xxv.
G. Giarrizzo Mezzogiorno senza meridionalismo: XXVII.
StrumentiRes -­‐ Rivista online della Fondazione Res Anno V -­‐ n° 4 -­‐ Settembre 2013 11 questo senso ogni cambiamento è frutto non di un ordine di priorità autoavviantesi, ma di una
diffusione dal centro. Ma anche così, il processo di modernizzazione può portare sostanziali
aumenti delle possibilità di occupazione e miglioramenti nel livello di vita standard – spesso più
velocemente e drammaticamente di quanto possa fare un processo di sviluppo.
…In mancanza di un significativo sviluppo regionale, non c’è niente che possa impedire una rapida
degradazione delle risorse a causa della frammentazione19.
4. Al di là del “fondamentalismo semplicistico di mercato”, ridefinire lo sviluppo per
riavvicinare crescita economica e benessere
L’esempio di Gela è particolarmente significativo oggi, nel cuore di una gravissima crisi
economico-finaziaria, di una crisi del capitalismo che richiede una ridefinizione del concetto stesso
di sviluppo, che non può più dipendere da quello che Adair Turner definisce “fondamentalismo
semplicistico di mercato”20. Si tratta di quel capitalismo che “è stato salvato dai suoi stessi eccessi
grazie al contropotere del Welfare State e dello Stato regolatore»21, e che oggi rende necessario e
improrogabile rimettere in discussione i rapporti tra diritto, economia e finanza, valorizzando un
aspetto fondamentale della società postmoderna nella quale «il ruolo dei governi e delle scelte
politiche è vitale»22.
Ma a rendere ancora più profonda la divaricazione tra crescita economica e benessere è quella
forma dominante di capitale che Giacomo Becattini definisce “ruggente, e Bennett Harrison
“impatient capital”23. Si tratta di quel capitale che risulta da un esasperato orientamento a breve
termine dei profitti. Diversi elementi di queste economie cosiddette “informali” sono varianti del
“capitale impaziente” e operano nelle condizioni nelle quali violenza e coercizione diventano le
condizioni e le risorse primarie per accumulare capitali e anche per legalizzarli attraverso il
riciclaggio del denaro sporco. Tutto ciò ha profondamente e negativamente agito sui processi di
sviluppo. Effetti negativi si verificano non solo nelle aree in via di sviluppo o a sviluppo ritardato,
ma anche in quelle sviluppate. E’ significativo da questo punto di vista che Il Rapporto Svimez 2012
19
J. Schneider, P.Schneider (1976), Culture and Political economy in Western Sicily, Academic Press. Inc. New York,
trad. it. Classi sociali, economia e politica in Sicilia, Rubettino Editore, Soveria Mannelli (Cz), 1989: 269-270.
20
A.Turner, (2000), Just capital. Critica del capitalismo globale, Laterza, Roma- Bari 2002. Turner fa notare che «il
capitalismo è stato salvato dai suoi stessi eccessi grazie al contropotere del Welfare State e dello Stato regolatore»
(Turner, trad. it. 2002: 437) e che è necessario rimettere in discussione i rapporti tra diritto, economia e finanza,
valorizzando un aspetto fondamentale della società postmoderna nella quale «il ruolo dei governi e delle scelte politiche
è vitale» (Turner, trad. it. 2002: 435).
21
A.Turner, Just capital. Critica del capitalismo globale:437.
22
A.Turner, Just capital. Critica del capitalismo globale:435
23
Harrison, B. (1994), The Dark Side of Flexible Production, in: “Technology Review”, 97 (4), May/June.
StrumentiRes -­‐ Rivista online della Fondazione Res Anno V -­‐ n° 4 -­‐ Settembre 2013 12 sull'economia del Mezzogiorno si spinga fino a rilevare il progressivo dilagare, non solo al Sud ma
anzi soprattutto al Nord, di “forme di capitalismo politico criminale”, che si sviluppano anche in
relazione al fatto che i confini tra legale e illegale appaiono sempre più sfumati, “anche grazie
all’appoggio di un’ampia schiera di professionisti e amministratori pubblici e privati collusi”. Le
mafie, oltre ad accumulare immensi patrimoni nelle tradizionali forme parassitarie (in prevalenza
estorsioni e usura, servizi di protezione) attraverso il traffico d’armi, di droghe e il contrabbando,
stanno allargando la sfera dei propri interessi anche ad altri ambiti, quali il turismo, le energie
alternative, lo smaltimento dei rifiuti, fino alle catene della grande distribuzione organizzata. La
diffusione e l’affinamento degli strumenti finanziari consente inoltre agli investitori di mettere in
crisi il management e di acquistare progressivamente il potere di stabilire il destino delle aziende. In
questo modo al vertice della catena di comando non si trovano più i dirigenti d’impresa, ma nuovi
gruppi di potere anche stranieri, comunque estranei alla storia e alla cultura delle aziende24.
Quale sviluppo, credibile, sostenibile, integrato nel territorio e nella società è possibile perseguire in
queste condizioni? Com’è possibile riavvicinare la crescita economica e il benessere?
Fino a quando si potrà schivare la cruda realtà di un mondo scosso alle fondamenta? È possibile non
rendersi conto del fatto che, pur tra molte contraddizioni, si sta delineando lo spazio esperenziale di
una civilizzazione globale caratterizzata da eventi globali quotidiani25? Riuscirà il capitalismo a
superare su scala nazionale e internazionale le crisi strutturali che sempre più lo attraversano?
24
Come spiega bene Richard Sennett:
«Gli investitori ora di gran lunga più potenti, desideravano risultati a breve termine piuttosto che nel lungo periodo. Essi
formavano il quadro di quello che Bennett Harrison chiama il “capitale impaziente”. Cosa importante, il criterio del
successo non furono più i dividendi, ma il corso delle azioni. Con la compravendita delle azioni su un mercato aperto e
fluido si ottennero guadagni più rapidi – e più cospicui – rispetto a quelli che si ottenevano conservando i propri titoli
azionari. Per questo motivo i fondi-pensione americani nel 1965 conservavano azioni nel loro portafoglio mediamente
per 46 mesi, nel 2000 questi investitori istituzionali trattenevano i titoli in media 3,8 mesi. Le plusvalenze sui titoli
realizzati presero sempre più il posto dei criteri di misura tradizionali, come il rapporto quotazione guadagno – un
fenomeno che toccò il culmine con il boom tecnologico degli anni Novanta, quando alcune aziende videro una crescita
rapidissima delle loro quotazioni pur non realizzando profitti […] Le imprese furono sottoposte a un’enorme pressione
per sembrare belle a qualche voyeur di passaggio. E un’istituzione era considerata bella quando poteva dimostrare di
essere internamente flessibile e capace di cambiare e si presentava come un’“impresa dinamica”, anche se l’impresa a
suo tempo stabile aveva funzionato perfettamente. Aziende come Sunbeam ed Enron divennero disfunzionali o corrotte
quando cercarono di attrarre l’attenzione di questa parata di investitori» (R.Sennet, (2006), trad. it. La cultura del nuovo
capitalismo, il Mulino, Bologna 2006: 33-34).
25
A guardare ben al di là di ogni romanticismo, i processi di globalizzazione incrementano sempre di più la complessità
dei rapporti tra economia, politica e diritto fino al punto che Joseph Stiglitz non può fare a meno di constatare:
“Oggi viviamo un processo di globalizzazione analogo a quello di un secolo e mezzo fa, ma senza le istituzioni globali
in grado di affrontarne le conseguenze. Possediamo un sistema di governance globale, ma siamo privi di un governo
globale, Ancora peggio, proprio nel momento in cui la necessità di istituzioni internazionali è più forte che mai, la
fiducia in quelle che esistono […] non è mai stata più bassa (J.E. Stiglitz (2001), In un mondo imperfetto. Mercato e
democrazia nell’era della globalizzazione, Donzelli, Roma 2001:5).
StrumentiRes -­‐ Rivista online della Fondazione Res Anno V -­‐ n° 4 -­‐ Settembre 2013 13 La risposta a questi interrogativi non può certamente essere ottimistica a giudicare dai processi che
si stanno verificando e approfondendo dal 2008. Questo periodo è caratterizzato da una profonda
precarietà economica-finanziaria che apre concretamente la prospettiva di un tracollo del
capitalismo sul piano globale della portata della Grande Depressione degli anni Trenta che da’
ragione alle acute considerazioni sul capitalismo dell’autore della Great Transformation per le quali
l’idea di un mercato autoregolato si è dimostrata un’utopia non solo sul piano nazionale ma anche
sui mercati globali e che a lungo andare questa istituzione avrebbe finito con l’“annullare la
sostanza umana e naturale della società”, col disorganizzare la vita industriale e col “far crollare
l’organizzazione sociale” sulla quale si regge26. A proposito di questi “crolli” si potrebbe dire:
fabula de te narratur, con esplicito riferimento a vicende recenti e meno recenti dei complessi
industriali italiani.
Oggi le critiche alla società capitalistica, a questo tipo di sviluppo e di capitalismo, sono diventate
sempre radicali sino a mettere in crisi l’idea stessa di crescita, di sviluppo.
Si diffonde sempre di più su scala planetaria la coscienza di quanti mettono in dubbio che la
“crescita economica” sia ancora la soluzione dei gravissimi problemi del pianeta. Non sarà
certamente la crescita a garantire un futuro di prosperità e benessere ad una popolazione planetaria
che sta per raggiungere i nove miliardi di esseri umani.
Nessuno nega che lo sviluppo, ma anche qui deve trattarsi di un nuovo tipo di sviluppo non fondato
sugli spiriti animali del capitalismo dominante, sia essenziale per le nazioni più povere. Ma è
necessario interrogarsi sulla qualità dei processi economici. Ormai è scientificamente dimostrato
che nei paesi sviluppati la crescita a ogni costo porta a una maggiore infelicità e a livelli pericolosi
di disuguaglianza, al collasso degli ecosistemi schiacciati da economie fondate sull’“iper
consumismo”.
Ma intanto si continua ad evitare strategie alternative possibili preferendo “camminare a testa bassa
sotto il cielo plumbeo dell’economicismo”27. L’idea di sviluppo stessa diventa il nemico principale:
Il più potente produttore di ricchezza, il modo di produzione più rivoluzionario della storia umana,
dopo tante incarnazioni, oggi mostra il suo volto finale: è diventato la macchina di distruzione più
potente che sia mai apparsa sulla terra.
26
27
K.Polanyi, (1944), La grande trasformazione, Einaudi, Torino 1974.
P.Bevilacqua, Miseria dello sviluppo, Laterza, Roma-Bari.,2008: 244
StrumentiRes -­‐ Rivista online della Fondazione Res Anno V -­‐ n° 4 -­‐ Settembre 2013 14 […] Le ricchezze accumulate dalle società industriali dovrebbero consentire di vivere più
serenamente a un maggior numero di persone e di popoli. E occorrerebbe che i paesi a basso reddito
fossero lasciati liberi e aiutati a cercare il proprio benessere materiale secondo i propri mezzi,
risorse, culture. E invece lo sviluppo ci trascina in un agone forsennato come se fossimo
d’improvviso precipitati in povertà. Noi crediamo che l’economia dello sviluppo sia diventata
un’economia della miseria, costretta a generare miseria, reale e artificiale, per sopravvivere. E noi
ambiremmo concorrere invece ad una durevole ed equa prosperità, che non è più possibile senza un
nuovo patto con la natura, senza mutare il nostro rapporto con le risorse e con tutti i nostri simili,
senza cambiare mezzi e fini del produrre e del consumare28.
Il concetto di sviluppo, nato per tentare di ridurre gli enormi squilibri nella distribuzione della
ricchezza e logoratosi progressivamente in vistosi fallimenti e inefficacie interpretative, pare che
non sia, oggi più che mai, in grado di farci comprendere il mondo in cui viviamo. Una categoria
ormai da disapprendere in quanto “strumento politico di gestione delle diseguaglianze e di
stabilizzazione del sistema nel suo insieme”:
Negli ultimi decenni, la consapevolezza della sua irrealizzabilità ha aperto spazi per la
sperimentazione dei valori culturali e ha spinto, “dall’alto”, a una limitazione del suo potenziale
egualitario e al ricorso a nuovi e più efficaci strumenti di contenimento delle tensioni derivanti dalle
persistenti e molteplici diseguaglianze, in primo luogo attraverso la retorica della globalizzazione
[…] Da qui l’esigenza di un suo disapprendimento attivo e della ricerca, o meglio della
riconsiderazione, di più valide alternative concettuali29.
Si tratta, dunque, di disapprendere, di liberarsi dal tipo di sviluppo, allo stesso modo in cui per
costruire nuovo capitale sociale positivo è necessario cercare di liberarsi contemporaneamente di
quello negativo. Crediamo che questi più diffusi rilievi critici siano rivolti anche verso le retoriche e
le intransigenze, come direbbe, le rigide separatezze disciplinari, verso le astrattezze matematizzanti
e la dimensione caotica che caratterizza, spesso, la trattazione dei problemi dello sviluppo, dello
stato attuale e del futuro della società capitalista. Dalle più recenti indagini empiriche sono stati
28
P.Bevilacqua, Miseria dello sviluppo: 103-104
M. Di Meglio, Disapprendere lo sviluppo. Diseguaglianze e scienze storico-sociali, in: Petrusewicz, M.-Schneider,
J.-Schneider, P., I Sud. Conoscere, capire, cambiare, il Mulino, Bologna 2009 :36z1.
29
StrumentiRes -­‐ Rivista online della Fondazione Res Anno V -­‐ n° 4 -­‐ Settembre 2013 15 messi in evidenza i limiti “delle diverse teorie della crescita quando esse pretendano di essere
uniche e abbiano un approccio alla realtà di tipo deterministico”30.
Per superare questa fase di stallo è necessario tornare a riflettere, in modo il più possibile
pluridisciplinare,
(diciamo
così,
per
non
indulgere
ad
una
certa
astratta
retorica
dell’interdisciplinarità)I, sulle condizioni di sviluppo delle società complesse e su come affrontare i
problemi delle aree cosiddette sottosviluppate, a sviluppo ritardato o distorto, ecc.
5. Industrializzazione: da speranza a incubo
Col varo di una vera e propria politica di industrializzazione (incentrata sui cosiddetti “poli di
sviluppo”) del Mezzogiorno, l’intervento statale, nel 1957 con la legge 634 (che prorogava la Cassa
per il Mezzogiorno) prevedeva: 1) agevolazioni fiscali e finanziarie; 2) contributi a fondo perduto
del 20% per piccole e medie industrie; 3) la costituzione di consorzi per attrezzare e gestire aree
industriali; 4) vincolava le aziende a partecipazione statale a localizzare nel Mezzogiorno il 60%
degli impianti industriali e il 40% degli investimenti complessivi. Nel quinquennio 1959-1963 si
insediano al Sud grandi complessi pubblici e privati che operavano nella siderurgia, nella chimica e
nella petrolchimica. La scoperta del cosiddetto “oro nero” (bisogna dire di pessima qualità! Si è
parlato del “peggiore greggio del mondo”)31, alimentò, speranze, volontà di riscatto,
industrializzazione, sviluppo in un contesto come quello gelese in cui erano rimaste deluse le
aspettative del mondo contadino, notevoli erano i processi migratori, forte il potere della grande
proprietà terriera e della mafia.
Scriveva Vittorio Nisticò in un editoriale de L’Ora del 26 marzo 1960, a pochi mesi dai moti
palermitani del luglio ‘60:
30
G. Moro, Lo sviluppo nascosto. Fattori sociali e valutazione delle politiche per il Meridione, Carocci, Roma, 2004:
31. «Contemporaneamente – scrive Moro – si afferma l’esigenza di utilizzare apporti teorici e metodologici che aiutino
a comprendere meglio i meccanismi sociali che hanno consentito il verificarsi di esperienze interessanti di crescita in
certe realtà territoriali, mentendo tutte le previsioni “ortodosse” dei diversi approcci economici, o che hanno bloccato lo
sviluppo in altre aree che, al contrario, sembrava possedessero le potenzialità necessarie. È innanzi tutto importante far
riferimento a una concezione dello sviluppo che non sia solo di tipo economico, ma che riguardi gli esseri umani nella
loro totalità, secondo la lezione di Amartya Sen» (G.Moro, , Lo sviluppo nascosto. 2004: 31].
31
Nel discorso all’inaugurazione dello stabilimento dell’Anic-Gela nel 1965,il presidente dell’Eni, ing. Boldrini,
affermava:
“Il minerale era di qualità così scarsa che di nessun altro tipo analogo era stata mai tentata l’utilizzazione industriale
nel mondo. Ma il genio di Enrico Mattei – desto sempre su ardimentose prospettive – sentiva il fascino di un inedito
cimento. E dalla sua volontà decisa e trascinante nacquero le nuove fortune di Gela”.
StrumentiRes -­‐ Rivista online della Fondazione Res Anno V -­‐ n° 4 -­‐ Settembre 2013 16 Confessiamo che l’annuncio ufficiale, dato da Mattei, dell’imminente inizio dei lavori per la
costruzione del complesso di Gela – uno dei più grandi complessi industriali d’Europa – ci ha dato
un senso di genuina emozione.
Dove stagna da tempo una depressione secolare stanno per aprirsi grandiose prospettive di lavoro e
di attività moderna; dove di antica grandezza non restano che ricordi muti e ruderi sta per nascere
una città nuova, una vera e propria capitale del petrolio, la cui presenza modificherà molte cose. Ci
vuole infatti poco per prevedere che Gela, se da una parte potrà contribuire, come ci auguriamo, a
fare della Sicilia il secondo “triangolo industriale” d’Italia, darà dall’altra parte l’occasione al nostro
paese di avere in una Sicilia avviata all’industrializzazione un centro propulsore in pieno
Mediterraneo, ossia in un crocevia che con la ripresa del mondo asiatico e il moto di indipendenza
degli africani sta già ridiventando uno dei passaggi obbligati dei rapporti mondiali della civiltà
umana32
Emanuele Macaluso faceva osservare che con le lezioni dl 1953 il blocco di centrodestra ricevette
un forte colpo d’arresto anche in relazione alla spaccatura che vi provocò la “legge truffa”:
La sconfitta elettorale e politica del 1953 suggerì alla DC un “rinnovamento” politico e
organizzativo di cui si fece portatore Fanfani con l’intento di riaggregare un blocco di potere su basi
più “moderne”.
In tutto il Mezzogiorno e in Sicilia si apriva una nuova fase economica. L’economia granaria era in
crisi e si iniziava il grande flusso migratorio mentre entravano in funzione i nuovi strumenti della
politica riformista: la Cassa per il mezzogiorno e gli enti di riforma agraria. Si cominciò allora a
parlare anche di una espansione capitalistica verso il sud e si creò l’illusione che l’arrivo dei grandi
gruppi monopolistici pubblici e privati avrebbe liquidato l’arretratezza meridionale.
In Sicilia per di piú l’odore del petrolio attirava l’interesse tanto degli americani che dell’ENI:
grandi speranze,grandi inganni e grosse delusioni si profilavano all’orizzonte dell’isola. E’ il tempo
in cui Palermo e le altre città s’ingrossano per l’afflusso di burocrati e poveri cristi dai paesi
dell’interno che si spopolano. La mafia sistema i suoi uomini nella burocrazia regionale e negli enti
pubblici regionali. Si cominciano a dare i primi colpi di piccone che abbattono le villette di via
Libertà e si dà l’avvio a uno sviluppo edilizio pilotato da gruppi di speculatori che “intuiscono” e
impongono la direzione di espansione della città. Da allora in poi i nuovi quartieri e le “varianti” al
32
V. Nisticò, La città nuova, L’Ora, 26 marzo 1960, ora in Vittorio Nisticò, Accadeva in Sicilia. Gli anni ruggenti
dell’”Ora” di Palermo, Sellerio Palermo, 2001, II:153-154).
StrumentiRes -­‐ Rivista online della Fondazione Res Anno V -­‐ n° 4 -­‐ Settembre 2013 17 piano regolatore portano i nomi della vecchia e nuova mafia in un intreccio di interessi e di delitti
che trova nel municipio di Palermo un punto di propulsione e di raccordo.
...All’interno della DC palermitana le acque sono agitate. Il vecchio blocco di potere, fondato su
notabili cattolici e sul ceto di professionisti governativi per vocazione e interesse, garanti di “buona
amministrazione” tolleranti e comprensivi per il “ruolo d’ordine” che esercita la mafia contro le
teste calde della delinquenza e le impazienze dei comunisti, è in crisi33.
Nelle “Note cronologiche” di Accadeva in Sicilia di Nisticò dà notizia di un importante convegno
del Cepes (Comitato europeo per il progresso economico e sociale), tenuto a Palermo e organizzato
dalla Sicindustria, l’organizzazione degli industriali siciliani presieduta dall’ing. Domenico La
Cavera:
Vi partecipano i massimi esponenti del capitalismo italiano: il prof. Valletta (Fiat) che tiene la
relazione introduttiva, Giorgio Valerio (Edison), Farina (Montecatini), De Micheli (presidente della
Confindustria) insieme agli stati maggiori di Confagricoltura,e Confcommercio. Richiamati dalla
scoperta del petrolio e dalle prospettive di sviluppo industriale, oltre che dalle generose risorse
finanziarie della Regione, mettono a punto le condizioni per la loro “calata” nell’isola. In sostanza
chiedono l’assoluto controllo da parte dell’iniziativa privata e disco rosso per quella pubblica, in
primo luogo l’ENI, niente programmazione34.
Ma quanto a programmazione e progettualità, il convegno ebbe ben pochi risultati.
Che quel decennio sia stato vitale e dinamico lo testimonia Paolo Sylos Labini, che insegna in
Sicilia negli ultimi anni ’50, e in quegli anni conduce una importante ricerca sull’economia
siciliana, pubblicata nel 1966 da Feltrinelli in un volume da 1500 pagine. Tornando a riflettere sulla
questione (Sylos Labini 1980) identifica nella fine degli anni ‘50’ il blocco della crescita del
manifatturiero, fissando il punto di svolta nel 1958:
Durante il periodo che va dal 1951 al 1958, i fenomeni più notevoli sono costituiti dall’esodo
agrario (che poi si accelera), da un certo sviluppo dell’occupazione dell’industria, dei servizi e della
pubblica amministrazione. Dopo il 1958 l’occupazione industriale tende a ristagnare; fino al 1958
33
34
E. Macaluso, La mafia e lo Stato, Editori Riuniti, Roma,1971:97-98
V.Nisticò, Accadeva in Sicilia. Gli anni ruggenti dell’”Ora” di Palermo, Sellerio Palermo, 2001, II: 60 ).
StrumentiRes -­‐ Rivista online della Fondazione Res Anno V -­‐ n° 4 -­‐ Settembre 2013 18 cresce, come risultato di una somma algebrica, data dal calo dell’occupazione delle unità artigianali
premoderne e dallo sviluppo di unità artigianali e industriali di tipo moderno e dalla creazione di
grandi stabilimenti […]. Si tratta di uno sviluppo industriale particolare, simile a quello che si
osserva in altre regioni meridionali: compaiono alcune grandi unità provenienti da fuori, ma
sorgono anche, localmente, numerose piccole unità35.
E Sylos Labini testimonia anche il ruolo di La Cavera e delle “spinte sociali” che Sicindustria
rappresentava:
In quel periodo noi assistiamo a spinte sociali ed a strategie politiche molteplici e contraddittorie,
provenienti dagli stessi gruppi sociali. Interessante è l’episodio dell’industriale La Cavera […] che
si era fatto fama di “enfant-terrible” della Confindustria, perché era entrato in conflitto con De
Biase, un personaggio potente in quell’organizzazione. La Cavera cercava di far valere le esigenze
dell’industrializzazione dell’isola, sia attraverso una politica d’incentivazione, sia attraverso
iniziative industriali di tipo regionale”36.
Oltre al petrolio in Sicilia si trovavano zolfo, salgemma e sali potassici che nel dopoguerra avevano
trovato un ampio mercato soprattutto nel campo dei fertilizzanti agricoli. Nel 1963 il Parlamento
regionale siciliano crea l’EMS, l’Ente minerario siciliano col progetto ambizioso di unificare le
miniere di zolfo, di riorganizzarle e ammodernarle e alla creazione di un polo per la produzione di
fertilizzanti. L’EMS avrebbe dovuto essere l’organismo propulsore di una politica energetica
dell’isola, in realtà era uno dei pilastri sui quali poggiava “la malsana idea della Regione
imprenditrice”37 e che sarà al centro di tanti scandali e di inauditi sperperi delle risorse pubbliche.
“L’Eni in “formato siciliano” - hanno documentato Enrico del Mercato ed Emanuele Lauria -, è
stato “uno dei più grossi carrozzoni comparsi nel pur ricco territorio dell’apparato parastatale” che
ha accumulato debiti per 120.000.000.000 di lire, costi per personale e funzionamento pari a
25.000.000 di lire e che è costato nel complesso 1.500.000.000.00038.
35
P. Sylos-Labini (a cura di), Problemi dell'economia siciliana, Feltrinelli, Milano,1966: 142-143 .
P. Sylos-Labini (a cura di), Problemi dell'economia siciliana: 146.
37
E. Del Mercato, E. Lauria, La zavorra. Sprechi e privilegi nello Stato libero di Sicilia, Laterza, Roma- Bari 2010:
127.
36
38
E. Del Mercato, E. Lauria, La zavorra:127.
StrumentiRes -­‐ Rivista online della Fondazione Res Anno V -­‐ n° 4 -­‐ Settembre 2013 19 Ma tutto ciò ha solamente fatto balenare il miraggio del decollo industriale della Sicilia, dello
sviluppo. Ben presto, Gela è costretta a fare amaramente i conti con una pratica di sviluppo distorto
calato“dall’alto”, non integrato nel territorio, con un processo di industrializzazione distante dalla
società reale, dalla cultura, dalla politica, dalle istituzioni.
Il 17 giugno 1960 viene posata la prima pietra del nuovo stabilimento petrolchimico dell’Eni a
Gela. Un evento epocale per i suoi abitanti, che sognano facili ricchezze e l’abbandono delle
incertezze e delle fatiche dell’agricoltura. Non immaginano ancora che la grande industria che si sta
insediando nel loro territorio avrebbe causato gravi squilibri ambientali, e sollevato gravi problemi
per la salute dei suoi cittadini.
Da allora si è sviluppato uno stretto rapporto tra il Polo petrolchimico e Gela. Da un lato l’azienda
offre posti di lavoro di fondamentale importanza in una Città che non è stata capace di sviluppare
un settore industriale parallelo o ingrandire il terziario. Di contro però rappresenta anche il
“nemico” che inquina il mare e avvelena i cittadini. L’area di Gela è stata dichiarata ad alto rischio
di crisi ambientale già dal 1990 dallo Stato italiano. Una complessa situazione nella quale gli
abitanti si trovano costretti a preferire l’essere ammalati piuttosto che l’esser disoccupati.
6. “Risorse nascoste”, spreco e sviluppo”dal basso”
Renée Rochefort, una giovane studiosa di geografia sociale francese, venuta in Sicilia tra il 1954 e il
1959, autrice di Le travail en Sicile, una importante ricerca sulla Sicilia degli anni cinquanta la cui
traduzione italiana è apparsa nel 200539, aveva messo in guardia contro pericolosi processi
unidimensionali di sviluppo e calati unicamente dall’alto, al fine di dare sistematicità alle strategie e
alle politiche di sviluppo.
Scrivono Del Mercato e Lauria a proposito dell’Eni e dell’Ente minerario siciliano:
Ha messo nel suo carnet società che producevano bottiglie di vetro e gestivano e gestivano alberghi e, ancora oggi,
aspetta di essere chiuso definitivamente. Ha incrociato anche, l’Ente minerario siciliano, la storia nera d’Italia. Quando
il centrosinistra che governava a Palazzo dei Normanni decise di metterlo in piedi, infatti, la Democrazia cristiana aveva
già trovato l’uomo adatto a guidarlo: si chiamava Graziano Verzotto, veniva dal Veneto, ma aveva già avuto modo di
ambientarsi alla perfezione in Sicilia ….In Sicilia Graziano Verzotto rimase fino al marzo del 1975, quando fu costretto
a scappare all’estero inseguito da un ordine di arresto: lo accusavano di aver depositato 10.000.000.000 di fondi neri (si
trattava di fondi dell’EMS) nei forzieri della banca di Michele Sindona, altro siciliano che ha contribuito a scrivere
pagine e pagine del romanzo oscuro della democrazia italiana” (Enrico del Mercato ed Emanuele Lauria, La
zavorra:127-128.
39
R.Rochefort, (1961), trad. it. Sicilia anni Cinquanta. Lavoro Cultura e Società, Sellerio Editore, Palermo 2005.
StrumentiRes -­‐ Rivista online della Fondazione Res Anno V -­‐ n° 4 -­‐ Settembre 2013 20 Il lavoro da sviluppare era di ben altro respiro utilizzando una prospettiva di sviluppo dal basso non
sganciata dall’integrazione sociale. In primo piano Danilo Dolci metteva la conoscenza del
territorio e l’interazione sociale:
Dovevamo interpretare i racconti e i documenti alla luce delle conoscenze acquisite, dovevamo
comparare le testimonianze viventi con le condizioni riservate altrove al lavoro e ai lavoratori.
Abbiamo voluto rischiare, e tentare una sorta di lettura globale della realtà umana del lavoro, nella
sua pluri-dimensionalità; una specie di lettura globale applicata40.
Si può dire che il metodo della Rochefort, tipicamente dolciano41, anticipa la riflessione più attenta
sui nodi del sottosviluppo e sulle vie dello sviluppo possibile cercando di individuare quei “blocchi
concettuali, tra loro fortemente interdipendenti”, di cui parla Albert O. Hirschman per spiegarsi la
“combinazione” di fattori di sviluppo di un sistema economico, e gli eventuali “blocchi”che
ritardano, occultano o impediscono il raggiungimento di determinati obiettivi42.
40
R.Rochefort, (1961), trad. it. Sicilia anni Cinquanta. Lavoro Cultura e Società, Sellerio Editore, Palermo 2005: 59.
“Il combinarsi delle diverse prospettive - scrive sul punto Mario Giacomarra nella presentazione a Sicilia anni
Cinquanta, conduce infine a una «geografia sociologica comparata» la quale, procedendo per sovrapposizioni delle
mappe dei comportamenti sulla distribuzione spaziale delle classi sociali, consentirà di mettere in relazione i diversi
modi di essere, di pensare e di agire” (Giacomarra presentazione a Sicilia anni cinquanta: 16).
41
Le iniziative di Danilo Dolci hanno segnato una stagione significativa nella storia dello sviluppo della Sicilia
occidentale attraverso l’elaborazione e la sperimentazione di inediti percorsi di coinvolgimento della società civile, di
costruzione di capitale sociale positivo e di partecipazione attiva e consapevole alla vita democratica per mezzo, tra
l’altro, di una comunicazione non appiattita sul mero scambio di informazioni, ma piuttosto orientata al valore
dell’incontro e della narrazione e dell’impegno civile. Queste iniziative mettevano in discussione, già negli anni
Cinquanta, modalità ideologiche di impegno sociale, di costruzione della società civile e di partecipazione. politica.
L’iniziativa di Dolci parte dall’individuazione e valorizzazione dei fermenti culturali e politici nelle comunità di
Partinico, Balestrate e di altri centri della Sicilia occidentale, per costruire un progetto di programmazione dal basso, di
partecipazione e di intervento. Ciò, in una società caratterizzata dal peso della guerra fredda, dal dominio delle
ideologie, dalle prassi burocratizzate dei partiti, aveva contribuito ad accendere i riflettori, nella Sicilia del dopoguerra,
su un nuovo modo di intendere la politica, la partecipazione, la democrazia, la formazione e l’attuazione delle politiche
pubbliche, sulla scorta del coinvolgimento di studiosi di livello nazionale ed internazionale e di esponenti della
comunità locale si realizzavano inedite esperienze di partecipazione e di programmazione dal basso che si confermano
nella realtà di oggi questioni centrali nello sviluppo della democrazia. L’esperienza dolciana non è tutta riconducibile a
schemi lineari, essa non è priva infatti di difficoltà – e a volte persino di rotture traumatiche o di frizioni – relative ai
moduli organizzativi, ai contenuti e alla lettura dei processi socio-economici e ai nodi del sottosviluppo. Ciò soprattutto
alla svolta degli anni ’60 che poneva agli scienziati sociali e alla politica la necessità di una rifondazione delle categorie
tradizionali di intendere lo sviluppo, la politica, la partecipazione e la costruzione della democrazia. Costruire società
civile, opinione e volontà collettiva significava costruire processi innovativi fondati sulla relazione comunicativa, e
sulla reciprocità, sull’organizzazione e auto-organizzazione delle comunità. L’esperienza dolciana e delle comunità
della Sicilia Occidentale, si collegano, in questo modo, con tanta parte della riflessione contemporanea.
42
A. O. Hirschman (1958), trad.it. La strategia dello sviluppo economico, La Nuova Italia, Firenze, 1968.
StrumentiRes -­‐ Rivista online della Fondazione Res Anno V -­‐ n° 4 -­‐ Settembre 2013 21 Che una studiosa francese fosse venuta fin qui per studiare il lavoro in Sicilia sembrava una cosa
“aberrante, offensiva”. Ma il tentativo di superare questa diffidenza andava fatto comunque se
poteva servire a scoprire le diverse “sfaccettature della realtà”. E così spiega le grandi difficoltà
incontrate:
Cominciammo a comprendere che in Sicilia, più che altrove, senza dubbio, la verità dipende da
quanto se ne può ricavare. Gli intervistati non riferivano spesso che ciò che ritenevano utile che a
nostra volta dicessimo. È come vedremo, la lezione di un popolo schernito, portato per difendersi a
modellare i fatti sui suoi desideri o i suoi rimpianti, o le sue passioni. Noi, che avevamo immaginato
il problema siciliano intellettualmente più accessibile che non quello, per dire, dell’insondabile
India, ci ritrovavamo continuamente davanti ad enigmi, misteri, conversazioni incomplete, quando
non finivamo con lo sbattere contro quel muro di silenzio e di segreto eretto davanti a coloro che
vengono da fuori, da Roma o da Milano, da Parigi o da Chicago. Ci capitava di cozzare pure contro
una sorta di mentalità pirandelliana, a uso esterno e interno al tempo stesso: la gente si muoveva in
un mondo in cui una qualità è allo stesso tempo il suo contrario. Contraddizioni del genere
emergevano in particolare, beninteso, intorno a una questione tanto controversa di solito qual è il
lavoro; tesi e antitesi si contrapponevano con il massimo di scarto, che si trattasse dell’informazione
o della sua interpretazione43.
In un’ampia ricerca sull’economia siciliana di ben 1.484 pagine, apparsa nel 1966, finanziata e
pubblicata da Feltrinelli, Sylos Labini evidenziava il “delicato stadio di transizione” nel quale si
trovava la Sicilia, “uno stadio intermedio fra la completa arretratezza e un processo di sviluppo
capace di sostenersi da sé”44.
Nell’aprile del 1960 si tiene nella profonda Sicilia, a Palma Montechiaro, una delle iniziative più
rilevanti che approfondivano l’analisi sulle condizioni socio-economiche dell’isola e sulle
condizioni di uno sviluppo reale dal basso. Ci riferiamo al Convegno sulle condizioni di vita e di
salute in zone arretrate della Sicilia occidentale tenutosi il 27, 28, 29 aprile 196045 al quale
43
R. Rocheford, Sicilia anni Cinquanta: 60.
P.Sylos Labini, Problemi dell’economia Siciliana, Feltrinelli, Milano,1966: V
45
Il convegno si svolse dal 27 al 29 aprile 1960 e gli atti, a cura di Pasqualino Marchese e Romano Trizzino del
Centro Studi e Iniziative per la piena Occupazione di Partinico, furono pubblicati in un testo ciclostilato. Vi
parteciparono studiosi e personalità di livello nazionale e internazionale. Fra gli altri: Giorgio Napolitano, Carlo Levi,
Leonardo Sciascia, P. Duynstee, Francesco Renda, Ideale Del Carpio, Ignazio Buttitta, Silvio Pampiglione. Del
44
StrumentiRes -­‐ Rivista online della Fondazione Res Anno V -­‐ n° 4 -­‐ Settembre 2013 22 parteciparono scrittori, politici, economisti, e sociologi di livello nazionale e internazionale e che
rimane comunque un punto di riferimento importante per comprendere gli approcci ai problemi del
sottosviluppo nell’immediato dopoguerra in Sicilia46.
In questo convegno Danilo Dolci spiegava i contenuti fondamentali della sua iniziativa in Sicilia
che saranno definiti in Spreco47 consistenti in estrema sintesi:
1. nella critica della politica meridionalistica dello Stato italiano “paternalistica” e mai
indirizzata ad aiutare effettivamente la crescita economica, sociale e culturale puntando sullo
sviluppo delle “risorse potenziali”;
2. nella possibilità di iniziare uno sviluppo “dal basso” fondato sulla piena utilizzazione
delle risorse locali, mal utilizzate per ignoranza e per disorganizzazione;
3. nell’attuare questo progetto attraverso l’unione degli interessati nell’ambito locale
(comuni), i quali prendano collettivamente coscienza dei problemi e assieme elaborino delle
soluzioni utilizzando anche le competenze degli esperti e dei tecnici;
4. nell’attuare forme di pressione e di azione non violenta che potessero stimolare la
partecipazione, la formazione dell’opinione pubblica, la mobilitazione collettiva per
condizionare “dal basso” le politiche e l’attività legislativa dello Stato . Nella sua relazione
al convegno Dolci metteva l’accento sullo “spreco”, sull’immane spreco di risorse umane
innanzitutto e quindi sulla mafia e sulla violenza.
Allora spreco di cose che non vengono valorizzate, qualcosa che va direttamente sciupato è spreco
perché si spende soldi in cose che si potrebbe avere gratuitamente, ecc. Anche in questo campo
potremmo fare centinaia e centinaia di esempi. Ma tutto questo significa anche, tradotto in altre
comitato d’onore del convegno facevano parte tra gli altri: Paul Baran, Lamberto Borghi, Johan Galtung, Julian Huxley,
Carlo Levi, Pierre Martin, Silvio Milazzo, Ferruccio Parri, Paolo Sylos Labini, Elio Vittorini.
Sul Convegno di Palma scrive Francesco Renda:
“Il convegno di Palma Montechiaro volle realizzare, a suo modo, quella “alleanza fra gli uomini di cultura e le classi
popolari” con l’intento di “leggere” insieme – coloro che avevano studiato e coloro che avevano vissuto – Palma
Montechiaro come era, La Sicilia come era. Ci riuscì solo in parte o non riuscì affatto, come si è visto, sul terreno
politico. Ottenne, invece, un qualche risultato sul piano culturale. Almeno per quello, a tutto merito del volume Spreco
di Danilo Dolci, da allora in poi, “la terra del Gattopardo” non fu più solo un punto nella carta geografica della Sicilia o
solo una voce nel dizionario dei comuni; né fu più solo miseria antica e problema insoluto. L’inchiesta igienicosanitaria di Silvio Pampiglione divenne uno dei documenti letterari più vibranti, pagina di scienza e di arte nello stesso
tempo”(F. Renda, Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, III:493].
46
Cfr. Salvatore Costantino (a cura di), Raccontare Danilo Dolci. L’immaginazione sociologica, il sottosviluppo, la
costruzione della società civile, Editori Riuniti, Roma, 2003. 47
D. Dolci, Spreco. Documenti e inchieste su alcuni aspetti dello spreco nella Sicilia occidentale, Einaudi,
Torino,1960.
StrumentiRes -­‐ Rivista online della Fondazione Res Anno V -­‐ n° 4 -­‐ Settembre 2013 23 parole, basso livello tecnico-culturale. Siamo di fronte ad una popolazione intelligente, ad una
popolazione di buona volontà, è chiarissimo (in tutti questi anni io non ho quasi trovato delle
persone, non ho - posso dire - mai trovato delle persone che non lavoravano avendo lavoro, avendo
la possibilità di lavorare): ma difficoltà a capire quali, effettivamente, in modo preciso, sono i
problemi e come si potrebbero risolvere.
Tra tutte queste forme diverse, queste categorie diverse di sprechi, il più grande degli sprechi
diventa quello dell'uomo, di questo uomo intelligente e di buona volontà che viene a ridursi a
lavorare, tanto sia piccolo proprietario che bracciante, bracciante edile o bracciante agricolo, circa
100-110-120 giorni all'anno, rimanendo non valorizzato per circa almeno 200 giorni 1'anno: e
questo è il più grande degli sprechi, perché il lavoro non è soltanto una forma per produrre, una
forma di produzione e di arricchimento, ma - voi sapete - è un mezzo fondamentale per la
formazione della personalità degli uomini. Gli uomini difficilmente, senza il lavoro, senza i soldi e
senza il lavoro in se, possono realizzarsi proprio come uomini; e questo è lo spreco maggiore, lo
spreco degli uomini, lo spreco delle donne che rimangono chiuse nelle loro case, lo spreco dei
bambini, non soltanto: dei bambini che muoiono (ieri s'è detto delle cifre:muoiono fino al 10, al
10,9% com'è capitato sei mesi anche qua, se non sbaglio) ma spreco di questi bambini che non
riescono a realizzarsi persone, valorizzando al massimo tutta la loro personalità, tutto quello che c'è
di potenziale, di possibile dentro di loro: questo veramente è il più grande e il più - ieri diceva Silvio
- il più criminale degli sprechi.
Cosa significa questo basso livello tecnico-culturale rispetto al piano politico di struttura? Significa
che molta gente, essendo impossibilitata a vedere un vasto orizzonte e a vedere più a fondo, più
analiticamente, molta gente non sa effettivamente quali sono i propri interessi e, per esempio, sul
piano politico vota, credendo di far bene, contro i propri interessi, e questo è il fenomeno di un terzo
quasi, certamente di un quarto, della popolazione48.
48
D. Dolci, in Marchese, P., Trizzino, R.(a cura di) 1960, Convegno sulle condizioni di vita e di salute in zone arretrate
della Sicilia occidentale. Palma di Montechiaro il 27, 28, 29 aprile 1960, ciclostilato. Dolci affronta poi i problemi del
sottoproletariato, della violenza e della mafia:
“Considerando il fenomeno del sottoproletariato, per esempio, che vota per l'estrema destra, siamo di fronte a un
caso molto grave, un caso che affrontato potrebbe produrre effetti profondi nella vita di queste zone e nella vita
nazionale.
Dunque il primo aspetto fondamentale: una zona statica che non arriva che difficilmente, nei casi migliori, alla
coscienza dei propri problemi, arriva attraverso alcune persone, tante volte sono sindacalisti, politici: questi che
capiscono, che individuano i problemi, o, tante volte, non sono ascoltati o tante volte sono fatti fuori addirittura, sono
ammazzati. Ed ecco un secondo aspetto, sostanziale, di questa zona: la violenza. Voi sapete che esistono al mondo dei
paesi più poveri di Palma di Montechiaro e dei paesi della Sicilia occidentale, voi sapete che in India ci sono delle
condizioni anche peggiori, ma è molto difficile trovare al mondo delle zone, dei paesi, dove ci sia altrettanta violenza,
se noi non consideriamo i momenti di guerra, se noi guardiamo delle situazioni, diciamo normali: non è facile trovare
StrumentiRes -­‐ Rivista online della Fondazione Res Anno V -­‐ n° 4 -­‐ Settembre 2013 24 L’iniziativa di Dolci e del gruppo di ricerca pluridisciplinare che collaborava col Centro Studi,
partiva proprio dall’individuazione e valorizzazione dei fermenti culturali e politici nella comunità
partinicese, per costruire un progetto di programmazione dal basso, di partecipazione e di
intervento. Ciò, in una società caratterizzata dal peso della guerra fredda, dal dominio delle
ideologie, dalle prassi burocratizzate dei partiti, aveva contribuito ad accendere i riflettori, nella
Sicilia del dopoguerra, su un nuovo modo di intendere la politica, la partecipazione, la democrazia,
la formazione e l’attuazione delle politiche pubbliche, sulla scorta del coinvolgimento di studiosi di
livello nazionale ed internazionale e di esponenti della comunità locale si realizzavano inedite
esperienze di partecipazione e di programmazione dal basso che si confermano a tutt’oggi questioni
centrali per una nuova concezione dei processi di sviluppo e della democrazia. L’esperienza
dolciana non è tutta riconducibile a schemi lineari, essa non è priva infatti di difficoltà – e a volte
persino di rotture traumatiche o di frizioni – relative ai moduli organizzativi, ai contenuti e alla
lettura dei processi socio-economici e ai nodi del sottosviluppo. Ciò soprattutto alla svolta degli
anni ’60 che poneva agli scienziati sociali e alla politica la necessità di una rifondazione delle
categorie tradizionali di intendere lo sviluppo, la politica, la partecipazione e la costruzione della
democrazia. Costruire società civile, opinione e volontà collettiva significava costruire processi
innovativi fondati sulla relazione comunicativa, e sulla reciprocità, sull’organizzazione e autoorganizzazione delle comunità. L’esperienza dolciana e delle comunità della Sicilia Occidentale, si
collegano, in questo modo, con tanta parte della riflessione contemporanea. Il metodo dolciano,
una zona dove ci siano dei fenomeni, per esempio, come questi della mafia. Voi sapete le cifre, le conoscete: nel
secondo dopoguerra, secondo delle cifre ufficiali, 520 assassinati fino al '59, più una trentina quest'anno, sono circa 550
persone assassinate dalla mafia. Voi sapete che 38 sindacalisti sono stati assassinati: sono cifre che sono stato spesso
ripetute, non sono state confutate, che io sappia; e sapete poi che non soltanto c'era una ragione economica
nell'assassinio di questi sindacalisti, ma c'era direi, una ragione più profonda: in una situazione, in una moralità in cui è
virtù, è valore, che ciascuno faccia i "fatti propri", il sindacalista veniva considerato un "infame".
Io ho cercato di capire cosa avevano per la testa molti avversari dei sindacalisti e mi sono accorto che questi
avevano o fatto assassinare o assassinato dei sindacalisti appunto perché, oltre al fatto che rompevano loro le scatole sul
piano economico, li consideravano degli "infami", in quanto si occupavano dei fatti degli altri; pensavano: e tu perché
non ti fai i fatti tuoi? E allora, è valore é virtù che ciascuno faccia i fatti propri, è considerato fuori dalla moralità della
zona chi si interessa degli altri: per cui l'assassinio diventa una ricostituzione, in un certo senso, di moralità. Non sto a
dilungarmi su quest'argomento, ma certo è uno dei punti da prendere di petto. Problemi di mafia e problemi di
prepotenza e di violenza sono veramente un cancro che andrebbe studiato: io mi auguro che al più presto l'Università di
Palermo e anche altre, ma soprattutto questa di Palermo, abbia addirittura un reparto un istituto dedicato allo studio
della mafia, perché sarebbe normale, in un paese civile, in un paese sano, studiare i propri mali: è molto triste, molto
grave, che noi si pensi che quasi sia una spiritosaggine pensare sia possibile che dall'Università di Palermo si studi la
mafia. Voi sapete quanto sarebbe importante tanto più che, parlando chiaro,è molto poco probabile che il parlamento
nazionale faccia uno studio del genere, perché difficilmente la gente, la maggioranza, andrebbe a frugare nelle proprie
magagne” (D. Dolci, in Marchese, P., Trizzino, R.(a cura di) 1960, Convegno sulle condizioni di vita e di salute in zone
arretrate della Sicilia occidentale”.
StrumentiRes -­‐ Rivista online della Fondazione Res Anno V -­‐ n° 4 -­‐ Settembre 2013 25 assai lontano inoltre – bisogna ammettere – da una certa rappresentazione apologetica che ne viene
fornita e tanto in voga oggigiorno (che pacifica, per l’appunto, sostenitori e detrattori di Dolci),
proprio nelle sperimentazioni a Partinico ha mostrato come una sua declinazione conflittuale, intesa
come generazione di “tensioni” e di “rotture”, non fosse altro che l’unica strada alternativa
percorribile per riuscire ad “immaginare” una Sicilia svincolata dallo stereotipo dell’arretratezza,
del sottosviluppo, della miseria, una Sicilia liberata da immagini sclerotizzanti di terra rassegnata
alla paralisi, immune alla modernità e al cambiamento49.
Hytten e Marchioni precisavano, dal canto loro, che prendendo le mosse dal caso Gela avevano
voluto fare un discorso valido per l’intero Mezzogiorno, un’analisi critica delle politiche
meridionalistiche e di mettere in evidenza i risultati di un’esperienza di industrializzazione che
sarebbe stata destinata, senza le tempestive e opportune inversioni di tendenza, ad un fallimento
tanto più grave quanto più aveva assunto il volto becero di una capitale pubblico e privato di tipo
predatorio, incurante della società, delle tradizioni, delle vocazioni territoriali, dell’ambiente. I
ciclici disastri ecologici continuano a tutt’oggi a richiamarci impietosamente questa triste realtà.
Questo modello di industrializzazione non piaceva neppure a Domenico La Cavera che, con la sua
Sicindustria, era uno dei massimi sostenitori dello sviluppo industriale della Sicilia. In merito La
Cavera ebbe a precisare che al fine di una seria prospettiva di industrializzazione della Sicilia non
bastava né l’agricoltura né il solo turismo “anche se – diceva – il turismo è una delle cose da
affrontare con serietà, perché veramente può essere una forma di sviluppo”. Occorreva ben altro: “ci
voleva l’industria manifatturiera nelle cattedrali nel deserto, “non tutte quelle porcherie che hanno
fatto a Siracusa e a Ragusa che hanno fatto diventare la Sicilia una pattumiera”. La responsabilità di
questo scempio era, per La Cavera, di forze interne alla Sicilia e di colonizzatori esterni:
La Sicilia è diventata la pattumiera del Mezzogiorno per colpa degli ascari, di coloro che per essere
ben visti dalle potenze del nord, hanno aperto le nostre porte a questi qua che hanno solo
approfittato e hanno tentato di colonizzare la nostra terra. Perché non è vero che hanno utilizzato al
meglio le nostre produzioni: loro ci hanno abbandonato50.
49
Sul punto sia consentito rinviare a S. Costantino (a cura di), Raccontare Danilo Dolci. L’immaginazione sociologica,
il sottosviluppo, la costruzione della società civile, Editori Riuniti, Roma, 2003.
50
Domenico La Cavera, intervento citato da Nino Amadore in L’eretico. Mimì La Cavera, un liberale contro la razza
padrona, Rubettino, Soveria Mannelli, 2012: 75.
StrumentiRes -­‐ Rivista online della Fondazione Res Anno V -­‐ n° 4 -­‐ Settembre 2013 26 Quel tipo di sviluppo calato dall’alto nuoceva anche al settore primario. Per quanto riguarda
l’agricoltura51 bisognerà osservare che il progresso “lento e faticoso”52 del settore primario nella
piana di Gela si era verificato sulla base di fattori del tutto estranei al processo di
industrializzazione. Tuttavia le speranze che l’industria di Stato, di fronte al “prevedibile distacco
tra l’agricoltura locale e gli altri settori produttivi, avrebbe trovato dei mezzi di compenso ai fini di
uno sviluppo più equilibrato, finora non sono state appagate”53.
Era
del
tutto
evidente
quali
sarebbero
state
le
conseguenze
dell’amara
vicenda
dell’industrializzazione di Gela:
Nel caso specifico, le cose non potevano andare diversamente da come sono andate; che questo
determinato intervento industriale in questa realtà socio-culturale non avrebbe mai di per sé potuto
scatenare un processo di sviluppo; che non si tratta,quindi, di ricercare le singole responsabilità o
deficienze né di indicare soluzioni riparatorie, ma di prendere lo spunto da questo caso per rivedere
radicalmente le premesse, gli strumenti e le finalità dell’intera politica nel Mezzogiorno, sia essa
fondata sull’industrializzazione concentrata che su altri tipi di intervento54.
L’ambiguità del ruolo dell’industria petrolchimica emergeva anche nella mancanza di
incentivazione allo sviluppo di nuove iniziative industriali locali o di sostegno a quelle modeste
esistenti. Come testimonia un caso citato nelle pagine conclusive di Industrializzazione senza
sviluppo risalente al primo periodo dell’insediamento dell’industria petrolchimica:
Un giovane imprenditore locale – raro esempio di quella classe imprenditoriale sul quale
vengono riversate tante speranze, e che pertanto diventa anche il capro espiatorio di tutti gli
51
“L’avvio della “industrializzazione” – scrive Giarrizzo – che è dei tardi anni cinquanta, coincide con la
destrutturazione della campagna meridionale che procede con ritmo accelerato, e segna il rivolgimento più vistoso che il
Mezzogiorno abbia vissuto: provvedimenti legislativi ed esodo rurale portano a mutamenti dell’assetto proprietario e
dei rapporti di produzione: il capitale tradizionale lascia la terra,e si trasferisce nella città alimentando quel boom
edilizio che negli anni sessanta e settanta travolge gli argini basi e fragili dell’antica legislazione urbanistica, crea a
livello di potere locale coalizioni di interesse speculativo, e di conseguenza rallenta e poi blocca l’adeguamento della
normativa (comprese le procedure per la redazione e l’approvazione dei piani regolatori). Le conseguenze nel medio
periodo si riveleranno rovinose soprattutto per le città del Mezzogiorno, “gravate” dalla costosa e inefficiente eredità di
centri storici di antico splendore e di recente degrado, o arredato da troppe città presepe aggrappate ad erte divenute
franose ovvero pronte a scivolare più presso alle maglie della complicata rete viaria del Mezzogiorno” (G. Giarrizzo
Mezzogiorno senza meridionalismo: XXVI).
52
E.Hytten, M. Marchioni, Industrializzazione senza sviluppo:89.
53
E.Hytten, M. Marchioni, Industrializzazione senza sviluppo:ibid
54
E.Hytten, M. Marchioni, Industrializzazione senza sviluppo:16.
StrumentiRes -­‐ Rivista online della Fondazione Res Anno V -­‐ n° 4 -­‐ Settembre 2013 27 insuccessi che si producono – ebbe la brillante idea di mettere su un piccolo impianto per la
produzione di fusti di latta di cui, ovviamente, un grande stabilimento petrolchimico avrebbe avuto
continuo bisogno. Il calcolo era obiettivamente ineccepibile: una fabbrica moderna, capace di
assicurare il rifornimento di fusti di qualità con il risparmio delle spese di trasporto, avrebbe avuto il
mercato assicurato dalla sola azienda di Stato. Ciò venne anche confermato, in termini generici,
dall’allora direzione dell’Anic, e l’imprenditore commise lo sbaglio di fidarsene e di contrarre
ingenti debiti per la costruzione della propria azienda. All’inizio della fase produttiva, invece, si
rivelò che l’Ente di Stato aveva già da tempo concordato il rifornimento di fusti da una grande
impresa nel napoletano, ciò che mandò l’imprenditore locale sulla strada della bancarotta55.
La stessa progettualità di Enrico Mattei basata sulla “pubblica utilità” dell’iniziativa industriale non
veniva interpretata in ambito locale secondo l’impostazione originaria:
L’utilità pubblica, sociale del progetto era principalmente un argomento a favore dei privilegi
particolari richiesti dall’industria di Stato per agevolare un’iniziativa economicamente dubbiosa di
cui la validità obiettiva si riferiva, semmai, a criteri di utilità economica e di prestigio a livello
nazionale, mentre ben poco lascia credere che le esigenze di sviluppo locale fossero tra le
motivazioni che spinsero l’ente ad insistere sull’impianto a Gela.
…La constatazione che l’impianto industriale non comportava automaticamente il rovesciamento
della situazione socio-economica e che l’industria rappresentava una realtà sempre più avulsa dai
principali problemi locali, ha perciò motivato una tendenza a vedere il suo assenteismo come un
tradimento dei propositi originali, specie dopo la scomparsa di Mattei che sembrava il garante
paternalistico degli intenti sociali di cui l’impianto petrolchimico sarebbe stato soltanto la prima
realizzazione56.
7. Industrializzazione senza sviluppo, un classico che ha ancora molto da dire
Il libro di Hytten e Marchioni in pochissimo tempo sparì dalle librerie come ha spiegato Sergio
Nigrelli su la Repubblica:
55
56
Industrializzazione senza sviluppo:91.
E.Hytten, M. Marchioni, Industrializzazione senza sviluppo:44.
StrumentiRes -­‐ Rivista online della Fondazione Res Anno V -­‐ n° 4 -­‐ Settembre 2013 28 Il tempo è galantuomo. Ne sa qualcosa Marco Marchioni, un sociologo romano che alla fine degli
anni Sessanta venne a Gela assieme ad un collega svedese, Evydin Hytten, per approntare uno
studio per conto dell'Eni che affrontasse le problematiche legate allo sviluppo industriale ed al
territorio. Doveva essere, in buona sostanza, uno studio per fare sapere ovunque che l'azienda di
Stato lavorava in perfetta sintonia con la gente e con l'ambiente. A certificare tutto dovevano essere
proprio i due sociologi. Ma le cose non andarono così. I due professionisti lavorarono a Gela per
due anni. Considerata la lunghezza dell'incarico portarono con loro le famiglie. Fu un lavoro
paziente e difficile alla fine del quale i professionisti si trovarono dinanzi ad un bivio: le loro
conclusioni erano del tutto opposte rispetto al lavoro che gli era stato commissionato. Il quadro che
si erano trovati di fronte era quello di una «industrializzazione senza sviluppo». Da qui il titolo di
un libro pubblicato da Angeli in aperta polemica con l'Eni e con la sua collegata Anic. Lo studio fu
pubblicato in 2000 copie ma nessuna di queste raggiunse i lettori, perché l'Eni le acquistò tutte in
blocco. Lo ha raccontato uno degli autori in questi giorni a Gela per ritirare un premio. «A Gela il
libro non si trovava - racconta Mario Marchioni - e andai a Palermo alla libreria Flaccovio per
ritirare qualche copia per gli amici. Lì mi dissero che erano finite tutte. Un signore era passato a
ritirarle in blocco». Marchioni e la vedova di Hytten sono tornati nei giorni scorsi a Gela non solo
per ritirare un premio patrocinato dall'amministrazione comunale ma anche perché la giunta
presieduta dal sindaco Franco Gallo ha deciso di ristampare a proprie spese quello studio che allora
venne censurato silenziosamente. Una sorta di risarcimento tardivo che fa il paio con il fatto che
l'amministrazione comunale proprio l'altro ieri si è costituita parte civile in un processo contro l'Eni
per inquinamento ambientale57.
A distanza di quarantatré anni, è certo che il messaggio di Industrializzazione senza sviluppo non è
stato utilizzato al fine di una inversione di tendenza, come sostenevano i due autori, nelle politiche
per l’industrializzazione, per il Mezzogiorno, per un tipo di sviluppo in grado di avvicinare crescita
economica e benessere. L’assenza di un rigoroso progetto di sviluppo industriale e la tragedia dei
casi Thyssen, Eternit, Ilva ne sono la dolorosa testimonianza..
Il libro di Hytten e Marchioni non ha certamente pesato sulla memoria storica. Giustamente
Leonardo Sciascia considerava al condizionale il futuro della memoria. Ma ci sono molte buone
57
S. Nigrelli, L'Eni lo tolse dagli scaffali. Il Comune lo ristampa, la Repubblica, 15 dicembre 2000.
StrumentiRes -­‐ Rivista online della Fondazione Res Anno V -­‐ n° 4 -­‐ Settembre 2013 29 ragioni per ritenerlo un classico. Con la precisazione che intendiamo la classicità nel senso in cui la
pensava Italo Calvino il quale si poneva una domanda precisa: come nascono i classici?
Si tratta di quei testi – rispondeva – “che quanto più si crede di conoscerli per sentito dire, tanto più
quando si leggono davvero si trovano nuovi, inaspettati, inediti”.
Insomma, per Calvino “Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire”58.
E’ ancora possibile, tuttavia, sperare nella formazione di classi dirigenti con lo sguardo meno corto.
A queste ultime Industrializzazione senza sviluppo avrà ancora molto da dire.
58
I.Calvino, Perché leggere i classici, Mondadori, Milano 1991: 13.
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