aspetti socio-psicopatologici del segreto
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aspetti socio-psicopatologici del segreto
ASPETTI SOCIO-PSICOPATOLOGICI DEL SEGRETO Sommario: 1. Premessa - 2. Segreto Professionale - 3. Il segreto nei casi di pertinenza socio-sanitaria - 4. Ruolo patogeno del Segreto - 5. Mito e segreto - 6. Il Segreto in Psichiatria - 7. Conclusioni Bibliografia. 1. PREMESSA Il termine segreto proviene da secretus, participio passato del verbo latino secernere, che significa separare, dividere; il prefisso se indica più specificamente il concetto di scartare, distinguere, mettere da parte. Il primo significato, sul quale Arnaud Lévy insiste finendo col privilegiarlo, è quello legato al linguaggio agricolo, che tende a designare l’antica operazione di setacciare il grano mediante lo strumento del setaccio (in latino, cribum) che ha appunto il compito di separare la parte buona da quella cattiva. In senso figurato secernere assume anche il significato di giudicare, discernere, distinguere il vero dal falso, il buono dal cattivo. Con il prefisso ex, il verbo cernere assume meglio il significato di vagliare, purgare (evacuare in termine medico). Senza che sia menzionato da Lévy, il verbo greco da cui proviene cernere è κρίνω, che ha lo stesso senso, oltre che di giudicare, distinguere, secernere, la cui radice indoeuropea è (s)q(e)rei, da cui il termine greco di confronto σκωρ (dal sanscrito, ava-s-kara), che significa escremento, lordura; quindi excrementum da quod excernitur, con il senso sia di vagliatura che di escrezione. Il vocabolo “Segreto” si riferisce, così, sia all’escrezione, cioè all’elaborazione e al rigetto di sostanze inutili o tossiche, sia al suo opposto, la secrezione, che indica la produzione di sostanze nobili, fisiologicamente utili (Zapparoli). Ciò che si definisce “segreto” è relativo a fatti e circostanze di cui si è a conoscenza e che non possono o non devono essere rivelati. Sulla base della valutazione etimologica e semantica del termine “segreto”, Arnaud Lévy afferma che il segreto conferisce potere sull’altro. Il contenuto di questo potere è “un bene prezioso, il più proprio, il più personale, il più intimo”; tuttavia è anche “la cosa cattiva da nascondere, fonte di vergogna e di minaccia per l’integrità narcisistica”. Il segreto è mezzo di piacere, così come la sua ritenzione può essere fonte di sofferenza; inoltre, il segreto è mezzo di protezione contro l’aggressione temuta da parte dell’altro. Smirnoff ritiene che in ogni individuo ci sia uno spazio “segreto”, che definisce come il territorio proprio del soggetto in cui sono conservati gli elementi che hanno assicurato l’identificazione primaria dell’individuo. Il segreto serve a proteggere questo spazio, costituendo la difesa contro l’intrusione intollerabile. Margolis ritiene che il segreto e la segretezza devono essere considerati sia come fattori che determinano l’identità, sia come eventi che si realizzano solo a identità raggiunta. L’autore sostiene questa tesi riferendosi all’affermazione di Allport secondo la quale il bambino non può sviluppare il senso profondo di identità e continuità fino a quando non viene a percepire e a riconoscere sé stesso come separato, lontano e differente dagli altri. Egli deve, cioè, avere sviluppato la conoscenza della distanza che lo separa dalle altre persone e cose. Ciò che è dentro i suoi confini corporei è lui, ciò che è fuori dai suoi confini non è lui (Fisher e Cleveland). Margolis nota, ancora, che il bambino piccolo si trova a constatare che gli adulti sono più informati riguardo a lui di quanto non lo sia egli stesso. In questo modo il bambino fa, in un certo senso, ancora parte dell’identità degli adulti, che esercitano quindi più controllo su di lui di quanto egli ne eserciti su sé stesso. Solo quando il bambino comincia a capire che esistono cose riguardo a sé stesso che lui solo sa e che gli altri non sanno, cioè che possiede dei segreti, egli può sentirsi separato, indipendente e singolo. A questo punto il bambino giunge a rendersi conto che può o meno comunicare i suoi segreti ai genitori: nel primo caso si confonde con la loro identità; nel secondo caso, mantenendo per sé i suoi segreti, resta già separato, lontano, indipendente da loro. Questa percezione di potere a sua discrezione (nascondere o divulgare informazioni riguardanti sé stesso), oltre ad accrescere il senso di identità, costituisce il prerequisito che rende possibile la scelta. 1 Per Margolis sono anche presenti dei segreti inconsci, cioè esistono alcune cose riguardo a sé che l’individuo tiene segrete non solo agli altri ma anche a sé stesso. A suo parere sono considerati segreti inconsci: a) quei fatti, o quelle sensazioni che l’individuo può tener segreti a sé stesso, la cui rivelazione è temuta. Se non ne è a conoscenza, non li dovrà rivelare; b) alcuni aspetti dell’esistenza che l’individuo tiene segreti in quanto l’autorità rappresentata dai genitori li disapprova o non li vuole conoscere. Alla base di questo secondo caso stanno i meccanismi comunemente descritti come incorporazione degli oggetti parentali (Fairbairn), identificazione con l’aggressore (A. Freud), formazione del Super-io (Fenichel, Freud). La modalità utilizzata per tener nascosto a sé stesso un segreto - rimozione e repressione - dà solitamente come risultato e conseguenza certi sintomi nevrotici: dai rituali dell’ossessivo alla scelta simbolica dei sintomi nell’isterico. Szasz ritiene che la possibilità di esercitare scelte personali e il controllo su di sé sia una specifica funzione dell’Io. Questa funzione rende il bambino consapevole delle capacità, del diritto e del bisogno di tenere per sé i segreti. Essa fonda, inoltre, la consapevolezza dell’individualità del singolo che, entro certi limiti, è autodeterminato. Tausk, al riguardo, afferma: “Conosciamo bene lo stadio infantile in cui domina la convinzione che gli altri conoscano i pensieri del bambino. I genitori sanno tutto, anche le cose più nascoste, e le sanno fino a che il bambino non riesce ad imporre la sua prima bugia (...). La lotta per il diritto ad avere segreti di fronte ai genitori è uno dei fattori più forti nella formazione dell’Io, nella delimitazione ed affermazione della propria volontà. (Per stabilire) lo stadio evolutivo che coincide col periodo in cui il bambino non ha ancora scoperto questo diritto, non ne sa ancora niente e non mette ancora in dubbio che l’onniscienza dei genitori e degli educatori si basi su un dato di fatto (occorre attendere che il piccolo mantenga per sé delle sue cose). (Questo stadio) … sarebbe dunque il periodo anteriore alla prima bugia riuscita”. Freud, riguardo al segreto, ha differenziato il comportamento del delinquente da quello dell’isterico e del nevrotico. Il delinquente conosce il segreto e vuole tenerlo nascosto, mentre l’isterico e il nevrotico non conoscono il segreto e lo tengono nascosto a loro stessi. Inoltre, il paziente nevrotico aiuta il terapeuta nell’indagine, perché se ne aspetta un vantaggio, mentre il delinquente, invece, non collabora, perché ciò agirebbe contro il suo Io, e oppone una resistenza totalmente cosciente. 2. SEGRETO PROFESSIONALE Se la parola segreto è unita all’aggettivo professionale assume un significato particolare, perché attribuisce ad una determinata professione una responsabilità, ulteriormente rafforzata dalla norma giuridica. Tutto ciò implica diversi atteggiamenti personali e professionali che obbligano all’applicazione di specifici codici di comportamento. Su un piano prettamente giuridico per segreto si intende “uno stato di fatto, cioè un rapporto tutelato dal diritto, in forza del quale una notizia relativa a determinati fatti o cose deve essere conosciuta solo da una persona o da una ristretta cerchia di persone, autorizzate alla conoscenza”. La sola mancata conoscenza di un fatto non vale di per sé a rendere segreta quella notizia. Per la dottrina maggioritaria il segreto deve essere inteso in senso oggettivo (l’art. 622 c.p. punisce la rivelazione o l’utilizzazione indebita di notizie segrete, nel caso in cui ciò crei nocumento alla persona interessata: fondamento della tutela penale sarebbe proprio la considerazione del nocumento, attuale o potenziale, che può derivare ai singoli dalla rivelazione). Per quanto riguarda l’oggetto del segreto c’è, da un lato, la necessità di punire la violazione, dall’altro quella di aderire all’ordinamento giuridico attraverso un delicato equilibrio tra esigenze contrapposte, che si fanno sentire nel momento in cui bisogna tutelare il segreto nel processo. L’art. 200 c.p.p. individua l’oggetto del segreto “a quanto appreso in ragione della propria professione, ufficio o ministero”. Questa previsione sembra coincidere con quanto disposto dall’art. 622 c.p., che si riferisce “a chi ha notizia di un segreto per ragione del proprio stato o ufficio o della propria professione o arte”. 2 Occorre il necessario nesso di causalità tra la qualifica o l’attività del soggetto e la conoscenza del segreto. Significa che il segreto, anche se limitato a quanto comunicato in via confidenziale, si estende ad ogni ulteriore conoscenza comunque appresa a causa o nell’esercizio della professione, restando estraneo unicamente quanto conosciuto in occasione dello svolgimento della prestazione professionale, mancando ogni attinenza con quest’ultima. L’art. 200 c.p.p. prevede ancora, per i soggetti menzionati, la facoltà (e non l’obbligo) di astenersi dal deporre. La scelta tra il rispetto del segreto professionale e il dovere di contribuire all’amministrazione della giustizia, è rimessa alla coscienza ed al prudente apprezzamento del professionista. Questa possibilità di scelta è in linea con la norma penale incriminante: il reato si configura esclusivamente se la rivelazione avviene senza giusta causa e se dal fatto può derivare nocumento. In assenza di tali elementi il professionista potrà-dovrà rinunciare alla facoltà di astenersi dal deporre, senza che ciò possa comportare alcuna responsabilità penale. Anche da questo aspetto emerge lo stretto rapporto tra l’art. 200 c.p.p. e l’art. 622 c.p. Il segreto professionale è uno dei diversi tipi di segreto che possono essere eccepiti durante un procedimento penale. La disciplina del segreto è frutto di un bilanciamento di interesse operato dal legislatore. Si è dato prevalenza all’interesse alla difesa nel processo (art. 24 Cost.) rispetto all’interesse della giustizia all’accertamento della verità. Il segreto professionale non è stato previsto dal legislatore come un divieto di rendere testimonianza su talune informazioni acquisite “per ragione del proprio ufficio”, ma come una facoltà di astensione, lasciando così al testimone la possibilità di scegliere. Con questa disciplina il legislatore ha risolto il conflitto tra l’obbligo generale di testimoniare ex art. 198 c.p.p. ed il dovere di non rivelare il segreto professionale, entrambi penalmente sanzionati. La ratio perseguita è quella di tutelare la libertà e la sicurezza dei rapporti professionali. Sulla base della considerazione della necessità o quasi necessità per tutti i cittadini, di avvalersi dell’opera di professionisti, è stato affermato che “l’interesse a garantire le condizioni indispensabili per assicurare la libertà e la sicurezza dei singoli rapporti professionali costituisce un interesse pubblico”. Il segreto professionale trova la sua ratio nella necessità, quindi, di garantire la fiducia e la riservatezza del professionista cui l’individuo si rivolge. 3. IL SEGRETO NEI CASI DI PERTINENZA SOCIO-SANITARIA In considerazione del dovere dei professionisti a salvaguardare il segreto professionale, sia perché disciplinata da disposizioni deontologiche sia per norme di diritto penale, si deve rilevare che anche gli operatori socio-sanitari sono obbligati a mantenere il “segreto professionale”. Appare, però, difficile stabilire quando occorre rispondere al principio della segretezza, considerata in termini assoluti, o quando, invece, non sia più opportuno informare autorità o soggetti potenzialmente vulnerabili di notizie apprese durante l’attività di servizio. Una situazione paradigmatica è quella in cui l’operatore apprende che un soggetto è pericoloso o che ha intenzioni omicide: in questo caso, il principio della segretezza deve essere considerato meno vincolante. Si è soliti affermare, infatti, che il privilegio protettivo della segretezza finisce quando ha inizio il pericolo per il versante pubblico. Una situazione per certi versi analoga si verifica quando l’operatore viene a conoscenza di intenzioni suicide ed omicide di un paziente, oppure della possibilità che l’uomo agendo il suicidio possa mettere a repentaglio anche l’incolumità di altri (si pensi alla saturazione d’ambienti con gas). La norma deontologica, relativamente al segreto professionale, appare nel complesso più rigorosa e restrittiva rispetto a quella penale. L’operatore socio-sanitario che lavora come libero professionista, in ambito istituzionale o privato è tenuto all’obbligo di: a) denunciare, in sede penale, i reati perseguibili d’ufficio (quelli la cui perseguibilità non è condizionata alla presentazione di querela, istanza o richiesta da parte della parte offesa - art. 361 c.p.), di cui ha notizia nell’ambito del suo lavoro; 3 b) segnalare alla Procura della repubblica, in sede civile ( art. 9 della L. n. 184 del 1983) presso il Tribunale per i Minorenni, le eventuali situazioni di abbandono di minori, di cui viene a conoscenza. In tutti i casi citati la denuncia o segnalazione alla Autorità giudiziaria competente non comporta violazione del segreto professionale ed il soggetto non può incorrere in alcun reato. Per il medico è sempre raccomandabile la massima prudenza nell’osservanza del segreto professionale, pur se in ambito penalistico egli deve sentirsi sciolto dal vincolo del segreto nel caso in cui il giudice richieda che testimoni circa un paziente che intenda attuare nocumento o produrre uno stato di pericolo per altri. Nel caso si sia chiamati a deporre da un’Autorità Giudiziaria, nel corso di un processo penale o di una procedura civile, l’obbligatorietà a testimoniare è legata all’obbligatorietà della denuncia o della segnalazione, e vi è tenuto anche il libero professionista. Oltre alle giuste cause imperative (referti, denunce, notifiche e certificazioni obbligatorie), l’art. 9 c. d. m. annovera fra le cosiddette giuste cause permissive di rivelazione del segreto professionale (lì dove il ‘permesso’ venga comunque supportato dal binomio ‘informazione-consenso’ o dall’autorizzazione del Garante): 1) la richiesta o l’autorizzazione da parte della persona assistita o del suo legale rappresentante, previa specifica informazione sulle conseguenze o sull’opportunità o meno della rivelazione stessa; 2) l’urgenza di salvaguardare la vita o la salute di terzi, anche nel caso in cui l’interessato stesso non sia in grado di prestare il proprio consenso per impossibilità fisica, per incapacità di agire o per incapacità di intendere e di volere; 3) l’urgenza di salvaguardare la vita o la salute di terzi, anche in caso di diniego dell’interessato, ma previa autorizzazione del Garante per la protezione dei dati personali (qui il riferimento non è ad una specifica autorizzazione bensì alla citata Autorizzazione generale n. 2/1999). L’ultimo punto annovera le cosiddette “giuste cause sociali”, chiamate in dottrina a giustificare la rivelazione di un segreto professionale in frangenti estremi e con il fine di rendere servizio alla società ma sempre sotto il controllo dell’Autorità Garante. In proposito Introna e coll. notano che la “giusta causa potrebbe essere adoperata con senso critico e parsimonia dal medico saggio e prudente ma di essa abuserebbe il medico superficiale, sprovveduto o privo di scrupoli”. Le difficoltà al professionista arrivano dal dover gestire le situazioni meno nette e più sfumate. In ambito penale per i reati perseguibili a querela di parte, il ruolo degli operatori di “professioni d’aiuto” è quello di sostenere la parte offesa, qualora lo richieda, e/o si trovi in condizione di inferiorità o di incapacità culturale e pratica, così da tutelarla quando incapace di avere coscienza dei propri diritti e di autotutelarsi. Il lavoro del professionista è indirizzato a potenziare l’autonomia e l’autostima del soggetto, affinché giunga egli stesso alla denuncia, o ad altra soluzione che lo protegga. Il caso tipico di reato perseguibile a querela di parte è quello del maltrattamento fra adulti consumato in ambito familiare. Da un punto di vista giuridico questo reato è un concetto che non trova riscontro in una definizione specifica e, per essere riconosciuto tale, richiede continuità ed intento vessatorio. Se, invece, la vittima è un minore, un anziano o un incapace le cose cambiano: in tali evenienze diventa indispensabile la segnalazione alla Procura della Repubblica, tenuto conto che oggi è anche possibile chiedere al Giudice (sia a quello penale che a quello civile o al Tribunale per i Minorenni) di allontanare da casa l’adulto maltrattante, impedendogli di reiterare il comportamento lesivo. È inoltre opportuna la segnalazione alla Procura della Repubblica Civile nel caso in cui si ravvisino presunti raggiri a carico di anziani soli o in istituto. Altra situazione controversa è quella relativa alla valutazione del pregiudizio e della sua gravità, considerato in relazione ad un danno, ad una lesione di interessi o ad un grave rischio per la persona, minore o incapace. La linea di demarcazione fra stato di abbandono e pregiudizio è estremamente labile e, nel dubbio, è comunque opportuna la segnalazione, perché si tratta di persone non in grado di richiedere misure tutelanti. Inoltre, quando si tratta di minori, conviene sempre segnalare perché sia la Procura della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni ad assumere l’iniziativa in un senso o 4 nell’altro. Ciò perché la tutela dei minori è affare di tutti, anche degli operatori di quei servizi che hanno come compito la cura dell’adulto malato. L’operatore socio-sanitario, dipendente dall’Ente Pubblico o operante nel privato ma in un servizio appaltato dall’Ente Pubblico, non può appellarsi al segreto professionale in tutti i casi in cui opera in nome e per conto di un Ente il cui mandato professionale è, fra gli altri, la tutela dei soggetti deboli. Quando il programma di trattamento coinvolge terzi, spesso non è possibile osservare il segreto professionale: accade inevitabilmente, infatti, che le informazioni siano condivise. Può succedere, ad esempio, che un paziente fornisca all’operatore, a condizione che gli sia garantita la segretezza, alcune notizie riservate, e contemporaneamente ne comunichi altre ad altri professionisti, sempre alla stessa condizione. I diversi operatori possono essere messi in situazione di disagio sia tra di loro sia nei rapporti con il paziente. Non è sempre facile stabilire quali comunicazioni, fornite ad altri, possono risultare dannose, o perché riducono l’autostima del paziente o perché compromettono i suoi rapporti con altri, oppure vantaggiose, nel senso, ad esempio, di evitare situazioni di pericolo sul luogo di lavoro o, più genericamente, di fornirgli vantaggi sul piano economico e sociale. 4. RUOLO PATOGENO DEL SEGRETO Partendo dalla considerazione che il bisogno è uno stato di tensione generato dalla mancanza di un qualcosa necessario per soddisfare esigenze fisiologiche, psicologiche o sociali (i bisogni umani sono stati divisi in scale gerarchiche, da quelli di base a quelli più complessi da Ma slow), occorre notare che traumi precoci e un patrimonio genetico deficitario ostacolano il costituirsi di un Sé organizzato, dotato di coesione ed unità, compromettendo il funzionamento dell’Io. Persone che hanno in sé queste difficoltà non riescono ad attuare un corretto esame di realtà, ad auto-regolarsi, a mantenere un’interazione adeguata tra pensiero, pulsioni, affetti, azioni. È frequente che alla base di tali traumi vi sia una relazione inadeguata con la figura adulta che si occupa di accudire il bambino, ovvero vi sia l’incapacità di tale figura di svolgere adeguatamente la funzione che Winnicott definisce di “holding”. Un adeguato ambiente familiare, relazionale ed affettivo può garantire il rispetto del diritto all’identità del bambino in ogni sua componente e nelle sue diverse fasi evolutive. Pur ritenendo che esista un diritto al segreto, ad avere pensieri segreti, bisogna porsi il quesito si quale sia il suo significato, inteso come “condizione per poter pensare” (Aulagnier). Winnicott, in un saggio su “Comunicare e non comunicare”, esplicita il senso del segreto come area del sé e distingue tra il non comunicare come semplice stadio di riposo e il non comunicare attivo o reattivo. Si può affermare che ogni famiglia e ogni individuo ha psicologicamente organizzato una parte di sé attorno ad un segreto. Affrontando il tema dei segreti familiari si fa per lo più riferimento ad un aspetto sovvertito del funzionamento familiare, qualcosa che interrompe o perverte nel loro orientamento le catene associative familiari, come una sorta di oggetto feticcio della vita familiare che malgrado tutto viene trasmesso da una generazione all’altra e il cui effetto patogeno è soprattutto il fatto di rinnovare un funzionamento segreto. Bisogna perciò piuttosto soffermarsi sulla funzione che il segreto svolge nell’economia intrapsichica e interpersonale del soggetto e della famiglia. A volte abusi e violenze si collegano in forma più o meno esplicita ad un segreto familiare, a un non-detto depositato nella memoria di uno solo, ma tuttavia capace di sequestrare intorno a sé una parte della vita fantasmatica familiare. Ovvero si possono manifestare come miti familiari o come dei nuclei di storie familiari, di ricordi, di eventi o immagini idealizzate caratterizzati da un miscuglio di elementi utilizzati sia come aspetti identificatori che come comunicazione di modalità relazionali che si devono apprendere e codificare nel tempo. Questi nuclei sembrano essere aree che coagulano e organizzano attorno a sé una 5 buona parte della vita emotiva e fantasmatica della famiglia, depauperando altri aspetti della vita di relazione. De Mijolla ritiene che la funzione di questi elementi sia “anti-memoria”, ovvero sia quella di ripetere il ricordo dell’evento in modo compulsivo impedendo in realtà l’elaborazione. L’aspetto positivo è quello che talvolta sono di transitorio aiuto in certe fasi dell’esistenza. Si parla di abuso sessuale infantile quando un adulto sfrutta o utilizza a fini sessuali un bambino che, per ragioni evolutive, non è in grado di capire cosa gli sta succedendo e che può, psicologicamente o socialmente, subire l’ascendente dell’abusante. L’abuso sessuale infantile può manifestarsi in diverse forme: esibizionismo, toccamenti nelle zone genitali, masturbazione tra adulti e bambini, incoraggiamento o costrizione di bambini alla vista di atti sessuali, rapporto orale, penetrazione (vaginale o anale), utilizzazione di bambini nella pornografia, esibizione di film o immagini pornografiche a bambini, induzione allo sfruttamento della prostituzione minorile. Gli abusi possono essere limitati ad un solo episodio o ripetersi anche per molto tempo (a volte anche anni) fino all’età adulta. Gli abusi sessuali possono avere effetti estremamente dannosi su un bambino, interrompendo armonici percorsi di sviluppo, con conseguenze che possono protrarsi fino all’età adulta. Per molti bambini, però, gli effetti dannosi sono limitati nel tempo e dipendono, oltre che dal tipo di abuso subito, anche dalle caratteristiche del bambino e dall’aiuto ricevuto da parte di familiari, amici, insegnanti, etc. Gli autori di abusi sessuali possono appartenere a qualsiasi background socio-economico, professionale, etnico o religioso. Non appartengono a particolari classi di età: dati relativi alla realtà italiana negli ultimi anni hanno evidenziato come un bambino possa essere abusato anche da adolescenti o da altri bambini. Sembra che solo in un ridotto numero di casi ad abusare sia una donna. La violenza dell’abusante si basa sulla strategia seduttiva che sfrutta i sentimenti di obbedienza, fiducia e confusione del bambino, e lo irretisce attraverso offerte di affetto, regali o concessioni particolari. La maggior parte degli abusi sessuali nell’infanzia sono attuati da persone conosciute dal bambino. Spesso queste persone fanno parte dell’ambiente di vita del bambino e possono essere familiari, amici, vicini di casa, più in generale soggetti che si occupano della sua cura e della sua formazione. Ciò rende il fenomeno dell’abuso sessuale nell’infanzia particolarmente complesso e difficile da riconoscere: i bambini stessi possono nutrire sentimenti contrastanti, derivanti dal fatto di essere abusati da qualcuno che dovrebbe proteggerli. Possono anche non rendersi conto che ciò che sta loro accadendo costituisce un abuso. Nel trattare il comportamento pedofilo, Aguglia e Riolo sottolineano che al prevalere di modalità persuasive e concilianti nel periodo che precede la violenza subentrano modalità di rapporto in cui la violenza psicologica assume un ruolo centrale, in quanto il pedofilo teme che il gioco della penombra in cui si svolge l’abuso subisca l’effetto luce e sia visibile acquistando aspetti di realtà il gioco che ha costruito, cosa che causa ansia al pedofilo, perché egli teme che allorché la realtà irrompa sulla scena svaniscano i suoi costrutti immaginari. È di comune riscontro che nella storia personale dei pedofili vi siano gravi disfunzioni della coppia genitoriale, segreti di famiglia più o meno censurati, relazioni precoci disturbate. I pedofili frequentemente hanno subito traumi o abusi sessuali infantili, diventando a loro volta abusatori. Schinaia afferma che il pedofilo “è convinto dogmaticamente della giustezza e della liceità delle sue inclinazioni, dei suoi desideri, dei suoi atteggiamenti, e si oppone attraverso la sistematica trasgressione delle norme a una società ingiusta ed eticamente pervasiva, che gli impedisce di godere pienamente del bambino e impedisce al bambino di godere dell’amore dell’adulto”. Per il pedofilo, a parere di Barrie, non esiste sviluppo oltre l’adolescenza, tanto che l’oggetto d’amore viene perduto nel momento in cui acquisisce i caratteri somatici dell’adulto. Secondo Mancuso, il mondo idealizzato di Peter Pan, in cui non si cresce mai, sembra essere la metafora del mondo ideale della pedofilia. Peter Pan è convinto di essersi creato da solo e che il suo ruolo di genitore è salvifico per i ragazzi smarriti dell’umanità. 6 In realtà i pedofili sono stati bambini isolati che si sono sentiti esclusi dagli altri bambini e che hanno invidiato la vitalità dei loro coetanei. Da adulti possono tentare di possedere e di catturare come delle prede quei bambini, cercando di impossessarsi di quella vitalità, di quell’energia che hanno ammirato e che a loro sono mancate. Riguardo l’entità e la durata del trauma che segue all’abuso, svolgono un ruolo importante l’età del bambino, i parametri dell’abuso (frequenza, durata, tipo di abuso), gli aspetti psicobiologici della personalità (eccitabilità, sensibilità al piacere e al dolore), la qualità dell’ambiente esterno (la possibilità, per esempio, di parlarne o meno) e la modalità dell’aggressione. Il vero trauma è quello di cui non si può fare esperienza psichica e simbolica ed è per questo che va distinto dalle situazioni traumatiche che possono essere vissute in epoche successive all’infanzia e che possono essere presenti nella coscienza e nella narrazione autobiografica del paziente. È interessante notare che gli abusatori scelgono, tra i bambini, i più derelitti, i più sottomessi, non soltanto per la facilità con cui possono circuirli, ma come caratteristica di attrazione. L’essenza del trauma è il fatto che l’Io viene messo “fuori combattimento”: di fronte a un accumulo di eccitamento di origine sia interna che esterna, l’Io sperimenta una condizione di impotenza, costituendosi come la vittima centrale dell’episodio traumatico. In una fase precoce della vita, un trauma potrà dare luogo, a seconda del contesto ambientale in cui si attua, a una distorsione o addirittura a un arresto dello sviluppo, “esattamente come le mura di sostegno di una casa sono più danneggiabili durante le operazioni di costruzione, che dopo completate” (A. Freud). L’aspetto importante non è la natura del trauma in sé e per sé, ma piuttosto l’incapacità del soggetto o del gruppo che lo circonda di elaborarlo, potendosi così generare dall’angoscia che lo sottende due strade, una verso la compulsione ripetitiva che rende inutile il passare del tempo e l’evolversi delle generazioni e l’altra che apre la storia alla soluzione e alle riparazioni creative, motivate dall’angoscia che aveva caratterizzato l’elaborazione del trauma. Lopez afferma che in più del 50 per cento dei casi il bambino vittima diventa a sua volta abusatore, ma altre statistiche riferiscono dati intorno all’80 per cento. In ogni caso la maggior parte delle ricerche affermano che l’abusante è stato a sua volta, durante l’infanzia, vittima di abusi. Presentandosi nella realtà sessuale del ragazzo, l’abusatore distrugge tutto il processo fantasmatico che, ai confini tra inconscio e preconscio, avrebbe dovuto permettere all’oggetto interno di costituirsi lungo il corso dello sviluppo (Balier), e sottrae lo spazio psichico al cui interno possono essere giocati i desideri edipici. La nostra mente può difendersi dal dolore mentale tramite il pensiero, la rimozione, la proiezione o la negazione. Vi sono, però, anche altri meccanismi più primitivi quali la scissione, il diniego o l’identificazione proiettiva massiccia ed evacuativa, che possono intervenire. Forse, però, la trasmissione transgenerazionale utilizza anche altri meccanismi, in parte ancora sconosciuti. Sandler afferma che nelle relazioni umane “ogni parte cerca di imporre all’altra, di esternare in ogni momento quella che può essere chiamata una relazione di ruolo intrapsichica. In questo contesto … le relazioni oggettuali sono fondamentalmente relazioni di ruolo importanti». Così ognuno tenterà di attualizzare (“nel senso di rendere reale un azione o fatto”) la relazione di ruolo inerente al suo attuale desiderio o alla fantasia inconscia dominante. E questo meccanismo determina tra l’altro un “forte attaccamento all’altro” anche se non sempre il legame che si viene a creare è di affetto. Soffrire in un altro, soffrire al posto di un altro, diventa, da questo punto di vista, possibile soprattutto se l’altro è un membro di un’altra generazione. Pazienti con storie di abuso infantile sono privi di quello spazio di riflessione che Winnicott chiama “spazio potenziale” e Ogden “spazio analitico”, ciò induce alla concretezza e alla propensione all’atto impulsivo. Il bambino vittima di un abuso può vivere una profonda confusione, sentirsi colpevole, avere paura, può cercare di nascondere i propri sentimenti e il proprio disagio, custodire “un segreto”. Gli abusi che avvengono all’interno dalla famiglia prendono il nome di “incesto”, termine che indica qualunque tipo di relazione sessuale tra un bambino ed un adulto che condividono un legame di parentela, o che vivono insieme. 7 Da un punto di vista sociale, quando si parla di incesto ci si riferisce al rapporto eterosessuale fra persone consanguinee. L’incesto diventa reato quando ne deriva pubblico scandalo. Inoltrandosi tuttavia nello studio antropologico, sociologico e giuridico di questo comportamento ci si rende conto che tale definizione è restrittiva. Lo dimostra Héritier quando teorizza oltre ad un incesto di primo tipo, che corrisponde a quanto detto sopra, anche un incesto di secondo tipo. Mentre l’incesto di primo tipo si riferisce ai rapporti sessuali tra genitori e figli o tra fratelli e sorelle, ma anche tra due sorelle, o due fratelli, quello di secondo tipo non avviene nel contatto fisico tra le due persone consanguinee ma tramite una terza persona con la quale queste due persone hanno una relazione sessuale: come succede quando due sorelle o una madre e una figlia hanno rapporti con lo stesso uomo, oppure quando due fratelli o un padre e un figlio hanno rapporti con la stessa donna. Questo tipo di incesto, che si potrebbe definire per procura, è considerato ancora più grave del primo poiché è fondato sull’identità di genere in seno alla consanguineità: madre/figlia, padre/figlio, sorella/sorella, fratello/fratello, zia/nipote femmina etc. In pratica, anche la relazione sessuale tra un bambino ed il patrigno, la matrigna o sostituti parentali permanenti si può considerare incesto, come pure gli atti compiuti in ogni tipo di relazione, etero od omosessuale, non soltanto se si arriva all’accoppiamento, ma anche quando si verificano pratiche oro-genitali, anali e masturbatorie, e determinati comportamenti parentali caratterizzati da un’intimità fisica eccessiva o dall’imposizione al bambino di atti voyeuristici ed esibizionistici. Il soggetto che ha subito il trauma dell’incesto insieme all’innocenza perde la capacità di fantasia e la fiducia nel mondo. Questo fenomeno manifesta l’incapacità dei pazienti traumatizzati di pensare a sé stessi e alle relazioni in modo articolato e riflessivo, una caratteristica che li accomuna ai pazienti borderline. È l’accumulazione di elementi identici che, ancora oggi in alcuni popoli, viene considerata come portatrice di effetti nefasti dai quali bisogna difendersi. Se il tabù dell’incesto è importante sul piano sociale, lo è ancora di più sul piano psichico. Non sorprende che la trasgressione del tabù dell’incesto, di primo e di secondo tipo, provochi delle gravi conseguenze psicopatologiche. Parlando di incesto è inevitabile considerare il complesso di Edipo nei suoi vari significati, da quello più usuale in cui il bambino prova sentimenti di amore ed odio nei confronti dei genitori o sostituti, fino a giungere a un altro aspetto dell’Edipo, il desiderio dei genitori nei confronti del figlio, il cosiddetto Edipo II che Fanti ritiene «la riattivazione di Edipo utero-infantile, condizione in cui la madre e/o il padre desidera possedere fino all’incesto e distruggere fino alla morte il bambino o la bambina». È questo un desiderio difficilmente ammissibile, che si rivela quando emerge nell’agire. Sono state descritte alcune tappe caratteristiche nello sviluppo dell’incesto, da quando ha inizio al momento in cui viene scoperto: 1. Fase dell’adescamento: il genitore abusante crea le condizioni necessarie alla messa in atto dell’abuso, instaurando con la vittima un rapporto privilegiato, e preparando situazioni di isolamento dal resto della famiglia. 2. Fase dell’interazione sessuale: la vittima viene coinvolta sempre più in attività sessuali, da forme poco intrusive fino al rapporto sessuale completo. 3. Fase del segreto: il bambino viene costretto a mantenere il segreto, attraverso minacce di violenza, di perdere l’affetto dei genitori, di non essere creduto, sollecitando sentimenti di colpa e di vergogna. 4. Fase della rivelazione: quando l’incesto viene alla luce, le reazioni dei familiari possono essere ambigue e contraddittorie; di frequente capita che proprio loro si oppongano alla verità, negandola, minimizzando l’accaduto o accusando la vittima di voler disgregare la famiglia. Se noi consideriamo il tema dell’incesto, che secondo Racamier sta alla base dell’antedipo, dobbiamo tenere presente la possibilità di incesti-segreti delle generazioni precedenti. L’onnipotenza è il prodotto finale dell’antedipo. L’antedipo è un fantasma e non corrisponde all’edipo. L’edipo e l’antedipo vanno piuttosto intesi come due linee che s’incrociano, non come due tappe che si succedono l’una all’altra. 8 Racamier chiama queste due linee fantasma–non fantasma: il fantasma si produce nell’inconscio, si avvicina al corporeo, incarna un oggetto, può dirigere il pensiero e comandare le azioni (edipo); il non-fantasma invece non ha movimento, come in una sceneggiatura, non ha trasformazione né elaborazione, rimpiazza l’oggetto più che rappresentarlo e pietrifica il vissuto (antedipo). Il nucleo principale dell’antedipo è caratterizzato da incesti tenuti segreti e da lutti negati. È possibile che, se tali incesti si sono verificati nelle generazioni più vicine, la fissazione abbia determinato l’insorgenza di un meccanismo di diniego che potremmo definire familiare o genealogico. La madre proietterà sul “figurante predestinato” i suoi desideri incestuosi e il feto diventerà così il figlio feticcio, il depositario del segreto. Nei casi limite l’incesto agito è l’ultima arma contro la separazione, e il figlio può giacere con la madre per evitare di desiderarla: quest’atto ha lo scopo preciso di proteggere dal fantasma. L’incesto, com’è stato detto, è caratterizzato dal segreto e sarà conservato a qualunque prezzo, sovente con una psicosi di famiglia. Racamier parla di autogenerazione e di auto-disgenerazione. Questo fantasma confonde anche le generazioni, dove il padre può essere il figlio e il figlio diventare il padre oppure la madre: tutto ciò diventa la fonte del delirio. Il diniego ha lo scopo di evitare la rottura del legame oggettuale. La megalomania è il sostegno per impedire la caduta di questa difesa. L’incesto si verifica all’interno di una dinamica affettiva molto particolare e complessa. Infatti, mentre in qualsiasi altra forma di violenza sessuale la vittima, di qualsiasi età essa sia, ha la possibilità di riconoscere nell’abusante la figura del colpevole, l’incesto priva chi lo subisce della libertà di difendersi e di odiare. Tipicamente, il minore che ha subito un abuso sessuale cerca di mantenere a distanza i ricordi traumatici. In alcuni casi, addirittura, è possibile che, almeno in determinati periodi della vita, la persona abusata abbia amnesie, più o meno parziali, per gli eventi accaduti o ricordi estremamente confusi. Molte sono le sofferenze e le limitazioni che derivano dall’abuso sessuale, quelle di più frequente rilievo sono: - Vissuti di tradimento ed impotenza, quando l’abuso viene commesso all’interno dell’ambiente familiare, specie da un genitore o da chi avrebbe dovuto svolgere questa funzione. La persona abusata tipicamente vive come una profonda ferita il fatto di non essere stata amata nel modo corretto da una persone di cui aveva bisogno. Frequentemente, può pensare che, se si sono subite cose così gravi dai propri familiari, certamente delle persone non ci si può fidare. Questo può portare ad una profonda sfiducia nei confronti della gente o ad attuare comportamenti aggressivi e manipolatori, soprattutto nei confronti delle persone dello stesso sesso dell’abusante. - Calo dell’autostima, perché è tipica la bassa autostima e la sensazione di non essere veramente degni amore nei soggetti abusati. - Disturbi e patologie nella sfera della sessualità, in quanto la vittima dell’abuso oltre ai problemi sessuali più tipici (difficoltà o impossibilità a raggiungere l’orgasmo, dolore durante i rapporti, difficoltà a lasciarsi andare, assenza di sensazioni piacevoli o presenza di sensazioni piacevoli assieme a quelle spiacevoli, sensi di colpa e di inadeguatezza eccessivi, sensazione di essere indegni o “sporchi”, assenza di desiderio, disturbi dell’eccitazione, frigidità ed impotenza), può essere portato ad evitare la vita sessuale in generale, oppure scegliere di agire una omosessualità di ripiego, soprattutto se l’iniziazione alla sessualità è avvenuta all’interno della famiglia. Paradossalmente, l’abuso sessuale può anche portare a promiscuità sessuale, ciò in ragione del fatto che le persone abusate tendono ad essere abusate nuovamente per la difficoltà che hanno a tenere distinti l’affetto dal sesso. Altre volte perché hanno un’opinione estremamente bassa di sé e, quindi, si lasciano andare ad un uso promiscuo e non ponderato del proprio corpo. - Sindromi dissociative e disturbi di personalità, problemi psicosomatici, disturbi del comportamento alimentare, insonnia sono disturbi talvolta correlati all’abuso. Problemi di ansia e depressione sono molto frequenti e possono insorgere fin dall’infanzia, diventando parte dell’individuo, tanto da ritenere di non potere essere fatto diversamente. 9 - Disturbi della condotta, con abuso di alcool, di farmaci e di sostanze stupefacenti, condotte devianti, difficoltà relazionali, ritiro sociale, e conflittualità sono frequentemente associati all’abuso. - È inoltre da considerare la possibilità che l’abusato riproduca il comportamento d’abuso e le violenze subite sui propri figli (il cosiddetto “ciclo dell’abuso”). Gli effetti negativi dell’abuso non si limitano all’esposizione del minore all’evento traumatico, ma si sommano con la convivenza del soggetto in un contesto familiare patologico, che lo costringe ad attivare diverse difese psicologiche, per proteggersi o per adattarsi a questa esperienza. Nel caso che gli abusi siano attuati da uno o da entrambi i genitori, nella loro storia sono spesso presenti esperienze intergenerazionali di violenza fisica, abuso sessuale, trascuratezza fisica ed emotiva. Solo talvolta è riscontrabile una vera e propria patologia nei genitori e, nel caso, sono i disturbi di personalità borderline e narcisistico, la sociopatia e la pedofilia quelli più frequentemente rilevati. È osservazione frequente che un bambino abusato finisca per ripetere la storia di violenza che l’ha visto protagonista allorché, in presenza di fattori sociali, familiari e personali facilitanti, divenga anch’egli un adulto abusante. Spesso capita di leggere sui giornali storie di incesti e abusi sessuali sui bambini. Molto meno si sente parlare delle conseguenze che queste situazioni ingenerano nelle vittime divenute adulte. Terapeuti che si occupano delle famiglie, specialmente di quelle più gravi o con un membro psicotico, ritengono che i segreti familiari abbiano rilevanza patologica e patogena. Il compito del terapeuta, secondo Freud, è di scoprire un materiale psichico nascosto servendosi di una serie di artifici investigativi, quali la regola delle associazioni libere e l’attenzione alle resistenze. Freud sottolinea inoltre che un segreto accuratamente custodito si tradisce solo attraverso allusioni sottili o ambigue, così come il paziente rivela il suo personale segreto sotto forma di figurazione indiretta. 5. MITO E SEGRETO Il mito non racconta solamente qualcosa, ma piuttosto si esprime attraverso ciò che racconta. Il materiale narrativo che forma il mito è lo strumento attraverso il quale il mito comunica. Si arriva così ad una concezione differente del mito che Lévi-Strauss descrive come un oggetto semiotico, come un linguaggio nel quale “un certo materiale significante (il racconto) ha come funzione quella di trasmettere un certo significato”. A causa di ciò, il mito collega differenti livelli di realtà e la sua grande importanza nasce dalla sua capacità di funzionare da “intercodice” in quanto costituisce rapporti tra i differenti livelli di realtà. Mentre il mito sembra descrivere la realtà, insegna e prescrive piuttosto come la realtà deve essere letta. Certo nelle dimensioni non patologiche la dimensione prescrittiva può essere messa anche in discussione dalla storia personale del soggetto che può quindi risignificare a posteriori certi aspetti del mito piuttosto che certi altri. Così leggende familiari possono illuminarsi retrospettivamente in una certa dimensione, lasciando in ombra e non attivate le valenze delle altre, a seconda delle variabilità della storia e della personalità individuale. Dall’esame dei miti e delle leggende o dalle storie familiari di molti pazienti si evince l’incapacità di operare un lutto quando gli eventi traumatici che hanno caratterizzato la storia familiare sono rappresentati dal mito. La distinzione tra colpa depressiva e quella persecutoria assume una rilevanza centrale dato che quest’ultima, la colpa persecutoria, rende complicato e inelaborabile il lutto. L’impossibilità o l’incapacità di uno dei membri della generazione precedente di manifestare una depressione può essere l’elemento centrale che rende incapaci anche tutti gli altri di allontanarsi dal coinvolgimento. Il coinvolgimento induce nella generazione successiva, come difesa contro una depressione che non si può neppure riconoscere, una patologia data dall’ammalarsi nell’altro, in una migrazione della sofferenza psichica, in un’inconscia induzione nell’altro che assume forme diverse e molto concrete. Potremmo dire che sviluppare una malattia depressiva è una sorta di capacità e solo un Io sufficientemente capace di tollerarla può ammalarsene, pena il panico, la confusione e l’angoscia psicotica. 10 La permanenza del senso di colpa persecutoria rende paradossalmente l’oggetto, quantunque ormai non più attivo, sempre vivo e capace di minacciare il resto del sé. La persistenza di tali aspetti nel corso del tempo si può manifestare in vario modo nella famiglia. I deficit della simbolizzazione inconscia che si manifestano come un materiale indigesto, non elaborato dal genitore o dalla coppia parentale (Bonaminio, Giannotti, Carratelli) sono alcune delle manifestazioni che si possono rivelare in forma psicopatologica sia in ambito controtransferale in terapia sia in agiti di membri della famiglia (quelli che Granjon chiama “le voci del silenzio”). Nei miti, nelle leggende e nelle tragedie il crimine non è mai un evento isolato di un individuo singolo. Esso è al contrario al centro di un groviglio collettivo di multiple azioni ove ognuno svolge una parte precisa. Il mito o il segreto o l’identificazione con un antenato, entrano a far parte del processo identificatorio. Può esistere cioè qualcosa di organizzato nella nostra mente che non appartiene solo al corso della nostra vita. A volte questo elemento o insieme di elementi sono, per riprendere la definizione di Laplanche, fisiologicamente impiantati ed è possibile per noi farli nostri, integrarli in una complessa operazione di riappropriazione. A volte invece rimandano ad un violento processo di intromissione (Laplanche) o intrusione (Winnicott) o colonizzazione (Meltzer) nella mente che viene così parassitata dall’interno. Spesso quello che si determina è il crearsi di un doppio registro interno e interattivo, come ben si comprende se si considerano gli effetti di un segreto familiare, capace di generare una precoce scissione tra aspetti accettati e accettabili, che vivono allo scoperto nella vita familiare e aspetti nascosti, scissi o negati che invece corrispondono al segreto. La creazione di personalità con una identità duale o multipla può essere riferita a tali esperienze. Il problema si fa rilevante quando la necessità di acquisire uno stato di autonomia e separatezza comporta un processo di disidentificazione o di trasformazione creativa delle precedenti identificazioni. Questo processo comporta una selezione, una trasformazione, forse un abbandono delle precedenti eredità fantasmatiche che abbiamo ricevuto dagli altri, specialmente dai nostri genitori. 6. IL SEGRETO IN PSICHIATRIA La nevrosi è, per Freud, l’espressione sintomatica di un conflitto fra un desiderio inconscio fomentato e mantenuto dalla sessualità infantile rimossa e le difese messe in atto dall’Io. Al momento dell’entrata nel periodo di latenza il desiderio d’incesto derivato dall’Edipo verrà massicciamente rimosso, continuando comunque ad essere presente e a manifestarsi in modo diverso a secondo delle fissazioni che si sono create nei vari stadi dello sviluppo psicobiologico di un individuo. Un pensiero o un’idea ossessiva può essere un sintomo che ha la funzione di soddisfare simbolicamente il desiderio rimosso, abbassando la tensione che si è creata; intanto lo stesso sintomo diventa la punizione per aver tentato, anche solo simbolicamente, di soddisfare il desiderio proibito. Allorché si verifica una trasgressione del tabù dell’incesto, poiché si realizza un desiderio insieme attraente e pericoloso, compare un senso di colpa particolarmente forte che attiva la necessità di espiare. L’espiazione è attuata grazie alla sofferenza che il sintomo produce. Nella nevrosi ossessiva, che si origina da un rimosso iniziatico-anale, l’elemento fondante è il segreto. Peluffo osserva che il segreto a volte può essere conscio e riferirsi nel suo contenuto manifesto ad un fatto più o meno recente «che per spostamento e condensazione dà una forma a una catena di “segreti”, che portano tutti lo stesso affetto: aver fatto qualche cosa che non si doveva fare, aver detto qualche cosa che non si doveva dire, aver visto (o udito) qualche cosa che non si doveva né vedere, né udire». Si verifica allora che dal segreto si origina l’autoaccusa. Il soggetto per introiezione si assume la colpa di un evento traumatizzante subito passivamente, evento catastrofico che ha scatenato un’ondata di aggressività distruttiva verso la situazione traumatica ed i suoi personaggi, che rifluiscono nello psichismo del soggetto con due conseguenze: a) uno stato perenne di colpa e autoaccusa; 11 b) una ricerca perenne di ricostruire l’evento traumatizzante, nel tentativo di diventare attivo rispetto ad una situazione subita passivamente, e di modificarla. Quando la patologia tende a privare il paziente della possibilità di scambiare elementi personali con altri e tende a svuotarlo su un piano emotivo, allora può succedere che egli crei “falsi segreti” per compensare la mancanza di uno spazio personale interno. Talora questi falsi segreti trattengono frammenti di identità del soggetto impedendogli di regredire in una catastrofe psicotica. Gli operatori che si occupano di individui con rilevanti deficit emotivi e relazionali e che tendono a fuggire dalla relazione terapeutica possono farsi carico di costoro stando ad osservarli in una prima fase, intervento indispensabile per raccogliere indicazioni atte ad orientare il trattamento, e stabilendo con loro un legame di fiducia che permetterà poi l’approccio di altri membri dell’èquipe. Il malato con gravi turbe psichiche, sia che siano legate ad esperienze traumatiche subite, sia che derivino dalla sua profonda sensazione di vulnerabilità, deve esercitare un controllo sugli altri, specie sulle persone significative, difendendosi da cambiamenti che, pur se apparentemente vantaggiosi, rischiano di compromettere la sua sicurezza perché implicanti richieste più impegnative o maggior coinvolgimento emotivo. Talora individui psichicamente molto disturbati hanno bisogno che il terapeuta appaia loro poco pericoloso ed intrusivo, che mantenga segrete le proprie conoscenze, che non faccia interpretazioni e temporeggi nel prescrivere sedativi. Quando hanno ottenuto dal terapeuta il rispetto di questi requisiti, rassicurati, questi malati possono aprire spiragli nella barriera difensiva che hanno eretta, perché il cambiamento proposto e temuto potrebbe essere motivo di destrutturazione psichica. È di frequente riscontro il fatto che il malato di mente tenda a manifestare alterazioni percettive e vissuti deliranti prevalentemente in alcuni contesti, tenendoli segreti in altri, specie all’esterno del gruppo di persone con cui ha confidenza. Si configura cioè una follia che si differenzia in pubblica o privata, nel senso che rimane segreta quando il soggetto incontra persone con cui non ha confidenza e si rivela con quelle di cui ha più fiducia. Talvolta questi pazienti fanno “dono” ai terapeuti della loro follia quando vogliono “metterli alla prova” o ritengono siano in grado di accogliere la loro “particolarità”. Il terapeuta è spesso chiamato ad accettare l’inglobamento nel delirio, che lo rende “persecutore”, egli dovrà, allora, saper utilizzare il linguaggio psicotico, mantenendolo in quell’ambito di “gioco” che rappresenta una iniziale possibilità di elaborazione del delirio stesso. Allorché si affronta l’aspetto patologico, si rileva che l’atto stesso del creare o perpetuare un segreto può tradursi in un “sequestro” di aspetti o parti della vita emotiva individuale o familiare, anche di generazioni diverse di quella del paziente. Ciò che rende il segreto patologico e patogeno è proprio il “sequestro” di parti emotive più che l’oggetto del segreto. Quando si sottrae spazio in un’area dove potenzialmente può instaurarsi una reciprocità elaborativa tra l’Io e l’altro e tra l’Io e se stesso, si produce un arresto del percorso temporale soggettivo, perché si perpetua la ripetizione ossessiva delle conseguenze dell’evento traumatico. Gli effetti più rilevanti riguardano l’identità del soggetto, dato che egli vive uno sdoppiamento, all’interno del quale una sua parte è in relazione con il segreto e con la realtà sequestrata che esso rappresenta. Parallelamente, anche all’interno della famiglia si crea uno stato di scissione difficilmente superabile, perché altrimenti il soggetto potrebbe integrare un aspetto alienante e sequestrato che non appartiene alla sua storia e che egli non ha mai conosciuto personalmente. I sintomi più gravi o talune manifestazioni psicosomatiche sono espressione del punto di incontro-scontro tra questi due registri, potendo rappresentare la soluzione paradossale per il toccarsi e vicendevole conoscersi di queste due strade parallele. A volte si assiste, all’interno di incontri terapeutici, allo svelarsi di aspetti che rimandano in modi più o meno diretto al segreto, magari attraverso i sogni di uno o di più membri della famiglia. Spesso la richiesta di mantenere il segreto è connessa ad alcuni argomenti che, pur variando da paziente a paziente, possono essere considerati ricorrenti e significativi. 12 Un primo contenuto riguarda la sessualità: spesso il paziente parla di sesso come di un segreto tra lui e l’interlocutore (anche se altri malati, invece, come è noto, non hanno nessuna inibizione). Il terapeuta non può limitarsi ad una osservazione passiva ma deve porsi come intermediario tra la realtà fantastica, a volte angosciante, di cui il paziente si sente parte, e la dimensione rassicurante della presa in carico terapeutica. 7. CONCLUSIONI Il segreto è spesso un modo per acquisire potere sull’altro, come tale ha una funzione sociale che viene riconosciuta ed accettata. Se, però, il segreto coinvolge soggetti ancora dipendenti da altri, per età od altri fattori sociofamiliari, allora impedisce all’individuo di evolvere sul piano emotivo e relazionale. Ciò avviene perché l’ambiente in cui il segreto ha motivo di mantenersi impedisce la possibilità di elaborazione del segreto e della causa per cui è richiesta la segretezza. Quando il segreto cela abusi e violenze, spesso configura reati di cui l’abusato non è consapevole e di cui si colpevolizza. La colpa non può essere alleviata se il segreto è un “mito” familiare, ovvero condiviso da almeno un altro componente della famiglia. Svelare il segreto sarebbe catastrofico, perché renderebbe il soggetto privo di ogni storia e di ogni legame, in balia della sua insicurezza ed isolato, reo di essere fonte di sofferenza per tutta la famiglia. Spesso incesto ed abusi producono una sofferenza psichica che può essere transitoria, se la famiglia ascolta e comprende ciò che è accaduto al minore e lo mette in condizione di mobilizzare le sue capacità evolutive, o permanente se la stessa famiglia non ha capacità o possibilità di sostegno e comprensione. In ogni caso l’abuso creerà nella vittima dubbi sulla propria identità ed insicurezza. L’abusato, oltre a potere trasformarsi, in condizioni sfavorevoli, abusante, può produrre tutta una serie di patologie che vanno dai disturbi di personalità, alle nevrosi, alla depressione, alla dissociazione ed alla psicosi. È frequente il riscontro di segreti in molti pazienti con disturbi psichiatrici rilevanti, talvolta concernenti aspetti di malattia, altre funzioni libere da malattia. Alcuni pazienti esprimono parti creative di sé svelando “falsi segreti”, partecipano all’operatore la loro fiducia facendogli “dono” di loro segreti, spesso riguardanti aspetti di malattia. Anche operatori e professionisti hanno spesso a che fare con il segreto, sia per aspetti normativi e deontologici che per motivi derivanti dall’organizzazione dei servizi socio-sanitari. Dr. Giuseppe Giunta Psichiatra BIBLIOGRAFIA AA. VV., Maltrattamento infantile in famiglia e servizi sociali, Unicopli, Milano, 1988. 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