Versioni del Sé e interazioni patologiche

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Versioni del Sé e interazioni patologiche
Versioni del Sé e interazioni patologiche
Anna Maria Nicolò*
Particolari tipi di patologie come le psicosi o i disturbi borderline, particolari età della vita come
l'adolescenza, particolari setting psicoterapeutici come quelli con la coppia o la famiglia
costituiscono una sfida per lo psicoanalista non solo sul piano delle modificazioni tecniche
necessarie per il trattamento, ma soprattutto dal punto di vista dei modelli teorici a cui fare
riferimento per una più efficace comprensione.
Tutte le situazioni su citate, «psicosi, borderline, adolescenza, coppia, famiglia», presuppongono
una più lucida comprensione del rapporto tra realtà esterna e realtà interna, tra l'Io e l'altro, tra
il Sé e l'oggetto esterno e reale.
Purtroppo una larga parte dei modelli psicoanalitici, grazie ai quali ci siamo Formati, ci hanno
abituato a pensare all'individuo, come a qualcosa di non divisibile, un'unità 'dotata di una
struttura che, all'incirca, completa grossolanamente la sua formazione nei suoi primi tre anni di
vita.
Tale punto di vista non rende a pieno ragione di molti fenomeni normali e patologici come, ad
esempio, taluni comportamenti presenti in persone normali sottoposte a situazioni di stress,
come si è visto in guerra o nei campi di concentramento, ovvero situazioni patologiche come la
diffusione dell'identità, Descritta da Erikson in taluni adolescenti gravi o presente nei borderline,
né rende ragione delle situazioni di folie à deux. D'altronde con un punto di vista classico non
riusciamo a spiegarci il radicale cambiamento di atteggiamenti, di -modalità relazionali, di
personalità che molte persone «normali» assumono, ad esempio, in presenza del partner o della
loro famiglia di origine rispetto, invece, alla immagine di sé che mostrano davanti ad estranei o
nel loro lavoro.
Se, invece, ci soffermiamo su tali fenomeni tre aspetti ci colpiscono: il primo riguarda la natura
delle interazioni che ciascuno di noi intrattiene con gli Atri significativi; il secondo riguarda il
valore del contesto o clima emotivo in cui queste interazioni sono inserite e il terzo è
l'organizzazione del Sé.
Per quanto attiene a quest'ultimo punto, mi sembra che molti psicoanalisti1 abbiano cominciato a
mettere in discussione la concezione di un Sé unitario e monolitico propendendo piuttosto per la
presenza, dentro ognuno di noi, di un certo numero di «persone», oggetti interni o parti che
talora sono addirittura in contrapposizione o conflitto gli uni con gli altri. Questi AA affermano
che il nostro senso di identità nasce piuttosto dalla consapevolezza della presenza di questi
aspetti in interazione tra loro.
Un tale punto di vista, se considerato solo in questa prospettiva, non mi sembra lontano dalla
concezione kleiniana, come notano Tabak de Bianchedi et al. (1984) a proposito dell'esistenza di
un mondo interno ove l'Io e i suoi oggetti personificati, «come cittadini del mondo interno»,
danno vita ad un vero e proprio dramma caratterizzato da legami con qualità distruttive o riparatine e talora con un'esistenza indipendente gli uni dagli altri.
J. Mc Dougall (6), infine, parla dell'esistenza di un teatro interno in cui recitano i nostri
personaggi nascosti con il loro ruolo e in cui «il soggettista è chiamato lo». Per la psicoanalista
francese si raggiunge «un'identità coesiva» quando «molti Io contenuti nell'Io ufficiale di ognuno
si ascoltano l'un l'altro» scoprendo paradossi e contraddizioni. Anche Harold Searles (9),
attraverso uno studio accurato sulla personalità borderline, arriva ad affermare che il senso di
identità dell'individuo sano è ben lungi dall'essere unitario. Tanto più una persona è sana *
Psicoanalista, Società psicoanalitica italiana, psichiatra.
A partire dalla teoria delle relazioni oggettuali di Fairbairn, che descriveva la personalità come composta di
Io sussidiari e oggetti interni, intesi come strutture dinamiche con specifiche caratteristiche, molti autori
hanno sviluppato concetti analoghi.
Nel suo stimolante libro «The matrix of the mind», Ogden (10) estrapola concetti analoghi dai lavori di autori
significativi come Winnicott e Bion.
Egli ci ricorda la bipartizione proposta da Winnicott in reo e falso Sé, intesi come organizzazioni che
funzionano l’uno rispetto all’altra all’interno della personalità. Infine, secondo Ogden, anche Bion concepisce
l’individuo come «composto di multiple suborganizzazioni della personalità, ciascuna capace di fun<ionare in
modo semiautonomo», ma anche capace di comprendere e processare le identificazioni proiettive di un altro
(Ogden).
1
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secondo l'analista americano - tanto più è consapevole delle innumerevoli persone che lo
costituiscono, ciascuna delle quali rappresenta un aspetto del suo senso di identità.
S.A. Mitchell recentemente (8) si sofferma su questi temi approfondendo il rapporto tra il Sé
come configurazione relazionale, multipla e discontinua e un altro aspetto del Sé inteso come
«integrale e continuo».
«Il primo fa riferimento alle multiple configurazioni del Sé, variamente strutturate nei diversi
contesti relazionali. Il secondo fa riferimento all'esperienza soggettiva della configurazione nel
processo del suo sviluppo, attività di cui si ha esperienza attraverso i differenti schemi
rappresentativi» (Mitchell).
Per questo autore le versioni multiple del Sé, più che rappresentazioni, sono veri e propri modi di
essere, organizzazioni.
Tali affermazioni ci possono portare ad una perturbante sensazione di confusione e incertezza
intorno alla coscienza di noi stessi e del nostro rapporto con l'altro e su chi abbiamo di fronte.
Questa sensazione è alleviata dalla considerazione che, a fronte di differenti e multiple versioni
del Sé e rappresentazioni corrispondenti, vi è anche il senso di una continuità soggettiva che ci
accompagna e che unifica, forse illusoriamente, questi differenti modi di essere. L'entità dei
processi di scissione tra le configurazioni del Sé è il meccanismo che differenzia le situazioni normali dai processi di identità multiple dei borderline e degli psicotici di modo che questi ultimi
soffrono per un senso di mancanza nella continuità dell'esperienza e nella coesione interna.
Quello che è unificante e trasformativo nell'esperienza normale è invece la possibilità di dialogo
interno tra queste differenti rappresentazioni, di continuità e di contiguità tra esse.
Potremmo perciò affermare che nella personalità normale, le differenti versioni sono contigue, in
relazione tra esse e sono per certi versi abbastanza simili, al contrario di situazioni francamente
patologiche che la letteratura ha rappresentato in modo mirabile nello sdoppiamento tra dr. Jekill
e Mr. Hyde, l'uno (almeno fino ad un certo punto della storia) ignaro dell'esistenza dell'altro.
Un tal punto di vista ci consente una comprensione più larga di quanto avviene anche nel setting
duale classico e può anche mutare radicalmente le nostre capacità diagnostiche, nonché le
prospettive terapeutiche. Anche nel setting analitico, il paziente mostra le differenti persone che
lo costituiscono a seconda dell'analista che gli sta di fronte o dei differenti momenti del processo
analitico. Potremmo anzi dire che un'analisi riuscita è stata capace di portare alla luce, rendere
consapevoli e integrare tra loro le numerose versioni del sé del paziente.
La difficoltà che però nasce in questa prospettiva è, naturalmente, il dover considerare che l'altro
che il paziente incontra nel setting e in interazione con il quale (per quanto ci sforziamo di essere
neutrali) il paziente mostra uno specifico aspetto di sé o un aspetto della sua identità, siamo
proprio noi con le nostre caratteristiche personali, i nostri conflitti e la nostra storia.
Versioni del Sé e interazioni nella coppia
In special modo il lavoro con la coppia e con la famiglia ci mostra come relazioni reali con
differenti partner possono mettere in luce diverse versioni del Sé o anche che le successive fasi
del ciclo vitale di una persona, di una coppia o di una famiglia possono contribuire ad
attualizzare aspetti che erano rimasti nascosti o piuttosto inattivi in certi momenti,
evidenziandosi così in altri.
Madri o coppie genitoriali, adeguate per figli bambini, si rivelano invece incapaci e fonti di
conflitto all'epoca dell'adolescenza degli stessi figli.
Certi incontri perciò possono rivelarsi traumatici o particolarmente trasformativi a seconda di
numerosi elementi, interni alla persona o reali, che connotano il senso di quell'e esperienze.
Ad esempio, sappiamo che in adolescenza la rottura di un legame, frequentemente un legame
amoroso (ad esempio un abbandono o un lutto), può scatenare l'insorgenza di una grave
patologia.
A volte invece l'altro ha una funzione di supporto o favorisce spinte trasformatine già presenti
nella personalità.
A determinare la traumaticità eventuale di quell'esperienza non concorrono solo l'intensità e la
qualità delle proiezioni e delle identificazioni proiettive di cui investiamo l'oggetto, ma anche la
risposta che l'oggetto ci dà e il momento in cui l'esperienza si verifica, oltre che, naturalmente,
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fattori per noi imponderabili e casuali.
Afferma Meltzer (7): «Ognuno di noi ha molteplici relazioni: alcune collegate con la parte sana
della personalità, altre con quella malata o addirittura psicotica. Per questo quasi tutte le
persone presentano una certa instabilità nel funzionamento della personalità, a seconda degli
incontri che fanno in determinati momenti».
La traumaticità di questo incontro può dipendere così da un equilibrio peculiare tra i fattori
interni quali la storia del soggetto, l'organizzazione della personalità, il funzionamento mentale
della persona, la capacità e la creatività nel trovare delle risposte adeguate a situazioni difficili e
dall'altra i fattori esterni quali la natura dell'evento o una quota eccessiva di eccitazione o di sofferenza che l'incontro con l'altro comporta.
Dobbiamo perciò parlare, nel valutare questo genere di esperienze (e forse nel formulare una
qualsiasi diagnosi psicologica), di una funzione relativa e idiosincratica per ogni persona,
rappresentata dalla sua capacità di far fronte, contenere ed elaborare gli eventi esterni e di
interagire con l'altro anche a livelli profondi senza che questo si riveli pericoloso.
In questo caso la traumaticità è data dal precipitarsi e coagularsi in un unico momento di
molteplici fattori (anche preesistenti nella personalità del soggetto), che non avrebbero di per sé
avuto una espressività patogena, ma la cui sommatività casuale diventa scatenante in quel
momento specifico e in quella fase della vita. Per fortuna, a volte, l'incontro con l'altro si rivela
trasformativo perché mette in luce qualità o aspetti prima sconosciuti o versioni del Sé potenziali
e nascoste.
Dobbiamo perciò riconsiderare i processi collusivi non solo come una sorta di complementarietà
inconscia basata su processi di identificazione proiettiva reciproca, così come descritto da molti
AA (tra cui Dicks, Giannakoulas, Giannotti, Willi, Norsa, Zavattini, Giacometti, Montinari e io
stessa).
Credo piuttosto che nel rapporto con l'altro ciascuno possa attivare una versione di sé
complementare che può arrivare, nelle situazioni estreme, fino a travolgere quella che fino a
quel momento era l'identità con cui la persona era convissuta ed era conosciuta nel suo
ambiente. Nel linguaggio quotidiano tutto ciò è talora espresso dalla frase che sentiamo
pronunciare all'indirizzo di qualcuno, amico o figlio o fratello, che dopo un incontro sembra
essere cambiato radicalmente: «sei diventato proprio un altro».
Riferirò adesso un caso che è, a mio avviso, utile per una migliore comprensione di quanto detto
fin ora.
Elena, una donna di 33 anni, si rivolse all'analisi principalmente per due motivi: a causa
dell'emergere di un disturbo di natura psicosomatica e per essere aiutata in occasione della
separazione che stava attuando dal marito da lei sposato in giovanissima età.
Elena aveva un lavoro brillante che la impegnava e la portava spesso all'estero e un figlio unico, all'epoca un
bambino, affetto da un'epilessia non grave. Elena è la prima di numerosi fratelli che aveva accudito per molti
anni, negando la rabbia connessa. Ha avuto un rapporto distante dalla madre impegnata nelle successive
gravidanze e un coinvolgimento edipico intenso verso il padre, da lei descritto come preso dalle sue attività
intellettuali e dal suo amore appassionato per la moglie.
Elena sposa, per protesta verso la famiglia e per poter sfuggire le difficoltà economiche, un uomo molto più
grande di lei, che l'affascina proprio per il suo atteggiamento da playboy. Arriva successivamente a separarsi
a causa dei frequenti tradimenti del marito che sembra essere per Elena una figura paterna che l'attira e la
respinge ad un tempo. Dopo la separazione, Elena ha relazioni con differenti amanti fino al momento in cui
viene particolarmente coinvolta da un uomo che sembra essere di primo acchito una persona seria ed
equilibrata, ma che ben presto mette in atto con lei una relazione sado-masochista con aspetti di gelosia
paranoidea ai limiti del delirio. La situazione si rivela potenzialmente pericolosa anche per l'incolumità della
paziente che però è trascinata da una sorta di attrazione fatale e permane a lungo in questa relazione per
quanto ne riconosca le caratteristiche distruttive. Dopo la separazione dal marito e con l'inizio della relazione
con il secondo uomo, i disturbi psicosomatici della paziente si attenuano e per altro non si presentano più
neppure le crisi epilettiche che il figlio di Elena aveva saltuariamente presentato.
Un sogno al secondo anno di analisi ben descrive la dinamica esistente tra Elena e ciascuno dei suoi
compagni.
«Nella prima parte del sogno dialogava con il suo primo marito a proposito della separazione e gli chiedeva
di riavere il suo bambino, ma quando il marito glielo ridava, un altro bambino copia del primo, restava nelle
mani del marito. Questo gioco così si ripeteva all'infinito.
Nella seconda parte del sogno si trovava con Ennio, il suo attuale amante, e riceveva da sconosciuti un plico
contenente foto imbarazzanti. Si lamentava quindi con Ennio accusandolo di aver tradito il loro segreto e, in
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pratica, gli rifaceva nel sogno le stesse accuse di gelosia quasi deliranti che Ennio le aveva fatto qualche
mese prima».Nel prosieguo della seduta la paziente commentava intorno alle difficoltà, anche legali, a separarsi dal marito e si diceva colpita dal fatto che, nel sogno, aveva un comportamento Simile a quello del suo
amante nella realtà.
Mi sembra che questa situazione clinica e in particolare questo sogno si prestino bene ad
illustrare quanto ho cercato di discutere teoricamente. All'inizio dell'analisi di questa paziente
sembrava fossero in luce problematiche legate ad un Edipo non risolto che per altro l'aveva
portata ad un legame matrimoniale in età quasi adolescenziale con un uomo che ripeteva per lei
caratteristiche legate alla figura paterna. Da questo legame la paziente faceva fatica ad uscire e
a crescere, separandosi definitivamente dal suo mondo familiare e investendo, anche con i suoi
aspetti infantili, su altri oggetti.
Tuttavia nei nuovi investimenti, la relazione con Ennio, come è anche esemplificata nel sogno, la
paziente mette in evidenza aspetti di sé che attengono ad un funzionamento diverso della mente
o forse caratterizzato da qualità in parte psicotiche o perverse, come è messo in luce dalla
gelosia delirante o dalle componenti esibizionistiche voyeristiche del sogno (le fotografie
imbarazzanti che le vengono inviate da sconosciuti).
Anche il bambino, che rimane sempre nelle mani del primo marito, rappresenta una sorta di
sosia-alterego delle parti infantili che, malgrado i tentativi di separazione, rimane nella
situazione di primitivo attaccamento al marito, determinando così il permanere di una situazione
al momento difficilmente superabile.
Occorre inoltre segnalare il miglioramento della sintomatologia a carico del figlio di Elena che è
contemporanea alla nuova relazione di Elena con Ennio. Alla luce di quanto è avvenuto,
possiamo perciò considerare questa somatizzazione come l'espressione di aspetti profondi
proiettati da Elena nel figlio che, successivamente, trovarono nella relazione della paziente con
Ennio una via più mentale e relazionale di evacuazione dell'angoscia.
La paziente continuò ad interrogarsi per molti anni intorno alla natura della relazione che l'aveva
legata per molto tempo ad Ennio e che la faceva trovare, senza che lei lo volesse, in situazioni
frequentemente pericolose e di cui lei si rendeva conto solo a posteriori o in seduta,
determinandomi anche un'intensa preoccupazione per il suo benessere.
Ella si rendeva così conto di trovarsi coinvolta, sia pure per periodi limitati di tempo, in
interazioni mai conosciute prima con qualità perverse, psicotiche o paranoiche che riguardavano
tanto lei che il suo compagno e che malgrado tutto scattavano perché erano veicolate da
un'intensa eccitazione che sembrava essere per la paziente una singolare sorgente di vita.
La decisione della paziente di interrompere in fine questo legame con il suo amante, comportò
l'emergere di aspetti depressivi profondi.
Per concludere ci possiamo domandare quanto il sentirsi rassicurata dall'analisi abbia consentito
alla paziente di vivere e sostenere un'esperienza che ella aveva fino a quel momento tenuto a
bada ed espresso attraverso multiple gravi somatizzazioni.
Questa esperienza le era stata indotta e scatenata da una relazione (quella con Ennio) con una
qualità decisamente patologica e che aveva messo in luce una versione del Sé complementare a
quella relazione e diversa da quella che ella aveva vissuto con il marito e nel resto della sua vita.
Curarsi nell'altro in famiglia
Oltre che mettere in luce aspetti di sé prima sconosciuti, l'utilizzazione dell'altro nella relazione
può avere l'effetto di stabilizzare la personalità, di mantenere la coesione del Sé, di definire
l'identità, ecc. Nelle situazioni più francamente patologiche, soprattutto se in età evolutiva, la
mente dell'altro è colonizzata e parassitata da identificazioni proiettive massicce che vengono
così evacuate e controllate fuori di sé.
Per usare le parole di Freud nel Perturbante: «dei processi psichici si trasmettono dall'una
all'altra persona in modo che l'una partecipa a quello che l'altra fa, pensa o prova; noi troviamo
così una persona identificata con un'altra al punto che essa è turbata nel sentimento del suo
proprio Io, o mette l'Io estraneo al posto del suo». L'effetto di un tal processo è l'ottenere attraverso questa sorta di parassitismo psicologico, un apparente stato di salute dell'uno a spese di
quello dell'altro. Questo può determinare quelle situazioni grottesche tanto spesso osservate
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nelle famiglie con un figlio psicotico o borderline ove proprio il paziente si mostra capace di un
certo contatto con il mondo interno e sia pur attraverso espressioni sintomatiche. capace di
esprimere una sofferenza che viene invece scissa, negata, proiettata, agita o evacuata nel
concreto o nel somatico per quanto riguarda gli altri membri della famiglia.
Spesso osserviamo in queste situazioni che la coazione a ripetere passate relazioni non si
esprime nella continuità temporale della vita di una persona (ad esempio un genitore), ma
invece nella generazione seguente, nella vita di un figlio.
Così una relazione fantasmaticamente incestuosa o omicida con il proprio genitore (il nonno)
viene tenuta a bada nel corso della propria vita, ma si presenta, inalterata nella qualità, tra il
padre e il figlio (il nipote), ad esempio.
In questo caso non sto tanto parlando della coazione a riattivare conflitti del passato per poterli
controllare o dominare, quanto piuttosto, come affermano studi più recenti, di una sorta di
riattivazione di affetti e qualità relazionali2 che sono stimolate da condizioni interattive presenti
che in qualche misura tendono a ripetere o rimandano a condizioni interattive del passato.
Questa tendenza a ripetere, a riattivare, a ristampare «un cliché (o anche più di uno)» per usare
le parole di Freud nella Dinamica della traslazione (1912), o invece avviare un'esperienza che
può rivelarsi trasformativi dipende, come abbiamo già visto, da molteplici fattori, non ultima la
risposta dell'altro.
Nelle situazioni familiari con un paziente gravemente borderline o psicotico, la lotta a cui
assistiamo è quella per districare la propria vera identità da quelle pseudo-identità difensive alla
cui costituzione ha contribuito la famiglia, talora in più generazioni, e che vengono
continuativamente confermate nelle interazioni quotidiane con il paziente.
Descriverò adesso il caso di Cassio, un ragazzo di 15 anni, il cui padre ha effettuato una richiesta
di ricovero ospedaliero.
Negli ultimi cinque mesi il ragazzo si è progressivamente isolato, passa il suo tempo chiuso nella sua stanza
e ha paura di essere contaminato nel rapporto con gli altri ragazzi o con oggetti accidentali per la strada
diventando omosessuale. Le prime consultazioni effettuate3 spaventano il medico che lo intervista. Cassio
sembra sull'orlo di uno scompenso.
Non dà la mano al medico per paura, ha un atteggiamento mutacico, si guarda intorno con aria sospettosa.
Nel corso della prima seduta familiare il padre che si presenta some una sorta di artista originale e filosofo, ci
racconta, derubando lo spazio del figlio sempre più zitto e intimidito, la situazione. Cassio è simile a lui,
dubbioso e pieno di perplessità. Suonava la chitarra e frequentava con soddisfazione una squadra di calcio,
ma dopo un litigio con un compagno si è fatto espellere dalla squadra. Già da alcuni mesi aveva difficoltà a
frequentare gli spogliatoi con gli altri compagni. Il padre, che ritiene di essere l'unico confidente di Cassio,
come il figlio stesso conferma, ha pensato che non sarebbe riuscito a curare da solo il figlio.
Nel corso della seduta successiva il papà racconta la sua storia e quella della famiglia. Cassio è l'ultimo di
quattro figli, ad ognuno dei quali egli ha imposto un nome particolare. Cassio è il nome di uno dei tirannicidi
di Cesare, ma a differenza di Bruto è il più insicuro, pensoso e dubbioso», dice il padre. La madre sembra
seguire con scarso Interesse quanto dice il marito.
È una donna austera, con una bella chioma bionda raccolta intorno al viso. Interviene solo per darci delle
nozioni di realtà, affidando al marito ogni altro commento. Il padre di Cassio, Eolo, è figlio di un artigiano,
anarchico, autoritario con i figli, ma pieno di «Eros» (come egli dice). Eolo ha sempre odiato il padre e solo
alla sua morte si è sentito libero ed egli sostiene che è naturale avere sentimenti omicidi verso il padre.
Forse se lui morisse, Cassio sarebbe libero.
Parla con disprezzo del suo lavoro di impiegato e racconta invece di libri di poesie che ha scritto e della sua
vita da giovane esibendo un'attività da Don Giovanni. D'altronde, aggiunge che questo era nei patti prematrimoniali.
La moglie conferma, aggiungendo che il marito le lasciava gran parte dello stipendio e i figli da gestire. Lei,
invece, viene da una famiglia molto unita: il padre, un modesto artigiano, lavorava a casa in compagnia della
madre.
La moglie - secondo il padre - non ha Eros; lui l'ha invitata a tagliarsi i capelli, ma lei si è rifiutata. Ci legge
quindi una poesia dedicata alla moglie, che si intitola «Non sei più donna». La signora sembra commuoversi;
poi aggiunge che lei non si taglierà mai i capelli perché questi sono i capricci del marito. A questo proposito il
padre aggiunge la sua preoccupazione che il figlio si tagli continuamente la sua prima peluria del volto,
2
Bion parla del trasfert come «un modello di movimento di sentimenti ed idee da una sfera di applicabilità
ad un’altra» (1).
3
Il caso è stato visto, per le sedute familiari dal dott. Ferrara e da me e per quelle individuali dal dott. Bosi,
presso l'Istituto di neuropsichiatria infantile dell'Università di Roma.
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mentre la madre sostiene con tono rassicurante che Cassio lo fa per rafforzare la sua iniziale barba.
I genitori ci raccontano quindi di come, a differenza degli altri figli, Cassio è stato seguito particolarmente dal
padre. Dopo un ricovero ospedaliero nel corso del quale si temeva che Eolo morisse (ma che si era rivelato a
conti fatti un episodio di grave depressione), egli sente di poter rinascere e ricomincia quindi ad interessarsi
del figlio, allora di nove anni, passando molto tempo ad educarlo e istruirlo.
Mentre si svolgono questi colloqui, anche Cassio effettua delle consultazioni con un altro collega. Mentre la
prima si rivela più difficile e faticosa, nelle altre due Cassio sembra permettersi un atteggiamento di maggior
fiducia e collaborazione arrivando a raccontare le sue preoccupazioni, la sua passione per la musica, e la
canzone «Romeo and Juliet». Parla della sua paura di dover lasciare la famiglia se fosse stato prescelto nella
squadra di calcio giovanile. Offre la mano spontaneamente al suo interlocutore e parla di come consideri se
stesso molto meno capace del padre, quanto a comprensione della realtà e profondità di pensiero.
Nell'ultima seduta effettuata con la coppia dei genitori, essi raccontano ciascuno i loro sogni.
La signora la notte prima della seduta ha sognato che «Cassio era un bambino piccolo che le stava ancora
attaccato al seno e lei si lamentava del fatto che questo figlio ancora non fosse cresciuto».
Eolo commenta (usando un neologismo) che la moglie «incestuosizza» il rapporto col figlio, mentre lui la
invita ad andare con lui in Giamaica, terra libera ed eccitante.
Alla fine Eolo quasi confessa il sogno fatto prima di iniziare la prima consultazione familiare: «Cassio cercava
di penetrare una donna dal volto sconosciuto, ma lui interviene e gli sposta il membro, di modo che il
ragazzo eiacula fuori. Cassio quindi piange».
Commenta quindi di averlo fatto forse per paura che Cassio si ammalasse di Aids.
Interromperò qui il resoconto delle sedute il cui significato mi sembra per certi versi chiaro di per
sé.
Su tanti punti potremmo soffermare la nostra attenzione: anzitutto il momento specifico in cui
avviene la richiesta di intervento: in questo caso l'adolescenza ove il tema del rimodellamento
dell'identità è in primo piano.
Potremmo anche soffermarci sulla pericolosa continua intrusione nello spazio mentale del figlio
da parte di un padre che ne aveva già in parte designato lo sviluppo fin dall'imposizione del
nome: Cassio, come il tirannicida dubbioso.
Potremmo anche osservare non solo le angosce di Cassio, ma anche quelle del padre relative
all'identità di genere e alle fantasie parricide che egli stesso aveva avuto verso il proprio padre e
che temeva che il figlio potesse mettere in atto contro di lui. Si generava così una situazione
paradossale: come padre -per permettere al figlio di esistere, avrebbe, secondo lui, dovuto
permettere la sua uccisione. Questo d'altronde rappresentava l'inversione fantasmatica di quanto
era avvenuto quando Cassio aveva nove anni; dopo il ricovero in ospedale, il padre aveva
trovato uno sbocco alla sua depressione, nel prendersi cura del figlio.
Per meglio chiarificare il tema trattato mi soffermerò invece sulla natura dei due sogni che la
coppia presenta nell'ultima seduta e che a seconda della formazione e dell'ottica dell'osservatore
possono essere attribuiti sia al rapporto tra la coppia e il figlio, che alle relazioni dei due coniugi
tra di loro.
In ambedue i sogni ci sono contenuti simili: la madre parla di un figlio piccolo ancora al seno,
anche se lo commenta con insofferenza, il padre narra di come impedisca al figlio di portare a
termine lo svolgimento di un atto sessuale adulto, relegando così il figlio ad una sorta di
masturbazione senza sbocco e disperdendone una possibilità creativa.
Ma se in ambedue i sogni il figlio viene reso e si rende bambino impotente e passivo (Cassio
piange), potremmo anche chiederci se il Cassio del sogno non rappresenta anche il padre-marito
nella coppia coniugale che la moglie mente (con insofferenza) ancora infantile e legato al suo
seno e che egli stesso nel suo sogno raffigura come un ragazzo impotente, poco aggressivo,
ancora ,sottomesso ad una parte adulta genitoriale che lo attacca narcisisticamente e lo
mortifica.
In questa duplice accezione che il sogno può assumere nella coppia, vediamo il significato della
relazione tra il mondo interno di ciascuno degli attori di questo dramma e le interazioni reali, ove
il figlio ad un tempo rappresenta se Messo, ma anche l'impossibilità della coppia di dare spazio
ad un figlio adulto e l'impossibilità del padre di separarsi e definire la propria identità rispetto al
proprio padre elaborando le proprie angosce depressive.
Mi sembra che il caso di Cassio sia particolarmente interessante per mostrare quanto una
valutazione globale dell'adolescente nel suo ambiente, attenta soprattutto alle connessioni tra il
mondo delle rappresentazioni interne t quello delle interazioni reali, possa modificare non solo il
giudizio sulla prognosi, ma anche la strategia terapeutica.
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Questo caso mi sembra mostri anche come nello stesso tempo una costellazione sintomatica o
una modalità di funzionamento o una complessità identificatoria siano da ascriversi da una parte
a vicissitudini di una storia personale, dall'altra a caratteristiche interattive che riguardano il
funzionamento della famiglia e in questo caso la particolare natura del funzionamento reciproco
della coppia genitoriale.
Un'accurata indagine deve pertanto tentare di districare i due aspetti al fine di mettere in luce la
preponderanza dell'uno o dell'altro e quindi orientare di conseguenza il progetto terapeutico.
In adolescenza tutto ciò si fa più rilevante per le continue oscillazioni proprie dell'età, per il
rinnovarsi delle tematiche identificatone e per le caratteristiche di labilità dei confini più marcate
che in altre età della vita.
Si può generare così una duplice coincidenza: la labilità dei confini propria dell'adolescenza si
somma con le caratteristiche proprie di alcune famiglie ove sembra che la differenziazione tra
l'Io e l'altro è più fragile.
Conclusioni:
I casi sopra esposti sembrano, a mio avviso, confermare l'ipotesi che una diagnosi che voglia
essere accurata deve, soprattutto in certe età della vita, tener conto non solo dei dati che
riguardano l'individuo, ma anche del contesto relazionale in cui è inserito e dei rapporti che egli
intrattiene con gli altri significativi.
A questo proposito alcune domande sono cruciali: quanti dei contenuti che il paziente ci
comunica nella seduta appartengono solamente al suo mondo fantasmatico? Quante altre
persone del suo presente o del suo passato ci parlano nel qui ed ora della seduta usando la sua
voce come veicolo di comunicazione? Quale delle versioni che il paziente possiede è in
interazione con noi e quali altre egli sta coprendo difensivamente?
Nel magistrale lavoro «On identification», la Klein utilizza una novella per illustrare
l'identificazione proiettiva.
È la storia di Fabien che acquista il potere magico di trasformarsi in altre persone grazie ad un
patto col diavolo. La Klein ci racconta le successive trasformazioni di Fabien nel corso di
successivi incontri con persone che in vario modo lo attiravano. L'effetto è questo strano
scambio di personalità che avviene tra i due.
Non mi soffermerò sul lavoro a tutti assai noto. Vorrei solo evidenziare come, a parte gli sviluppi
straordinari che questo saggio ha determinato, due notazioni sono pertinenti al mio discorso: 1)
l'incontro tra i due attori del dramma era determinato da una qualche forma di legame
reciproco; 2) la personalità in un certo senso si trasformava globalmente (Fabien entrava
totalmente con la sua mente nel corpo dell'altro, assumendone le fattezze e viceversa).
Non vorrei sembrare audace nell'affermare che, per quanto attiene alla novella, questa
trasformazione è una sorta di versione del sé complementare all'altro, una vera e propria
organizzazione (e non solo parti di sé o sentimenti o aspetti che vengono proiettati o evacuati,
come nel meccanismo dell'identificazione proiettiva successivamente discusso).
Queste versioni del sé, che possono sembrare difformi le une dalle altre nelle situazioni più
patologiche, si attualizzano nelle interazioni più significative come nei rapporti di coppia o in
famiglia.
A volte queste versioni sono delle pseudo-identità sovraimposte con cui la persona deve farei
conti, come nel caso di Cassio che mostrava facce di sé differenti nel setting individuale e in
quello familiare e il cui problema, tra gli altri, era quello di confrontarsi, elaborare, delimitare e
infine possibilmente rifiutare l'identità sovraimposte dalla collusione genitoriale.
Non mi pare si tratti solo in questo caso di «fattori ego-alieni» (come quelli descritti da
Winnicott, Khan, Bonaminio et al.) che funzionano in modo traumatico come oggetti non
assimilabili nella personalità.
Ci troviamo invece in famiglie con interazioni patologiche, di fronte a vere e proprie strutture
parallele, una sorta di identità che per un verso appartiene al Soggetto, ma per un altro è frutto
della costellazione familiare.
In altri casi invece, meno patologici, queste versioni più contigue e simili tra esse, rappresentano
i modi diversi e variegati con cui la nostra complessa realtà interna si mostra e si coniuga con
Interazioni, 0, 1992, pp. 37-48
l'altro a seconda delle necessità della Vita.
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