Marc Chagall, La passeggiata, 1918

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Marc Chagall, La passeggiata, 1918
Giulia Bravi
Liceo Classico Giulio Cesare, V C
Anno scolastico 2014/2015
Indice
Mappa concettuale
1
Introduzione
2
In principio è la relazione
- Martin Buber e il principio dialogico
4
La poesia: un tentato dialogo
- Paul Celan: la poesia come stretta di mano
- Eugenio Montale: i “tu” femminili come epifanie
7
8
La rappresentazione di un incontro
- Marc Chagall: l’arte come manifesto della vita
10
Il metodo dialogico
- Platone: il metodo dialogico come processo conoscitivo
14
Bibliografia
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Sitografia
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Mappa concettuale
Martin Buber
e il principio
dialogico
Platone: il
metodo
dialogico come
processo
conoscitivo
Marc Chagall:
l'arte come
rappresentazione
di un incontro
Legame
Relazione
Alterità
La poesia: un
tentato
dialogo
Paul Celan: la
poesia come
stretta di mano
Eugenio Montale:
i "tu" femminili
come epifanie
1
Introduzione
“Nulla termina in sé,
un tutto è ciascuno
in un altro tutto,
in un altro uno.
L’’altro è nell’’uno,
l’’uno è nell’’altro:
siamo costellazioni”
Octavio Paz
L’uomo, fin dal principio dei tempi, ha sempre sentito la necessità di relazionarsi con gli altri
affinché il mondo interiore che portava con sé non restasse imprigionato al suo interno ma
venisse trasmesso al di fuori.
Il Vangelo di Giovanni ha come proprio incipit la frase “In principio era il λόγος”. È su questa
ultima parola che presenta infinite sfumature di traduzione, λόγος, che la mia tesina prende
avvio. Essa significa “legame, rapporto, relazione” ma anche “parola, frase, discorso” da cui
la comune traduzione “Verbo” che tende però a nascondere l’origine che sta alla base della
parola pronunciata: la relazione. Infatti, la parola è la forte esigenza dell’uomo di mettersi in
rapporto con l’altro, il dire è suscitato dal suo impulso naturale alla comunicazione per
esternare se stesso agli altri; tramite questa, il pensiero umano acquista realtà e fisicità. Il
mondo intero è sempre stato governato dall’esigenza relazionale che è respiro stesso
dell’essere.
Nella mia tesina, dunque, ho voluto addentrarmi nel mistero della parola, del λόγος, senza
tralasciare il fondamentale bisogno dell’uomo che lo porta a generarla. Due temi – la parola
e il bisogno umano di dire “tu” – che considero colonne portanti della mia vita poiché
riconosco in me la stessa esigenza di rapportarmi agli altri tramite la parola che ho sempre
considerato non solo strumento ma soprattutto valore da custodire. L’importanza dell’alterità
è anche il fulcro della mia riflessione poetica.
Ho analizzato, in questo percorso, come l’uomo anche in campi diversi fra loro – filosofia,
poesia, arte – sia sempre animato da questo bisogno insieme comunicativo e relazionale.
In ambito filosofico ho preso in considerazione il pensiero di Martin Buber, forte sostenitore
dell’importanza vitale del “Tu” in relazione con l’Io. È stato lui a darmi ulteriore conferma
della diversa traduzione di λόγος come rapporto con l’altro: affermò lui stesso, infatti, “In
principio è la relazione”.
Mentre, nell’ambito letterario, ho scelto a supporto del mio dire due poeti che considero miei
maestri: Paul Celan ed Eugenio Montale. Entrambi, tramite la parola e la poesia, misero a
fuoco la vita e l’esistenza umana. Nonostante la diversa nazionalità, vissero un dramma
comune: la “Bufera” della storia, la Seconda Guerra Mondiale. Ancora, entrambi, nei loro
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componimenti, si rivolsero a un “tu”, a volte lasciato indefinito, altre esplicitato. Ho scelto di
proporre, all’interno della mia tesina, entrambi i poeti e non uno in particolare in quanto
ritengo che Celan e Montale insieme siano in grado di fornire una visione e interpretazione
più completa del tema da me trattato e che si possano affrontare in termini di continuità.
Questo perché considero paragonabili l’Altro di Celan e il Tu di Montale – prima inteso come
Valore e poi come elemento vitale, istintivo e naturale – in quanto entrambi i poeti sono
animati dallo stesso bisogno, dalla medesima esigenza: la ricerca di un “tu” che dia loro senso,
che conferisca all’esistenza il valore di cui essa si sente mancante, che colmi la ferita che
segna la profondità dell’io il quale, se viene meno questa alterità, percepisce tutto il peso della
sua orfanità.
Ho analizzato questa necessità relazionale del tutto umana anche sul piano artistico,
prendendo a emblema Marc Chagall, pittore che rese la sua quotidianità, fatta di incontri,
relazioni e persone, la protagonista assoluta della sua arte. A questo proposito, mi sono
soffermata in modo particolare sull’importanza che ebbe il legame con Bella Rosenfeld, sua
moglie, nelle sue opere.
Infine, ho inserito nel mio percorso Platone, inventor del metodo dialogico come processo
conoscitivo, pensatore già pienamente consapevole di non poter giungere a una completa
verità individualmente, ma solamente insieme, con il costante confronto con l’altro.
Inserisco, da ultimo, una mia poesia incentrata sull’altro che è, nel contempo, definizione
dell’io e necessità vitale.
Sguardo vitale
Nasciamo come bulbi sotterrati
che fioriscono dagli occhi,
impariamo che sono gli altri
a partorirci con lo sguardo.
Se tu mi guardi ti lascio
le mie radici da vestire,
tutte le eredità degli anni,
le ciglia, finestre sulle palpebre.
Così ti compio anch’io, perché tu sia
sangue, terra e acqua
sostanza visibile.
Lasciamo che si uniscano
le nascite con gli sguardi,
darci la vita come un respiro.
Giulia Bravi
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In principio è la relazione
“Divento io nel tu; diventando io, dico tu.
Ogni vita reale è incontro.
[...] In principio è la relazione”
Martin Buber, Io e Tu
Martin Buber e il principio dialogico
Riflessioni in merito alla tematica della relazione e del
principio dialogico sono state avanzate dal filosofo ebreo
Martin Buber che ne ha fatto il centro della sua ricerca. Egli,
vissuto tra le due guerre, subì la persecuzione nazista e fu
costretto, a causa di questa, a rifugiarsi a Gerusalemme
dove ricoprì la cattedra di Filosofia sociale e portò avanti
l’ideale di una pacifica convivenza fra Arabi ed Ebrei.
La sua opera di maggior rilievo è Ich und Du (Io e Tu; il
titolo italiano è: Il principio dialogico), pubblicata nel 1923.
Questo libro è suddiviso in tre parti: nella prima parte Buber
espone le sue principali teorie e le due parole-base: Io-Tu,
Io-Esso; nella seconda parte analizza più in profondità la
dinamica delle parole-base; nella terza parte tratta la
relazione Io-Dio, considerato dal filosofo un Tu eterno.
Buber parte dall’idea secondo cui l’uomo non è una sostanza, ma una fitta trama di rapporti e
di relazioni. Egli individua un dualismo nell’uomo conforme al dualismo delle parole-base
che può pronunciare: Io-Tu e Io-Esso (l’Esso può comprendere
anche Lui o Lei). L’Io si configura attraverso il Tu e l’Esso, a
seconda della coppia di parole-base presa in esame, poiché secondo
il filosofo “nessun uomo è pura persona, nessuno è pura
individualità. […] Ognuno vive nell’Io dal duplice volto” (M.
Buber, Io e Tu). L’essenza della vita sta nella rapporto con gli altri
in quanto la soggettività è al contempo intersoggettività. La
relazione Io-Esso coincide con l’esperienza vissuta come rapporto
strumentale e superficiale con l’alterità; l’io si relaziona a un mondo
fatto di cose, di oggetti da conoscere, da comprendere, da
investigare sperimentalmente e da utilizzare. Il mondo dell’Esso è
un mondo governato dalle leggi della causalità: ogni processo fisico
e psichico incontrato viene interpretato dall’uomo come causante o
causato. L’uomo, infatti, contraddistinto dalla sua peculiare sete di conoscenza indaga il
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mondo ed è attraverso questa costante ricerca delle cause che si attua la sua sopravvivenza.
Buber non condanna la causalità in sé bensì l’uomo che vive solamente secondo essa, senza
riconoscere la vera relazione. La dinamica dell’Io-Esso, infatti, è la superficiale dimensione
del possesso e dell’avere, seguendo la quale l’Io, l’uomo, classifica il mondo e gli altri,
cercando di esperire questi ultimi nella molteplicità delle forme e dei connotati. La relazione
Io-Tu è, invece, la dimensione del dialogo e dell’essere: “l’Io della parola-base Io-Tu appare
come persona e acquista coscienza di sé come soggettività. La persona appare in quanto entra
in relazione con altre persone […]. Lo scopo della relazione è […] il contatto con il Tu; poiché
attraverso il contatto ogni Tu coglie un alito del Tu, cioè della vita eterna. Chi sta nella
relazione partecipa a una realtà, cioè a un essere, che non è puramente in lui né puramente
fuori di lui. Tutta la realtà è un agire cui io partecipo senza potermi adattare a essa. Dove non
v’è partecipazione non v’è nemmeno realtà. Dove v’è egoismo non v’è realtà. La
partecipazione è tanto più completa quanto più immediato è il contatto del Tu. È la
partecipazione alla realtà che fa l’Io reale; ed esso è tanto più reale quanto più completa è la
partecipazione” (M. Buber, Io e Tu). Secondo Buber è questa la vera relazione che riesce a
dare vita e respiro alla persona, all’Io, in quanto l’Io “si fa Io solo nel Tu” (M. Buber, Io e
Tu). In questa tipologia relazionale, al contrario della dinamica Io-Esso, non vi sono fini né
mezzi, non si cerca di esperire l’alterità né di classificarla: scrive a questo proposito, ne Il
cammino dell’uomo, “ciascuno deve rispettare il mistero dell’anima del suo simile e astenersi
dal penetrarvi con un’indiscrezione impudente e dall’utilizzarlo per i propri fini”. Il dialogo
fra l’Io e il Tu è una relazione che implica reciprocità e operazione poiché come l’Io opera
sul Tu, il Tu opera sull’Io. Intercorre, dunque, uno scambio corrisposto fra la coppia di parolechiave Io-Tu. Anche nel suo scritto Separazione e relazione, Buber ribadisce la sua
concezione del dialogo: “L’autentico dialogo e quindi ogni reale compimento della relazione
interumana significa accettazione dell’alterità. […] L’umanità e il genere umano divengono
in incontri autentici. Qui l’uomo si apprende non semplicemente limitato dagli uomini,
rimandato alla propria finitezza, parzialità, bisogno di integrazione, ma viene esaudito il
proprio rapporto alla verità attraverso quello distinto, secondo l’individuazione, dell’altro,
distinto per far sorgere e sviluppare un rapporto determinato alla stessa verità. Agli uomini è
necessario e a essi concesso di attestarsi reciprocamente in autentici incontri nel loro essere
individuale”.
L’Io si configura in modo diverso a seconda della coppia di parole-base con cui si relaziona:
l’Io della parola Io-Esso si manifesta come individualità e ha coscienza di sé come soggetto
dell’esperire e dell’utilizzare mentre l’Io della parola Io-Tu si manifesta come persona e ha
coscienza di sé come soggettività. La principale differenza tra queste due configurazioni
dell’Io sta nel diverso significato di individualità e persona: infatti, mentre l’individualità si
manifesta distinguendosi da altre individualità, la persona del rapporto dialogico Io-Tu si
manifesta entrando in relazione con altre persone.
Il dialogo Io-Tu trova la sua perfetta realizzazione nel rapporto Io-Dio, considerato da Buber
un Tu eterno. Il volto dell’altro, infatti, rimanda a Dio ma non è comunque Dio. Scrive a
questo proposito in Io e Tu: “ogni singolo Tu è un canale di osservazione verso il Tu eterno.
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Attraverso ogni singolo Tu la parola-base si indirizza all’eterno”. Mentre la relazione Io-Tu
poteva essere continuamente ostacolata dall’incalzante mondo dell’Esso, essendo un dialogo
con un Tu finito, con Dio non vi è questo timore ma perfetta identità. Il Tu eterno che è Dio,
ammonisce Buber, non può essere ridotto all’Esso, diventando così un oggetto di conoscenza
di cui l’uomo può avere possesso. La teologia che propone il Dio-oggetto presenta un falso
Dio, assai diverso da quello della Bibbia che è, al contrario, un vero Dio e un Tu con cui si
parla. Nel suo scritto Eclissi di Dio. Considerazioni sul rapporto tra religione e filosofia,
Buber riflette su questo abuso della parola “Dio” che ha avuto come conseguenza quella che
lui ha definito “eclissi” della divinità. Per il filosofo, si tratta appunto di una “eclissi”
temporanea di Dio, contrapponendosi a Nietzsche che ne affermava la definitiva morte. Dio
si è eclissato per il prevalere nella storia della relazione Io-Esso che ha fatto in modo che
l’avere avesse il sopravvento sull’essere: “Nel nostro tempo la relazione Io-Esso si è molto
gonfiata e, quasi incontrastata, ha assunto la direzione e il comando. Signore di quest’ora è
l’Io di tale relazione, un Io che tutto possiede, tutto fa e a tutto si adatta, incapace di
pronunciare il Tu e di andare incontro a un’esistenza con autenticità. Questo ego ormai
onnipotente, con tutto quell’Esso intorno a sé, non può naturalmente riconoscere né Dio, né
un reale Assoluto, che manifesta la sua origine non-umana all’uomo. L’Ego si inserisce in
mezzo, oscurandoci la luce del cielo” (M. Buber, L’eclissi di Dio. Considerazioni sul
rapporto tra religione e filosofia).
Chi rinuncia alla relazione e al dialogo Io-Tu, rinuncia alla sua sfera umana in quanto non
potrà configurarsi come persona ma solo come individuo distinto dagli altri individui. Buber
incoraggia a sostituire all’Io-Esso, ai rapporti superficiali e rivolti sempre a un fine, l’Io-Tu,
sede di relazioni autentiche, personali e non strumentali.
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La poesia: un tentato dialogo
“Il poema tende a un Altro, esso ne ha bisogno, esso ha bisogno di un
interlocutore. Lo va cercando; e vi si dedica. Ogni oggetto, ogni essere
umano, per il poema che è proteso verso l’’Altro, è figura di questo
Altro.”
Paul Celan, Il meridiano
Paul celan: la poesia come stretta di mano
Paul Celan fu un importante
poeta rumeno ebreo, di
madrelingua tedesca. Subì
nella sua vita il dramma della
persecuzione
nazista:
al
contrario dei suoi genitori,
catturati e uccisi dai nazisti,
riuscì
a
sfuggire
alle
deportazioni
ma
venne
spedito in diversi campi di
lavoro in Romania. Morì
suicida nel 1970.
Molti studiosi sono concordi
nell’affermare che l’intera opera poetica di Celan ha il proprio fulcro nel passaggio, da parte
del poeta, dall’io al tu. Egli, infatti, sostenne nella sua celebre prosa Il meridiano, vero e
proprio manifesto di poetica, che l’io è disposto anche ad ammutolirsi in vista di un tu, ancora
da progettare: “Il poema diventa colloquio […] spesso colloquio disperato. È solo entro lo
spazio di questo colloquio che si costituisce l’entità interlocutoria, la quale si aduna attorno
all’io che l’appella e la nomina. Ma, in questa sua presenza, l’entità interloquita e nominata,
fin quasi a diventare un tu, introduce il suo essere altro”. Un simile concetto è rintracciabile
anche in un saggio che Paul Celan scrisse su Mandel'štam: “Esse [le poesie] sono dialogo.
Entro lo spazio di questo dialogo si costituisce il soggetto cui è rivolto il discorso, esso si
rende presente, si aggruma attorno all’io che gli rivolge la parola e lo nomina. Ma, in questa
presenza, ciò che attraverso la nominazione e l’interlocuzione è diventato un tu introduce la
propria alterità ed estraneità” (P. Celan, La poesia di Osip Mandel'štam). Paul Celan credette
fermamente che l’io della poesia fosse sempre alla ricerca di un tu, di un altro, di un
interlocutore. La poesia è la costante ricerca di un incontro, Celan la concepì come una stretta
di mani e scrisse infatti a Hans Bender: “non vedo nessuna differenza di principio fra stretta
di mani e poesia”.
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Un’altra dichiarazione della poetica di Celan si può trovare
nell’Allocuzione pronunciata in occasione del conferimento
del Premio Letterario della Libera Città Anseatica di Brema
del 1958. In quell’occasione egli cercò di tracciare e definire
il significato ultimo della sua attività letteraria: “La poesia
[…] può essere un messaggio nella bottiglia, gettato a mare
nella convinzione - certo non sempre sorretta da grande
speranza – che esso possa un qualche giorno e da qualche
parte essere sospinto a una spiaggia, alla spiaggia del cuore,
magari. Le poesie sono anche in questo senso in cammino:
esse hanno una meta. Quale? Qualcosa di accessibile, di
acquisibile, forse un tu, o una realtà, aperti al dialogo”.
Possiamo considerare la sua definizione della poesia come
“incontro” con un interlocutore, con un tu, con una alterità figura del dialogo, perfettamente
in linea con la riflessione filosofica di Martin Buber, incentrata sulla dinamica dialogica tra
un soggetto e un altro soggetto. Secondo Celan, la modalità con cui la poesia può entrare in
relazione con l’Altro è l’attenzione: “il suo acutissimo senso del dettaglio, del profilo, della
struttura, del colore ma anche dei «palpiti» e delle «allusioni»” (P. Celan, Il meridiano).
Attenzione che il poeta, subito dopo, intende definire attraverso una citazione dal saggio
Franz Kafka. Nel decimo anniversario della sua morte di Walter Benjamin: “l’attenzione è la
preghiera spontanea dell’anima”.
La poesia è, dunque, volontà di dialogo e predisposizione all’ascolto in attesa dell’incontro e
della relazione con l’Altro che si rivela, spesso e tristemente, irrealizzabile.
Eugenio montale: i “tu” femminili come epifanie
La relazione e l’incontro sono il fulcro fondamentale
anche della poesia di Eugenio Montale, uno dei più
grandi poeti italiani, premio Nobel per la letteratura nel
1975.
In particolare, rapporti con donne come Clizia, la Volpe
e la Mosca rappresentarono rivelazioni improvvise di
senso e di significati. Mi soffermerò soprattutto sul
ruolo che Clizia - Irma Brandeis - e la Mosca - Drusilla
Tanzi, sua moglie – ebbero nella poesia e nella vita di
Montale.
Egli conobbe Irma, giovane studiosa ebrea americana,
a Firenze dove lei da qualche anno era giunta per
studiare Dante. Si frequentarono finché non fu costretta
a tornare in America a seguito delle leggi razziali. La
sua presenza occasionale si fa materia della seconda
raccolta di poesie montaliana, Occasioni. Il personaggio della donna, ora lontano, si fa
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allegoria: Irma è la donna-angelo, la salvifica Beatrice dantesca, è
portatrice e mediatrice di un significato più alto: il Valore. Esso
coincide con i contenuti umanistici della cultura europea, con la
ragione e con la chiaroveggenza che Clizia possiede. È lei a
garantire la salvezza non solo per il poeta bensì per l’intera società
umana: è, infatti, capace di opporre i suoi “occhi d’acciaio” contro
la Bufera della storia (E. Montale, Nuove stanze, Le Occasioni),
riscattando con la sua presenza ogni soggetto. Clizia, come anche
le altre donne, non viene da Montale descritta fisicamente se non
nei tratti simbolici rappresentativi che per lei sono lo sguardo, gli
occhi e la luce: essi non fanno che connotarla come una creatura inafferrabile, che appare e
scompare accompagnata da bagliori splendenti, simile in tutto al modello di donna
stilnovistico. Ricca la trama simbolica che Montale costruisce attorno a Clizia: il ghiaccio, il
Nord e il gelo sono alcuni degli elementi a lei associati. Ne La bufera e altro, il poeta si fa
più esigente nei confronti della donna, chiede con forza la sua presenza per salvare il mondo
dall’avvento della guerra e per far sì che il Valore non venga meno. La troviamo come la
Cristofora, cioè “la portatrice di Cristo”, della salvezza, nella poesia La primavera hitleriana.
Tuttavia l’ipotesi dell’“incarnazione” del valore nel terreno e nella vicenda storica si rivela
alla fine illusoria poiché i valori “cristiani” di Clizia non possono trionfare “per tutti” e le
speranze di Montale vengono meno; Clizia deve fuggire la terra e allontanarsi in una sorta di
“oltrecielo”. Nel dopoguerra, nella società di massa che si andava delineando, il Valore di cui
Clizia era allegoria diventa inattuabile, perciò il poeta cerca valori nuovi, non più alti bensì
appartenenti al basso, alla terra, al fango. Egli li trova nella forza vitale e istintiva della natura
e dell’eros, capaci di resistere anche nella condizione di aridità in cui si trova l’esistenza
contemporanea. Il simbolo di questi valori è l’anguilla, protagonista di un celebre
componimento appartenente a La bufera e altro, sorella di Clizia ma portatrice di un
messaggio opposto. Questo animale rappresenta anche la stessa poesia che potrà sopravvivere
solo se accetterà di mimetizzarsi nel fango e di affidarsi alle forze istintive dell’eros, del
biologico, della natura, identificandosi in questo modo con la forza stessa della vita.
L’altra fondamentale figura salvifica femminile è rappresentata dalla moglie di Montale,
Drusilla Tanzi, soprannominata da tutti Mosca a causa della sua forte miopia. Lei è, per il
poeta, maestra di vita poiché capace di “vedere” realmente il mondo e di adattarsi a quel
“trionfo della spazzatura” che è la civiltà contemporanea, orientandosi in questa con la vitalità
di un insetto, senza farsi ingannare dagli astratti valori degli intellettuali a cui Montale stesso
aveva creduto ma concentrandosi sulla nuda
esistenza attraverso il suo “radar di pipistrello”. La
sua saggezza è quella propria degli animali,
originaria e primitiva. A lei è dedicato il
componimento Ho sceso, dandoti il braccio,
almeno un milione di scale, appartenente alla
raccolta poetica Satura.
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La rappresentazione di un incontro
“E all’improvviso ecco il tuo ritratto
Sei tu gentile lettore
Sono io
È lui
È la sua fidanzata
È il droghiere all’’angolo
La ragazza che riporta a casa le mucche
L’’ostetrica [...]”
Blaise Cendrars, “Ritratto
Marc Chagall: l’arte come manifesto della vita
La citazione di cui mi sono servita per presentare e
introdurre Marc Chagall è tratta da una poesia scritta
da Blaise Cendrars, un carissimo amico del pittore
che gli dedicò diversi componimenti, tra i quali
appunto “Ritratto”. Ritengo che questi versi ben
illustrino l’arte di Chagall che ha, infatti, come perno
della sua ricerca creativa, la vita nella sua
quotidianità, fatta di incontri, relazioni, persone.
Un’arte in cui tutti possono riconoscersi: il “gentile
lettore” può dirsi protagonista dei suoi dipinti allo
stesso modo dell’amico poeta, della fidanzata del
pittore, delle persone comuni che si possono
incontrare appena fuori di casa (“il droghiere
all’angolo/ la ragazza che riporta a casa le mucche/
l’ostetrica”).
L’incontro che diede vita a numerose opere di Marc Chagall fu, senza dubbio, quello con la
sua futura moglie, Bella Rosenfeld. I due si conobbero a San Pietroburgo, lui pittore
ventitreenne in cerca di fortuna, lei neppure quindicenne, studentessa, figlia di orefici.
Condividevano la stessa religione: erano entrambi ebrei. Nella sua autobiografia, Chagall
descrisse la ragazza di cui era innamorato come una giovane affascinante dalla pelle avorio e
dai grandi occhi neri, mentre Bella si invaghì di lui, strano ragazzo con i riccioli spettinati e
con “lo sguardo di una volpe negli occhi azzurro-cielo”, come soggetta a un colpo di fulmine.
Bella rappresentò per Chagall la prima e profonda fonte d’ispirazione.
Testimonianza dell’amore fra il pittore e Bella Rosenfeld sono sue molteplici opere. Di
seguito l’analisi di alcune di queste.
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Marc Chagall, Gli amanti in blu, 1914
In questo dipinto troviamo rappresentati i due innamorati, Marc e Bella, immortalati in un
tenero bacio. Predomina un forte colore blu dall’importante significato evocativo: è simbolo,
infatti, dell’amore appassionato che vi è tra loro. Le figure sembrano immerse nella notte e
illuminate da un riflesso lunare che fa emergere il candore dell’incarnato degli amanti. Il
pittore è rappresentato in primo piano, connotato da una camicia, sempre dei toni del blu, con
un bavero bianco. Bella, nel piano retrostante, si avvicina a lui, accompagnando con la carezza
della mano il viso di Marc al suo per poter imprimervi un bacio fugace al lato delle labbra. La
donna è invece contraddistinta da un prezioso abbigliamento: una giacca con motivo a scacchi
arricchita da un colletto svolazzante e guanti raffinati, anch’essi decorati con trama
geometrica. I due amanti sono rappresentati con gli occhi chiusi, come per cogliere ogni
singola sensazione provocata da quel bacio.
11
Marc Chagall, Il compleanno, 1915
L’amore vissuto nella sua quotidianità entra nelle opere di Marc Chagall nel 1915, con il
dipinto “Il compleanno”. Il momento che vi è rappresentato è stato descritto dalla stessa Bella:
“Ho ancora nelle mani il mazzo di fiori, voglio metterli nell’acqua altrimenti appassiranno.
Ma ben presto me ne dimentico. Tu ti sei gettato su una tela che ti trema tra le mani, immergi
i pennelli nel dipinto. Rosso, bianco, blu nero. Mi schizzi di colore. Mi circondi di un torrente
di colori. D’un tratto mi sollevi dal suolo. Fai un balzo come se la stanza fosse troppo piccola.
Ti protendi fino al soffitto, rovesci la testa all’indietro, ti protendi verso di me e mormori:
«Fuori il cielo ci chiama»”. Ci troviamo di fronte a una scena semplice e casalinga dai
connotati fantastici e aerei: un compleanno si trasforma in un magico volo d’amore. Un bacio
tramuta i due innamorati in creature dotate di ali invisibili, in uno slancio di passione vitale.
Marc fluttua e il suo corpo perde la rigidità che gli è propria. È il suo compleanno e Bella lo
aspetta con dei fiori in mano e una torta pronta sul tavolo. Il pittore rappresenta l’interno della
stanza con una cura meticolosa: vi sono coperte e teli colorati, un borsellino e un coltello sul
tavolo fanno compagnia alla torta e al suo vassoio, uno sgabello e delle tendine. Tutto ciò
contribuisce a immortalare un momento importante per la vita di Marc Chagall: il
festeggiamento e il tripudio dei sentimenti.
12
Marc Chagall, La passeggiata, 1918
Anche in quest’opera, “La passeggiata”, del 1918, ritroviamo la quotidianità dell’amore come
protagonista. Marc e Bella, in una giornata dominata dalla gioia, sono andati a fare un picnic
nei prati verdi attorno a Vitebsk. Entrambi indossano abiti eleganti; lui la tiene con la mano
sinistra mentre lei si libra, come un angelo vestito di rosa, nel cielo. Il viso del pittore esprime
la felicità che solo il vero amore può dare. Marc, inoltre, tiene nella mano destra un uccellino,
simbolo del volo, della libertà e dell’amore. In primo piano, sull’erba, è riposta una tovaglia
dai motivi floreali su cui sono collocati una bottiglia di vino e un bicchiere. Ogni elemento
riconduce, in modo simbolico, all’amore dei due, connotato non solo dalla dolcezza e dalla
passionalità, ma anche dalla spiritualità. L’unione di Marc e Bella, infatti, protesa sempre
verso il cielo ricorda l’immagine primordiale della coppia nel paradiso terrestre. Inoltre, sullo
sfondo è possibile vedere la chiesa di Vitebsk, differenziata dagli altri edifici verdi grazie
all’uso del colore rosa tenue. Essa ricorda la parte spirituale dell’uomo che è trama delle sue
relazioni e della sua vita. Più in lontananza, sulle colline, una cavalla bruca l’erba, simbolo,
ancora una volta, della passione e dell’amore.
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Il metodo dialogico
“Io dunque seguiterò a esporre il mio punto di vista; ma se a qualcuno
di voi sembra che io conceda a me stesso quel che non è, deve
interrompermi e confutarmi. Oh sì, perché quello che dico non lo dico
perché già so, ma io cerco, e cerco insieme a voi, per cui se il
contradditore sembrerà dire cosa giusta, sarò il primo ad essere
d’’accordo con lui. Certo, ho così parlato nel caso vi sembri che il
discorso debba trovare una sua conclusione, ma se non volete lasciamo
stare e andiamocene via””
Platone, Gorgia
Platone: il metodo dialogico come processo conoscitivo
Platone è considerato l’inventor del metodo dialogico, da
lui inteso come un processo tramite il quale pervenire alla
conoscenza. La sua produzione, giuntaci intera, è
composta da trentasei scritti, di cui trentaquattro sono
dialoghi. Il filosofo greco, dunque, scelse il dialogo come
genere prediletto per le sue opere e lo portò avanti per tutta
la sua vita, di volta in volta arricchendolo di sfumature
differenti. Per questo motivo i dialoghi platonici vengono
suddivisi in tre grandi gruppi: Dialoghi della giovinezza,
in cui è possibile trovare un linguaggio vivace e tendente
al realistico insieme a temi etico-politici, tanto cari a
Platone, spesso strettamente connessi a conclusioni
aporetiche; Dialoghi della maturità, in cui predominano
la dottrina delle idee e una svolta propositiva e costruttiva rispetto ai temi etico-politici e alle
precedenti conclusioni; Dialoghi della vecchiaia, tendenti al monologo, il cui tema è un
maggior approfondimento della dottrina delle idee.
Possiamo considerare alquanto originale la scelta di questo genere da parte di Platone in
quanto egli non si limita ad esprimere le proprie idee e dottrine racchiudendole in trattati ed
esponendole in prima persona, bensì mettendole in bocca agli interlocutori dei suoi dialoghi,
il cui protagonista costante – o quasi - è lo stesso Socrate. Platone riprende il dialogo socratico,
apprezzandolo “fino al punto di adottarlo sistematicamente nella sua opera”, poiché “la
filosofia di Platone nasce in stretta relazione con quella dei sofisti e di Socrate. Questi
pensatori avevano posto in chiaro che la pretesa di cogliere la verità con asserzioni nette
(evidente, ad esempio, in Eraclito e Parmenide) è illusoria. Le asserzioni, infatti, sono sempre
legate alle persone che le sostengono, in quanto sono persuase della loro verità. Ma queste
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persone, e le loro opinioni, sono spesso in conflitto fra loro, per cui in molti casi - e in
particolare quando si trattano problemi generali come quelli filosofici - risulta difficile
stabilire in astratto chi ha ragione. Di conseguenza, chi cerca in qualche modo di avvicinarsi
alla verità non può non tenere conto delle persone concrete e delle loro opinioni, della
necessità che le conclusioni raggiunte siano argomentate in modo efficace e persuasivo; e il
terreno in cui si sviluppa questo lavoro di argomentazione/persuasione (che Platone chiama
"dialettica") è proprio quello del dialogo, soprattutto nel modo in cui lo praticava Socrate”.
Platone conferisce al dialogo socratico una dimensione scritta, coinvolgendo così nella
dialettica anche il lettore “che viene stimolato a formulare le proprie tesi ed eventualmente a
raggiungere determinate conclusioni” (A. La Vergata, F. Trabattoni, Filosofia Cultura
Cittadinanza, vol. 1).
Per il filosofo, la comunicazione orale è preferibile a quella scritta in quanto la scrittura
esprime opinioni immodificabili, fissate per sempre, mentre il dialogo, la lingua parlata, è
duttile, permette di interrogare, di rispondere, di spiegare e di precisare senza limitazioni,
come a suo tempo aveva fatto Socrate. Platone sceglie, dunque, un compromesso fra oralità e
scrittura. La scrittura per lui è un φάρμακον, parola che indica sia la medicina sia il veleno:
medicina in quanto valido aiuto per il recupero e la trasmissione delle informazioni, veleno
perché l’abbondanza e la facile reperibilità dell’informazione indebolisce la memoria che
tende ad affidarsi alla parola scritta.
Socrate, vero protagonista dei dialoghi platonici, interagisce di volta in volta con diversi
interlocutori ma sempre con il medesimo presupposto: sa di non sapere, non ritiene di
possedere alcuna verità da riversare nei discepoli. La sua funzione è quella di risvegliare gli
animi di chi lo ascolta e di indurli ad essere sinceri con la propria coscienza, attraverso un uso
sapiente della parola. Per questo l’insegnamento di Socrate è maieutico, ostetrico, simile cioè
all’arte della propria madre levatrice che non possiede un figlio da donare alla madre, ma la
aiuta a partorirlo; così Socrate non possiede alcuna conoscenza già costruita da donare al
discepolo, ma lo aiuta a chiarire la propria intima consapevolezza. Platone declinerà questo
metodo maieutico in un altro senso, come processo rivolto a richiamare nel discepolo
conoscenze assolute già apprese in un’altra vita. Tramite questo risveglio delle coscienze,
Socrate avvia i giovani alla virtù che è consapevolezza dei valori che l’uomo porta con sé e
superamento della propria limitatezza con la comprensione di ciò che accumuna tutti gli
individui. Il metodo dialogico, dunque, è un processo di conoscenza, suprema vocazione
dell’uomo; un percorso non solitario, ma da fare insieme, arricchendosi a vicenda l’uno del
pensiero dell’altro.
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