Manfredo Tafuri - CLEAN edizioni

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Manfredo Tafuri - CLEAN edizioni
a cura di
Orlando Di Marino
introduzione di
Benedetto Gravagnuolo
Copyright © 2009 CLEAN
via Diodato Lioy 19, 80134 Napoli
telefax 0815524419-5514309
www.cleanedizioni.it
[email protected]
Indice
Si ringrazia la professoressa Manuela M.
Morresi per la gentile concessione del
testo dell’autobiografia a pp.106-107 e
delle foto a pp. 1, 6, 25, 52-53, 91, 104.
Tutti i diritti riservati
È vietata ogni riproduzione
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ISBN 978-888497-149-4
Decostruire, interpretare, pensare
Benedetto Gravagnuolo
Editing
Anna Maria Cafiero Cosenza
19
Grafica
Costanzo Marciano
27
Tafuri e la crisi, spiegati agli studenti del primo anno
Marco Biraghi
Il Rinascimento di Tafuri
Manuela M. Morresi
55
L’evanescenza della trasgressione
Francesco Dal Co
69
Quid tum
Massimo Cacciari
Referenze fotografiche
Archivio Camillo Gubitosi p. 72
Elisabetta Catalano copyright © p. 1, copertina
Elio Montanari p. 67
Paolo Morachiello pp. 52-53
Manuela M. Morresi pp. 6, 108
Vassiliki Petridou p. 25
74
Tafuri e Roberto Pane:
colloquio inedito sul destino del lavoro storiografico
Giulio Pane
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Tafuri e l’architettura del manierismo
Francesco Starace
92
L’indispensabile inutilità della storia
Sandro Raffone
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Storia e architettura
Fabrizio Spirito
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Postfazione
Orlando Di Marino
in copertina
Manfredo Tafuri, 1980
(copyright © Elisabetta Catalano)
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Inediti
Autobiografia
Lettera di Manfredo Tafuri a Roberto Pane
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Bibliografia degli scritti di Tafuri
Federico Rosa
Manfredo Tafuri oltre la storia
Manfredo Tafuri a Palazzo Te, Mantova, ottobre 1989
( foto Manuela M. Morresi, Venezia)
Decostruire, interpretare, pensare
Benedetto Gravagnuolo
Manfredo Tafuri è stato qualcosa di più di uno storico dell’architettura. Al di là dei
confini nazionali, Tafuri è stato un autentico maestro di pensiero che ha dischiuso
nuovi orizzonti mentali, travalicando i tradizionali confini dell’esegesi storico-critica
sulle forme del costruire. Non foss’altro che per la latitudine dei suoi interessi culturali, sarebbe riduttivo incastonare i suoi scritti negli scaffali accademici della convenzionale specificità della storiografia architettonica.
Certo, i suoi libri ed i suoi saggi restano eloquenti esempi di una maniera diversa di
intendere le finalità, prima ancora che i metodi dell’ermeneutica delle cose edificate.
E sulla portata innovativa del suo “progetto storico”1 sono stati già versati fiumi di
inchiostro. Potrebbe, pertanto, apparire superfluo aggiungere una nuova tessera ad
un puzzle già pazientemente ricomposto2. Eppure, è forse non inutile tornare ad
interrogarsi sul senso profondo della sua fatica intellettuale.
Questo libro raccoglie le relazioni tenute presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici a Napoli da Marco Biraghi, Francesco Dal Co e Manuela M. Morresi - rispettivamente il 16 e 25 gennaio e il 13 febbraio 2006 - con l’aggiunta del testo dell’orazione funebre per Manfredo Tafuri tenuta a Venezia da Massimo Cacciari, nel cortile dei
Tolentini il 25 febbraio 1994, nonché gli apporti dialettici di Giulio Pane, Sandro
Raffone, Fabrizio Spirito e Francesco Starace. L’inziativa fu promossa dal corso di
Storia dell’Architettura nella fase in cui ricoprivo anche il ruolo di Preside della
Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Napoli Federico II.
Se non è andata dispersa l’eco di quei discorsi, si deve, soprattutto, all’impegno di
Orlando Di Marino, che ha curato con rigore questo volume, integrandolo con la
bibliografia redatta da Federico Rosa ed arricchendolo con due inediti, vale a dire
una lettera a Roberto Pane ed un breve profilo autobiografico stilato da Manfredo
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Manfredo Tafuri oltre la storia
Tafuri a Venezia, nel dicembre 1993, poco prima di spegnersi per una crisi cardiaca
il 23 febbraio 1994, all’età di 59 anni.
Da parte mia provo a ridurre in estrema sintesi alcune personali considerazioni sulla
straordinaria valenza metodologica della ricerca storiografica di Manfredo Tafuri - al
quale resto legato da sentimenti di profonda stima, benché non ne sia stato un diretto allievo - rinviando l’approfondimento tematico alla lettura dei più sistematici saggi raccolti in questo libro.
Ho letto per la prima volta un libro di Tafuri da studente, iscritto al primo anno della
Facoltà di Architettura nell’ormai lontano 1968, e da allora ho continuato a seguire
con costante interesse l’evoluzione del suo pensiero critico. Ma, non solo per la mia
generazione, Teoria e storia dell’architettura (1968) e Progetto e utopia (1973) restano due pietre miliari nel cammino verso un modo inedito di indagare ab imis l’essenza delle architetture scavando dati latenti sotto la coltre del passato.
Riletti a distanza di anni, quei testi mostrano pour cause i tratti distintintivi del rovente clima culturale in cui furono scritti. D’altronde anche lo storico sta nel tempo, interroga il passato a partire dalle domande del presente. Anche se le interpretazioni storiografiche, laddove comprovate con rigore analitico, non appartengono ai pregiudizi del tempo. Soprattutto le prefazioni rivelano, però, un’enfasi assertoria su questioni epistemologicamente complesse, attraversando diagonalmente eterogenei campi disciplinari. Nel crepuscolo di quei giorni eversivi, tali assiomi si stagliano in lontananza come stelle polari per le lunghe rotte esplorative sul ruolo dell’architettura nel
corso dei secoli. Sarebbe tuttavia fuorviante attribuire il notevole (benché controverso) successo di quei veri e propri cult-books al timbro di manifesti di un punto di
vista politicamente datato.
Si pensi al tono tranchant di alcuni postulati. “Come non è possibile fondare un’Economia Politica di classe, ma solo una critica di classe dell’Economia Politica - si
legge in Teorie e storia dell’architettura - così non è dato ‘anticipare’ un’architettura
di classe (un’architettura ‘per una società liberata’), ma è solo possibile introdurre
una critica di classe all’architettura”3. Rincarando la dose, in Progetto e utopia Tafuri enuncia una ancor più drastica tesi. “Ciò che ci interessa, in questa sede, è precisare quali siano i compiti che lo sviluppo capitalistico ha tolto all’architettura: che è
come dire, che esso ha tolto, in generale alle prefigurazioni ideologiche. Con la qual
cosa, si è condotti quasi automaticamente a scoprire quello che può apparire il
‘dramma’ dell’architettura, oggi: quello, cioè, di vedersi obbligata a tornare pura
architettura, istanza di forma priva di utopia, nei casi migliore, sublime inutilità.
Ma ai mistificanti tentativi di rivestire con panni ideologici l’architettura, preferiremo
sempre la sincerità di chi ha il coraggio di parlare di quella silenziosa e inattuale
‘purezza’. Anche se essa nasconde ancora un afflato ideologico, patetico per il suo
anacronismo”4.
L’estremismo concettuale non va confuso con un’adesione ortodossa al marxismo
di maniera. Anzi. È esplicita la presa di distanza dalla teoretica e non solo dalle tesi
allora egemoni nella cultura di sinistra di György Lukács e Galvano Della Volpe, ma
anche dal dernier cri della “scuola” di Herbert Marcuse (da Mitscherlich ad altri epigoni), nonché dal sociologismo definito “volgare” di Arnold Hauser. La radicale decostruzione delle impalcature ideologiche mira a ben riflettere verso due opposti
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Benedetto Gravagnuolo Decostruire, intrpretare, pensare
fronti: da un lato strappare le maschere dei mistificanti proclami dell’architettura
sedicente “progressista”, dall’altro - e con ancor più fermezza - demistificare l’ingenuità degli stereotipi analitici del gauchisme accademico. La ricerca deliberatamente protesa verso un’interpretazione non pregiudiziale degli eventi e dei documenti del
passato, storiograficamente indagati alla luce della ragione induttiva, conduce il pensiero critico di Manfredo Tafuri se non proprio sul terreno del nichilismo di ascendenza nietzschiana, di certo ai confini del puro scetticismo logico, scevro dall’ansia di
rasserenanti certezze. Ne deriva il peso enorme che assume fin dall’inizio nel progetto storico di Manfredo Tafuri la filologia come strumento ermeneutico privilegiato,
da intendere nell’accezione etimologica di autentica passione per il logos. Per quanto possa apparire paradossale, sostenere che l’architettura è - nel migliore dei casi
- una “sublime inutilità”, resta, al di là del contesto polemico in cui fu asserita, una
chiave di lettura incontrovertibilmente sensata. L’architettura è al di là dell’utile. Solo
una piccola parte dell’immensa produzione edilizia può essere riconosciuta come
tale, laddove il costruire sublima il mero scopo pratico nella poiesis culturale.
Per meglio intendere il senso di questa considerazione, bisogna fare un passo indietro. Bisogna risalire al ruolo che la storiografia dell’architettura ha assunto in Italia nel
secondo dopoguerra come disciplina “critica” estesa ad un campo culturale così
ampio da includere nei propri confini alcuni ineludibili fondamenti di filosofia, di estetica e di politica. Tali consapevoli sconfinamenti muovono dal ruolo pionieristico di
opinion-maker di una visione “democratica” dell’architettura giocato da Bruno Zevi5
- a partire dal suo ritorno dagli Stati Uniti d’America, in aperta antitesi con la tradizione tardopositivistica della scuola romana d’ascendenza giovannoniana - proseguendo non solo sulle tracce del maestro d’elezione Frank Lloyd Wright, ma anche
di Benedetto Croce, Franco Venturi, Carlo Rosselli ed altri. Verso un’architettura
organica (1945) resta un testo di rottura che prelude alla rilettura “partigiana” della
Storia dell’Architettura Moderna (1948), inequivocabilmente finalizzata ad orientare
le tendenze del gusto contemporanee, come lo stesso autore dichiarerà nel saggio
La storia come metodologia del fare architettura (prolusione dell’anno accademico
1963-64 nell’Università di Roma).
Sta di fatto che l’interpretazione della vicenda del “Movimento Moderno” - introdotta nell’immediato dopoguerra tra epici scontri accademici come questione nodale
non solo nel dibattito culturale, ma anche (benché gradualmente) nei corsi universitari - divenne la palestra dialettica per antonomasia di un aspro confronto tra antitetiche esegesi critiche. È in questa fase che furono tradotte le storie canoniche del
movimento - da Pevsner a Giedion6 - alle quali si aggiungensero, in una vorticosa
miscela di pensieri diversi, le prese di posizioni di critici ed architetti militanti, quali
Ernesto Nathan Rogers, Giuseppe Samonà e Ludovico Quaroni; le acute incursioni
di storici dell’arte, quali Giulio Carlo Argan, Cesare Brandi e Maurizio Calvesi; nonché le nuove narrazioni scritte da storici dell’architettura, tra i quali, oltre a Bruno
Zevi, Leonardo Benevolo, Renato De Fusco, Paolo Portoghesi7 ed altri.
In tale agone dialettico Manfredo Tafuri si cimentò da par suo in Teorie e storia dell’architettura, non solo stilando nel primo capitolo una lucida diagnosi su “L’architettura moderna e l’eclissi della storia”, quand’anche e soprattutto nel quarto capitolo
dichiarando il suo netto contrasto verso “La critica operativa”, ovvero mettendo in
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Manfredo Tafuri oltre la storia
guardia non solo gli architetti dall’uso ingenuo della “storia sul tavolo da disegno”,
ma, soprattutto, gli storici dalla tentazione di deformare l’interpretazione del passato per orientare le poetiche del presente.
“Ciò che comunemente si intende - puntualizza Tafuri - per critica operativa è un’analisi dell’architettura (o delle arti in generale), che abbia come suo obiettivo non un
astratto rilevamento, bensì la “progettazione” di un preciso indirizzo poetico, anticipato nelle sue strutture, e fatto scaturire da analisi storiche programmaticamente
finalizzate e deformate. In tale accezione la critica operativa rappresenta il punto di
incontro fra la storia e la progettazione. Anzi, si può ben dire che la critica operativa
progetta la storia passata proiettandola nel futuro”8.
Questo enunciato di metodo ha il valore di un postulato teoretico basilare, concettualmente esteso alla storiografia di ogni tempo e di ogni cultura e, in quanto tale,
non limitato alla demistificazione del racconto eroico del “movimento moderno” - da
Pevsner a Zevi - che verrà liquidato come una “favola” consolatoria nel successivo
e poderoso volume sulla Architettura contemporanea, redatto in collaborazione con
Francesco Dal Co9.
Per altri versi, Teorie e storia racchiude in nuce un lungimirante programma di ricerca, pazientemente declinato nel corso dei saggi succesivi, attraverso approfondimenti specifici, puntuali verifiche microtematiche e talvolta ripensamenti interpretativi conseguenziali ad inediti dati indagati.
Tutt’altro che scontata resta la tesi che indica le profonde e latenti radici dell’antistoricismo delle avanguardie novecentesche nel gesto simbolico di “de-storicizzazione”
varato da Brunelleschi, rompendo gli schemi costruttivi della tradizione gotica per
gettare un ponte soprastorico con il passato mitico dell’antichità. “La storia non è
quindi rappresentabile - chiosa Tafuri - in tale concezione, secondo una linea continua. Essa è piuttosto una spezzata, determinata da un criterio di scelta arbitrario
che ne fonda, volta per volta, valori e disvalori. Su tale ‘eroica’ cesura compiuta nel
tempo storico, si basano quattro secoli circa di ricerche architettoniche: ed in buona parte le attuali esperienze ne vengono condizionate”10. Da tale assunto discendono come corollari i lunghi anni di studi dedicati agli eventi ed ai protagonisti di
quell’avvincente avventura intellettuale; studi costantemente oscillanti - fino alle ultime fatiche della sua laboriosa esistenza - tra i poli storici apparentemente incomparabili delle avanguardie e dell’umanesimo, ovvero tra La sfera e il labirinto (1980) e la
Ricerca del Rinascimento (1992), come suonano i titoli di due dei suoi più celebri
libri11. In questo cerchio di gesso, tracciato con nitore sulla lavagna teoretica, si
inscrivono le variegate ed apparentemente eterogenee indagini12 su “casi” e “temi”
distinti e distanti nello spazio e nel tempo. Basti pensare che nello stesso 1973,
anno nel quale viene data alle stampe la densa sintesi sull’ampio arco storico di Progetto e utopia - dirompente dissertazione tesa a stigmatizzare l’architettura e l’urbanistica contemporanee come derivazioni ideologiche dello sviluppo capitalistico - lo
stesso autore punta la lente dell’ingrandimento filologico su Via Giulia, assumendo
quel segmento della renovatio urbis della Roma del Cinquecento come elemento da
analizzare - con la distaccata freddezza di un chimico nel laboratorio storiografico,
peraltro condiviso con studiosi di diversa provenienza disciplinare quali Salerno e
Spezzafierro - al fine di dipanare l’intreccio complesso, ma rintracciabile, tra il lin-
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Benedetto Gravagnuolo Decostruire, intrpretare, pensare
guaggio architettonico e le attese rappresentative, tra gli indirizzi teologici epocali e
le più pragmatiche ragioni sottese dall’economia politica della committenza papale.
Il “caso” dello studio sul frammento di Via Giulia, analizzato per così dire al microscopio, può valere come esemplificazione del metodo ermeneutico di Manfredo
Tafuri che mira a coniugare, in una circolarità interpretativa a doppio senso, la disamina del dettaglio minimo alla ricognizione critica sui massimi sistemi delle diverse
mentalità epocali. Senza una visione storiografica di ampio respiro sarebbe difficile
comprendere il senso dei particolari; e viceversa. Non foss’altro che per questa
opzione di principio, nel lavoro di filologia critica Manfredo Tafuri persegue finalità ed
adotta strumenti consapevolmente diversi e ben più complessi di quelli collaudati
dalla filologia positivistica di Leopold von Ranke13 che ambiva a limitare l’esegesi storiografica solo ai fatti ed ai documenti comprovati, analizzando “le cose che sono,
come sono”. Come acutamente sottolinea Manuela M. Morresi nel saggio pubblicato in questo stesso volume, l’analisi critica di Tafuri è protesa “oltre il documento”,
indicando come compito ineludibile dello storico il porsi domande sul senso del passato mettendo in relazione dialettica i fatti con le idee, strappando il velo di velleità
nascoste o sottaciute, sapendo che finanche i documenti possono tacere o ingannare. “Vorremmo sapere - annota Tafuri in Venezia e il Rinascimento (1985) - ciò che
nessun documento potrà riferirci. Quale sarà stata la reazione di Sansovino alla notizia che il suo amico Vergerio, vescovo di Capodistria, era passato nelle file dei protestanti? E quale la ripercussione interiore, nello stesso Jacopo o in Tiziano, alla constatazione che l’Indice di Paolo IV (1599) aveva condannato in blocco l’opera del
sodale Pietro Aretino?”14.
Questo brano comprova indirettamente un altro criterio metodologico basilare, vale
a dire il principio di non confondere la “contemporaneità” della ricerca storiografica
con l’equivoco della “attualizzazione” del passato. Se è vero che il passato è immutabile, resta altresì innegabile che l’interpretazione di ciò che è accaduto è interminabile. Tant’è che le letture storiografiche mutano nel corso del tempo in relazione al
mutare degli interrogativi che lo storico di volta in volta si pone, muovendo da criteri metodologici adottati in relazione ai fondamenti epistemologici della propria epoca, dai quali consegue la stessa “selezione” dei dati da analizzare. Il che tuttavia non
può giustificare il vezzo diffuso dalla “critica operativa” di “attualizzare” il passato
adottando terminologie à la page, tanto seduttive quanto inesatte. L’interpretazione
ha dei limiti. Le ipotesi cognitive vanno comprovate attenendosi meticolosamente
alle coordinate storiche nelle quali gli eventi documentati si sono manifestati. E le
parole dell’esegesi vanno scritte con la stessa precisione con la quale il matematico
adopera i numeri.
Fin qui un accenno a questioni di metodologia storiografica. Pur avendo conseguito in età giovanile la cattedra di Storia dell’Architettura presso l’IUAV di Venezia nel
1966, Manfredo Tafuri aveva seguito un percorso formativo per vari versi anomalo.
Ancor prima di laurearsi aveva partecipato a dispute culturali rivelando una notevole autorevolezza critica. “Da studente - si legge nel profilo autobiografico - aveva fatto parte di gruppi radicali di protesta contro l’arretratezza e la pessima qualità della
didattica, promuovendo occupazioni da registrare tra le prime nelle Università italiane del dopoguerra. Polemicamente, egli presentava alla Commissione di laurea, for-
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Manfredo Tafuri oltre la storia
mata ancora da vecchi accademici a suo tempo compromessi con il regime fascista, una tesi di Storia dell’Architettura, e non, come era prassi comune, un elaborato progettuale”15. La tesi, incentrata sull’architettura di età sveva in Sicilia, fu poi pubblicata nei “Quaderni dell’Istituto di Storia dell’Architettura” di Roma con il titolo Problemi di critica e problemi di datazione in due monumenti taorminesi: il Palazzo dei
Duchi di S. Stefano e la Badia Vecchia16.
Dunque, fin dall’esordio la perizia nello scavo critico-archivistico su puntuali temi di
“microstoria” si coniugò con un appassionato impegno politico. Questa apparente
dualità rappresenterà a ben vedere il tratto distintivo dell’intera sua opera. Fondatore dell’Associazione Studenti e Architetti (ASEA), membro dell’INU e di Italia Nostra,
opinionista di “Paese Sera”, Tafuri partecipò nei primi anni Sessanta con notevole vis
polemica al dibattito sulle trasformazione urbane di Roma e di altre città italiane17.
Tra i maestri prescelti nella fase formativa si stagliano Giulio Carlo Argan, che lo introdusse alla lettura della storia dell’arte come storia della cultura in senso lato; Ernesto Nathan Rogers, che gli aprì le porte di quella sorta di scuola di pensiero critico
che è stata la redazione di “Casabella-Continuità”; e, non ultimo, Ludovico Quaroni,
straordinario caposcuola del dubbio socratico, al quale dedicò la metonimica monografia data alle stampe nel 1964 per le olivettiane “Edizioni di Comunità”, con il titolo Ludovico Quaroni e la cultura architettonica italiana. In quello stesso anno pubblicò il saggio su L’architettura moderna in Giappone, estendendo lo sguardo critico sulle tendenze contemporanee ben oltre i confini nazionali. Non meno variegate
furono le esperienze didattiche percorse attraversando diagonalmente anche il campo disciplinare delle Teorie della Progettazione, dapprima come assistente ordinario
di Quaroni a Roma nel 1965, poi, come supplente di Rogers a Milano nel 1966, ed
ancora, coprendo il ruolo di professore incaricato a Palermo come libero docente di
Urbanistica.
Non deve sorprendere se il definitivo conseguimento della cattedra di Storia dell’architettura, nel concorso del 1966, sia dovuto anche (e forse soprattutto) all’appoggio convinto di Bruno Zevi, dal quale, come si è accennato, Manfredo Tafuri prese
di lì a poco distanze metodologiche siderali sulla questione della “critica operativa”.
Tafuri aveva in quella fase pubblicato un’originale ricognizione su L’architettura del
Manierismo nel Cinquecento europeo, nonché gettato alcuni illuminanti squarci di
luce su Michelangelo, Borromini ed altri dirompenti protagonisti dell’avventura anticlassica tra XVI e XVII secolo. L’affinità elettiva va stanata, tuttavia, non tanto sulle
tematiche affrontate, quand’anche e soprattutto sulla statura critica che Zevi seppe
riconoscere nell’allora giovane studioso, potenziale antagonista dialettico, ma accomunato dalla visione non convenzionale della ricerca storiografica.
Una data spartiacque nella biografia di Tafuri resta per altri aspetti il 1968, anno in
cui fu chiamato a Venezia a coprire la Cattedra di Storia presso l’IUAV e contestualmente venne eletto a dirigere l’Istituto (poi ridenominato Dipartimento) di Storia dell’Architettura (fino al 1980)18. Non è una mera coincidenza se l’anno successivo pubblicherà il saggio su Jacopo Sansovino e l’architettura del ‘500 a Venezia.
Roma e Venezia rappresenteranno non solo due campi prevalenti di reiterate ricerche storiografiche, ma anche due metaforiche città-patrie. Decisivo fu l’incontro a
Venezia con il nucleo di intellettuali raccolto intorno alla rivista “Contropiano”19, for-
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Benedetto Gravagnuolo Decostruire, intrpretare, pensare
mato da Alberto Asor Rosa, Mario Tronti, Toni Negri (allontanatosi dopo il primo
numero), Massimo Cacciari e Francesco Dal Co (suo primo allievo e nel 1976 coautore della già citata storia della Architettura Contemporanea). La meta verso cui tendeva la rivista, il cui primo numero fu pubblicato nel luglio 1968, era una rivisitazione critica del marxismo, aggiornandolo alla luce delle successive acquisizioni filosofiche, economiche e scientifiche, nonché confrontandolo dialetticamente con pensieri “diversi” e non di rado “antitetici”. Manfredo Tafuri - già appassionato alle tematiche culturali di ampio respiro agitate in quegli anni da Alberto Asor Rosa, Franco
Fortini, Enzo Paci, Michelangelo Antonioni ed altri alfieri dell’innovazione noetica aderì con entusiasmo al programma teoretico di quel laboratorio politico. Per una
critica dell’ideologia architettonica fu il saggio pubblicato a mo’ di postulato nel 1969
su “Contropiano”, in seguito rielaborato e notevolmente ampliato nella versione data
alle stampe per i tipi della Laterza con il titolo arganiano Progetto e utopia. Seguirono sulla stessa rivista, con una concatenata sequenza logica, le trattazioni su Lavoro intellettuale e sviluppo capitalistico (1970, n.2); Socialdemocrazia e città nella
Repubblica di Weimar (1971, n.1) e Austromarxismo e città. “Das rote Wien” (1971,
n.2), saggi a tesi rivelatisi a loro volta semiconcettuali di successivi volumi. Un parallelo laboratorio di ricerca fu da lui stesso allestito presso l’Istituto di Storia dell’IUAV,
nel Seminario di studi i cui esiti furono raccolti nel volume di autori vari Socialismo,
città, architettura. URSS 1917-1937 (Officina, 1971). Lo scandaglio su La città americana dalla guerra civile al “New Deal” (Laterza, 1973) - elaborato in un coeso gruppo di studio con Mario Manieri Elia, Francesco Dal Co e Giorgio Ciucci - aggiunse
un’ulteriore tessera al puzzle esplorativo sulle complesse e contraddittorie interrelazioni tra architettura, pianificazione, economia e politica, mirando lo sguardo critico
sulla terra dei grattacieli, là dove il capitalismo aveva raggiunto le più elevate vette
dello sviluppo nell’età contemporanea.
La questione metodologicamente fondamentale resta però la “critica dell’ideologia
architettonica”, eletta a principio-guida per l’indagine storiografica non solo dell’età
contemporanea, ma di ogni epoca.
“Preferiamo piuttosto chiarire - si legge nell’Avvertenza alla seconda edizione di Teorie e storia dell’architettura - una volta per tutte, la corretta chiave interpretativa con
cui seguire le articolazioni del nostro discorso, e avvertire che consideriamo questo
libro solo una primissima tappa di avvicinamento ad una lettura rigorosa della storia
dell’architettura che coinvolga quest’ultima per intero, in tutto il suo carattere ideologico. (Non è forse superfluo ribadire che il termine ideologia è da noi usato nel suo
significato specifico: come struttura, quindi, della falsa coscienza offerta dagli intellettuali ai sistemi dominanti). Architettura come ideologia, come istituzione che “realizza” l’ideologia, come disciplina messa in crisi dalle nuove tecniche dell’universo
della produzione e di pianificazione anticiclica…”20.
Risuona in queste asserzioni l’eco delle tesi di Karl Marx formulate in Die deutsche
Ideologie (Bruxelles 1846, ed. postuma Mosca 1932) e Zur Kritik der Politischen
Oekonomie, Berlino 1859). Si badi però: l’eredità marxiana viene decantata dalle
istanze utopiche per ricondurla al lucido realismo diagnostico del “materialismo
scientifico”. Nell’esegesi di Tafuri sembra insomma riaffiorare il gramsciano pessimismo dell’intelligenza, predominando però sull’ottimismo della volontà. Rinviando
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Benedetto Gravagnuolo Decostruire, intrpretare, pensare
Manfredo Tafuri oltre la storia
all’agire politico la (futura quanto improbabile) palingenesi rivoluzionaria, Manfredo
Tafuri limita rigorosamente il logos storiografico all’analisi delle “realtà illusorie” delle
impalcature ideologiche erette dagli architetti nel corso del tempo come “sovrastrutture culturali” fondate sulla più solida struttura economico-sociale dei rapporti di produzione. Ne deriva la necessità di indagare a fondo sulla volontà di forma dei committenti, che giocano - anche nei programmi iconici - un ruolo tutt’altro che marginale. Il sistema sovrastrutturale della rappresentazione architettonica non viene dunque liquidato come irrilevante mistificazione, ma valutato nella sua ineludile dialettica con la struttura sociale, capovolgendone, tuttavia, la bilancia dei pesi, per svelare i moventi ideologici intrinseci delle scelte formali nascosti dietro paraventi tatuati.
Nell’alveo di tale rivisitazione del ruolo dell’ideologia confluiscono e si diluiscono in
un’inedita miscela i torrenti teoretici di molti altri autori (sia postmarxiani che antimarxiani) attentamente riletti da Tafuri nel disincanto accentuato dalla frequentazione dell’eresia di “Contropiano”: da Friederich Nietzsche, a Walter Benjamin, Edmund
Husserl…fino a Roland Barthes, Claude Lévi-Strauss, Michel Foucault ed altri maîtres à penser contemporanei.
Va da sé che in tale rinnovato “progetto teoretico” l’immersione nelle ideologie architettoniche del passato dischiuda una visione antitetica a quella delle grandi narrazioni Otto-Novecentesche sulla “storia degli stili”. Alla ricerca dei significati latenti racchiusi nelle radici delle forme, Manfredo Tafuri - senza ricalcare pedissequamente le
orme delle analisi “iconologiche” di Cassirer, Panofsky e Wittkover - si inoltra lungo
un sentiero ermeneutico inesplorato, intersecando non irrilevanti punti di tangenza
con la foucaultiana demistificazione dei “regimi di verità”. Il passato ci ha trasmesso
notizie filtrate dai dispositivi di potere, pietre e parole selezionate con cura e trasmesse con sagacia a futura memoria; insomma dati manipolati che, in quanto tali, vanno verificati con razionale scetticismo. In tale ottica la filologia assume a maggior
ragione un senso radicalmente diverso dalla mera ricerca della certezza del documento. Menomata dall’interpretazione critica delle ideologie architettoniche la filologia resterebbe zoppa, riducendosi nel migliore dei casi alla ricognizione descrittiva o
alla periodizzazione cronologica della narrative history. Non era questa l’ambizione
gnoseologica che ha sotteso l’incessante ricerca di Manfredo Tafuri, ritmata da interrogativi tesi ad oltrepassare la fenomenologia della res aedificata per carpire, tramite l’indagine storica sull’architettura, le mitologie epocali.
Ancor più delle ultime grandi mostre monografiche sui linguaggi, le mentalità ed i
committenti di Giulio Romano (1989) e Francesco di Giorgio (1993)21, il testamento
spirituale del razionale nihilismus metodologico di Manfredo Tafuri - scevro da paradigmi pregiudiziali - resta il monumentale volume einaudiano: Ricerca del Rinascimento. Principi, città, architetti 22, dato alle stampe nel 1992. Con un andamento
labirintico, il filo discorsivo inizia a Firenze con la “Novella del Grasso legnaiolo” - vale
a dire con la beffa architettata da Filippo Brunelleschi, intorno al 1409, ai danni dell’intarsiatore Matteo Ammannantini - e si conclude nell’Epilogo lagunare di Jacopo
Sansovino a Venezia, passando attraverso la Roma di Nicolò V e Leon Battista
Alberti, il Mito e architettura nell’età di Leone X, il Sacco del 1527 e la Granda di Carlo V. Deliberatamente l’autore non scioglie didascalicamente i dubbi che assalgono
il lettore sospinto in una foresta di dilemmi. Anche se è ragionevole desumere che la
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ricerca del Rinascimento - e non sul Rinascimento - non può avere termine, né prove documentali incontrovertibili, restando, se non proprio una beffa o una finzione,
di fatto nella verifica del redde rationem la meta lontana di un’immaginazione mitica
epocale che ha orientato pensieri e prassi del costruire con esiti eterogenei. Tant’è
che, nonostante la dichiarata stima per Rudolf Wittkower, la rilettura dell’opera di
Leon Battista Alberti lascia trasparire in controluce un profilo culturale antitetico a
quello dell’apostolo della harmonia mundi forgiato negli Architectural Principles in
the Age of Humanism (1949)23.
L’inedita esegesi critica del Momus - commedia letteraria composta fra il 1443 e il
1450, scavata tra le carte dimenticate e posta accanto al De re aedificatoria - strappa a Leon Battista Alberti la maschera apollinea dell’ortodosso teologo della instauratio dell’antichità nella Roma di Nicolò V, rivelando l’inganno come tecnica di resistenza cortigiana nei confronti del potere. “Momo - rimarca Manfredo Tafuri - porta
al limite temi propri della cultura di Leon Battista. Il suo scetticismo, il suo vagabondaggio, il suo opporsi alla tirannia, la sua stessa arte della simulazione, sembrano
rappresentare, per l’autore, autoironiche estremizzazioni delle proprie idee”.
È solo un esempio per comprovare il ricorso tutt’altro che ingenuo alla filologia, adoperata anzi come un tagliente bisturi critico. Così come l’immagine dello “occhio alato” prescelta come copertina del volume - raffigurata nella medaglia bronzea eseguita da Matteo de’ Pasti come un’icona racchiusa nel cerchio allegorico di una ghirlanda d’alloro e sospesa sopra il lapidario enigma “QUID TUM” - può suggerire l’elegante supposizione che l’eresia panteista di Leon Battista Alberti - metaforicamente stanata nell’avventura umana (troppo umana) del dionisiaco dio etrusco - vada
analogicamente associata alla speculare Ricerca introspettiva e ascetica dello stesso Manfredo Tafuri. Il che è indimostrabile.
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Il progetto storico di Manfredo Tafuri è il titolo del fascicolo monografico della rivista “Casabella”, nn. 619-620, gennaio-febbraio 1995, dedicato ad una ricognizione delle sue ricerche, con
scritti di Vittorio Gregotti, Giorgio Ciucci, Alberto Asor Rosa, Françoise Very, Jean-Louis Cohen,
Joan Ockman, Hélène Lipstadt, Harvey Mendelsohn, Richard Ingersoll, Francesco Paolo Fiore, Howard Burns, Andrea Guerra, Cristiano Tessari, José Rafael Moneo, Piero Corsi, oltre a
documenti di Yve-Alain Bois, Joseph Connors, James S. Ackerman, Massimo Cacciari e una
prima bibliografia a cura di Anna Bendon, Guido Beltramini e Pierre-Alain Croset.
Si veda inoltre, Marco Biraghi, Progetto di crisi. Manfredo Tafuri e l’architettura contemporanea,
Christian Marinotti Edizioni, Milano 2005.
Manfredo Tafuri, Avvertenza alla seconda edizione, in Teorie e storia dell’architettura, Laterza
Roma-Bari, 1970, p. 3 (prima edizione 1968).
Manfredo Tafuri, Premessa, in Progetto e utopia, Laterza, Roma-Bari 1973, p. 3 (saggio riedito con un’acuta introduzione di Franco Purini nel 2007).
Sulla consapevolezza del ruolo “politico-filosofico” della storiografia architettonica si veda Bruno Zevi, Zevi su Zevi, Magda editrice, Milano 1977.
Nicolaus Pevsner, Pioneers of the Modern Movement from William Morris to Walter Gropius,
London 1936, trad. it. I pionieri del Movimento Moderno, da William Morris a Walter Gropius,
Rosa e Ballo, Milano 1945; Siegfried Giedion, Space, Time and Architecture, New York 1941,
trad. it. Spazio, tempo e architettura, Hoepli, Milano 1954. Per un inquadramento critico sul
senso del plot concepito per narrare la vicenda del “movimento moderno”, si veda Maria Luisa Scalvini, Maria Grazia Sandri, L’immagine storiografica dell’architettura contemporanea da
Platz a Giedion, Officina, Roma 1984.
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Bruno Zevi, Storia dell’architettura moderna, Einaudi, Torino 1950; Leonardo Benevolo, Storia
dell’architettura moderna, Laterza, Roma-Bari 1960; Renato De Fusco, Storia dell’architettura
contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1974; Paolo Portoghesi, Le inibizioni dell’architettura
moderna, Laterza, Roma Bari 1976, Id. Dopo l’architettura moderna, Laterza, Roma Bari 1980.
Manfredo Tafuri, Teorie e storia..., cit., p. 165.
Manfredo Tafuri, Francesco Dal Co, Architettura contemporanea, Electa, Milano 1976.
Manfredo Tafuri, Teorie e storie…, cit., p. 26.
Manfredo Tafuri, La sfera e il labirinto. Avanguardie e architettura da Piranesi agli anni ’70,
Einaudi, Torino 1980; Id., Ricerca del Rinascimento, Einaudi, Torino 1992.
Per le referenze bibliografiche dell’ampia produzione saggistica di Manfredo Tafuri, che sarebbe lungo elencare nei limiti di questa nota, rinviamo il lettore alla Bibliografia allegata al presente volume, a cura di Federico Rosa.
In antitesi con l’allora predominante teoria “teleologica” hegheliana della “filosofia della storia”,
Leopold von Ranke - ispirandosi al principio di aderenza alla nuda verità sostenuto da Tommaso D’Aquino nel “manifestare ea quae sunt sicut sunt” (mostrare le cose che sono come sono)
- In Epochen der neueren Geschichte (Lipsia, 1888) sostenne che il passato andava semplicemente descritto “wie es eigenthlich Gewesen ist” (così come veramente è).
Manfredo Tafuri, Venezia e il Rinascimento. Religione, scienza, architettura, Einaudi, Torino
1985, p. 113.
Manfredo Tafuri, Profilo autobiografico, in appendice al presente volume.
Manfredo Tafuri, Problemi di critica e problemi di datazione in due monumenti taorminesi: il
Palazzo dei Duchi di S. Stefano e la” Badia Vecchia”, in “Quaderni dell’Istituto di Storia dell’Architettura” di Roma, n. 51, 1962.
Cfr. Giorgio Ciucci, Gli anni della formazione, in “Casabella”, nn. 619-620, pp. 12 sgg.
Sulla direzione di lavoro data da Manfredo Tafuri alla formazione di quella sorta di “scuola di
Venezia” che è stato l’Istituto di Storia dell’IUAV si veda Jean-Louis Cohen, Ceci n’est pas une
histoire, in “Casabella”, nn. 619-620, pp. 48 sgg.
Cfr. Alberto Asor Rosa, Critica dell’ideologia ed esercizio storico, in “Casabella”, nn. 619-620,
pp. 28 sgg.
Manfredo Tafuri, op.cit., pp. 4-5.
Per l’approfondimento di tale tematica si vedano gli acuti saggi di Francesco Paolo Fiore, Autonomia della storia, e Howard Burns, Tafuri e il Rinascimento in “Casabella”, nn. 619-620.
Manfredo Tafuri, Ricerca del Rinascimento. Principi, città, architetti, Einaudi Torino 1992; volume tradotto in varie lingue, dedicato a Manuela M. Morresi e da lei stessa commentato con articolate e profonde riflessioni nel saggio pubblicato in questo stesso libro.
Rudolf Wittkower, Architectural Principles in the Age of Humanism, London,1949; trad. it. Principi architettonici nell’età dell’umanesimo, Einaudi, Torino 1964.
Tafuri e la crisi, spiegati agli studenti
del primo anno
Marco Biraghi
Il Rinascimento di Tafuri
Manuela M. Morresi
L’evanescenza della trasgressione
Francesco Dal Co
Quid tum
Massimo Cacciari
Manfredo Tafuri oltre la storia
Tafuri e la crisi, spiegati agli studenti del primo anno
Marco Biraghi
Manfredo Tafuri, pur non essendo un filosofo, ha molto a che vedere con la filosofia, non intesa come “teoria del pensiero”, quanto piuttosto come agire del pensiero. Attraverso di lui la storia dell’architettura è diventata, o ha ribadito ulteriormente
di essere, un’attività del pensiero, e non semplicemente il riflesso naturale di una
serie di avvenimenti.
Si potrebbe partire proprio da qui: dall’idea che la storia non è semplicemente il
rispecchiamento di eventi accaduti, che un qualche oggettivo “apparecchio” storico
può registrare e raccontare, traducendo automaticamente gli avvenimenti in parole.
Al contrario, il passaggio dall’avvenimento alla parola è sempre un passaggio altamente critico.
Passare dalla “realtà” dei fatti alla loro storicizzazione è un passaggio stretto, difficile e pericoloso; pericoloso perché non essendovi possibilità di rispecchiamento di
presunte “verità”, o di presunte “realtà”, si va sempre soggetti al rischio d’invenzione, o di deformazione. Un passaggio che spinge a compiere delle operazioni delicate, difficili: operazioni che Tafuri denomina infatti “progettuali”.
La storia, in questo senso, non si “ricostruisce”: non è un puzzle di cui si posseggono i pezzi e che pazientemente si ricompone. La storia ha un carattere progettuale:
l’evento storico, cioè, viene costruito.
Lo storico ha il suo materiale, i suoi “pezzi”, a disposizione: gli eventi, i documenti e,
nel caso dello storico dell’architettura, i progetti e gli edifici. Ma tutto questo, di per
sé, non costituisce ancora una trama sufficientemente stretta, e non solo perché
alcuni pezzi mancano sempre, ma anche perché - come afferma Tafuri, riprendendo una linea di pensiero che da Nietzsche passa attraverso Benjamin - un simile
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Manfredo Tafuri oltre la storia
rispecchiamento tra realtà degli eventi e loro storicizzazione non è possibile comunque. La difficoltà, o addirittura l’impossibilità di questo passaggio, è di natura concettuale, non pratico, e dunque prescinde del tutto dalla completezza della documentazione in possesso dello storico. Si tratta di un limite trascendentale, di un limite a-priori della storia.
“La storia è progetto”, afferma Tafuri nelle pagine dell’introduzione a uno dei suoi libri
più importanti, La sfera e il labirinto, intitolata appunto “Il progetto storico”: la storia
è un progetto, e il progetto storico ha una sua specificità accanto al progetto architettonico o a qualunque altra attività progettuale. Facendo attenzione naturalmente
a non fare confusioni: il progetto storico di Tafuri non ha nulla a che fare con la “storia operativa”, così come la intendeva Zevi; il progetto storico di Tafuri è il tentativo
di conferire un’autonomia alla storia, al pari di quella che possiede l’architettura, non
di attuare indebite invasioni di campo nella disciplina progettuale, “facendo architettura” attraverso le analisi storiche.
Ma non soltanto la storia è un progetto: ancor di più, per Tafuri essa è un progetto
di crisi. Porre la storia sotto la tonalità della crisi rischia di generare un equivoco:
quella di Tafuri potrebbe infatti essere scambiata per una visione “negativa” della storia, o per una sorta di “fatalismo storico”. E invece non è il modo comune di intendere la crisi quello a cui egli si riferisce. La crisi tafuriana è piuttosto una necessità
della storia, un ulteriore a-priori di quest’ultima, o meglio ancora, una necessità di un
ordine più vasto del pensiero di cui a tutti gli effetti fa parte anche la storia.
Crisi dal punto di vista etimologico viene dal greco krínein, che vuol dire “separare”,
“distinguere”, “discernere”. La crisi dunque parla dello spezzarsi di qualcosa: anche
nell’accezione più comune, la crisi fa riferimento a qualcosa che non funziona più
come prima, qualcosa che si è “rotto”. Quando comunemente diciamo che “siamo
in crisi” o che “c’è una crisi in corso”, significa che vi è stata una rottura. Il momento di rottura è sempre un momento di svolta: in quel momento qualcosa finisce ma
proprio perciò qualcosa d’altro incomincia ad essere. Quello della crisi è sempre un
momento decisivo.
La storia, secondo Tafuri, è fatta di questi momenti decisivi: momenti in cui le cose
precipitano, per ricostruirsi secondo un ordine differente. Differenza e crisi: la differenza è una sospensione della continuità, ovvero esattamente il contrario dell’accettazione della crisi come condizione “normale”. Nettamente distinta da quest’ultima
maniera d’intendere la crisi è quella concepita da Tafuri. L’accettazione della “normalità” della crisi corrisponde a una posizione pessimista; nel pensiero della crisi di
Tafuri, al contrario, non vi è alcun banale pessimismo. Al modo d’intendere la crisi
come qualcosa in cui si è immersi, rispetto alla quale non vi è mai “soluzione della
continuità” e che quindi finisce col divenire normale, Tafuri contrappone un concetto di crisi come rottura della normalità. È l’evento, l’avvenire di qualcosa; e l’evento,
in quanto tale, nella sua accezione etimologica, è qualche cosa che e-viene, è un
avvenimento che tiene dentro di sé un futuro che diviene presente.
Che cos’è l’avvenimento nell’ambito storico? Nella storia dell’architettura, ad esempio, gli “avvenimenti” sono gli edifici; potremmo intendere così anche la crisi, per cercare di dare consistenza a questo concetto che altrimenti potrebbe risultare oscuro
e sfuggente. Il precipitare della crisi non ha per forza quel carattere negativo a cui si
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Marco Biraghi Tafuri e la crisi, spiegati agli studenti del primo anno
accennava poc’anzi; la crisi storica, piuttosto, potrebbe essere legata all’evento (o
all’avvento) di un’opera: qualunque opera di architettura crea una differenza. Lo spazio fisico che fino a quel momento era connotato in un certo modo, differisce dallo
stato precedente in seguito all’evenire di un nuovo edificio.
E ancor di più, la grande opera architettonica, il grande “capolavoro”, se si vuol dirlo in termini idealistici, è proprio quell’evento che mette in crisi l’ordine precedente,
e che ha addirittura la capacità di ribaltarlo, di scombussolare quell’ordine che sembrava costituito. Questa, a ben vedere, è la caratteristica dei grandi eventi architettonici: non quella di occupare tranquillamente un centro che lasciano assolutamente immutato, a “riposo”, bensì la capacità di rompere quegli equilibri che sembravano costituiti, e che proprio con quell’evento straordinario si rimettono in gioco.
Tutti i grandi capolavori della storia dell’architettura hanno esattamente questo tratto
comune, e in questo senso si potrebbe recuperare la nozione idealistica di “capolavoro” dando ad esso invece una connotazione molto concreta. Il capolavoro non è
quell’opera che sta in una sorta di sovrano isolamento, perfetta nella propria purezza, ma è invece qualcosa che si sporca e che sporca, che mette in crisi l’ambiente
in cui sorge. Quindi, quanto più un’opera riesce a disordinare - in senso profondo, e
non superficialmente - il modo di pensare l’architettura di una certa epoca, e tanto
più potrebbe essere valutata come “capolavoro”. (Non è Tafuri stesso a formulare
questo concetto. E tuttavia, il suo pensiero sulla crisi in qualche modo lo presuppone. La produttività di un pensiero, d’altra parte, si misura - oltreché sulla propria
capacità d’interpretare qualcosa - su quella di provocare “conseguenze” ulteriori).
La crisi è dunque quel momento in cui le cose precipitano; e in quel precipitare lo
storico inizia a indagare per mettere insieme i frammenti, che per Tafuri sempre
rimangono tali, non riuscendo mai a ricostituire un intero; frammenti che però vanno anche misurati nelle loro differenze, nella loro distanza, nel differire dei loro linguaggi.
Un problema metodologico sul quale Tafuri ritorna continuamente è proprio quello
del differire del linguaggio, ovvero della specificità del linguaggio storico, che è un
linguaggio critico. Il termine “critico” deriva in linea diretta dal termine “crisi”: la critica è ciò che mette in azione una crisi, è una crisi in azione. Esiste una profonda differenza tra il linguaggio dell’architettura che è fatto di segni e di oggetti, e il linguaggio della critica architettonica che è fatto di parole. Come conciliare questi due diversi universi?
Questi temi occupano molte pagine tafuriane, da Teorie e storia dell’architettura, a
Progetto e utopia e La sfera e il labirinto, dove si cerca di mettere a fuoco il compito dello storico che, a suo avviso, non è quello di rispecchiare presunte verità preesistenti, ma di cercare di costruire dei percorsi analitici che pur avendo per forza di
cose carattere incerto e provvisorio, operano tuttavia delle “sezioni” nel corpo del
passato, con il preciso fine di farne “esplodere” le contraddizioni, di metterne in crisi la presunta stabilità e continuità. Correndo però il costante pericolo di fare di tali
analisi dei “monumenti impenetrabili”, anziché di rompere le “parole eternizzate e
dure come sassi” (per usare l’espressione di Nietzsche ripresa da Tafuri) che lo stesso linguaggio storico-critico impiega.
È questo il demone dello storico, il quale deve continuamente confrontarsi con tale
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