Mordraud - Libro Primo

Transcript

Mordraud - Libro Primo
Mordraud
Libro Primo
di Fabio Scalini
Questo non è un libro fantasy,
ma solo la descrizione di un mondo diverso
nascosto a un soffio dai nostri occhi.
I nomi che attraversano questa storia non sono casuali.
Alcuni appartengono al momento, altri a snervante premeditazione.
Pochi sono nati dai sogni. Molti esistono negli incubi.
A volte non miei.
Mordraud, Libro Primo 2014
Di Fabio Scalini, © Fabio Scalini/2012, Rampart di Maria Alice Gori & c. s.a.s./2013
2° edizione
www.mordraud.com
Illustrazioni di Maria Alice Gori
ISBN 978-88-908076-0-2
pdf
Edito da: Rampart di Maria Alice Gori & c. s.a.s.
Via Angelo Cicognani, 8
48123 Ravenna (RA)
www.rampart.it
Indice
Prologo
I
II
III
IV
V
VI
VII
VIII
IX
X
XI
XII
XIII
XIV
XV
XVI
XVII
XVIII
XIX
XX
XXI
XXII
XXIII
XXIV
XXV
XXVI
XXVII
XXVIII
XXIX
XXX
XXXI
XXXII
7
14
24
35
48
57
75
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102
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472
490
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Prologo
Beril stava giocando nel cortile assolato. La ghiaia bianca frusciava sotto i suoi
sandali di cuoio. Nascosti fra le fronde dei castagni, due scoiattoli si stavano rincorrendo lungo i rami. Un cagnetto color sabbia seguiva la sua corsa dall’ombra
di una casetta di legno. Ogni tanto si alzava e zoppicava lentamente verso una
ciotola d’acqua. Leccava avidamente senza togliere gli occhi di dosso al bambino.
Le galline starnazzavano quando lui piombava fra loro agitando vorticosamente
le braccia.
«C’è tuo padre in casa?»
Beril si fermò vicino a un grosso cespuglio di rosmarino e sbirciò dentro. Rella
era venuta a trovarlo.
«Sì, è dietro con mio zio. Vieni fuori di lì, ti stai riempiendo di ragni.»
«Allora?! Non mi fanno paura!»
Beril si infilò sotto il rosmarino e le toccò il mento. La ragazzina si tirò indietro
disgustata e lo spinse via. Lui ridacchiò e le mostrò la lingua.
«Lo sai che mi fa schifo. Non toccarmi la faccia.»
«Sì, ma è divertente vedere che ti offendi.»
Rella incrociò le braccia offesa. Piccola e magra, i capelli biondi scarmigliati e
sporchi. Lentiggini sul naso. Un lungo taglio che partiva dalla fronte e solcava
l’occhio sinistro. Non riusciva a tenerlo aperto del tutto. L’altro brillava di verde
e azzurro acqua.
«Perché vuoi sapere se c’è mio padre?»
«Lui non mi vuole qui intorno.»
«Ma non è vero…»
«Sì che è vero!» bisbigliò Rella. «Anche a tua mamma non sto simpatica.»
«Questo lo dici tu, non conosci bene mia mamma.»
«I tuoi genitori sono strani.»
Beril si rabbuiò distogliendo lo sguardo. Rella lo fissò con aria di sfida. Poi,
come se non avesse detto e fatto niente, gli pizzicò un braccio con tutta la forza
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che aveva. Si divertiva a farlo perché le sembrava di stringere un sacchetto di
sabbia. La pelle di Beril aveva una consistenza particolare, che le faceva venire
voglia di morderla.
«Dai, sto scherzando. Però devi ammettere che tuo padre è un po’ inquietante.
Non ti fa mai paura?»
«Paura?! A me?»
«È che gira sempre con la spada…»
Beril scrollò le spalle e sbuffò sprezzante. «Mio padre è un grande guerriero.
Merita di avere la sua spada vicino.»
«Te l’ha detto tua mamma vero?»
«Sì.»
«Si vede che stanno bene insieme. È una cosa bella» mormorò lei.
Beril impazziva per Rella. A lui piaceva da matti. Non solo perché era l’unica
bambina che avesse mai conosciuto. La considerava come una sorella. Avevano
la stessa età. I capelli di Beril erano di un colore bizzarro, sfuggente. Un nero
molto lucido con pesanti riflessi ramati. La pelle chiara e perfetta, senza un segno. Lei invece era bionda e perennemente abbronzata. A parte le differenze
nell’aspetto, condividevano tante passioni. A Rella piaceva stare fra le lucertole e
le formiche. Beril adorava contemplare gli uccelli. Aveva scelto un nome per
ognuno di essi. Glieli aveva dati lui insieme a sua madre. Il gioco di tanti pomeriggi oziosi.
Gli sarebbe piaciuto che Rella potesse passare più tempo con lui e la sua famiglia. Le avrebbe fatto bene. Lei viveva da sola con suo padre. Lei non parlava
mai di lui. Diceva che non era stato lui a farle il taglio in faccia, ma Beril non le
credeva. Rella si arrabbiava da morire quando lui tirava fuori quell’argomento.
«Dai, raccontami di quando hai visto il mare del Nord.»
Beril si schiarì la voce. Rella si sedette sulle gambe e si ritagliò un posto comodo sotto la cupola di rosmarino profumato.
«Allora, ero con mia mamma e mio papà. Abbiamo visitato Telatias e poi ci
siamo spinti fino a Syl.»
«A Syl?! Davvero?»
«Te l’ho detto… mio padre è un grande guerriero, non ha paura di niente» rispose Beril gonfiando il petto.
«Ma ci siete entrati?»
«Non tutti, solo lui. Io e la mamma abbiamo aspettato fuori. Poi siamo andati a
Nord verso un paesino sperduto fra gigantesche montagne di ruggine.»
«Montagne di ruggine?!»
«Beh, erano rosse e quando le ho toccate mi sono sporcato le mani… come
quando prendi una ferraglia…»
«Va bene, e poi?»
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«Io sono stato in spiaggia con mio padre mentre lei andava a parlare con qualche pescatore.»
«Ma che cosa voleva sapere?!» gli chiese Rella.
«Oh non lo so, io non ho sentito niente. Ho passato tutto il giorno in spiaggia.
Era freddo… c’erano delle grosse conchiglie lunghe così…» Beril mimò una mostruosità cilindrica e fece finta di parlare con le mani. «Pensavo che mi avrebbero
urlato qualcosa. Lasciaci giù, lasciaci giù!»
«Ma avete girato tanto?»
«Ti ho già raccontato mille volte…» provò a dire Beril, ma Rella gli chiuse le
labbra con il dito.
«Non abbiamo niente da fare, giusto?»
Beril sospirò e riprese a parlare gesticolando fitto.
«Siamo stati dappertutto. Anche a Calhann. Lì ho vissuto quasi un anno. Ma
non ho visto molto, stavo sempre in casa. Mi hanno fatto studiare un sacco di
libri. Non so cosa dovessero fare loro, non li vedevo quasi mai insieme. Uscivano di continuo.»
«E tu con chi stavi?»
«Da solo!» rispose Beril. «Non ho bisogno di nessuno, so cavarmela.»
«Sì, certo.»
«È così! Non avevo paura nemmeno quando ho visto il lago nero di Syl!»
«E loro li hai visti?!»
Beril tossicchiò e fece segno di sì con la mano.
«Qualcuno… un paio…»
«E com’erano?!» chiese eccitata Rella.
«Ecco, niente di speciale, diciamo…» borbottò lui.
Rella scoppiò a ridere e gli pizzicò di nuovo il braccio, poi la guancia. Era
l’unica che avesse il coraggio di fissarlo negli occhi, pensò Beril confuso dal contatto delle sue dita sulla pelle.
«Beril! Dove sei?!»
«Mia mamma…» sussurrò lui. Fece segno a Rella di stare zitta e uscì strisciando.
«Stavo giocando…»
«… con Rella» concluse subito lei. «Vieni fuori anche tu! Là sotto è pieno di
ragni.»
«Io non ho paura dei ragni!» esclamò sdegnata Rella mentre sgusciava fuori a
carponi dal cespuglio.
«Lo so, a te spaventano solo i gufi» disse lei sorridendo. Beril guardò sconvolto
la ragazzina, che strisciò i piedi in terra e negò clamorosamente. Come faceva a
saperlo, si chiese indispettita. I gufi erano tremendi, non riusciva a dormire se ne
sentiva uno vicino.
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Lo stava soltanto pensando. Come faceva lei a saperlo, si chiese di nuovo.
«Se non ti va un bicchiere di latte e un po’ di pane dolce… puoi anche tornare
in paese.»
Rella annuì docilmente. Pane dolce. Quello che preparava lei era troppo buono. Non valeva la pena rinunciarci per un capriccio.
«Ora venite dentro. Io accompagno Rella in cucina. Tu vai da papà. Tuo zio
vuole vederti.»
«Ah sì?!» esclamò euforico Beril. Adorava suo zio. Era sempre una festa quando passava a salutare la famiglia. Gli portava sempre qualche nuovo gioco. Li
trovava in giro per i mondi. Era proprio lui che li chiamava così. I mondi. Altri
continenti lontanissimi e assolutamente fantastici, almeno nella sua immaginazione. Ne parlava spesso con suo padre, quando passava a salutarli.
«Ma tua mamma sa sempre tutto?» chiese Rella a Beril, che annuì con un sorrisetto.
«Sì, non le sfugge niente.»
La casa era stata finita da poco. Suo padre aveva scelto un posto particolare,
sopra i resti carbonizzati di un’altra vecchia dimora. Si era fatto aiutare da qualche manovale del paese. Molta gente era disposta a lavorare per due soldi e un
po’ di cibo. Tutti profughi, pensò Beril. Era un periodo difficile per gli imperiali,
gliel’aveva spiegato suo padre. Perdevano campi ogni giorno. Venivano scacciati
dalle fattorie delle loro famiglie e venivano perseguitati, catturati. Uccisi. Peggiorava di anno in anno. E lui non era ancora nato quando erano iniziati i primi
problemi. Suo padre diceva sempre che erano già passati vent’anni. Da cosa, Beril non lo sapeva.
A lui piaceva come avevano costruito le stanze. Si sentiva a suo agio con le essenze dei legni che avevano usato per il pavimento e il tetto. Una tinta ciliegio e
una più chiara, color bronzo lucido. Suo padre gli aveva raccontato che erano
stati lui e sua madre a tirare su la casa proprio lì, dentro il bosco che ammantava i
crinali di quelle colline sperdute. L’avevano costruita nelle pause fra un viaggio e
l’altro. Beril viveva in una vera casa da pochi anni. Il resto della sua infanzia
l’aveva passata in giro con loro, vagando da una città all’altra. A Ovest fino a Syl,
a Sud verso Serana e anche oltre. Avevano navigato nel mare interno e avevano
anche raggiunto le lande della Serpe. Ma non si erano fermati a lungo in quella
zona. Suo padre odiava quel posto.
«Tieni da parte un po’ di pane dolce anche per me» chiese a sua madre. Lei annuì e fece accomodare Rella, che continuava a fissarla titubante. Era perché lei
non aveva una mamma, si disse Beril. Non era abituata. Le lasciò sole e si diresse
alla porta che conduceva alla rimessa sul retro. Bussò e attese paziente un invito
a entrare. La porta si aprì nel silenzio e Beril si trovò di fronte suo zio.
«Ciao Gwern!»
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«Ehi nanetto, sei cresciuto…»
«Non chiamarmi così, anche tu non sei tanto alto!»
«Sempre più di te, no?» rispose lui con un ghigno freddo.
Lo seguì dentro la stanza. In un lato c’erano gli attrezzi. Le seghe, i martelli e i
lunghi chiodi di ferro. Dall’altra parte svettavano tre bauli impilati. Beril non poteva aprirli. Non sapeva cosa contenessero. Aveva sempre pensato che fossero
tesori di guerra. Le corone dei Re che suo padre aveva sconfitto. Lui era seduto
al tavolo quadrato al centro. La grande porta che dava sull’aia era chiusa, e da
due finestrine di vetro opaco filtrava una luce gialla e satura.
«Sei stato bravo con la mamma?»
«Bravissimo! Vero papà?»
Lui annuì con grande convinzione. «Visto?!» incalzò Beril. «Allora, cosa mi hai
portato?»
«Quanta fretta! E va bene…» suo zio frugò in una sacca che portava alla cintura. Tirò fuori una curiosa forma azzurra e scintillante. Era liscia e pesante. Beril
prese in mano quell’oggetto misterioso e se lo rigirò fra le dita.
«È una trottola. Ed è azzurra perché è fatta di un materiale preziosissimo.»
«Davvero?!»
«Certo, davvero!»
Beril ammirò suo zio lanciare la piccola trottola sul tavolo. Volava sul legno
con un piacevole fruscio di pietra levigata. Era sempre felice quando lui riusciva
a tornare a casa. Non si fermava più di qualche giorno alla volta. Passava, riposava e ripartiva. Beril non stava mai con lui e suo padre quando trascorrevano la
notte nella rimessa. Parlavano fino all’alba con sua madre e lui doveva starsene
da solo in cucina, vicino al camino. Non si annoiava, perché riusciva comunque a
seguire i loro discorsi. Non sapeva bene come, però. Era un’eco che giocava con
i corridoi e le stanze della casa. Non riusciva a capire tutto, solo delle lunghe descrizioni ricche di caotici dettagli. Scene molto precise di battaglie incredibili e
massacri eccitanti. Un mucchio di sangue.
Beril si rigirò la trottola fra le mani. «Da dove viene?!»
«L’ho presa a Ankhar» rispose lo zio Gwern sorridendo compiaciuto. «In una
città che si chiama Kharan. È sulla costa del loro oceano dell’Ovest. Lì vicino ci
sono delle scogliere alte quanto dieci alberi, e sono tutte nere.»
«Nere?!» esclamò Beril. Le vide nei minimi dettagli. Poteva sentire quel particolare sapore di nero nelle budella, sulla lingua. Era come se le parole di suo zio
fossero condite di colori. Non sapeva esattamente se fossero dolci o salate. Non
ne era sicuro.
Gli capitava spesso di confondere i sensi.
«Proprio così. Ti piace?»
«Sì, è bellissima! Grazie zio!»
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«Ora vai dalla mamma, so che ti ha fatto il pane dolce. Lasciami parlare un po’
con tuo padre, dopo ceniamo tutti insieme.»
Beril corse via giochicchiando con la trottola fra le dita, e si chiuse la porta della rimessa alle spalle.
Gwern e suo fratello Dunwich si fissarono in un teso momento di silenzio.
«È cresciuto molto. Quanti anni ha?» esordì Gwern, quasi sovrappensiero.
«Dodici» rispose Dunwich.
«È già passato così tanto?»
Lui annuì lentamente. Osservò preoccupato il volto contratto di Gwern. I ruoli
sembravano essersi invertiti. Gwern era alto come lui anche se era più esile. Le
rughe sulla fronte, i capelli vagamente radi e color stoppa striati di un bianco
sporco. Sembrava un ragazzino cresciuto e invecchiato troppo in fretta. Sul collo
e ai lati degli occhi grigi si riconoscevano ancora le cicatrici bianche e nodose
dove il Flusso si era sparso nella carne per salvarlo. Era quasi morto, quel giorno
sul dirupo. Non si era mai più ripreso. Camminava zoppicando lievemente. La
voce era diventata rauca e faticosa. Ma più di tutto il resto, il suo sguardo era
davvero cambiato nel profondo. Freddo, critico. A tratti crudele.
Dunwich invece era invecchiato poco. Vent’anni passati senza quasi lasciare il
segno. Qualche ruga e i capelli un po’ più grigi, ma era ancora alto e atletico come allora. Il suo volto si era addolcito. Non si guardava più intorno come se dovesse essere sempre pronto a sguainare la spada. E parlava meno, con tono più
basso. Sembrava lui il fratello minore di Gwern, non il contrario.
«Sembra proprio che il mio tempo scorra più velocemente del tuo, Dunwich.»
«Anche su Beril» rispose lui. «Quando avevo la sua età, sembravo molto più
piccolo di lui. E dire che dovrebbe aver poco o niente sangue Khartian nelle vene.»
Gwern annuì lentamente sorridendo storto. Era davvero cambiato tanto, pensò suo fratello. Non somigliava nemmeno lontanamente al ragazzo con cui aveva
condiviso la tragedia di Cambria. Più strafottente, mostruosamente più cinico.
Parlava a sussurri e mezzi sorrisi tirati. Gli occhi grigi che scrutavano la realtà
come se vedessero altro, più e meno dettagli allo stesso tempo. Lo sguardo del
Flusso sovrapposto al suo, pensò.
Era un uomo invecchiato male. Forse perché viveva sulla strada da vent’anni,
si disse rattristato. Non si era mai fermato da allora. Viaggiare, solo viaggiare.
Non lo invidiava affatto. Era sempre vagamente in ansia quando si presentava
alla porta di casa loro. Come se non volesse ascoltare ciò che aveva visto in giro
per i mondi, come a lui piaceva chiamarli.
«Da quant’è che non fai un viaggio?» chiese Gwern.
«Da qualche anno. Volevamo fermarci un po’ qui. Avere una casa, sai…»
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«Casa, sì…» mormorò lui. «Hai sempre avuto una memoria di ferro, vero fratello? L’avete ricostruita identica ad allora.»
«Non ti piace?»
«No, è bella… è proprio come la ricordavo» rispose Gwern con voce piatta e
distante.
«Vieni, ti faccio vedere una cosa.»
Suo fratello aprì la porta della rimessa e si fece seguire da Gwern dentro il bosco. Lui si fermò di colpo. Aveva già capito dove stessero andando.
«Non vuoi?»
Gwern annuì e si affiancò a lui, sguardo basso, le mani che si aprivano e chiudevano verso il terreno. Le bave del Flusso che colavano fra le dita tese.
«No, fammi vedere.»
Raggiunsero un grosso tronco secco. Intorno, una spianata di piccoli fiori di
campo rossi. Suo fratello si fermò di fronte a una statua di legno poggiata su un
piedistallo di pietra. Raffigurava una donna china su un bambino. Lui stava piangendo senza lacrime. Lei gli stava accarezzando le guance con sguardo amorevole.
«Alla fine, gli hai concesso una tomba. Ma non a nostro padre. Hai fatto bene»
mormorò Gwern.
«Almeno adesso può stare con sua madre. Anche se lui non è davvero qui.
Non lo meritava?»
«Sì, è stato un bel pensiero.»
Restarono in silenzio a contemplare la statua. Eglade che consolava un ragazzo
moro. Si somigliavano molto. Non avevano trovato il suo corpo, ma a suo fratello piaceva immaginarlo lì insieme a lei. Quando era ritornato dopo tanti anni, e si
era trovato di fronte allo spiazzo carbonizzato dove un tempo sorgeva la casa
della loro infanzia, aveva ricomposto i resti di suo padre e l’aveva seppellito ancora più lontano, senza niente sopra per riconoscere la tomba fra la sterpaglia.
Aveva finalmente lasciato sua madre da sola con suo figlio.
Gwern non voleva ricordare quegli anni. Nessuno di loro voleva farlo.
Era tutto iniziato allora, quando erano ancora bambini.
«Sono passati vent’anni dalla morte di Mordraud» disse Gwern con un sospiro
vuoto di emozioni.
«Già» rispose Dunwich a mezza voce.
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I
… sapevo di essere nato per trovare qualcosa in questo mondo
che ancora era celato agli occhi degli uomini.
Guardo il mare mentre siedo a prua della mia piccola barca,
e tutto mi sembra così grande, e allo stesso tempo, così vicino.
Esiste un Limite, oltre l’orizzonte?
Esiste un Limite degli uomini che nessuno ha mai trovato?
Ma come trovare ciò che è invisibile?
Come raggiungere la fine di una strada infinita?
«Fuori un altro.»
La corda dell’arco vibrava in piacevole sintonia con l’ultimo respiro del Khartiar
ai piedi dell’albero. L’aveva visto arrancare nella foresta, lacero e sporco più di
una bestia, mentre si trascinava fra le radici contorte, incespicando quando
l’armatura spaccata si impigliava fra i rami.
Lento. Inconsapevole. Odioso oltre ogni sopportazione.
«Un Khartiar in meno» sibilò soddisfatto Aris mentre incoccava un’altra freccia.
Aveva la faretra piena, un fiasco appena iniziato di Aniria, e soprattutto, una gran
voglia di fare pulizia.
La caccia era appena iniziata.
«Dev’esserci stata una battaglia oltre il crinale» disse Memion, che stava aspettando sul ramo vicino con l’arco stretto in pugno. Aris era stato più veloce, come
sempre del resto. Ma lui non si era risentito. Avrebbe avuto altre buone occasioni. Quello che contava davvero era impedire ai Khartiar di trovare il villaggio.
«Dovremmo inviare qualcuno a controllare che non ci siano superstiti sul
campo» rispose Aris. Subito, due compagni saltarono giù dagli alberi e corsero
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via inoltrandosi silenziosamente nella foresta. Nessuno doveva tornare a casa
quella notte, pensò con gustosa soddisfazione.
«I Khartiar sono come i topi.»
«Già. Vanno sterminati tutti, altrimenti appena possono ricominciano a figliare…» rispose ridacchiando Memion. Un vecchio detto degli Aelian. Già una volta era stato fatto l’errore di tollerare la presenza dei Khartiar, e loro ne stavano
ancora pagando le conseguenze. Le avrebbero pagate per sempre. La storia degli
Aelian era giunta al tramonto ormai da troppo tempo.
«Dopo una notte senza fine, e un’alba senza luce…» mormorò tristemente
Aris. Un fruscio richiamò di colpo la sua attenzione. Alzò l’arco, caricò la corda,
ma Memion fu più svelto di lui. Una freccia tagliò l’oscurità conficcandosi nella
fronte di un Khartiar ancora più malandato di quello di prima. Non aveva più il
pettorale dell’armatura, e sulla sua pelle una spada aveva lasciato un largo sorriso
sanguinante che si apriva fra le prime costole. Perdeva sangue in modo disgustoso. Quasi un atto di carità, pensò infastidito Aris.
Non doveva esistere carità per i Khartiar. Nel modo più assoluto.
«Bel colpo.»
Memion ringraziò con un cenno del capo. Era più giovane di lui, ma era già
molto bravo con l’arco. Con una sola differenza.
Era la prima volta che cacciava i Khartiar.
Da quando era scoppiata la guerra, non erano mancate le occasioni di imbracciare le armi. Come in un passato ormai remoto, quando gli Aelian avevano tentato di riprendersi ciò che un tempo era stato loro. Erano i primi anni dopo la
notte senza fine. Gli Aelian, scossi e disorientati, senza più una parvenza di società organizzata, si erano scagliati alla rinfusa contro il nascente mondo dei
Khartiar. Troppo tardi, e in troppo pochi. La notte senza fine non aveva particolarmente indebolito quei fragili bastardi, mentre il suo popolo era stato letteralmente sterminato dal buio, e i pochi sopravvissuti non si erano mai più ripresi da
quello che era accaduto.
Il giorno in cui il sole era morto oltre l’orizzonte.
Gli antichi padri non avevano fatto nulla per impedire ai Khartiar di prendere
possesso delle loro città abbandonate, dei loro ministeri, delle loro piazze. E così,
soltanto ai figli era toccata l’incombenza di tentare un’inutile riconquista. I vecchi
avevano assistito al declino dell’impero con la volontà incrinata e gli occhi ciechi
di chi aveva visto cose impossibili da descrivere e da raccontare. Tutto fallito,
pensò Aris. I tentativi di riprendersi Cambria. L’orgoglio calpestato e sepolto in
quelle foreste merdose. Erano secoli che non si parlava più di quella notte. Quasi
tutti i dettagli erano stati completamente dimenticati. Soltanto Cambiryon si
ostinava ancora a cercare risposte dagli anziani, si disse Aris sorridendo divertito.
Quell’arrogante sangue nobile.
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“Tanti anni fa abbiamo tentato… ma i Khartiar sono come topi…” pensò
Aris mentre allentava la tensione della corda. Lui non era che un nipote di quella
disgraziata generazione di Aelian, e non serbava alcun ricordo di ciò che la sua
gente aveva patito quando i Khartiar avevano posto la pietra definitiva sopra
ogni loro desiderio di rivalsa. Ma l’odio era sopravvissuto nei secoli.
Intoccato. Accresciuto a dismisura.
Non doveva stancarsi inutilmente. Quella notte, voleva tornare a casa con gli
occhi intrisi di sangue e le orecchie gonfie di rantoli.
«Aris, guarda laggiù… ce ne sono altri due» gli sussurrò Memion.
«Due insieme?! Dove?»
«Dietro quella quercia.»
Aris leccò le piume della freccia, la soppesò e caricò di nuovo la sottile corda di
crini.
«Uno è il tuo… uno è il mio.»
***
Varno stava fissando la schiena del ragazzo poco distante da lui. Doveva avere
all’incirca la sua età. Non si ricordava di lui, non lo aveva visto giù nel campo e
neppure era stato al suo fianco quando la cavalleria aveva caricato la loro fila. Il
suo volto era distorto dal dolore e dalla rabbia, bianco come una manciata di neve. Dal moncherino ritorto che un tempo era stato il suo braccio destro, grondava sangue misto a terra.
Per un attimo, soltanto uno, aveva davvero creduto in lui. A piedi contro un
cavaliere. Armato soltanto con un pugnale sbeccato. Uno dei pochi soldati rimasti della sua squadra.
Si era sbagliato.
Le sue urla si spensero solo quando la punta di lancia gli trapassò la fronte. Ma
il silenzio non tornò. La terra stessa sembrava mormorare da centinaia di bocche
spalancate verso il cielo.
Varno ricordava poco della battaglia. Lui e i suoi compagni erano stati schierati
in prima fila, come sempre. Il posto che spettava di diritto ai mercenari, inutile
discutere. Lo scontro fra i due fronti era stato improvviso e brutale, un’onda di
marea travolgente. Aveva visto quel maledetto cavaliere puntare verso di lui, fissarlo da dietro la visiera dell’elmo, prendere la mira e centrarlo come il bersaglio
di una giostra. Aveva sentito le rocce graffiargli la schiena, il cielo aveva preso il
posto della terra, finché un albero non aveva posto fine alla sua corsa. La lancia
si era piantata sopra lo spallaccio frantumandogli la clavicola. Il colpo non
l’aveva ucciso.
Per sua sfortuna.
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Il cavaliere aveva abbandonato la lancia dopo averla tirata inutilmente un paio
di volte. Si era piantata troppo a fondo nel tronco, lasciandolo lì appeso, come
una pezza distesa ad asciugare. Varno non aveva neppure estratto la sua spada. E
dire che l’aveva pagata fior di ramette, pensò con stanco sarcasmo.
Avrebbe dovuto ascoltare suo padre, quando gli ripeteva che era meglio badare
ai campi, trovare finalmente una brava donna, avere dei figli e un tetto sotto cui
mangiare. Sagge parole. Ma il suo villaggio era piccolo, le grandi città troppo costose e lontane, e di donne libere, neanche l’ombra. Varno voleva avere successo
nella vita, anche se non aveva la minima idea da dove iniziare. Aveva scelto di
provare l’esperienza del mercenario, gli era parsa una grande idea.
Era stato proprio un idiota.
«Non voglio morire…»
Aveva seguito la battaglia inchiodato all’albero dalla lancia del cavaliere. Si era
tolto anche la soddisfazione di vederlo sbalzare da cavallo, e aveva ridacchiato
quando i suoi zoccoli gli avevano sfondato la faccia. Alla fine dei conti, la sua vita era durata più a lungo di quella del suo carnefice.
Stava per morire per niente, pensò. Quella non era nient’altro che una scaramuccia, uno scontro di poca importanza all’interno della grande strategia
dell’impero. Ma quella mattina, mentre avanzava insieme ai suoi nuovi compagni
di ventura, si era illuso di essere finalmente partecipe di un momento epocale,
una riga all’interno di una fulgida pagina di storia.
Nient’altro che una scaramuccia lontano dal fronte.
“A Cambria spazzeranno per terra qualche bandierina, correggeranno una linea
d’inchiostro sul fronte, e passeranno ad altro… magari a un buon arrosto al vino
rosso” pensò sforzandosi di non ridere. La spalla gli faceva un male cane. Il suo
braccio destro, quello buono, pesava al suo fianco senza forze. L’armatura era
troppo pesante, e il fango sotto di lui gli aveva inghiottito le gambe.
Avevano perso. La sua prima battaglia, la sua prima volta fuori dal quel fottuto
villaggio.
Aveva perso.
«Che schifo…»
I cavalieri nemici stavano ripulendo il campo dai pochi sopravvissuti. Soltanto i
feriti lievi, mentre i moribondi e gli azzoppati venivano lasciati lì a crepare. Strano, pensò Varno. Gli uomini di Elder avevano una gran fretta di andarsene.
«Riesci a muoverti?»
Varno girò dolorosamente la testa e sentì il cuore esplodergli di gioia. Il caro,
vecchio Nedrio. Quel benedetto grassone era riuscito a farla franca. Aveva la
fronte lorda di sangue raggrumato, un orecchio mancava all’appello, e anche la
sua proverbiale pancia non sembrava messa bene.
Ma era vivo, e al suo fianco.
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«Credo… di sì…»
«Aspetta.»
Nedrio lanciò un’occhiata al cavaliere più vicino e aspettò che si togliesse di
mezzo. Il campo era invaso di feriti, e ci sarebbe voluto ancora qualche tempo
prima che arrivassero fino a loro, sul limitare della foresta. Al momento giusto,
Nedrio afferrò la lancia con entrambe le mani e tirò con tutta la sua forza.
E ne aveva da vendere, di forza. Prima di diventare un mercenario faceva il
fabbro. Era l’unico del villaggio a essere partito con lui. Varno non aveva mai
amato così tanto un uomo.
Il dolore che provò quando la lancia si disincagliò fu peggiore di infinite morti
messe insieme.
«Forza, scappiamo!» grugnì Nedrio mentre gettava via la lancia, ma Varno non
riusciva a smetterla di urlare. Sembrava un maiale scuoiato vivo. Un soldato nemico si voltò verso di loro. Il fabbro aveva già la mano sulla spada, ma con stupore vide il nemico volgere il cavallo e andarsene.
Era la loro occasione d’oro.
«Smettila di frignare e seguimi!» urlò Nedrio mollandogli due ceffoni. Varno,
stordito e fuori di sé dal dolore, si aggrappò a lui e insieme varcarono le prime
file di alberi, sparendo ben presto dentro il buio denso della foresta.
Il sole era tramontato in fretta. Ancora pochi istanti, e tutto sarebbe stato avvolto dalle tenebre.
«Meglio… così non potranno venirci a cercare…» mormorò Nedrio sbuffando
di fatica. Era difficile avanzare fra i rami fitti e le radici insidiose. Non volava un
filo di vento, non si sentiva il minimo suono.
La foresta stava dormendo beata.
«Ce l’abbiamo fatta, amico» disse Varno tossendo con raschiante violenza.
C’era sangue nel suo fiato. Stavano camminando da un tempo che a lui pareva
incalcolabile. Dove aveva picchiato al suolo quando la carica del cavaliere l’aveva
piantato nell’albero, era tutto un cumulo di lividi e ossa rotte.
Era veramente ridotto male. Forse troppo male.
«Devi resistere fino all’alba, capito? Poi potremo puntare verso
l’accampamento… dovrebbe essere a Sud di qui, l’importante è che ci teniamo
lontani dai monti di Cambrinn…» rispose Nedrio con un sorriso tirato. «Superiamo questo avvallo e ci nascondiamo da qualche parte, dovrei avere ancora
qualche fetta di carne secca. Occhio alla scarpata, si vede a malapena.»
«Grazie… mi hai salvato la vita…»
«A buon rendere, testa vuota!» rispose lui.
«Gr…»
Non poté finire la frase.
18
Le piume di una freccia erano spuntate improvvisamente sulla coscia di Varno.
L’osso era esploso in mille pezzi. Non aveva fatto in tempo a sentire il suono
della corda, né il sibilo dell’asta.
Piume rosse come il sangue. Gialle d’oro colato.
Varno guardò Nedrio. Lo vide stringersi la pancia con gli occhi fuori dalle orbite, in silenzio. Anche lui era stato colpito. Stava guardando in alto, sopra gli alberi. All’inizio non notò nulla fuori posto. Soltanto fronde mosse dal vento su
un cielo nero di carbone.
E poi, finalmente, li vide. Scesero con un salto dai rami, senza fare il minimo
rumore.
Non aveva la minima idea di chi, o cosa, potessero essere.
***
«Non l’hai ucciso, Aris.»
Il cacciatore imprecò fra i denti. Aveva il tiro coperto, e aveva aspettato troppo
poco. Non che Memion fosse stato molto più bravo di lui. Una freccia in pancia
non era stata sufficiente.
«Andiamo giù.»
Aris saltò a terra e sfilò la spada. Non la usava da una vita. In fin dei conti,
quell’inconveniente non gli dispiaceva poi tanto. Memion lo seguì in silenzio, e
insieme corsero verso i due Khartiar feriti. Uno di loro, quello più grasso, aveva
sguainato un ferro arrugginito e stava urlando qualcosa in una lingua grezza e incomprensibile. Non li aveva mai sentiti parlare.
Li aveva sempre e soltanto sentiti guaire.
«A te il tuo, a me il mio» disse a Memion, scivolando fra i rami bassi degli alberi. Ma quando li raggiunsero, quello che aveva ferito lui non c’era più. Il Khartiar
più magro. Era letteralmente sparito.
«Dov’è andato quel maledetto?!»
«Dovunque sia… non andrà lontano» rispose Aris.
Saltarono insieme addosso all’ultimo rimasto, che aspettava ciondolando con la
spada spianata. Aspettava la sua morte, che arrivò subito, senza scambi, senza
alcun rumore.
Aris si mise subito sulle tracce della preda scomparsa. Vicino all’albero si apriva una voragine, probabilmente una frana dovuta alla pioggia incessante degli ultimi giorni. Se il suo Khartiar era scivolato laggiù, non sarebbe stato molto difficile trovarlo. Proprio in quel momento, i due compagni che aveva inviato verso il
campo fecero ritorno con pessime notizie.
«Ce ne sono ancora tanti che stanno cercando riparo nella foresta» disse uno di
loro.
19
«Quanti?»
«Parecchi…»
Aris fissò il crepaccio, poi l’orizzonte degli alberi che portava al campo di battaglia. Uno, contro tanti. Con un sibilo stizzito, abbandonò la traccia e radunò i
suoi.
«Andiamo… me ne occuperò dopo.»
Per com’era ridotto, quel Khartiar non poteva andare lontano.
***
Varno riaprì gli occhi e sputò un pugno di fango amaro. Era precipitato dopo
essere scivolato sul bordo del crinale, mentre cercava di sfilare con le mani tremanti la spada dal fodero. Ricordava di aver sentito Nedrio urlare qualcosa, forse
una bestemmia, poi più nulla. Guardò in alto, ma del suo amico non c’era traccia.
Si toccò la gamba. Dovette tapparsi la bocca per non urlare. Stringendo i denti
afferrò l’asta della freccia e la piegò fino a spezzarla. Fu più doloroso della lancia
che gli aveva fracassato la spalla.
Per un momento insulso, Varno pensò di tornare su per vedere come stesse
Nedrio. Per aiutarlo, magari. O per combattere insieme a lui.
Ma alla sola idea di imbattersi di nuovo in quei due esseri, non se la sentì. Voleva soltanto scappare, il più lontano possibile, senza mai guardarsi indietro. Non
aveva la forza per affrontare quei cupi uomini partoriti dalla foresta notturna.
«Mi dispiace…»
Varno provò a mettersi in piedi ma la gamba era andata. Iniziò a strisciare nel
fango, arrancando fra gli arbusti duri e pungenti che costellavano il crinale. A
ogni spinta, il suo corpo fremeva di dolore lancinante. Solo la paura lo manteneva in vita. Non voleva morire da solo, in quella maledetta foresta. Così strisciò.
Senza più pensare a nient’altro che alla sua vita.
A quella misera esistenza che non se la sentiva di abbandonare.
Varno non si rese conto di quanta strada avesse fatto, né del tempo che era
passato dal tremendo volo nella notte. La foresta era avvolta nel silenzio e le stelle lo fissavano severe, mentre venivano inghiottite da pesanti nubi nere cariche di
pioggia. Voleva soltanto andare avanti, sempre avanti, fino all’alba. Voleva vedere la luce del sole a tutti i costi.
Ma quando scorse la piccola baracca ai piedi del grande albero, non ci pensò
due volte. Il dolore era diventato insopportabile, e ben presto gli sarebbe stato
impossibile muovere anche soltanto un muscolo. Aprì debolmente la porta spingendola con l’unico braccio ancora intero, scivolò dentro, e si accasciò fra i ceppi
di legna tagliata di fresco.
20
Quando si rese conto di non essere da solo, era troppo tardi per tentare di fare
qualcosa.
«Non voglio… morire…»
***
Era quasi l’alba quando Aris poté riprendere la sua pista. Altri ottanta Khartiar
erano stati massacrati, tutti in modo svelto e pulito. Soltanto quel maledetto che
aveva ferito a una gamba era riuscito a sfuggirgli, ma la beffa non sarebbe durata
a lungo. Le strisce di sangue erano numerose e ben definite, e lui riuscì a seguirle
fino in fondo al crinale, poi verso Nord per un lungo tratto.
“Ostinato… con una ferita del genere, strisciare deve essere piuttosto doloroso” pensò divertito.
Ma tutto il divertimento si spense quando iniziò a piovere a dirotto.
Preso dall’ansia di perdere la pista, Aris corse seguendo l’istinto e le ultime
gocce di sangue, prima che venissero lavate via dall’acqua che cadeva a secchiate
dal cielo. Raggiunse una radura, la riconobbe subito. Al centro sorgeva una grande quercia che ospitava una piccola casa arroccata fra le sue radici. La porta della
legnaia era aperta e sbatacchiava al vento del temporale.
«Eglade… se quel Khartiar l’ha anche soltanto sfiorata con un dito…»
Le tracce erano svanite del tutto. La terra era coperta di trucioli e pezzi di corteccia sparsi ovunque. Aris corse verso l’albero e si precipitò con la spada in pugno dentro la legnaia.
Non solo l’avrebbe ucciso, pensò. Voleva farlo letteralmente a pezzi, quel porco di un Khartiar, e spargere le sue budella su tutta la foresta. Quella era la fine
che meritava.
Quella era la fine che tutti loro meritavano.
Ma dentro la piccola baracca trovò soltanto Eglade, intenta ad ammucchiare
legna bagnata lungo una parete. Rivoli di pioggia le colavano lungo i capelli di
rame fuso. Una gran bella donna, pensò. Un peccato che si ostinasse ad abitare
lontano dal villaggio, da sola.
“Ed è ancora così giovane…” pensò fissandola eccitato dalla corsa e dalla
pioggia.
Eglade gli era sempre piaciuta, sin da quando era ancora un’ancella delle anziane.
«Cerchi riparo dalla pioggia, Aris?»
Lei ansimava ed era rossa in volto. I suoi occhi non tradivano alcuna paura.
Iridi tanto blu da far ingrigire il cielo. Aris si guardò intorno, con la spada ancora
stretta in pugno, ma non trovò nulla.
Quel Khartiar doveva per forza essere passato oltre.
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«Ho visto la porta aperta, e così…»
Non voleva spaventarla. Se si fosse venuto a sapere che un Khartiar era riuscito a giungere così vicino al villaggio, per lui sarebbe stato un disonore insopportabile.
«Volevo solo sincerarmi che fosse tutto a posto.»
«Stavo mettendo dentro la legna prima che si bagnasse… sai, l’ho tagliata proprio stamattina» rispose Eglade scostandosi una ciocca di capelli dal volto. Fuori,
il temporale ruggiva inferocito. A ogni tuono lei sussultava aggrappandosi alla
pila di legna alle sue spalle. Era fradicia dalla testa ai piedi, tremava per il freddo.
Ad Aris dispiacque parecchio di doversene andare.
«Mi raccomando, sta’ attenta!» le gridò mentre correva verso la foresta, di nuovo a caccia della sua preda.
Eglade non rispose.
Se non avesse avuto tutta quella fretta, forse a Aris quel dettaglio sarebbe potuto suonare stonato.
***
Varno era ormai a un passo dalla morte, quando Eglade lo liberò da sotto il
cumulo di legna. Lo aveva visto strisciare dentro la baracca, e in un primo momento era saltata indietro in preda al panico. Poi aveva sentito una voce sconosciuta, raschiante e fioca come lo sfrigolare di un fuoco, dire qualcosa che lei non
era riuscita a capire. Si era avvicinata con un ramo in mano, pronta a difendersi,
ma era rimasta impietrita quando si era resa conto di chi le stava morendo di
fronte.
Un Khartiar ferito che rantolava ai suoi piedi.
Spinta da una sorta di impulso primordiale, era stata sul punto di spaccargli il
ramo in testa. Dopotutto, i Khartiar non meritavano di vivere, aveva pensato.
Gliel’avevano insegnato le anziane. Ma non aveva tirato fuori il coraggio per farlo. Si sentiva più curiosa che preoccupata.
Si chiedeva da sempre cosa ci fosse fuori da quella foresta da cui, pena la morte, era proibito uscire. Le avevano sempre detto che oltre gli alberi non esisteva
altro che morte e miseria. I resti del loro antico impero, stuprati e profanati dai
Khartiar.
Si era trovata di fronte a un’ottima occasione per capire.
Quando aveva sentito la prima pioggia battere sui rami della grande quercia,
aveva già deciso cosa fare. Era corsa fuori, aveva coperto le tracce di sangue con
un letto di trucioli, e aveva nascosto il Khartiar sotto un cumulo di legna.
Aris era piombato dentro la piccola stanza proprio mentre lei stava poggiando
l’ultimo ramo sulla sua testa.
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«Non so se riuscirò a salvarti…»
Varno raschiò qualcosa. Un ringraziamento, o una preghiera. Eglade non riuscì
a capire.
Quell’uomo era un immenso segreto.
E fu quello il motivo per cui fece di tutto per medicare le sue ferite.
23
II
«Capisci quello che dico?»
Varno non aveva mai visto una donna come lei. Stupenda, ma allo stesso tempo, strana. Non trovava una parola migliore per descriverla. Alta quanto lui, i capelli di rame fuso che le scendevano composti sulla schiena. Compatti, come se
fossero molto più pesanti del normale. Occhi blu. Non azzurri, non chiari. Puro
e insondabile blu. La pelle era liscia, senza una macchia, un neo, una piccola cicatrice. Niente di niente. Sembrava essere stata intagliata e composta da materia
che non apparteneva alla sua stessa realtà.
Una donna spogliata da ogni difetto, come in un sogno privo di fantasia.
«La tua casa è molto bella, sai?»
Lei rispose con un sorriso. Fra le mani stringeva un pestello, che girava lentamente aggiungendo di tanto in tanto una fogliolina dall’aroma pungente. I suoi
abiti non erano molto diversi da quelli di una ragazza qualsiasi. Un vestito di lino
corto al ginocchio, semplice e senza ricami, un accenno di scollatura, e un paio di
stivali in pelle chiara. La casa era, più che altro, una sola stanza con una piccola
stufa di terracotta. Un tavolo, qualche sedia in paglia intrecciata e un letto, su cui
era sdraiato lui, da giorni di stupore silenzioso.
Varno non sapeva esattamente da quanto. Le ferite erano quasi tutte guarite,
anche quella sulla gamba. Restava soltanto un foro parzialmente cicatrizzato dove la freccia era penetrata, e un taglio sulla coscia da cui era uscita la punta acuminata. Ricordava poco e male ciò che era successo dopo che si era nascosto
nella legnaia, soltanto il rumore della pioggia sul tetto di legno, le bende strette su
tutto il corpo, e il profumo marcato degli intrugli che quella donna gli aveva
spalmato sulle ferite ogni giorno, con costante e paziente dedizione.
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«Quella roba ha fatto miracoli… mai visto qualcuno sopravvivere alle ferite
che avevo io…» disse sgomento. Sperava che lei dicesse qualcosa. Nulla da fare.
Lei non rispondeva, e soprattutto, sembrava non capire una parola di quello che
lui diceva. Aveva provato con il dialetto della sua vallata, poi si era sforzato di
parlare nella lingua di Cambria, conosciuta in tutto il mondo e usata in ogni
scuola. Non era servito a niente. Varno si accasciò stancamente sul letto, sprofondando nel grande cuscino bianco che lei gli aveva sprimacciato poco prima.
Non era mai stato più comodo in vita sua.
«Chiunque tu sia, grazie di cuore…»
«Gra… graz…»
Varno si tirò su di colpo, ma quel gesto gli causò una scarica di dolori alla
schiena che gli tolse il respiro. La donna lo aiutò a poggiarsi di nuovo, con il volto contratto da una preoccupazione senza rughe.
«Volevi dire… grazie?»
«Grazie» ripeté lei un po’ a fatica. Aveva una bella voce, calda e profonda. Molto profonda. Inaspettata.
«Come… ti… chiami?» disse Varno lentamente. «Io… mi chiamo Varno. Varno…» ripeté indicandosi più volte.
«Eglade» rispose prontamente lei. Il suo viso si sciolse in un sorriso. Varno osservò strabiliato la concretezza della sua pelle. I pori erano praticamente invisibili. Nemmeno un pelo sulle braccia. La sua espressione di gioia era pura emozione
tradotta in labbra che lui non aveva mai visto in vita sua.
«Impari in fretta, eh? Bene, allora… grazie ancora!»
«Grazie… ancora!»
***
Non solo Eglade imparava in fretta, concluse Varno con immenso stupore.
Era anche veloce a capire cosa lui volesse insegnarle. Bastava indicarle qualcosa,
nominarla, e lei riusciva a collegare le altre parole con velocità disarmante. Dopo
poche ore, erano in grado di scambiare qualche breve frase di senso compiuto.
Erano stati sufficienti un paio di giorni perché lei riuscisse a intuire il significato
delle parole prima che lui gliele spiegasse. Come se avesse già compreso a fondo
il funzionamento della lingua di Cambria. Varno non riusciva a capire come fosse possibile. Lei sembrava immensamente più intelligente di qualsiasi altra persona lui avesse mai incontrato.
«Com’è la tua lingua?»
«Difficile… molto più difficile di quella dei Khartian» rispose Eglade mentre
completava la fasciatura sulla gamba. Era sera, la luce del tramonto filtrava dalle
piccole finestre abbellite con un delicato pizzo bianco. Avevano appena finito di
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mangiare una zuppa di verdura vagamente dolciastra, ma che Varno aveva trovato deliziosa.
«Khartian… mi ricorda qualcosa…» borbottò lui cercando di venire a capo
della sua memoria confusa. Aveva sentito quella parola in almeno un’altra occasione. «Sì, quando sono volato giù dal dirupo! L’ho sentita pronunciare da uno di
quegli arcieri… ma era un po’ diversa.»
«Forse tu dici Khartiar?»
«Esatto!» esclamò Varno. «Ma cosa significa?!»
Eglade chinò lo sguardo imbarazzata. Sembrava non volerne parlare. Soltanto
quando lui insistette, lei tentò di spiegargli cosa in realtà significasse quella parola.
«Tu sei un Khartian… voi dite… semplicemente uomo. Essere umano. Ma per
noi, vuol dire popolo che è giunto dal mare.»
«Invece cosa significa Khartiar?» chiese Varno, perplesso e disorientato.
«È un insulto. Significa popolo usurpatore» mormorò lei.
«Non capisco! Di che stai parlando? Cosa abbiamo usurpato? E chi siete…
voi?!»
«Io sono una Aelian.»
Varno allargò sconsolato le braccia. «Io non vi ho mai sentiti nominare…»
«Davvero?!»
Varno non aveva mai studiato. Sapeva a malapena leggere e scrivere il proprio
nome. Nel paese dove era nato e cresciuto, il massimo esempio di cultura era la
raccolta delle canzoni sulle gesta delle Lance Imperiali di Cambria. Conosceva
qualche storia bislacca sui popoli delle foreste, favole per bambini popolate di
esserini vestiti di verde e armati di piccole fionde. Ma non aveva mai sentito parlare di Aelian. Eglade era stupenda, inquietante nella sua perfezione, ma in fin dei
conti poteva essere confusa per una donna qualunque, se non si prestava attenzione ai dettagli. Come i capelli di rame e gli occhi incredibilmente blu.
«Siamo pochi, molto pochi. Ma non siamo una fiaba» rispose Eglade con una
punta d’orgoglio nella voce cupa. «Siamo stati molto importanti tanti anni fa. Secoli, come direste voi.»
«Non sembri… non sembrate molto diversi da noi Khartian» osservò perplesso Varno.
«Anche io sono… come si dice? Sono sorpresa. Credevo che voi Khartiar…
ecco, Khartian… foste pieni di peli, bassi e brutti, e affamati di sangue.»
Varno scoppiò a ridere fragorosamente. Non che lui fosse un gran splendore,
ma quella descrizione era piuttosto indecorosa. Capelli scuri e mossi, occhi neri
come il carbone, e una barba vecchia di settimane che per sua fortuna cresceva
poco. Corpo massiccio, di chi aveva passato quasi tutta la vita con una zappa o
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un aratro fra le mani. Il naso era un po’ storto, dopo che se lo era rotto un paio
di volte in qualche zuffa da ragazzino.
«Come mai vivete in questa foresta? Siamo quasi ai confini con le montagne
desolate del Nord» le chiese.
«Quaggiù, voi Khartian non venite mai. Quasi mai. Alle nostre spalle non c’è
nulla se non monti ghiacciati e brughiere inospitali, fino al mare del Nord. I primi vostri centri abitati distano molti giorni, e da qui non passa nessuna strada a
voi utile. È stata una scelta sofferta. Prima della nostra rovina, vivevamo in grandi città e costruivamo strade e porti. Con il passare degli anni ci siamo abituati ai
boschi. Ci proteggono da voi. Per noi è vietato entrare in contatto con un…
umano. È vietato uscire dalla foresta. Le nostre guardie ucciderebbero anche un
Aelian, se fosse necessario.»
«Perché?! Non capisco!» esclamò Varno.
«Tutto è iniziato molto tempo fa. Tante, tante generazioni per voi, meno per
noi. Gli Aelian, come me, vivono molto più a lungo dei Khartian.»
«E quanto?»
«Beh, molto di più… almeno credo.»
Varno crollò sul letto a bocca aperta. Era assurdo, pensò. Un sogno sempre
più delirante.
«Un tempo, in tutto il continente di Cambria dominavano gli Aelian. La città
stessa di Cambria era nostra, così anche tutto l’Ovest e il Sud. Voi Khartian siete
giunti dal mare del Nord e vi siete stabiliti sulle nostre coste. Eravate pochi, nessuno di noi si è mai opposto al vostro arrivo. Anche noi abbiamo viaggiato fino
alle vostre terre…»
«Quali?!» chiese Varno.
«Ankhar, a Nord. Molti giorni di nave, o almeno così si dice. Non ci sono mai
stata.»
«Esiste un continente ancora più a Nord?!»
«Sì. La vostra terra natale. E gli Aelian sapevano come raggiungerla, all’epoca
abbiamo commerciato con voi, scambiato storia e scienze. Finché non siete scesi
in massa qui, a casa nostra. Poi…»
«Poi?»
«È iniziata la notte senza fine.»
«La notte… senza fine?!»
«Esatto. Ma io non so altro. È proibito ricordare quegli anni. È proibito anche
soltanto parlarne» ammise frettolosamente Eglade, terrorizzata dalle sue stesse
parole.
«Immagino che noi Khartian abbiamo approfittato di questa… notte senza fine, giusto? Per usurpare casa vostra.»
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«Non lo so. Più o meno, credo. Inoltre, dicono che…» la voce di Eglade divenne un sussurro, come se avesse paura che qualcun altro potesse sentirla parlare di quei ricordi. «Dicono che sia stata tutta colpa di un solo Khartian. Da allora, noi siamo esuli nelle terre che un tempo furono nostre. E odiamo il vostro
popolo.»
«Un solo uomo?! E come si chiamava?»
«Non lo so» si affrettò a dire lei.
«Perché non avete tentato di riprendere ciò che era vostro?!» chiese stupito
Varno.
«Voi eravate diventati più forti, e noi più deboli. Abbiamo tentato. Ma abbiamo perso. Ora cerchiamo di vivere lontani da voi. Ci è vietato anche soltanto
pensare di allontanarci dal nostro villaggio. Non sappiamo nemmeno se esistano
altre comunità come la nostra, da qualche altra parte. Qualcuno dice di averle viste, come Cambiryon… ma siamo in pochi a crederlo.»
«Chi è questo… Cambiryon?»
«Il discendente diretto di Cambirian, l’ultimo Re degli Aelian. Colui che ha
guidato il nostro popolo attraverso la notte senza fine. Non si sa molto della sua
vita. Come non si sa praticamente nulla di quello che è successo all’epoca.»
«Non capisco.»
«In realtà, neanche io lo capisco» sussurrò Eglade «ma tutti i miei compagni la
pensano come gli anziani. Deve essere successo qualcosa di orrendo, durante la
notte senza fine.»
«Non che il mondo fuori da questa foresta sia molto invitante!» esclamò con
un ghigno sarcastico Varno. «Cambria, la città che un tempo era vostra, ora è la
capitale dell’Est. È diventata il cuore di un impero. Non è stato di certo il primo.
Dopo aver preso il vostro, temo che la mia gente ci abbia preso gusto. A noi
Khartian piace tantissimo fare la guerra…» ridacchiò.
«L’Imperatore Loren, il patriarca della famiglia più potente di Cambria, ha già
in mano gran parte dell’Est, fino a Telatias, ed a Sud fino a Calhann. Ma Elder e
la sua alleanza di ribelli dell’Est gli stanno tenendo inaspettatamente testa. Difendono i territori che lambiscono l’oceano orientale, le terre dei loro antenati. Io
ho combattuto in una di queste battaglie…»
«Da che parte?»
«Dalla parte di Cambria. Comunque, non importa. Le guerre servono solo a
noi mercenari. Per il resto, portano fame e problemi.»
«Un mercenario?! Che cos’è?» chiese incuriosita Eglade.
«Un uomo che combatte una guerra per denaro» rispose Varno.
«Sembra una cosa molto triste…»
«Può darsi» disse lui con un’alzata di spalle. «Ma c’è di peggio.»
«Che cosa?»
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«Morire in guerra per denaro…» rispose Varno con un sorriso tetro.
***
Passarono le settimane. Le ferite erano guarite del tutto. Varno trascorreva il
suo tempo raccontando a Eglade le storie del suo popolo, e lei ricambiava con
quelle della propria gente. I mondi degli uomini e degli Aelian, si rese conto ben
presto, erano distanti come le nuvole dai pozzi, sebbene fisicamente le due stirpi
fossero molto simili. Gli Aelian vivevano esclusivamente di ricordi, aggrappati
disperatamente alle antiche leggi del loro popolo. Mal sopportavano la vita nei
boschi, ma avevano trovato faticosamente una sorta di armonia. I Khartian erano sempre alla ricerca di un futuro di ricchezze, agi e soprattutto, di potere. Maschi e femmine, fra gli Aelian, erano uguali. Ognuno aveva diritto alla propria
giusta dose di cibo, a un tetto sulla testa, a una cultura. Fra gli umani, invece, chi
aveva il denaro poteva permettersi qualsiasi cosa. E le donne non contavano un
granché.
Eglade aveva studiato con le anziane, prestando servizio come loro ancella.
Sapeva perfettamente leggere e contare, calcoli complessi basati su scale che
Varno non riusciva minimamente a comprendere. Lui sapeva a malapena leggere,
e ancora meno scrivere. Lei aveva imparato la sua lingua, l’aveva salvato da una
morte certa, sapeva come preparare portentose misture curative, riusciva a sentire l’arrivo di un temporale il giorno prima che esplodesse. Varno, al massimo, era
forte abbastanza da maneggiare una spada.
Eglade gli raccontò anche tanti altri dettagli meno lusinghieri. Gli Aelian sapevano essere ferrei con le regole fino a una crudeltà calcolata e perseguita senza
esitazioni. La loro mente era molto più razionale di quanto apparisse, in contrasto con le loro case sotto gli alberi e gli orti che esplodevano di colori. Possedevano un’autentica passione per la catalogazione, e per l’innata eleganza di una
legge. Vivevano perennemente in uno stato di insoddisfazione strisciante che
non dava mai loro tregua.
Più lei parlava, meno Varno si sentiva vicino alla forma della sua mente. Un
oceano di differenze li separava.
Ma tutto il mare del mondo non poteva mitigare il senso di meraviglia che
provavano stando vicini. Erano due epoche, due realtà, due pensieri che si incontravano, come forse poche altre volte era successo.
La meraviglia non tardò molto a trasformarsi in affetto.
Tutte le storie che Varno poteva raccontare, per Eglade erano una finestra su
un segreto che le era sempre stato precluso, a lei come a tutti i suoi simili. Allo
stesso modo, lui vedeva nella Aelian la perfezione più pura e cristallina, qualcosa
che nessun’altra donna avrebbe mai potuto avere. Bellezza, grazia, sensibilità per
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lui incomprensibili. Una finezza di pensiero che lo lasciava attonito. Non era soltanto una questione di eleganza nei lineamenti, di sensualità. Aveva visto nella
sua vita tante donne belle e provocanti. Eglade aveva qualcosa in più, e in meno.
Mancava di imperfezioni. I colori del suo corpo erano oltre il vivido, l’intenso.
Sembrava una donna superiore al concetto stesso di donna. Poteva restare ore ad
ascoltarla, a guardarla. A chiedersi il perché dell’esistenza degli Aelian, e dei
Khartian come lui. Non capendo assolutamente niente.
L’unico problema era che non poteva uscire di casa. Neppure per un istante.
«Se una delle guardie ti vedesse, ti ucciderebbe senza esitare. E ucciderebbe anche me per averti aiutato.»
Varno sapeva che Eglade non stava esagerando. Lei viveva da sola fuori dal
villaggio, contro il volere dei genitori e della sua gente. Per tutti loro, quella scelta
non aveva il minimo senso. Ciò che permetteva agli Aelian di sopportare quella
decadente condizione di esiliati, conseguenza di motivi che loro stessi faticavano
a ricordare, era proprio il loro legame profondo con il senso impietoso della legge. Eglade, invece, non aveva mai sopportato quel moto di lenta corrosione, di
impercettibile morte che la sua gente si trascinava sulle spalle. Non appena aveva
avuto la facoltà di scegliere, aveva preferito vivere da sola, nella foresta. Piuttosto
che vedere i suoi parenti e i suoi amici accettare in silenzio quel piccolo mondo
che si erano creati intorno con le loro stesse mani.
Ma era soltanto una questione di tempo. Prima o poi, qualcuno sarebbe venuto
da lei. Sua madre, una delle anziane da cui aveva prestato servizio, una guardia.
Forse persino Aris, che proprio la notte in cui si erano incontrati per la prima
volta, per poco non aveva scovato Varno. Lei non voleva che succedesse niente
di tragico. Comprendeva lo spirito d’odio della sua gente, ma lei non lo sentiva
del tutto suo. Parte di lei era semplicemente curiosa. Un sentimento che gli altri
Aelian sembravano aver dimenticato nelle ombre della notte senza fine.
«Devo andare via… ormai sono guarito, e più resto qui, più tu sei in pericolo.»
Era una sera limpida e fresca. Stavano bevendo una tisana di fronte alla piccola
finestra della sala, nascosti dalle tende tirate. Come sempre, avevano parlato fino
a tardi, ma con meno leggerezza del solito. Entrambi sapevano che ormai il tempo era finito. Quella mattina, per poco un Aelian non l’aveva visto, mentre passava a salutare Eglade prima di andare a caccia. Lei aveva accampato una scusa
qualsiasi per non invitarlo in casa, e soltanto per puro caso lui aveva desistito.
Varno aveva sbirciato tutto. L’Aelian che aspettava fuori dalla porta era alto più
di lui, con i capelli grigi e gli occhi quasi bianchi. Portava un arco immenso alle
spalle. Talmente grosso da sembrare finto. Aveva anche una spada con sé, e lui
sentì, senza comprenderne il motivo, che in uno scontro contro di lui non
avrebbe avuto alcuna speranza di sopravvivere.
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Gli Aelian erano in grado di instillargli un senso di impotenza abbastanza forte
da fargli perdere ogni traccia d’amor proprio.
«Dove andrai?» chiese tristemente Eglade.
«Tornerò verso casa, a Sud di Cambria. Poi… non lo so.»
«Io…»
«Non pensarci nemmeno!»
«Ma…»
«Niente da fare» ripeté Varno lottando per non dire altro. Lei voleva andare
con lui. Ma sapeva che era un pensiero folle. Dove avrebbero potuto vivere? Cosa avrebbe pensato la sua gente? Cosa avrebbero fatto gli Aelian?
Non poteva mettere a rischio le loro vite.
Anche se il solo pensiero di andarsene era più doloroso di qualunque lancia
piantata sulla spalla, o qualsiasi freccia conficcata nella coscia.
Quella notte sarebbe partito. Ormai aveva deciso.
Senza di lei.
***
Aris stava raggiungendo il confine della foresta a passo svelto, ma i suoi pensieri erano rivolti ad altro. Ancora a quella maledetta notte dei Khartiar, quando
uno di loro gli era sfuggito da sotto il naso, per la prima volta nella sua lunga vita.
Quel pensiero lo faceva uscire di senno.
“È svanito nel nulla vicino alla casa di Eglade. La pioggia l’ha aiutato… che
fortuna sfacciata” pensò.
Erano passati diversi mesi da quel giorno, ma non aveva dimenticato nulla della lunga caccia di sangue, dell’inseguimento, del temporale. Una giornata memorabile e allo stesso tempo, la sua macchia segreta. Gli anziani l’avevano lodato di
fronte a tutte le altre guardie, e gli avevano anche fatto dono di un antico pugnale. Come segno di rispetto e profonda stima. Era appartenuto a Cambirir, lo
sterminatore di Khartiar, figlio del grande Cambirian. Se avessero saputo del suo
errore glielo avrebbero sicuramente portato via. E Cambiryon, l’ultimo dei suoi
nipoti, lo avrebbe umiliato di fronte a tutti, urlando che lui non si era dimostrato
degno del sangue di suo nonno. Una leggenda fra gli Aelian.
«Quanto vorrei piantarlo nella schiena di quel Khartiar!» borbottò stizzito,
mentre scivolava fra gli alberi intricati della foresta. Da quel giorno non c’erano
state altre intrusioni. La normalità, pensò annoiato.
“I porci dovrebbero combattere più spesso vicino ai nostri confini…”
Stava passando proprio vicino alla radura della quercia, dove Eglade viveva da
sola. Abituato com’era a tenere d’occhio ogni cosa, Aris non mancò di dare
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un’occhiata alla finestra illuminata da una candela, chiusa dalle tendine di pizzo
bianche. Davanti alla legnaia erano ammonticchiati alcuni ceppi di legna tagliata
di fresco.
Aris si fermò improvvisamente, rapito da un dettaglio nuovo. Un ricordo della
sera di sangue che non aveva tenuto molto in considerazione, preso dalla frenesia della caccia.
I trucioli sparsi sulla radura di fronte alla casa.
“Sono pochi, ora… e soltanto vicino alla legnaia. Quella notte, invece…”
Aris cercò di ricordare con estrema attenzione. Quando aveva raggiunto la rimessa stava piovendo, e per terra era pieno di scaglie e rimasugli di legna tagliata.
Li aveva sentiti sotto gli stivali, li aveva visti ovunque. Una cosa comune, quando
si preparava la legna per i periodi freddi, ed era un’intera famiglia a dedicarsi a
quel lavoro.
“Ma una ragazza da sola… in primavera… subito prima di un temporale…”
Doveva togliersi quel piccolo dubbio, prima di raggiungere il confine. Non
avrebbe fatto altro che pensarci e ripensarci. Abbandonò il sentiero e raggiunse
la legnaia guardandosi attentamente intorno, per terra, fra le zolle d’erba fresca.
Aprì la porta e spostò alcuni ceppi cercando di non fare rumore. Eglade si sarebbe potuta spaventare. E lei aveva l’orecchio molto fine, come tutti gli Aelian.
Aris non sapeva esattamente cosa doveva cercare, e cosa fare se l’avesse trovata. Mosse la legna a casaccio, controllò a terra, spostò attentamente i rami tagliati
fino a raggiungere gli strati bassi. Quelli più vecchi.
Quelli che, più o meno, dovevano essere stati tagliati la notte del temporale.
Li trovò dopo aver cercato a lungo, in silenzio. E non si imbatté soltanto in
rami secchi e polvere.
“Avrei dovuto sospettarlo… tutte quelle volte che ha criticato apertamente le
opinioni delle anziane…”
Sangue sul legno. Qualche goccia, una lieve striscia sbiadita e annerita.
Era sufficiente a colmare ogni suo dubbio.
“Vediamo se è stata così stupida da tenersi un Khartiar in casa… altrimenti, mi
farò dire dov’è andato.”
Ad ogni costo, pensò.
***
Eglade trasalì quando qualcuno bussò alla porta a quell’ora tarda della notte.
Varno sbiancò e subito si guardò intorno a caccia di un riparo. L’unico posto era
sotto il letto. Un misero nascondiglio.
Soprattutto quando non c’era più tempo per usarlo.
«Posso entrare, Eglade? Sono Aris.»
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Varno non capiva una parola della loro lingua, ma quando vide Eglade diventare color cenere si rese conto che la situazione era disperata. «Cosa faccio?» le
bisbigliò.
Tentò di alzarsi per raggiungere il letto, ma proprio in quel momento la porta
saltò via dai cardini con uno schianto spaventoso. Eglade urlò terrorizzata.
Anche Varno esplose in un guaito stridulo.
Uno degli arcieri di quella maledetta notte. Proprio davanti a lui, che sogghignava soddisfatto.
«Sei stata proprio una stupida, Eglade.»
Capelli d’onice. Occhi di un verde intensissimo. Il volto perfetto deformato da
un’insana euforia. Mani affusolate strette sull’elsa di una lunga spada ricurva.
Niente armatura, soltanto un comodo abito di pelle scura.
«Ti prego Aris, non farlo!» urlò disperatamente Eglade. «I Khartian non sono
come pensi!»
«Ah sì?! Tu dici che non sono pericolosi?!» ringhiò l’Aelian inferocito. «Hanno
soltanto rovinato la nostra vita! Hai dimenticato cosa raccontano della notte senza fine, eh?!»
«Nessuno sa davvero cos’è…» tentò di dire Eglade, ma Aris la interruppe afferrandole brutalmente un braccio. Le dita lasciarono ombre nere dove strinsero
la carne.
«Inutile che tu lo difenda, sei già spacciata! Lui pagherà per tutto, anche per
averti insozzato i pensieri con il suo disgustoso veleno! TOGLITI DI MEZZO!»
Eglade fece un passo in avanti e gli sbarrò la strada. Varno non aveva capito
nulla di quello che si stessero dicendo, ma non poté fare a meno di notare quanto, alla fine, gli Aelian fossero simili agli umani. Stessa rabbia, stesso rancore,
stesse pulsioni. Soltanto racchiuse in un corpo vagamente esasperato, in una
mente superiore.
Sentimenti umani, dopotutto.
«Avrai anche tu la giusta punizione, Eglade. Ora lasciami passare!»
«NO!»
Aris colpì Eglade con uno schiaffone in faccia. Lei volò scomposta contro la
parete. Le mensole tremarono e i vasi, il pestello, i piatti di terracotta caddero in
terra schiantandosi fragorosamente. Il pavimento si riempì di cocci dipinti.
Varno sgranò gli occhi raggelato. Reagì senza pensare. Urlò di terrore e si scagliò contro l’Aelian armato. La sua foga lo colse di sorpresa. Riuscì a colpirlo con
due pugni in pieno volto e una violenta testata. Aris non reagì, stupito dalla reazione scomposta del Khartian.
«Mai fatto a botte, fottuto culo rotto?!» urlò Varno ridendo selvaggiamente.
Caddero a terra avvinghiati insieme. Eglade era svenuta in un angolo. Un rivolo
di sangue le colava dalla bocca.
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Aris si trovò le mani dell’uomo al collo e ruggì con ferocia impressionante.
Varno strinse e gli martellò la testa per terra. Una, due volte. L’Aelian perse la
spada ma riuscì a tirargli un pugno in faccia.
La sua forza era assolutamente inconcepibile.
Varno si ritrovò con gli occhi ciechi e devastati di scintille. L’urto era stato
talmente brutale che il dolore non arrivò subito. Fu come prendersi la battuta di
un maglio in mezzo alla fronte.
“Forti… fortissimi…”
La paura lo tenne miracolosamente sveglio. Cieco e stordito come una campana sorda, Varno strinse ancora di più. Gli sbatté di nuovo la testa fra i cocci. Arrivarono altri pugni.
Poi, il suono liquido di un frutto che si spaccava fra le dita. Varno rabbrividì
disgustato.
Aris non si agitava più.
Quando la vista ritornò, Varno si ritrovò abbracciato all’Aelian. Il pavimento
era lordo di sangue. Gli alzò la testa. Un lungo coccio appuntito gli si era piantato dietro la nuca. I suoi occhi verdi lo fissavano sbarrati, gonfi di disprezzo.
Quelle due macchie di smeraldo gli bruciarono le palpebre marchiandosi dentro di lui.
Varno corse faticosamente da Eglade. Sospirò di sollievo. Era ancora viva. Lei
si svegliò tremante fra le sue braccia, e ancora prima di vedere il corpo
dell’Aelian riverso a terra, aveva già capito cosa fosse successo. La casa era un
disastro. C’era sangue dappertutto.
Non dovettero parlare per decidere cosa dovevano fare. Ormai non avevano
scelta.
Eglade prese quel poco che poteva portare via con sé in fretta, e fece di tutto
per non guardare il corpo immobile di Aris. Fissava il soffitto con il volto stravolto da un ghigno di odio deforme. Eglade piangeva e mormorava qualcosa nella sua lingua, forse una scusa per quello che era successo, oppure soltanto un
lungo e sospirato saluto.
Alla sua casa, alla sua terra.
Alla sua gente.
Varno ed Eglade fuggirono nella notte, chiusi in un silenzio carico di dolore e
paura.
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III
La brezza fresca scivolava fra le ante della finestra socchiusa. Una lama di luce
rossastra dipingeva deboli riflessi sui fondi delle pentole appese sulla parete, sopra il catino dei piatti. Eglade aveva appena finito di preparare la cena, uno stufato di verdure che aveva raccolto quella mattina dall’orto dietro casa. Fuori, i latrati di un cane rompevano un silenzio di grilli e fronde mosse dal vento.
Varno doveva essere tornato dal villaggio, pensò lei sorridendo. La mano le
scivolò inconsciamente sulla pancia. Non mancava molto. Lo aspettava da un
momento all’altro.
Suo figlio scalciava per nascere.
Erano passati sei anni dalla loro fuga nella notte. Si erano lasciati alle spalle la
foresta degli Aelian e avevano continuato a camminare per giorni seguendo i
sentieri più nascosti e intricati. Erano riusciti ad allontanarsi a sufficienza prima
che scoprissero l’omicidio di Aris. Ma non sapevano dove andare. Varno aveva
solo un pugno di ramette in tasca. Aveva cacciato per lei quel poco che era riuscito a prendere a mani nude. Non aveva mai mangiato tanti scoiattoli in vita
sua. Lui era molto bravo ad acciuffarli, pensò commossa dai ricordi.
Mentre abbandonava l’unico luogo che avesse imparato a conoscere, Eglade
aveva pianto miseramente. Aveva sognato tante volte di viaggiare nel mondo
esterno, ma solo con la fantasia. Mai avrebbe pensato di trovarsi veramente fuori
dal suo piccolo e inutile regno, con un Khartian, alla ricerca di una nuova casa in
cui vivere. Quando parlava ad alta voce di quel periodo, le sembrava di raccontare una favola davvero assurda.
«Abbiamo camminato così tanto…» mormorò. Varno non aveva una meta
precisa, lei ancora meno. Avevano semplicemente continuato a spostarsi, evitan35
do i villaggi, le taverne, ogni posto frequentato dai Khartian. Lui era angosciato
dall’idea che qualcuno potesse notarla. Aveva tagliato un lembo del suo mantello
per farci un fazzoletto da legarle in testa. Non aveva mai dormito, se non qualche raro momento in cui era crollato in terra spossato. Per infinite notti aveva
vegliato con la spada pronta sulle ginocchia. Aveva faticato e marciato più duramente di quando era partito per la guerra. Era stata dura, terribilmente dura. Ma
era anche stato il momento più emozionante della loro vita.
Paura, rammarico, curiosità e meraviglia. Eglade non aveva mai vissuto tante
esperienze insieme. Ogni giorno era nuovo e carico di speranze. Ogni notte, lei e
Varno avevano imbastito i loro sogni con tutto ciò che avrebbero potuto fare e
ottenere, insieme.
Il primo problema da affrontare era stato trovare casa. L’avevano risolto quando si erano imbattuti in un cerchio di ruderi vicino a un villaggio anonimo, distante settimane di viaggio dal campo in cui lui era stato ferito. Avevano dovuto
svalicare i monti di Cambrinn, passando dai sentieri più impervi per evitare le
postazioni di difesa dei ribelli dell’Est che in quella zona avevano allestito il fronte più a Nord della guerra. Si erano fermati al primo villaggio tranquillo per
prendere un po’ d’acqua dal pozzo del paese. Perlustrando la zona, Varno aveva
rinvenuto i resti di una vecchia abitazione abbandonata. Sufficientemente lontana per non dare nell’occhio, abbastanza vicina al villaggio per non sentirsi troppo
isolati. Erano molto distanti dalla foresta degli Aelian, alle pendici Est del corno
di monti dominato da Cambrinn, la fortezza anticamente sotto il controllo di
Cambria. E soprattutto, erano dentro i territori dell’alleanza dei ribelli. Circa a
Nord-ovest di Eld, il feudo che guidava la rivoluzione contro le Lance Imperiali
di Loren.
Varno era convinto che la scelta migliore fosse di non schierarsi con nessuno,
ma di tenersi nei pressi di Elder, il nobile a capo dei ribelli. Sebbene si trovassero
in un territorio nemico di Cambria, quelle zone non avevano particolare interesse
strategico, né erano sulle direttive di eventuali attacchi imperiali. Cambrinn alle
loro spalle frenava l’esercito di Loren in una logorante guerra di posizione. Era
molto più sicuro e semplice vivere lì da pezzenti che come liberi cittadini
dell’impero. Le regioni dominate dall’antica capitale Aelian, erano pesantemente
controllate dai gendarmi e dagli esattori, cosa che avrebbe reso difficile, per loro
due, starsene da soli e in pace.
Decisero allora di fermarsi. Varno era riuscito a mettere in piedi una sorta di
tenda a fianco dei ruderi, radunando vecchi teli e corde prese dalle trappole che
aveva trovato nel bosco, e si era subito dato da fare per ricostruire la casa diroccata. Per racimolare qualche rametta aveva preso lavoro come taglialegna alle dipendenze di un falegname del villaggio, e ogni soldo della paga l’aveva usato per
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comprare il materiale e gli strumenti da muratore. Ci erano voluti mesi, ma alla
fine era riuscito a recuperare qualche stanza coperta da un tetto di fortuna.
Da quel momento, pezzo dopo pezzo, avevano innalzato il resto.
“Abbiamo l’orto, la legnaia, e tre belle stanze grandi…” pensò orgogliosa
Eglade. Abituarsi alla vita dei Khartian non era stato particolarmente difficile.
Non era molto diversa da quella del suo popolo. Preparava la cena, curava l’orto
e i polli, raccoglieva le erbe officinali nel bosco per preparare qualche decotto da
vendere in paese. Scendeva lei di persona, anche se Varno si era opposto strenuamente al suo desiderio di esporsi agli altri umani.
«E se ti scoprissero?» aveva obiettato lui, sordo a ogni sua proposta.
«Con uno scialle, un vestito lungo e un po’ d’attenzione, nessuno noterà nulla…» aveva detto e ripetuto lei fino allo sfinimento, finché un giorno Varno aveva acconsentito. Molto a malincuore.
Il tempo aveva dato ragione a Eglade. A parte per gli occhi troppo blu, quando
teneva i capelli di rame coperti da un fazzoletto poteva essere scambiata per una
donna qualunque. Molto bella, ma senza nulla di davvero speciale. Intanto, lui
era riuscito a trovare lavoro come contadino, poi come fabbro. I soldi erano pochi, ma a loro erano sufficienti per mantenere la vita che avevano desiderato.
Mancava soltanto un figlio.
Stranamente, per quanto ci provassero con passione e dedizione, Eglade non
riusciva a restare incinta. Per lei, che concepiva lo scorrere del tempo in modo
assai diverso da Varno, non era mai stato un grosso problema. Ma per lui stava
diventando un dramma.
«Forse non possiamo avere figli…» continuava a ripetere sconsolato.
«Perché non potremmo?! Dici pur sempre che Khartian ed Aelian non sono
poi tanto diversi…»
«In molte cose, ma non in tutte! Guardati: tu sei ancora una ragazza, senza un
segno, una macchia, niente. Io ho già qualche rughetta sulla fronte…»
«Allora dovremo provare più spesso… e più a lungo!» diceva sempre lei con
un sorrisetto malizioso. Una voglia di vivere a cui era difficile resistere.
Dopo lunghi e appassionati sforzi, alla fine Eglade era riuscita a restare incinta.
Era il 1603. La gestazione aveva superato il tempo naturale degli umani di qualche mese. Varno era sempre più preoccupato e confuso. Ma fortunatamente
sembrava mancare poco. Eglade lo sapeva, sentiva di essere ormai vicina al parto.
E sapeva anche che stava aspettando un maschietto.
Varno entrò in cucina e l’abbracciò, accarezzandole dolcemente la pancia. Il
tramonto scivolò oltre gli alberi, mentre una prima luna spuntava all’orizzonte.
«Ogni volta che ti vedo qui in casa, mi chiedo perché tu sia voluta fuggire via
con me, quella notte.»
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Eglade non rispose subito. Stava guardando gli alberi sul confine del giardino,
riflettendo su quanto il suo nuovo mondo fosse simile a quello che aveva abbandonato seguendo Varno. Eppure, nessun Aelian sembrava pronto ad accettare
quel semplice fatto. Non esistevano mondi diversi, non esisteva alcun muro a
separarli. Gli Aelian non riuscivano a rendersi conto di essere stati ingannati da
loro stessi, dal terrore per qualcosa che non avevano mai visto con i loro occhi:
la notte senza fine, Ealon Sial’nar com’era chiamata dagli Aelian. L’evento che
aveva distrutto il loro impero, favorendo l’ascesa dei Khartian, il popolo di Varno.
«Non sai cosa rispondere? Sei già stanca di vivere con me?» le chiese Varno
stringendole i fianchi. Nelle sue parole, una pizzico di paura fuori posto.
«No, stavo pensando che seguirti è stato più naturale di quello che avrei mai
creduto» rispose Eglade rapita da quel momento di tepore, con Varno alle sue
spalle e la finestra da cui filtrava l’ultimo sole del giorno. «All’inizio ho sofferto,
certo… avevo paura… poi, gradualmente, mi sono resa conto che non aveva
senso rimpiangere la mia casa. Non esistono due mondi. Li abbiamo creati noi,
nascondendoci… e voi, dimenticandovi di noi. Abbiamo eretto un muro fra i
nostri popoli. L’abbiamo innalzato con le nostre paure, e cementato con l’odio.»
«Dovrei essere io a parlarti in modo romantico, e invece…» mormorò Varno
dispiaciuto. «Invece sono ignorante, non sono come un Aelian…»
«Non dire altro» lo interruppe Eglade voltandosi fra le sue braccia. «Non ci sono confronti da fare. Ti amo Varno… e a me piaci, anche se hai sempre paura
del contrario. Mi sei piaciuto subito, perché sei riuscito a farmi sentire quanto tu
tenessi alla tua vita. Anch’io volevo provare la stessa passione per me stessa, invece mi sono resa conto che sono nata rassegnandomi a un esilio insensato, sono
nata aspettando soltanto di morire. Tu mi hai dato così tanto… io sono fuggita
con te, perché volevo te. E volevo questa casa e questo bambino…»
Eglade gli spostò la mano sulla pancia.
«Non puoi nemmeno immaginare la noia di non poter far nulla di diverso, se
non aspettare che qualcosa accada» Eglade mormorò cupamente fra sé.
«Ero stanca di sentirmi addosso un limite che non riuscivo a comprendere.»
Varno restò un momento in silenzio, godendosi le dita sulla pancia di Eglade.
Un’emozione semplice, proprio come piacevano a lui.
«E se ti dicessi che io sono felice di vivere con te… semplicemente perché ti
amo?!» esclamò ridendo Varno, spingendosi in avanti per baciarla. Eglade ricambiò, ma dovette tirarsi subito indietro sussultando. Varno la fissò preoccupato.
«Riesci a stare a casa dal lavoro per un paio di giorni?»
«Perché?» rispose affannosamente Varno.
Eglade gli prese la mano e la fermò sotto la sua, proprio all’altezza di un piccolo cuore che batteva, soffuso e lontano come un tamburo di guerra.
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«Manca poco. Molto poco.»
Varno annuì ubriaco di gioia. E forse anche di un bicchiere di vino di troppo,
bevuto in paese prima di rientrare. «Hai deciso come ti piacerebbe chiamarlo?»
gli chiese Eglade.
«Tu cosa proponi?»
Lei ci pensò un momento. Aveva un nome in testa, ma voleva sentire anche il
suo parere. Le sarebbe piaciuto chiamarlo come suo nonno. Un bravo Aelian.
Famoso per la sua intelligenza e raffinatezza.
«Dunwich… ti piace?»
«Mh… Dunwich» ripeté lui gustandosi quella parola come un boccone prelibato. «Dunwich figlio di Varno… suona un po’ eccentrico, ma… bello!»
«Allora è deciso» esclamò lei lanciandosi in un goffo abbraccio impedito dalla
pancia.
«Nostro figlio si chiamerà Dunwich.»
***
Eglade non si era sbagliata. La notte dopo diede alla luce un maschio, da sola,
senza bisogno di alcun aiuto. Come ancella delle anziane aveva assistito a molti
parti, e fu piuttosto facile per lei mettere in pratica le consuetudini che aveva imparato a padroneggiare; conosceva le erbe giuste per calmare i dolori, e quelle
perfette per rilassare i muscoli.
Il bimbo nacque sano e forte. Già dopo pochi mesi mostrava una bella chioma
di capelli neri e due vispi occhietti azzurri, brillanti come quelli di sua madre.
Non somigliava molto a Varno, a parte per il colore dei capelli, e la cosa lo intristì non poco. Aveva preso dalla madre la bellezza e l’eleganza dei lineamenti, ma
gli mancava quella irreale perfezione che lo avrebbe reso un vero Aelian.
Dunwich era, in tutto e per tutto, un Khartian.
Fin dai primi anni di vita, ciò che risaltò subito agli occhi di Varno fu la sua incredibile precocità, unita alla lentezza con cui cresceva. Ben prima di camminare
aveva già imparato a parlare in modo fluente sia la lingua di Cambria, sia l’Aelian.
Eglade gli insegnò anche a scrivere, a disegnare, a far di conto, e Dunwich sembrava imparare così in fretta da lasciare basita persino lei.
«Ma i figli della tua gente sono tutti intelligenti?!» le aveva chiesto un giorno
mentre osservava sconvolto Dunwich arrancare a gattoni sul pavimento mentre
recitava una storia che sua madre gli aveva insegnato pochi istanti prima.
«Da piccoli, non che io sappia… anzi, di solito un Aelian ci mette molto tempo a crescere, anche a parlare… figuriamoci a scrivere…»
«Per questo sembra che il tempo non passi, su di lui? Possibile che sia il tuo
sangue?»
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«Può darsi. Ma sta comunque crescendo in fretta, rispetto ai canoni del mio
popolo… deve essere dovuto alla parte Khartian che ha nelle vene» aveva risposto lei, meravigliata quanto lui.
Gli anni passarono, ma soltanto per Varno. Eglade era tale e quale al primo
giorno in cui si erano incontrati. Dunwich cresceva lentamente. A sei anni sembrava averne a malapena due, ma parlava con la precisione e la profondità di un
ragazzo fatto e finito.
«Papà, ti va di giocare?» gli chiese una sera, dopo che Varno era tornato a casa
dal lavoro. Lui odiava fare il fabbro. Era troppo caldo, troppo faticoso, e si guadagnava poco. Spesso si trovava a pensare alla sua vecchia vita da mercenario, e
anche se era finita piuttosto male, dopo tutti quegli anni a volte ne sentiva la
mancanza. Una sensazione indistinta e lontana. Fastidiosamente presente.
«A cosa vuoi giocare?» rispose Varno, alzandosi dalla sedia che aveva messo
nell’aia per bersi un bicchiere di vino nella pace del tramonto. A volte scendeva
al villaggio per qualche chiacchiera serale, ma solo di rado. Non voleva spendere
in taverna i pochi soldi che aveva, e preferiva far compagnia a Eglade e passare il
tempo con suo figlio che, per quanto paresse anormale, adorava sopra ogni cosa.
«A fare il cavaliere!» disse subito Dunwich, come se stesse aspettando quel
momento da molto tempo.
«E sia!»
Varno lo afferrò per i fianchi e lo fece sedere sulle sue spalle, poi iniziò a correre saltellando e sbuffando. Dunwich rideva come un matto, e intanto fingeva
di essere un vero cavaliere alla carica.
«Uomini! Con me! Seguite la mia lancia!» gridava agitando le braccia magre.
«Non fermate l’avanzata! Forza!»
Varno corse nel bosco, schivò gli alberi saltando da una radice all’altra, e alla
fine ritornò sul sentiero che li avrebbe riportati a casa. Appagato dalla grande cavalcata, Dunwich ciondolava sulle sue spalle sbadigliando di tanto in tanto.
“Sembra così piccolo… eppure sono già passati sei anni” pensò Varno con
una punta di rammarico. Non si era mai soffermato troppo a pensare come
avrebbe gestito lo scorrere del tempo. Non aveva mai riflettuto a sufficienza sulla stranezza di quel passo fuori ritmo. Lui stava invecchiando. Loro no. Si vedeva
ogni giorno di più. Cosa avrebbe fatto, quando sarebbe diventato vecchio e loro
invece no?
Cosa avrebbe fatto Eglade, ancora meravigliosamente bella come sempre,
quando lui sarebbe stato pieno di rughe, con i capelli bianchi e la schiena curva?
“Cosa mi metto a pensare… c’è tempo ancora, ho soltanto trentasei anni! Sono giovane …” pensò senza più badare al sentiero fra gli alberi.
«Papà?»
«Sì figliolo?»
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«Tu hai combattuto in guerra, vero?»
Quello era l’argomento preferito delle storie che lui gli raccontava, anche se a
Eglade non faceva molto piacere che lui ne parlasse. I soldati, il campo di battaglia, le grandi cariche della cavalleria, eccitavano troppo la mente affamata di
Dunwich. Dove Varno non arrivava con l’esperienza, arrivava inventando. Ma
doveva stare attento. Suo figlio era molto bravo a capire se quello che gli veniva
detto era vero, oppure no.
«Sì, tanti anni fa.»
«E hai visto Cambria?» continuò il bimbo, con la testa che cascava dal sonno.
«No, me l’hanno solo descritta. È immensa, piena di grandi ville e giardini lussureggianti. Strade larghe che costeggiano palazzi in marmo pregiato. Statue
ovunque, sulle guglie, al centro delle sue cento piazze. E poi, la grande porta
d’ottone…»
«Mi ci porterai, un giorno?»
Varno gli accarezzò i folti capelli neri e fece un saltello improvviso, come un
cavallo imbizzarrito.
«Certo che ti porterò a Cambria. Tu e la mamma, tutti insieme.»
Ma gli sarebbero serviti più soldi. Molti di più.
***
Fu quasi per caso che, qualche anno dopo, a Dunwich si presentò l’occasione
di vedere Cambria con i propri occhi. Ma non da semplice visitatore.
Varno osservava sconvolto suo figlio diventare ogni giorno sempre più sveglio.
Una rapidità di pensiero come la sua era sprecata in un posto come quello, si era
detto tante volte. Dunwich meritava di studiare, ma nella loro regione non esisteva uno straccio di scuola. L’istruzione era affidata alle madri e ai vecchi dei
villaggi. Troppo poco, rispetto alle sue potenzialità. Ormai Dunwich aveva quasi
nove anni, e fremeva per imparare sempre di più. Eglade gli aveva raccontato
tutto ciò che sapeva, comprese molte delle antiche leggende degli Aelian, ma a
lui sembrava non bastare mai.
Varno aveva preso l’abitudine, dopo il lavoro nella fucina del paese, di fermarsi
a bere un bicchiere di vino in compagnia di alcuni amici. Gente del posto, non i
migliori sulla piazza, ma molto simili alle vecchie amicizie di quando era partito
per fare il mercenario. Non parlava quasi mai della sua famiglia, per paura che
qualcuno potesse interessarsi troppo. Già aveva sentito alcune voci piuttosto fastidiose sulla bellezza di Eglade, dei suoi occhi più blu del cielo, e non voleva di
certo alimentarle.
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Ma una sera, complice un bicchiere di troppo, si lamentò apertamente di quanto suo figlio fosse sveglio rispetto a lui, e di quanto meritasse di studiare in una
scuola prestigiosa.
«Mancano i soldi, e non conosco nessuno…» aveva ripetuto, con la lingua
spessa e il volto paonazzo, agli altri uomini presenti. Il suo confuso disappunto
sarebbe potuto nascere e morire quella sera. Invece innescò qualcosa di imprevisto. Uno degli avventori della taverna, seduto da solo a un tavolo in un angolo,
lo fermò fuori dalla porta mentre se ne stava tornando verso casa, alticcio e traballante.
«Ho sentito cosa dicevate poco fa…»
Parlava con un accento piuttosto particolare, che Varno aveva sentito soltanto
nella cadenza dei capitani dell’esercito di Cambria. Magro, alto e dallo sguardo
penetrante, non sembrava affatto un soldato, né un comune viandante. Dava anche l’idea di essere discretamente ricco, a vedere i suoi ottimi abiti di un bel tessuto scuro.
«Beh… allora?» rispose con poca grazia Varno, desideroso soltanto di tornarsene al più presto a casa.
«Quanti anni ha vostro figlio?»
Non sapeva sinceramente come rispondere. Ne dimostrava quattro, o poco
più, ma in realtà ormai ne aveva nove. «Cinque… quasi cinque» balbettò incerto
su cosa dire.
«Sentivo che raccontavate di quanto sia intelligente…»
«Scusate, ma voi chi siete?!»
«Mi chiamo Seneo, e sono un insegnante di Canto Arcano a Cambria. Non
crediate però che sia qui per motivi… bellicosi» si schermì subito l’uomo. «Ero
soltanto in viaggio per trovare mio padre. È vecchio. Abita qui vicino, nei territori dell’alleanza.»
«Canto, avete detto?»
«Canto Arcano, esatto. Sarei interessato a conoscere vostro figlio, se fosse possibile. A Cambria ho molti allievi privati, ma nel caso di ragazzi con doti… particolari, potrei anche chiudere un occhio sul mio onorario…»
Varno non riusciva a capire dove si nascondesse la trappola. Secondo il suo
modo di ragionare, non esisteva lavoro senza un adeguato compenso. Era una
cosa assolutamente anormale che qualcuno si offrisse di aiutarlo gratuitamente.
D’altronde, quella poteva essere un’occasione unica per Dunwich.
«Domani, qui al villaggio?» propose dubbioso.
«Accetto» rispose l’uomo che si faceva chiamare Seneo. Varno se ne andò incespicando sul sentiero che attraversava il bosco, chiedendosi se avesse fatto una
mossa saggia.
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In realtà, l’idea di mandare suo figlio a Cambria non gli dispiaceva affatto. Per
quanto lo adorasse, si sentiva in soggezione di fronte a lui. A volte sentiva il bisogno di scappare via, di vivere in mezzo alla gente comune.
In mezzo a bambini normali, che parlavano male e imparavano lentamente. A
donne che col tempo invecchiavano insieme ai loro uomini.
***
Varno ed Eglade discussero una notte intera chiedendosi se fosse il caso di fidarsi delle parole di uno sconosciuto, e alla fine decisero di tentare. La sera dopo,
Varno portò suo figlio in paese. Mentre attraversavano la piccola piazza di ghiaia
battuta, notò un tizio seduto sull’uscio di una casa. Li stava fissando intensamente. Per un attimo, i suoi occhi attrassero la sua attenzione. Non riusciva ad afferrarne il colore. Come se non ne avessero uno ben definito. Varno diede la colpa
al bicchiere di vino che si era scolato a tavola, per allentare la tensione. Superata
la piazzetta, si voltò di scatto ma l’uomo non era più seduto al suo posto. Si stava
allontanando per i fatti suoi da tutt’altra parte.
Seneo li aspettava in fondo al sentiero. L’uomo di Cambria salutò il bambino e
si inginocchiò per squadrarlo attentamente, e intanto canticchiava una canzoncina allegra che fece ridere Dunwich. Varno aspettava imbarazzato, inconsapevole
di come ci si dovesse comportare in una simile occasione. Per quanto ne sapeva
lui, i cantori erano gente pericolosa. Coloro che padroneggiavano il Canto Arcano erano tenuti in grande considerazione dal consiglio militare di Cambria. Cosa
potevano trovare di interessante in uno come suo figlio, si chiese preoccupato.
Come si doveva parlare con una persona così importante? Per evitare di fare
brutte figure, semplicemente Varno se ne stette zitto, in attesa del responso.
«Come ti chiami ragazzo?»
«Dunwich» rispose lui con piglio sicuro «e voi, invece?»
L’uomo sorrise e chinò la testa con fare educato. «Che nome particolare. Io mi
chiamo Seneo, e sono un esperto di Canto Arcano. Vivo a Cambria e insegno in
una grande accademia.»
«Canto Arcano? Intendete le armonie?» chiese Dunwich con vivo interesse.
Seneo fissò il bambino con genuino stupore, e annuì.
«Come fai a conoscere le armonie? Sai di cosa si tratta?»
Dunwich guardò un momento suo padre, incerto sul da farsi. «Mi piace leggere
e ascoltare le persone che parlano. Il Canto Arcano si sviluppa dalle armonie,
giusto? Quindi voi le studiate?»
Varno era stato chiaro con suo figlio. Non nominare mai sua madre e le sue
origini. Per nessuna ragione. E Dunwich stava rispettando il patto alla perfezione.
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«Io insegno come usare le armonie. Ti piace cantare, Dunwich?»
Seneo restò letteralmente a bocca aperta quando sentì quel marmocchio ripetere alla perfezione la canzone che aveva intonato al loro arrivo. Non era per niente orecchiabile, pensò. Era una variazione piuttosto articolata di un esercizio di
canto, non era materiale da profani.
Quello a cui stava assistendo era a dir poco stupefacente.
Dunwich era nato per cantare.
«È ancora molto piccolo, ma ha grandi potenzialità» disse a Varno, basito
quanto lui. «Ora devo raggiungere mio padre. Poi tornerò a Cambria. A tempo
debito, passerò da qui e magari parleremo di come far studiare questo piccolo
prodigio inaspettato.»
Seneo strofinò i capelli di Dunwich con grazia, poi salutò Varno e se ne andò
mormorando un’altra canzone, più cupa e malinconica, ed estremamente più
complessa.
Dunwich batté estasiato le mani quando vide lo strano uomo svanire nel nulla.
«Vuoi diventare un cantore, figlio mio?» mormorò Varno mentre ritornavano
verso casa.
“Non mi stupisce… davvero non mi stupisce…”
***
In quei mesi di confusa attesa, Eglade aveva scoperto di essere di nuovo incinta. Ne avevano parlato tanto, lei e Varno, di quanto sarebbe stato bello dare un
fratellino, o una sorellina, a Dunwich. Come per lui, avevano provato tantissime
volte, ma senza risultati. Erano passati dieci anni dalla nascita del loro primogenito. La notizia fu accolta dalla Aelian con gioia incontenibile, soprattutto dopo la
decisione di assecondare le doti di Dunwich, e di lasciarlo andare a studiare a
Cambria. Prima o poi, ne erano sicuri, Seneo sarebbe tornato, e lei avrebbe visto
il suo amato figlio partire.
Varno fu meno entusiasta, ma cercò di assecondare la moglie nella sua felicità.
I soldi che guadagnava erano pochi. Bastavano a malapena per loro tre. Inoltre,
sentiva covare dentro una paura inaspettata, che non sapeva come gestire.
Dunwich si era dimostrato tutto fuorché il figlio di suo padre. Come sarebbe
stato un nuovo figlio, si chiedeva continuamente. Ancora più intelligente? Così
diverso da lui? Così lento a crescere?
Non era per niente sicuro di volerlo sapere.
Conosceva Eglade da sedici anni. Da allora, lei non era cambiata minimamente. Sempre bella come un tempo. Alta, una presenza che diventava sempre più
imponente. Lui, invece, si stava pericolosamente avviando verso la mezza età, e
le rughe avanzavano impietose sul suo volto.
44
Varno si rese conto di avere una paura maledetta degli anni che passavano.
Doveva confrontarsi giorno e notte con lei. Immutabile, perfetta. E lui si sentiva
tutto tranne che perfetto. Anche suo figlio era mille volte migliore di lui. Più bello, più intelligente.
Più tutto.
L’idea di tornare a fare il mercenario non gli suonava così insensata come una
volta.
Mancavano pochi giorni alla nascita di suo figlio. Eglade sapeva, come con
Dunwich, che sarebbe stato un maschio. «Un altro uomo di cui occuparsi…»
disse con un filo di dispiacere, mentre discutevano sul nome che avrebbero voluto dargli. Varno desiderava chiamarlo Edio, come suo padre, oppure Edrin come
uno dei suoi tanti fratelli. Gli era sempre piaciuto quel nome.
«Sai, l’altra sera ho fatto un sogno…» provò a dire Eglade, ma lui aveva già deciso. Finalmente un nome legato alla sua famiglia. Un primo passo verso la normalità, pensò soddisfatto.
Eglade partorì nella loro camera, ed ebbe bisogno dell’aiuto del marito, diversamente dalla prima volta. Fu assai più doloroso e più travagliato, pur con tutte
le erbe che lei aveva preparato. Ma quando si trovò il piccolo ancora tremante fra
le braccia, nessun dolore resse il confronto con l’euforia che provava. Dunwich
entrò alla fine della lunga fatica e si accoccolò a fianco della madre. Era in uno
stato di eccitazione perenne da quando gli avevano detto che avrebbe avuto un
fratellino. Anche Varno, per quanti dubbi avesse avuto, in quel momento sentì
che sarebbe riuscito a superarli. Eglade era bellissima con il neonato fra le braccia, e suo figlio sdraiato vicino a lei. Una scena che avrebbe voluto saper dipingere. Per non dimenticarla mai.
Per usarla come scudo contro il tempo che gli scappava fra le dita.
«Ti chiamerai Edio, figlio mio» recitò orgoglioso, sfiorandogli i capelli neri.
Ma, inaspettatamente, il piccolo iniziò a piangere, urlare, dimenarsi come un
disperato. Perplesso, Varno tossicchiò nervosamente e provò a ripetere Edio.
Sembrava che quel nome, per il neonato, fosse come una tortura. Era sufficiente
sussurrarlo, e lui scattava a urlare come se una lama lo stesse scorticando vivo.
Varno provò con Edrin, Nedrian, Edrinor, ma la sua reazione era sempre la stessa.
«L’altra sera, in sogno, ho sentito una voce lontana pronunciare un nome…
c’era vento, ed era tutto grigio… non mi era mai capitato prima d’ora. Quel nome non l’ho dimenticato» mormorò Eglade.
«E quale sarebbe?»
«Mordraud…»
Il bambino subito si placò e si mise a studiare le mani del padre. Varno riprovò
a dire Edrin, ma ottenne solo un pianto disperato.
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«Mordraud» provò a dire Dunwich, e il piccolo riprese subito a giocare.
«Papà, mio fratello desidera essere chiamato Mordraud.»
Il tono di Dunwich era molto severo. Con un braccio tentava di proteggere il
suo fratellino da quei nomi che sembravano procurargli un dolore incomprensibile.
«E sia, allora… ti chiamerai Mordraud.»
Varno prese in braccio suo figlio e gli strinse delicatamente una mano. Lui aprì
la bocca in un lungo sbadiglio sereno, appagato.
Poi aprì, per un solo istante, gli occhi.
Per poco Varno non lo fece cadere in terra.
Un verde incredibilmente penetrante, denso come il mare.
“Aris…” pensò agghiacciato.
“Quell’Aelian maledetto.”
***
Come aveva promesso, Seneo ritornò al villaggio due anni dopo il loro primo
incontro. Dunwich era cresciuto poco, ma lui accettò lo stesso di portarlo con sé
a Cambria. Con una magnanimità che stupì entrambi i suoi genitori, non chiese
soldi per occuparsi, almeno nei primi anni, dei suoi studi. «Se è veramente così
portato come penso, i soldi non saranno un problema. L’Arcana stessa pagherà
per farlo studiare, e io riceverò la mia parte» disse lui per tranquillizzarli.
Dunwich si era affezionato subito a Mordraud, e passava ogni momento con
lui e con sua madre. Ogni volta che lei glielo permetteva, lo teneva in braccio e
lo portava a fare una passeggiata fra gli alberi del bosco. Parlava con lui continuamente, spiegandogli le qualità delle piante e i nomi degli animali che incontravano. Sembrava ancora decisamente troppo piccolo per la sua età, ma sapeva
come tessere lunghi discorsi profondi sulla conformazione di quella foresta e sulle caratteristiche delle piante.
«Qui è bello, ma è troppo piccolo per noi» gli disse indicandogli uno spicchio
di cielo che si faceva largo fra le chiome intricate mosse dal vento. «Un giorno
anche tu diventerai grande, e potrai diventare qualcuno. Magari studierai a Cambria come me, e io sarò già diventato un cantore importante, e potrò farti da insegnante! Pensa, Mordraud… non sarebbe magnifico?»
Dunwich aspettava quel giorno dalla prima volta che aveva visto Seneo, in
fondo al sentiero che portava al villaggio. Stava per partire verso la mitica Cambria, dove avrebbe avuto la possibilità di crescere nel cuore di ogni cosa, come sua
madre chiamava la capitale dei Khartian. Voleva studiare qualcosa in grado di
mettere alla prova la sua intelligenza. Smaniava di partire, e quasi non dormiva
più la notte dall’eccitazione.
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Ma separarsi da Mordraud fu più difficile di quel che pensava.
«Ti affido la mamma, Mordraud» disse Dunwich accarezzandogli i folti capelli
neri, come i suoi, come quelli del padre. Era ancora poco più che un neonato,
ma era già passato un anno dalla sua nascita. Anche per lui, il sangue aveva deciso. Sarebbe cresciuto lentamente. Come suo fratello. Eglade aveva le lacrime agli
occhi. Dunwich la baciò per rassicurarla.
«Fatti valere a Cambria» gli disse soltanto Varno, e lui lo abbracciò con affetto
composto. Ridicolo, pensò suo padre. Gli occhi di suo figlio, la sua determinazione, era quella del migliore degli uomini.
Mordraud tese una mano per salutarlo mentre lui saliva a cavallo dietro Seneo.
Dunwich si fidava di quel tizio alto e dall’aspetto saggio e raffinato. Il suo mantello aveva un buon odore. Si voltò per guardare un’ultima volta il fratello e la
madre, poi la curva del sentiero li separò. Sulla pelle, un lieve ricordo rubato al
tempo.
Occhi densi come il mare.
47
IV
«Quando torna papà?»
Seduta al tavolo della cucina, Eglade stava preparando alcune patate sbucciandole con un piccolo coltello spuntato. I suoi capelli di rame riflettevano il sole
che filtrava dalle leggere tendine di pizzo, come una colata di metallo fuso su cui
si specchiava un ritaglio di cielo. Di tanto in tanto controllava la pentola appesa
sopra le fiamme del camino. Mordraud giocherellava seduto al suo fianco con la
mollica vecchia del pane. A differenza di Dunwich, lui non parlava molto, sebbene avesse imparato a farlo molto presto.
«Fra poco. Ho ricevuto una sua lettera. Vuoi leggerla?»
«Non lo so.»
Eglade sapeva quanto Mordraud sentisse la mancanza del padre, e si sforzava
in ogni modo di non fargli pesare troppo la sua assenza. Si alzò e gli passò il rotolo di pergamena chiuso da un laccio che un messaggero aveva lasciato in paese
pochi giorni prima. Gliel’aveva portata una signora da cui comprava le verdure
che non aveva nell’orto dietro casa. Mordraud iniziò a leggere muovendo lentamente le labbra, con gli occhi socchiusi e concentrati a decifrare l’incerta calligrafia di Varno. Eglade gli stava insegnando a leggere e scrivere nella lingua comune
degli uomini, e allo stesso tempo in Aelian. Era bravo, ma molto meno di
Dunwich. Soprattutto a leggere.
«Il fronte… sta arretr… arretrando, ed Eldain ha richiamato le… le…»
Eglade si inginocchiò a fianco della sua sedia, e con un dito lo aiutò a seguire le
righe poco precise della lettera.
«Le truppe. Sono i soldati.»
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«… ha richiamato le truppe. Arriva l’inverno, gli scontri rallentano. Il nostro
signore ci ha pagato, e fra poco ci risp…»
«Rispedisce. Vuol dire che Eldain manda a casa papà.»
«Lo so mamma, cosa vuol dire!»
Mordraud si irrigidì innervosito. Somigliava a suo fratello per i capelli neri e
leggermente ondulati, e per i lineamenti naturalmente equilibrati, ma già si intravedeva in lui una durezza che Dunwich non possedeva. I suoi occhi erano di un
verde splendido. Sembravano essere stati intinti in una pozza d’acqua di montagna. Mentre quelli del suo fratello maggiore erano azzurri, tendenti al blu.
Le differenze di carattere erano molto più marcate. Dunwich amava parlare,
imparare tutto ciò che poteva, mentre Mordraud preferiva restare in silenzio ad
ascoltare le tante storie che Eglade conosceva sul popolo degli Aelian, subendole
passivamente senza fissarle nella memoria. Oppure passava molto tempo sul
confine del bosco ad ammirare gli insetti e i piccoli animaletti che riusciva a catturare. Amava guardarsi intorno in silenzio, senza mai mostrare cosa stesse pensando.
«Se lo sai, va avanti!»
«… ci ha pagato, e fra poco ci rispedisce indietro. Fino a primavera starò a casa. Sai nulla di Dunwich? Spero stia bene. Saluta Mordraud da parte mia. A presto.»
«Sei stato proprio bravo!»
Mordraud non rispose. Gli occhi fissi sulla lettera spiegazzata.
«Cosa c’è?»
«Dov’è mio fratello?»
«Dunwich è a Cambria, e sta studiando in un’ottima scuola. Forse ci andrai anche tu, se farai…»
«Non voglio andare a Cambria» la interruppe Mordraud bruscamente.
«E cosa vuoi fare?»
«Stare qui con te. Non come papà.»
Eglade lo afferrò ai fianchi e lo sfilò dalla sedia. Finse di mangiargli la testa e
lui scoppiò a ridere nel tentativo di liberarsi.
Varno aveva ripreso il suo vecchio lavoro da mercenario quattro anni dopo la
nascita di Mordraud. La guerra fra Cambria e i nobili ribelli aveva cambiato volto
e protagonisti. Nel 1611, otto anni dopo la nascita di Dunwich e due prima di
Mordraud, Elder aveva lasciato il comando al figlio Eldain. Già da tempo lui
amministrava per conto del padre la complessa e sfaccettata alleanza di feudi, villaggi e confederazioni, contro i tentativi di espansione di Cambria. L’Imperatore
Loren era morto da anni e gli era succeduto il figlio Lorelin, già avanti con l’età.
Come da tradizione, le stirpi nobiliari passavano ai figli la radice del proprio nome come simbolo di antico prestigio. In tanti si aspettavano l’ascesa dell’ultimo
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discendente della casata, Loralon, il primo e unico figlio di Lorelin. Le sorti di
quella guerra che si stava lentamente stagionando erano più che mai incerte. Anni molto caldi, ricchi di opportunità per chiunque volesse guadagnare un mucchio di soldi combattendo.
Varno era uno di quelli. Stanco di lavorare come fabbro, non aveva voluto sentire ragioni. Eglade aveva pianto, si era infuriata, ma non aveva ottenuto altro
che silenzio e sguardi duri.
Suo marito era cambiato da quando era nato Mordraud.
Eglade, per quanto avesse imparato a comprendere la mentalità dei Khartian,
faticava a spiegarsi cosa stesse passando nella testa del suo uomo. Lo aveva visto
maturare negli anni, invecchiare, come diceva lui, ma ciò non era per lei fonte di
alcun problema. Era nella natura degli umani seguire il tempo con più apprensione, con più energia. Gli Aelian avevano, semplicemente, un modo diverso di
concepire il fluire degli anni. Come se non fossero consci di vivere più a lungo,
ma solo che la loro stessa vita era soltanto molto lenta. Neppure il fatto che lui si
stesse inevitabilmente piegando sotto il peso dell’età le dispiaceva. Amava Varno
per ciò che era, non per come appariva. E amava alla follia i suoi figli, anche se,
dal suo punto di vista, crescevano fin troppo in fretta.
Ma lui sembrava non voler capire. Lei cercava di spiegargli cosa pensasse, ma
lui vedeva solo la realtà gretta dei fatti. Eglade era ancora una bellezza inquietante e vagamente inumana, identica a quando si erano conosciuti. I suoi occhi blu
erano brillanti come un tempo, la sua pelle liscia e assolutamente perfetta. A rendere tutto più difficile era sopraggiunta anche l’inspiegabile, almeno per il Khartian, crescita anomala dei figli. Menti precoci rinchiuse in un corpo sempre troppo acerbo.
In realtà, Varno non era alla ricerca di denaro, o di un lavoro migliore. Non era
mai stato un bravo guerriero. Tutt’altro. Quello che cercava di fare era restare
lontano da una famiglia che, anno dopo anno, gli appariva sempre più giovane,
mentre lui stava diventando vecchio. Loro sarebbero vissuti a lungo dopo la sua
morte. Troppo a lungo perché lui riuscisse ad accettarlo.
Incorruttibili nei decenni. Cristallizzati in una giovinezza che aveva scoperto di
invidiare sordidamente.
A peggiorare ancora di più le cose, Varno non provava verso Mordraud lo
stesso affetto che aveva riservato a Dunwich, il suo primo figlio, quello che gli
ricordava l’inizio della sua avventura con Eglade. Anni strepitosi, di amore e di
fatiche che erano stati in grado di superare magnificamente, uniti come se fossero stati una persona sola. Una coppia senza preoccupazioni.
Senza pensieri sul futuro.
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Mordraud invece era diventato, e diventava ogni giorno di più, il simbolo di
quella differenza che correva fra lui ed Eglade, la fenditura nella percezione del
tempo che la sua mente era incapace di colmare.
Non percepiva alcuna bellezza negli occhi verdi di suo figlio.
Vedeva soltanto le iridi folli di Aris che lo fissavano intrise d’odio. Chino su di
lui mentre tentava di ucciderlo. Lo stesso verde denso e ricco di sfumature.
Qualche volta si era anche chiesto se Mordraud fosse davvero figlio suo.
Varno stava fuggendo. Ma non si sentiva un infame.
Erano loro a essere inumani.
***
«Quanto resterai a casa?»
«Tutto l’inverno.»
«Lo dici come se ti desse fastidio.»
Varno non rispose. Eglade stava sgombrando la tavola dai resti della cena,
mentre Mordraud giocava da solo nella stanza a fianco. Stava facendo piroettare
annoiato una piccola trottola rossa.
«No» bofonchiò Varno senza guardarla.
La campagna bellica era andata magnificamente. Cambiare sponda si era rivelata una scelta giusta. I ribelli di Eldain erano più motivati e conoscevano molto
meglio il territorio. La paga era più bassa, ma più sicura. Eglade, come al solito,
non era stata d’accordo. E non smetteva mai di farglielo notare.
«Combatti contro la città dove studia nostro figlio!»
Sempre lo stesso argomento, pensò Varno. Ogni volta che dovevano parlare.
Per sua fortuna, capitava estremamente di rado.
«I ribelli non arriveranno mai a Cambria, questo è poco ma sicuro. Dunwich
può stare tranquillo. E anche tu.»
Lei non sapeva niente, si disse. Infatti ragionava in modo totalmente sbagliato.
Era stato molto difficile inserirsi di nuovo nel giro dei mercenari. Lui non aveva
bisogno di essere tartassato dalla mattina alla sera le poche volte che tornava a
casa. Aveva dovuto contattare vecchie amicizie, lottare contro la diffidenza dei
giovani che non capivano come mai un uomo della sua età volesse tornare a
combattere. Ma era proprio quello il problema. Lui non si sentiva vecchio. Non
voleva sentirsi vecchio.
Faceva di tutto per dimostrare il contrario.
«Gioca un po’ con tuo figlio, non ti ha visto per tre mesi…»
«Più tardi.»
Gli occhi di Eglade erano tristi in modo insopportabile. Varno decise di accontentarla, almeno per quella volta. Si alzò e raggiunse Mordraud in salotto, si se51
dette sul divano e lo guardò giocare. Sembrava ancora un bimbo, eppure doveva
avere già otto anni. Assurdo come non riuscisse a farci l’abitudine, pensò angosciato. Mordraud fermò la trottola e si alzò per prendere posto al suo fianco.
All’inizio nessuno dei due disse una parola, come due perfetti sconosciuti in attesa di una carrozza. Del resto, era proprio quella l’impressione che Varno aveva.
Non lo sentiva come figlio suo. In realtà Mordraud avrebbe voluto dirgli tante
cose, e chiedergliene molte di più. Ma si vergognava, si sentiva in imbarazzo. Solo con sua madre riusciva a sbottonarsi un po’. Con Varno era una pietosa collezione di mezze frasi abbozzate e momenti di imbarazzante silenzio.
«Quando torna a casa Dunwich?»
Il grande cruccio di Mordraud. Ricordava molto poco di suo fratello, a parte
qualche rarissima visita di pochi giorni. Aveva ancora in mente il breve periodo
in cui avevano vissuto e giocato insieme, quando lui era molto piccolo. Dunwich
gli era sembrato un gigante dagli occhi azzurri.
Era ancora una sorta di colosso, ma soltanto nella sua mente.
Una montagna che lo copriva con la sua ombra, e impediva a suo padre di notarlo.
«Non lo so. Magari entro l’anno prossimo…» rispose Varno.
«Come mai torna così poco?»
«Non ne ho idea, Mordraud! Perché ti interessa tanto?!» sbottò lui, infastidito
dalla sua insistenza.
«Manca tanto alla mamma…» borbottò lui. Avrebbe voluto aggiungere che
mancava anche a lui, ma non credeva che a suo padre potesse interessare il suo
parere. C’erano giorni in cui tutto sembrava andare bene. Stavano insieme in
giardino, si scambiavano qualche parola, giocavano a raccogliere le uova delle
galline.
Ma erano momenti sempre più rari. Lontani nel passato. Sfumati prima ancora
di finire.
Ormai, suo padre tornava a casa soltanto per poche settimane, poi subito ripartiva. Purtroppo capitava sempre in inverno, quando lui doveva restare fermo
più a lungo, il clima era freddo e nevicava spesso, e Mordraud non poteva giocare fuori.
Varno non amava stare al chiuso. Lui l’aveva già abbondantemente capito.
«Usciamo?»
«Cosa vorresti fare?»
«Ecco… mi piacerebbe imparare a usare la spada.»
La sua richiesta colse Varno di sorpresa. Per lui, una spada era soltanto il suo
strumento di lavoro. Niente di trascendentale. L’aveva iniziata a maneggiare di
nascosto insieme ai ragazzi del suo paese, nei lunghi e noiosi pomeriggi in cui
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aveva bighellonato in fuga dal lavoro nei campi. Il resto l’aveva imparato in battaglia.
Nient’altro che uno strumento di lavoro.
«E perché vuoi imparare a usare la spada?!»
«Beh, tu vai in guerra… e se un giorno dovessi andarci io?» rispose Mordraud.
Il vero motivo era ben altro, ma non lo disse apertamente. Tanto sapeva che a
suo padre non interessava. Voleva imparare a difendere la mamma. In realtà non
sapeva neppure cosa fosse una guerra.
«Sei troppo piccolo per queste cose.»
«Fammi provare. Se non riesco, non te lo chiederò più.»
Varno sorrise spiazzato. In un impeto d’affetto prese in braccio Mordraud e
uscirono insieme. Non era un’idea malvagia, pensò. Proprio un’esperienza che
un padre doveva condividere con un figlio. Almeno non avrebbe dovuto sforzarsi di sembrare più colto di quel che era, come tante volte aveva dovuto fare
con Dunwich. Sfigurando miseramente.
Varno prese la spada e la mostrò a Mordraud, seduto sulle sue ginocchia di
fronte alla porta. La sera era fredda, piacevole. La luna rischiarava l’aia di pallide
ombre azzurre.
«Questa è l’elsa. Serve per impugnare la spada. Questa invece è la guardia. Aiuta a parare i colpi del nemico.»
«E questa è la lama?» chiese Mordraud allungando una mano, ma Varno subito
gliela fermò.
«Attento, è affilata! Sai, questa spada ce l’ho con me da quando ho conosciuto
tua madre. È una buona spada.»
«E perché è buona? Non serve per uccidere? Come fa a essere buona?»
«È buona perché uccide bene. E non mi ha mai tradito.»
Mordraud non era sicuro di aver colto il significato di quelle parole, ma non
disse niente, attratto soltanto dal luccichio ipnotico della luna sulla cresta
d’acciaio della lama. «Come si usa?»
Varno si guardò intorno per trovare qualcosa di adatto. Prese una lunga accetta
che di solito usava per la legna. Dalla finestra della cucina Eglade osservava la
scena, preoccupata ma anche felice di vedere finalmente padre e figlio insieme.
Varno lasciò la spada in mano a Mordraud, e gli si piazzò di fronte mostrandogli come doveva reggerla. Il bambino tentò di tenerla sollevata con una sola mano, ma non ci riuscì. Sbuffando e mugolando infastidito, strinse a due mani l’elsa
e alzò la punta, proprio come gli stava dicendo di fare suo padre.
«È troppo pesante per te… devi ancora mettere su un po’ di braccia!»
Mordraud dimostrava quattro anni. Era già un miracolo che riuscisse a tenere
su un pezzo di ferro di quel peso senza cadere per terra.
53
Varno non riuscì minimamente a reagire quando vide Mordraud alzarla sopra
la testa e caricare.
«MORDRAUD!» urlò Eglade dalla finestra. Varno sentì l’acciaio strisciargli
sulla camicia. La punta slabbrò il tessuto e raggiunse la pelle. Si toccò incredulo il
petto. Il volto contratto da un sorriso ebete.
Sangue fra le dita.
Era solo un graffio, uno dei tanti.
La paura arrivò dopo, quando vide che Mordraud non si era neppure reso conto di quello che aveva fatto.
«È veramente lunga» esclamò con un’inaspettata soddisfazione nella voce. Stava fissando la spada stesa in terra. Gli era caduta dalle mani per lo slancio.
Varno, in tutta la sua vita, aveva combattuto molte battaglie. Cercava di tenersi
lontano dalla prima linea, ed evitava gli scontri più sanguinosi defilandosi. Aveva
visto molte scene impressionanti. Ma non era mai stato tanto turbato da qualcosa
come quella notte di fronte a suo figlio.
Una forza mostruosa.
Come l’intelligenza di Dunwich. Come Eglade, che aveva imparato a parlare la
sua lingua prima ancora che lui potesse capire una sola parola della sua.
E come i pugni di Aris. Quelli che ancora gli risuonavano in testa quando ricordava le botte che per poco non l’avevano ammazzato.
«Non toccarla mai più!» urlò con ferocia mollandogli due violenti ceffoni in
faccia.
«Ma… io…»
«MAI PIÙ!» ripeté terrorizzato Varno. Partì un altro schiaffone.
Eglade corse fuori, afferrò suo figlio e lo abbracciò proteggendolo inconsciamente. Mordraud stava piangendo. Aveva fatto qualcosa di sbagliato, lo sapeva.
Ma non capiva cosa.
Lui voleva soltanto imparare a usare la spada. E stare un po’ con Varno.
«Mamma… perché papà è arrabbiato con me?»
«Non è colpa tua …» mormorò lei. «Non è colpa tua.»
Quella notte, Varno non tornò a casa. Prima che Eglade potesse dire una parola, lui era già scappato lungo il sentiero che portava in paese. In tasca non aveva
niente, ma a lui non importava. In qualche modo avrebbe fatto.
Raggiunse la taverna e bevve fino a star male. A credito.
«Non può essere… sono dei piccoli mostri…» biascicò tutto il tempo, mentre
tracannava un bicchiere di vino rancido dietro l’altro. Toccandosi senza sosta il
ridicolo graffio sul petto.
***
54
Da quel giorno, Varno scelse i lavori più lontani, ma soprattutto più lunghi.
Ogni fronte andava bene. A lui interessava soltanto che fosse a settimane di distanza da casa. Si spinse a combattere fino alla Lama dell’Hann, il fronte più a
Sud della guerra, e pretese di saltare innumerevoli congedi. Eglade mandava
avanti tutto da sola. Mordraud faceva il possibile per alleviarle la solitudine e i
lavori pesanti. Spaccava la legna, badava ai polli che tenevano in cortile. Faceva
ordine in casa. La sera si addormentavano insieme, e lei gli raccontava una delle
tante storie sugli Aelian che a lui piaceva vivere in silenzio.
«Quale vuoi stasera?»
«Cambirian, l’ultimo re!» chiese d’impeto Mordraud. Quella era di gran lunga
una delle sue preferite.
«Ancora?! E va bene…» rispose Eglade con finta rassegnazione.
«Cambirian viveva nella grande torre del cielo, e intorno a lui sorgeva la città
da cui aveva preso orgogliosamente il nome. Il cuore di ogni cosa, ecco come noi
chiamiamo la capitale del mondo. Anche gli altri grandi regni, Ankhar a Nord, da
dove giunsero i Khartian come tuo padre, e Dankhar a Sud, dove il mare ribolle
nel ghiaccio, dovevano inchinarsi di fronte alla potenza di Cambirian… neppure
la notte senza fine è riuscita a offuscare la scintilla del suo ricordo.»
«Cos’è la notte senza fine, mamma?»
«Un brutto sogno, amore… è stato un lungo, lunghissimo brutto sogno»
«E Cambirian? Era bello?» chiese Mordraud rapito dalla voce fluente e profonda della madre.
«Bellissimo… aveva i capelli bianchi come la neve, e gli occhi verdi, proprio
come i tuoi.»
«Come i miei?»
«Proprio come i tuoi. Aveva una spada composta da luce affilata, e quando
parlava, anche gli animali potevano comprendere i suoi ordini. Nessuno era come Cambirian, nessuno è mai stato, nessuno sarà mai. Una sola debolezza aveva,
un piccolo vezzo che teneva per le sere in cui contemplava, dall’alto della sua
torre, i cancelli d’oro brillare all’ombra della luna…»
«L’Aniria!» mormorò raggiante Mordraud.
«Proprio così. L’Aniria, il vino degli Aelian, verde come un prato, verde come
gli occhi di Cambirian.»
Eglade abbassò la voce. Mordraud si era addormentato. Il sonno colse anche
lei, cullata dal ritmo morbido del respiro di suo figlio.
Quella notte, Eglade fece un sogno.
L’aveva già fatto in passato, ma l’aveva dimenticato. Erano passati quasi dieci
anni. Un paesaggio grigio battuto dal vento. Tutto era grigio. Senza alcun colore,
come se il paesaggio aspettasse soltanto qualcuno che lo dipingesse, lo comple55
tasse. E, come all’epoca, sentì una voce parlare nel vento. Vicina a lei, ma allo
stesso tempo agli antipodi del reale. Un solo nome. Un sussurro senza fiato.
“Gwern…”
Eglade spalancò gli occhi di colpo. Mordraud era ancora abbracciato a lei. Le
aveva poggiato una mano sulla pancia. Era stato lui a parlare. Aveva una strana
espressione, un misto di meraviglia e paura. Sembrava ancora addormentato. Ma
i suoi occhi erano aperti e la stavano scrutando attentamente.
«Si muove.»
Eglade prese la mano del figlio. Non sentì niente di particolare. Ma quando lui
annuì impercettibilmente, colse qualcosa. Perse per un attimo il respiro.
Per quanto poco l’avessero cercato, per quanto poco avessero tentato.
«Avrai un fratellino, amore mio…» mormorò Eglade. Non sapeva se essere felice, o piangere dalla disperazione
Scelse di essere felice.
«E lo chiameremo Gwern» disse, accarezzando i capelli di Mordraud che riposava steso su di lei.
56
V
«Caccia agli scoiattoli?»
«Sì!»
Mordraud prese un lungo bacchetto dalla legnaia e corse nel bosco insieme a
Gwern. Suo fratello gli zampettava dietro mentre lui si intrufolava fra la vegetazione folta. Alberi bassi e tozzi, macchie di arbusti spinosi, cumuli d’edera che
nascondevano ceppi coperti di larghi funghi piatti. Mordraud gli stava spiegando
tutto ciò che Eglade gli aveva passato durante le loro passeggiate, quando lui non
era ancora nato. Quando si annoiava, smetteva di parlare di piante e gli raccontava una storia spensierata degli Aelian. Eglade gliene aveva insegnate parecchie,
nelle lunghe sere da soli in casa.
Non avevano amici. Qualche volta Mordraud si era spinto fino al villaggio, ma
da quando sua madre si era ammalata non si azzardava più ad allontanarsi da casa. E non lo faceva mai quando era insieme a Gwern. Non gli piacevano gli
sguardi della gente. Gli era capitato più volte di sentirsi osservato. Di solito erano
le donne intorno al pozzo che lo indicavano parlottando fitto. In qualche occasione, Mordraud aveva notato un tizio dalla faccia anonima seduto fuori da una
casa diroccata. Stava lì a fissarlo finché non se ne andava. Era un po’ che non lo
vedeva in giro, pensò. Probabilmente se n’era andato dal paese. Di quell’uomo,
l’avevano colpito gli occhi. Un colore indefinibile. Come se riflettessero la luce in
modo vagamente innaturale.
Ma non era lui il motivo per cui non amava il villaggio. Erano i bambini che ci
abitavano. Non riusciva a legare con loro. Non ci aveva neppure provato, perché
quel branco di marmocchi impolverati l’avevano istantaneamente preso di mira.
Lo avevano chiamato figlio della strega.
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«Ecco che arriva, il figlio della strega! Sbuca dalla foresta come un cinghiale e
scappa via! Si pulisce il culo con le mani e ti porta la febbre nera in casa! Il figlio
della strega!»
Erano tutti più grandi di lui, più grossi e giravano sempre in gruppo. Lo insultavano urlando mezze filastrocche incastrate a pezzi di insulti in grottesche scene
senza senso. Mordraud aveva scoperto di non essere un ragazzo particolarmente
paziente. Un giorno, stanco di sentirsi prendere in giro ogni volta che metteva
piede in paese, era saltato addosso a quello che sembrava il loro capo. L’aveva
caricato a testa bassa. Per fortuna, Gwern quel giorno era a casa. Mordraud era
scappato via malconcio. In tasca, un premio di lividi e graffi. Ma chi aveva pronunciato le parole figlio della strega poteva solo sperare in una buona dentiera su
misura.
Gli aveva spezzato i denti frontali con un paio di pugni duri e ben assestati.
«Ecco, vedi che in quel tronco c’è un buco? Lassù, sopra il secondo ramo…»
«Dove? Non lo vedo!»
Mordraud si avvicinò mimando di fare in silenzio. Gwern soffocò una risatina
divertita. Lui schiaffeggiò il tronco. Uno scoiattolo saltò fuori da una fenditura
nella corteccia. Suo fratello saltellava agitando il bacchetto, ridendo e cantando
stonato il ritornello di una canzone da taverna che suo padre fischiettava di tanto
in tanto. Corsero insieme seguendo le evoluzioni del batuffolo di pelo bruno fra i
rami degli alberi.
«Ancora, dai!»
Mordraud fissò il cielo incastrato fra le fronde del bosco. Notò che il sole era
basso e pronto a sparire oltre l’orizzonte. Era tardi, doveva ancora preparare la
cena.
«No, adesso torniamo a casa. La mamma deve mangiare qualcosa di caldo.»
«Solo un altro, dai dai dai…»
«No!»
Gwern si irrigidì e perse di colpo il sorriso. Mordraud si accorse tardi di essere
stato troppo brusco. Prima che iniziasse a piagnucolare, lo afferrò per i fianchi e
sbuffando come un torello lo alzò, e lo fece sedere sulle sue spalle. Ritornarono
indietro insieme. Gwern rideva e picchiettava la testa del fratello con le piccole
mani bianche. Esili, molto diverse da quelle di Mordraud. Era di carnagione leggermente più chiara, pallida e vagamente malsana. I suoi capelli erano di un castano simile alla stoppa vecchia. I riflessi ricordavano quelli della madre. Vispi
occhietti grigi venati d’azzurro. Era, fra i fratelli, quello che più ricordava Eglade
nella femminilità dei lineamenti, sebbene fossero ancora molto acerbi.
Nello spiazzo di terra battuta davanti a casa aspettava pazientemente una carrozza agganciata a due cavalli scuri. Bestie poderose e impazienti. Un servitore in
livrea grigia era impegnato a strigliar loro il pelo. Quando vide i due bambini
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sbucare dalla foresta si portò un braccio al ventre e si produsse in un rigido inchino. Mordraud sapeva già di chi fosse quella bella carrozza. Gwern si agitò sulle sue spalle eccitato da una tanto inattesa sorpresa.
«Dunwich!» disse il bimbo scalciando di gioia. Aveva già tre anni, ma come era
normale nella loro famiglia, ne dimostrava meno. Aveva imparato a camminare
bene da poco, mentre sembrava che fosse nato con il dono della parola. Eglade
non aveva fatto la minima fatica a insegnargli come parlare le lingue dei due popoli, era stato persino più facile che con il fratello maggiore.
«Già. Forse è lui.»
«Non sei contento? È tornato a casa, e magari sta un po’ con noi!»
Mordraud non rispose. Puntò dritto verso la porta socchiusa dell’ingresso.
Poggiò a terra Gwern, chiedendogli, con un tono che non ammetteva repliche, di
andare dietro nell’orto a raccogliere qualche carota e un paio di patate. Quando
lo vide andarsene, solo allora entrò in casa.
Dunwich stava armeggiando con un pentolino d’acqua calda davanti al camino
acceso. Eglade era seduta su una poltroncina di midollo intrecciato. La sua coperta preferita sulle gambe. Fissava il suo primo figlio persa d’ammirazione. Stavano parlando di lui, Gwern e papà. Mordraud restò ad ascoltare in silenzio fuori
dalla stanza, nascosto dietro la porta aperta.
«Da quanto tempo sei malata? Bisogna fare qualcosa.»
«Oh, non esagerare! Non sono malata, mi mancano solo un po’ le forze… da
quando è nato il piccolo Gwern mi sento così affaticata…»
«Ma sono passati tre anni!»
La voce di Dunwich era carica di dolorosa apprensione. Mordraud sentì montargli nel petto quella familiare rabbia che provava quando pensava a lui e a Varno.
«Ma lo sai che noi Aelian siamo così… lenti…» rispose Eglade ridacchiando
fra alcuni colpi di tosse.
«Anche Gwern non sta molto bene, vero? Me lo hai scritto nell’ultima lettera.»
«Sì, purtroppo è un po’ fragile, come me. Ma è ancora piccolo, magari con il
tempo si rafforzerà come i suoi fratelli…» rispose lei. Mordraud passò dal suo
viso a quello di Dunwich. Si somigliavano in tanti piccoli dettagli. Lineamenti
eleganti e aggraziati, movenze leggere, fisico asciutto. Suo fratello era longilineo
ma definito. Le spalle già segnate da un esercizio fisico mirato. Gli occhi di
Dunwich erano soltanto un po’ più chiari di quelli della madre, ma altrettanto
brillanti.
«Mordraud invece come sta?» chiese lui, sempre con lo stesso tono preoccupato. Aveva un buon motivo per esserlo. L’ultima volta che si erano incontrati, la
serata non era andata proprio bene. Mordraud era ancora piccolo, ma era stato
subito chiaro che l’affetto che un tempo provava per lui era del tutto svanito.
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Non si erano neppure salutati. Da allora non l’aveva più visto. Erano già passati
tre anni.
Dunwich era venuto a trovare Eglade quando aveva saputo che era nato
Gwern. Si era presentato con una bella carrozza e un cesto pieno di regali. Salumi, vino, formaggi. Una saccoccia di scudi d’oro.
Quel giorno, ovviamente, Varno non era a casa.
Mordraud, frustrato dal comportamento assente del padre, e preoccupato per
la madre che sembrava non riprendersi più dal parto, aveva iniziato a incolpare
Dunwich di tutto. Era sempre stato lui il figlio prediletto di Varno. Era stato lui
ad andarsene a Cambria per studiare. Ed era stato lui a non tornare più, se non
quando gli veniva voglia di mostrare a tutti quanto fosse un giovane di successo.
Ma soprattutto, non era mai stato presente quando Varno aveva iniziato a
comportarsi in modo strano.
«Ecco, sta bene…» rispose Eglade con poca convinzione. «Mh… è un po’
chiuso, parla poco e non si lamenta mai, ma è così sensibile… mi aiuta in casa,
sai, da quando papà ha accettato l’incarico a Nord.»
«Nel fronte Nord» disse Dunwich poggiandole una mano sulla gamba. «Laggiù
si combatte poco, anche se il clima è duro e il cibo a volte scarseggia. È un fronte periferico, perfetto per la sua età. Non devi preoccuparti troppo per lui, madre. Varno è un soldato esperto.»
«Sei così formale quando mi parli…» mugolò Eglade. «Mi ricordo come se fosse ieri quando eri qui a casa, con me, e mi facevi sempre un mucchio di domande… non sapevo come farti stare tranquillo.»
«È passato molto tempo, mamma… ora lavoro a Cambria, partecipo a cene,
riunioni…»
Dunwich parlava come un autorevole studioso, ma dimostrava molti meno dei
suoi ventitré anni. Un ragazzino che si atteggiava a uomo, pensò rabbiosamente
Mordraud.
«Vieni qua, fatti abbracciare…»
Dunwich si chinò su di lei stringendola con delicatezza, mentre le accarezzava i
capelli di rame sbiadito.
«Stai diventando proprio un bell’uomo, amore…»
«Grazie mamma. Hai poi pensato alla mia proposta? Ti prego, accettala!»
Mordraud si appiattì sulla porta e tese l’orecchio per ascoltare meglio. Una
proposta. Cosa voleva Dunwich da loro, si chiese. Da quando se ne era andato,
lui e la mamma non avevano avuto altro che problemi.
«Non possiamo venire in città, tesoro. Se scoprissero che sono una Aelian, potrei diventare un peso per te. Quasi nessuno sa che noi esistiamo, e quei pochi, ci
guardano con sospetto. Sai che mi chiamano strega, al villaggio? Quaggiù stiamo
bene, se tuo padre tornasse un po’ più spesso a casa…»
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«È soltanto superstizione…» minimizzò Dunwich con un cenno.
«Non soltanto. Per loro, io non sono invecchiata di un giorno negli ultimi
vent’anni.»
«Avete abbastanza soldi? Dal paese vi portano le provviste che vi servono?»
disse lui per cambiare discorso. Sapeva che sua madre aveva ragione, ma
d’altronde, lui non poteva assentarsi da Cambria troppo a lungo e troppo spesso.
Se li avesse avuti tutti vicino a casa, magari avrebbe potuto aiutarli molto meglio
di come già tentava di fare. In città aveva soldi, amicizie, una carriera.
Le cose stavano andando alla grande, si disse Dunwich.
«Ci penso io alla spesa, fratello.»
Mordraud entrò in cucina a pugni chiusi e passo pesante. Il volto corrucciato e
la voce dura stonavano con il suo aspetto ancora infantile. Eglade allungò subito
un braccio e lo afferrò con delicatezza. I due fratelli si fissarono in modi molto
diversi. Dunwich con perplessità, Mordraud con odio malcelato.
Era diverso dal bambino che aveva tenuto in braccio ormai tanti anni prima,
pensò amaramente Dunwich. Quel giocattolo rosa che frignava e batteva le manine, gli afferrava i capelli mentre passeggiava con lui in braccio. Che si addormentava ovunque.
«Cosa sei venuto a fare?»
«Volevo sapere come stava nostra madre, Mordraud. E magari fare un saluto al
piccolo Gwern, l’ultima volta che l’ho visto era in fasce…»
«Stiamo benissimo» tagliò corto lui. «Penso io a tutto.»
«Non sono venuto per crearvi problemi, ero solo preoccupato» provò a dire
Dunwich, ma Mordraud gli abbaiò furiosamente addosso.
«Oh sì, eri proprio preoccupato! Bella quella casacca grigia, complimenti… sembra proprio di ottima lana. E che bel carro, fratello. Quanto paghi per mantenere
lo stalliere? Il suo peso in oro? Spero non quello della tua spocchia… potresti
mandare in rovina l’impero.»
Tutti i problemi che Varno stava creando alla loro famiglia. Il dolore che provava Eglade, la sua debolezza. Anche le crisi di Gwern, che lo prendevano in
piena notte e ogni volta minacciavano di ucciderlo. Mordraud aveva deciso di
sua iniziativa di prendersi tutto sulle spalle. Forse per mostrare a Dunwich quanto poco lui in realtà facesse per loro. Ma non l’aveva fatto solo per ripicca. Era
stato costretto dai tempi. Per sopravvivere a quel naufragio, cercando di salvare
tutto quello che poteva.
«Questo non c’entra niente! Se non sopporti l’idea che io viva a Cambria, dillo,
forza!» esclamò Dunwich, snervato dal tono sardonico del fratello.
«Torna a far carriera, Dunwich. Dopotutto… tale padre, tale figlio.»
Dunwich sopportò l’insulto come un pugno nello stomaco. Sbiancò e distolse
lo sguardo. La bocca che tremava di rabbia. Mordraud si preparò a incassare.
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Voleva fare a botte con lui. Voleva che suo fratello lo caricasse e lo picchiasse
selvaggiamente, così da aver un ulteriore motivo per odiarlo.
«Non dire così…» lo implorò Eglade. Soffriva a osservare impotente quella
scena. Un ragazzino ben vestito, e un bambino arruffato dallo sguardo feroce
che parlavano come due adulti gonfi d’acredine.
«Non dico nulla di sbagliato, mamma! Lui manda a casa i suoi soldi, come papà. Lui non si fa mai vedere a casa, come papà! Poi torna, saluta, e riparte!»
«Ma è tuo fratello, e dovresti essere felice che lui stia avendo il successo che…»
mormorò faticosamente Eglade. La tosse spezzò le sue parole e la costrinse ad
accasciarsi per un momento sul bracciolo della sedia.
Mordraud serrò le labbra fino a farle sparire.
«Lui non è mio fratello.»
«DUNWICH!»
Gwern entrò di corsa nella stanza travolgendo una gamba del tavolo. Si tuffò
per abbracciarlo. Le patate che aveva in mano volarono qua e là sul pavimento di
legno, e Mordraud si chinò stizzito per raccoglierle prima che rotolassero fuori
portata.
«Ehi, fai piano che se no mi spezzi! Sei diventato fortissimo!» esclamò
Dunwich. Il suo volto si schiarì. Sembrava molto felice di quella chiassosa interruzione.
«Sembri proprio un grande nobile, fratellone! Hai anche una spada? E un bastone da passeggio d’oro? È vero che a Cambria tutti girano con un bastone
d’oro?»
Dunwich si chinò per osservarlo meglio. Sembrava ancora un bimbo, ma parlava già come un ragazzo. Il sangue Aelian. Mordraud li stava fissando senza respirare. Gli occhi che tremavano affogati nell’ombra dello sguardo.
«Ti comporti bene con la mamma e con tuo fratello, vero? Sei un ometto di
casa anche tu, ormai. Hai già imparato a leggere?»
«Come no! È facile. Anche in Aelian è facile, ed è più divertente. Ma adesso
non devo fare gli esercizi, li ho già finiti, vero mamma? Ora possiamo andare a
giocare. Vieni anche tu?! Facciamo la caccia allo scoiattolo. È divertentissimo!
Mordraud è bravissimo a scovarli! E poi…»
Gwern era un fiume in piena. Eglade si alzò debolmente dalla sedia e lo prese
in braccio, scuotendolo con dolcezza.
«È un genietto, come tutti i miei figli. Ha praticamente imparato a leggere da
solo.»
«Bene, è una gran cosa!» esclamò Dunwich annuendo soddisfatto. «A Cambria
cercano sempre ragazzi dotati e desiderosi di imparare.»
Mordraud affilò gli occhi e digrignò i denti, ma non disse nulla. Non voleva
spaventare Gwern, ma avrebbe avuto un paio di cosette poco simpatiche da dire
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al riguardo. Era già un miracolo che suo fratello non avesse ancora avuto una
crisi. Quasi ogni giorno Gwern doveva sopportare un paio di attacchi brutali, un
misto fra tosse, tremori incontrollabili, conati devastanti, tanto forti da farlo
stramazzare in terra con la bava alla bocca.
«E dici che potrei venire anch’io in città a studiare? Cambria è enorme, vero? E
ci sono i palazzi come mi raccontava Mordraud?»
«Sì, è molto grande…» rispose Dunwich, gli occhi rivolti a Mordraud «e tu sei
molto piccolo. Magari in futuro, quando tu e la mamma starete bene. E ora ti dico un segreto…»
«Quale? Quale?!»
«Nella mia carrozza c’è un sacchetto, e dentro il sacchetto ci sono…»
Dunwich finì la frase parlandogli all’orecchio. Gwern schizzò fuori dalla cucina
senza toccare il pavimento.
«Ora vattene, Dunwich.»
«Fratello, cerca di capire, parlerò con papà, posso convincerlo a restare a casa
di più…» rispose Dunwich.
«Non sai di cosa stai parlando» ripeté Mordraud con un filo di voce.
«Perché? Pensavo che il problema fosse che lui non sta mai a casa… avete bisogno di più soldi?!»
«Vattene» sibilò di nuovo Mordraud, facendogli segno di uscire.
Dunwich abbracciò forte la madre e la baciò, raccolse il suo mantello e la sacca
da viaggio in pelle e si avviò verso l’uscita.
«Torna a trovarmi quando vuoi» sussurrò con un filo di voce Eglade. Dunwich
annuì senza parlare.
«PANINI DOLCI! PANINI DOLCI!» le urla di Gwern raggiunsero la cucina
riverberando come squilli di tromba alle pareti.
«GRAZIE FRATELLONE!»
***
Dopo la nascita di Gwern, la loro vita in famiglia era inesorabilmente marcita.
Varno, ormai più che cinquantenne, aveva perso gran parte dei capelli, soffriva di
continui acciacchi e aveva il corpo ricoperto di cicatrici mal curate. I suoi riflessi
non erano più quelli di un tempo, ma lui si ostinava a continuare imperterrito il
mestiere di mercenario, incurante di quanto Eglade soffrisse per la sua mancanza. Ormai gli era diventato impossibile tollerare quel lento degrado che lo stava
consumando, giorno dopo giorno. Guardava la donna che aveva amato, e la vedeva identica al primo giorno. Guardava la sua immagine allo specchio. Vedeva
soltanto un vecchio con un piede nella fossa.
La paura divenne invidia. L’invidia divenne odio.
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E, sopra ogni cosa, Varno iniziò a odiare Mordraud.
Non gli somigliava quasi per niente. Era chiuso, parlava poco e non mostrava
affetto per nessuno a parte che per sua madre e il suo fratellino. Non era brillante come Dunwich, né delicato come Gwern. Era diventato il bersaglio degli insulti di tutti gli altri ragazzini del paese, senza aver fatto praticamente niente.
Nessuno lo sopportava.
E aveva quei maledetti occhi verdi. Gli stessi di Aris, il suo incubo peggiore.
Varno prese a fare cupi pensieri sulla moglie. Perché tutti i suoi figli non gli
somigliavano? Perché Mordraud aveva gli occhi di un altro Aelian? Non avrebbe
mai pensato di raggiungere tali livelli di paranoia, quando era giovane e non teneva conto dei problemi che avrebbe potuto avere in futuro. Ma li aveva raggiunti e superati. Non sapeva nemmeno di quanto.
Invece che seguirla di nascosto, tenere d’occhio i suoi movimenti come una
qualunque persona gelosa, Varno prese a fuggire sempre di più, e sempre più
lontano. Sapeva che le sue supposizioni non potevano avere un senso, ma gli
serviva comunque un pretesto per continuare a provare invidia, per mantenere in
caldo il suo odio. Invece che affrontare la paura del tempo che passava, tentava
disperatamente di scappare da esso.
Senza successo.
Eglade non si era più ripresa dall’ultimo parto. All’inizio era sembrata soltanto
una lunga debolezza, una mancanza di forze che la costringeva a letto per gran
parte del giorno. Ma con il passare dei mesi, invece che migliorare, la sua condizione peggiorò. I lunghi capelli di rame liquido sbiadirono, gli occhi si spensero.
La sua mente prese a sbandare sempre più spesso, alternando deliri allucinanti a
momenti di lucida e agghiacciante razionalità. Potevano passare giorni in cui non
riusciva a dire una parola, oppure blaterava senza freni nella sua lingua madre
raccontando al nulla di boschi congelati, orrendi cieli neri, esseri che vagavano
nelle ombre. Poi, di colpo, si rendeva conto di quello che le stava accadendo e
piangeva, piangeva senza sosta.
Varno non c’era mai in quei momenti.
Per lei, suo marito era diventato un essere sconosciuto. Varno era soltanto nei
suoi ricordi, un ragazzo pieno di vita ed energia che l’aveva affascinata con le
storie di un mondo che le era sempre stato precluso. Non capiva cosa fosse successo, non riusciva a farsene una ragione. All’inizio aveva sperato che, con la giusta pazienza, tutto si sarebbe sistemato. Che Varno un giorno avrebbe capito di
non poter fuggire all’equilibrio del tempo, che donava a lei e ai suoi figli e toglieva spietatamente a lui. I momenti buoni si erano fatti sempre più radi. Nessun
miglioramento, mai nemmeno l’illusione.
Semplicemente aveva smesso di reagire, di opporsi.
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Eglade stava scivolando lentamente nella follia, accudita disperatamente da
Mordraud, che non capiva cosa stesse succedendo. Varno non muoveva mai un
dito per aiutare lui, né lei.
Però le mani le muoveva, eccome, per fare altro. Picchiarlo, ad esempio. O per
alzare un fiasco di vino.
La situazione era diventata molto difficile l’anno dopo l’ultima visita di
Dunwich. Ogni volta che Varno metteva di nuovo piede in casa, Mordraud diventava il suo bersaglio. Quando non riusciva a mettere le mani su di lui allora
toccava a Gwern, e per ultima, Eglade. Suo fratello si era chiuso in un mutismo
impenetrabile, e il suo sorriso era svanito completamente. Le crisi che lo colpivano inesorabilmente diventavano sempre più forti. Come un’eco dell’oscura
malattia della madre. Mordraud viveva nel terrore che uno schiaffo, uno soltanto,
potesse ucciderlo.
Per cui si faceva sempre trovare da Varno, ogni volta che era necessario.
Lo imbeccava insultandolo e prendendolo in giro, finché lui non abbandonava
i suoi propositi verso la madre e il fratello caricando di botte soltanto lui. Di solito Mordraud si faceva prendere apposta, ma solo dopo averlo stancato con corse
estenuanti e continue provocazioni. Voleva essere sicuro che dopo aver finito
con lui, sarebbe andato dritto in paese a bere. Da ubriaco era molto meno pericoloso. Spesso dimenticava tutto ciò che era successo. Raramente Gwern poteva
vedere tutta la scena, perché Mordraud sapeva annusare nell’aria i guai in arrivo,
e prima che scoppiasse l’ennesimo dramma lo spediva nel bosco a raccogliere
qualsiasi cosa gli passasse per la mente, more, lamponi, funghi o semplicemente
bacchetti di legna per il fuoco.
«Lascia fare a me, mamma!» aveva detto Mordraud a Eglade una sera dopo una
giornata particolarmente difficile, perché Varno si era ricordato di un vecchio
randello che aveva nascosto anni prima nella legnaia. «So dove tiene le monete
d’argento, aspettiamo una notte senza luna, prendiamo tutto e scappiamo! Io, te
e Gwern… dobbiamo farlo!»
«È bello camminare nelle notti senza luna» aveva risposto Eglade con voce sognante, sdraiata e immobile nel suo letto. Mordraud la stava aiutando a mangiare
un po’ di zuppa annacquata che lui le aveva preparato, mentre Gwern giocava in
silenzio con il lembo della coperta. Mordraud era preoccupato per lei, ma soprattutto per il fratello. Sembrava l’ombra rimpicciolita della madre, stessa pelle diafana e tirata, stessa espressione vacua.
«Sì, è molto bello, ti piacerebbe venire con noi una volta? A fare una… passeggiata?»
«È bello. Ma è anche pericoloso. Lo sai cosa diceva mio padre, tesoro? Nelle
notti senza luna le ombre alle spalle sono più lunghe, diceva sempre. Non so cosa volesse dire. Mio padre mi faceva paura. Sono stanca… ho bisogno di riposare un po65
chino. Varno tornerà domani con il cesto pieno di frutti e formaggi. Quelli che
piacciono tanto a Dunwich.»
Solo a sentire nominare suo fratello, a Mordraud si gelava il sangue nelle vene.
Ricevevano ancora i soldi che lui spediva, ma il loro rapporto si fermava lì. Piuttosto che chiedere aiuto a suo fratello, avrebbe preferito affogare in una marea di
schiaffi.
Sarebbe dovuto fuggire con Gwern. Un’idea costante. Ma non se la sentiva di
abbandonare la madre al suo destino. Portarla via con la forza sarebbe stato impossibile. Eglade non si alzava più dal letto. Non si reggeva in piedi. Scappare da
solo non lo prendeva neppure in considerazione. Suo fratello non avrebbe retto
un giorno, e poi sarebbe stato il turno di sua madre.
Restava soltanto il lavoro di Varno che, per quanto calasse di giorno in giorno
seguendo la mesta china del tempo che passava, restava comunque l’unica pausa
di relativa serenità a cui Mordraud poteva ancora aggrapparsi.
Ma alla fine, anche quell’ultimo fragile appiglio svanì miseramente.
Durante un’inaspettata campagna di attacchi in un fronte periferico, e solitamente poco pericoloso, Varno perse il braccio destro durante una carica di cavalleria. Dopo settimane di dolori e febbri lancinanti, fu mandato a casa con soltanto un pugno di monete in mano e una montagna di rabbia da smaltire. Mordraud
aveva quindici anni.
Non credeva possibile che la sua vita potesse essere peggiore. Si sbagliava clamorosamente.
Il disgusto per la sua famiglia aveva ormai raggiunto vette impossibili. Varno si
era convinto di vivere insieme a schifose aberrazioni della natura. Abomini che
aspettavano solo la sua morte per potersi prendere i suoi soldi. Divenne sempre
più cattivo nell’animo. Si lamentava giorno e notte, seduto su una sedia in giardino, e sbraitava di quanto fosse stato coraggioso quando gli avevano amputato il
braccio. Si inventava storie in cui assaltava da solo un intero plotone di cavalieri.
Si comportava come un eterno convalescente, lasciando a Mordraud ogni minima incombenza.
Sempre che non scendesse in paese a bere.
Il vino lo trasformava in una belva carica di odio e di rimorsi da sfogare. La
sua vita era finita, il suo lavoro concluso per sempre, la vecchiaia lo stava divorando dall’interno. Partendo dalla testa.
Diverse volte cacciò i medici per Eglade che Dunwich aveva mandato dalla
capitale, spendendo cifre folli e rischiando grosso. Impediva qualsiasi contatto
dall’esterno con la loro casa. Anche i suoi figli non potevano entrare in camera
della madre, che viveva confinata e sola sempre nella stessa stanza buia e umida.
Infine, smise di dare il cibo alla Aelian completamente fuori di senno, impedendo anche a Mordraud di farlo. Controllava di continuo le dispense e l’orto. Una
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volta pestò selvaggiamente Gwern dopo averlo scovato mentre di nascosto tentava di portare qualche frutto selvatico a Eglade.
Il bambino ne era uscito malconcio e stracciato. Era rimasto bloccato a letto
per giorni, a cavallo fra la vita e la morte, chiuso a chiave in camera e sorvegliato
giorno e notte da suo fratello. Avevano sentito Varno continuare a urlare, spaccare, inveire contro di loro, picchiare ferocemente sulla porta. Mordraud non
aveva mai avuto tanta paura in vita sua. E la colpa, nella sua mente schiacciata
dal terrore, divenne carne, sangue e un nome.
Dunwich.
Il fratello che non era mai venuto in loro soccorso, che li aveva abbandonati
per inseguire una vita di successo nella città che aveva ucciso suo padre. Cambria. La maledetta Cambria. Perché Varno, in realtà, non era mai tornato a casa
da quella battaglia. L’uomo senza un braccio era lo Sconosciuto.
Soltanto lo Sconosciuto.
La paura divenne invidia. L’invidia divenne odio.
Un odio talmente profondo da spingere Mordraud oltre il confine sfumato della disperazione.
***
«DOVE SEI ANDATO, BESTIA? SCHIFOSO MOSTRICIATTOLO!»
Mordraud era stato più bravo del solito. Quando suo padre tornava dopo una
giornata intera passata in paese, si scatenavano dettagli che solo lui riusciva a
percepire. Le fronde degli alberi sembravano zittirsi, gli uccelli cambiavano voce
e i pochi animali che ancora avevano in cortile raspavano il terreno sempre nello
stesso modo. Quel modo. Il segnale tanto temuto.
Rapidamente, Mordraud sbirciò dalla finestra della sua camera e vide Gwern
addormentato sul letto. Non si era ancora ripreso. Si svegliava di tanto in tanto
chiedendo qualcosa da bere, e precipitava di nuovo in un oblio malsano. Per precauzione Mordraud chiudeva la porta della camera con un lucchetto che aveva
rubato in paese, dentro la baracca di un taglialegna.
Sua madre era la seconda tappa del rituale. Eglade era svenuta a letto, sempre
più magra e devastata. Anche la sua camera era chiusa, ma di quella lui non aveva
la chiave. Un grattacapo che aveva imparato a risolvere in fretta. La finestra era
piuttosto facile da aprire con un ferretto piegato, passato sotto un’asse che lui
aveva schiodato con un martello.
Aveva poco tempo. Le prime grida si alzarono dalla fine del sentiero.
I passi sulla ghiaia divennero ben distinti, il tipico ritmo sincopato di un uomo
ubriaco fradicio. Mordraud si fiondò nella legnaia, scivolando dietro una pila di
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vecchi ceppi tarlati che aveva accuratamente disposto in modo da creare un alveo irraggiungibile.
«Senza il tuo braccio, non vali la metà di me» sussurrò a denti stretti, ripetendo
quelle parole come una nenia. «Senza il tuo braccio non puoi raggiungermi.»
Si immaginò il moncherino. Lo trovava disgustoso. Lo Sconosciuto si divertiva
a mostrarglielo, a strofinarglielo sulle guance per spingerlo a vomitare. Mordraud
fermò quel pensiero. Lo soffocò mormorando di nuovo la sua preghiera speciale.
«Senza il tuo braccio…»
«HAI CHIUSO DI NUOVO LA PORTA, EH? PICCOLO CANE SCHIFOSO, DOVE SEI?!»
Mordraud sentì il caos montargli intorno. Il legno che scricchiolava, la serratura che fremeva sotto i pugni dello Sconosciuto.
«QUESTA È CASA MIA, NON PUOI CHIUDERE LE MIE PORTE!»
“Adesso tenta sul retro, vicino al pozzo. Poi nel pollaio vuoto. Nella vecchia
cuccia del cane. E si addormenterà sulla poltrona in sala” pensò meccanicamente, abituato a tutta una serie di grotteschi passaggi di un rito che aveva imparato
alla perfezione.
Mordraud ricordava cos’era successo in ognuno di quei luoghi. Erano stati ottimi rifugi, ma non erano durati molto. La legnaia era il migliore di tutti. A portata di mano, pronti e invitanti, aspettavano la vecchia spada sbeccata di suo padre,
e un bastone duro e levigato, che si era intagliato da solo nelle lunghe e noiose
ore di fuga nei boschi.
«Se mi trova, questa volta posso difendermi. Senza il suo braccio… non vale la
metà di me…»
Si era allenato fino a maciullarsi le braccia, tutte le volte che poteva, ogni giorno per mesi. I suoi muscoli non erano ancora pronti a manovrare una lama, ma
gli anni non erano passati invano. Mordraud aveva picchiato su tutti i tronchi
della foresta, spaccato rami, sollevato pietre, scavato fosse. La sua forza non si
poteva vedere facilmente, rinchiusa nel corpo esile di un dodicenne. Ma il nervo
era diventato di ghisa.
Terribilmente pesante. Tremendamente fragile.
«SEI QUA DENTRO, VERO?!»
Lo Sconosciuto aveva cambiato schema. Niente poltrona, niente cuccia. La
porta della legnaia saltò via come carta, e Mordraud sentì il cuore sprofondare.
Un fremito insopportabile gli impediva di stringere la mano sinistra sull’elsa.
«Senza il tuo braccio, non puoi raggiungermi» ripeté a se stesso a occhi socchiusi.
«Senza il tuo braccio, non vali la metà di me.»
Intanto, la sua mano ballava incontrollata. Non sentiva le dita. I tendini del
polso erano attraversati da una scossa che gli piegava i denti in bocca. L’intero
braccio sinistro era completamente fuori controllo.
68
«Ti nascondi come un ratto, vero?! Sotto la legna come i ratti, sotto terra come i
vermi! VIENI FUORI!»
Un ciocco di legno cadde vicino a lui. Il nemico aveva raggiunto le mura, e stava usando tutta la sua forza per conquistare il castello. Un altro ceppo, una valanga di frasche secche. Una pigna lo prese in testa. Mordraud era rannicchiato
sotto una montagna di legna pericolante.
«Fottiti, cane maledetto!»
Il nemico calò i suoi attacchi. Inaspettatamente, batté in ritirata. I passi dello
Sconosciuto strisciarono sulla ghiaia fuori dalla legnaia, e Mordraud poté tornare
a respirare.
“Ho vinto… non mi hai preso, bastardo…”
La sua mano era ancora stretta sull’elsa della spada. Le dita non volevano saperne di staccarsi. Il fremito era dilagato su tutto il corpo. Mordraud sentì il panico frullargli le viscere. La paura che aveva soffocato per sfuggire al nemico era
tornata a esigere il giusto sacrificio.
Improvvisamente, non sapeva più dove fosse. Non riconosceva le pareti, il terreno sporco, le distanze fra lui e il cumulo di ceppi. Lo spazio era diventato del
tutto mentale. Le forme ai margini della visione erano piegate come dentro il
fondo di un fiasco di vetro.
«Mamma?»
Nessuno rispose al suo sussurro disperato. Non era neppure certo di avercela,
una madre. Quella non poteva essere casa sua. Non la riconosceva. Era da solo
in un paese straniero, circondato da essenze sfuggenti e forme inafferrabili. Odori incomprensibili gli torturavano il naso. La luce era virata a un rosso carminio
macchiato di giallo.
«Mamma?!»
Mordraud riuscì a strisciare fuori dal cumulo di legna, e seguendo la debole
ombra del tramonto oltrepassò il varco mezzo chiuso della porta e sgusciò nel
cortile. Nessun rumore, segno che il nemico ormai era ritornato nel suo accampamento. Ma lui dov’era, si chiese spaesato. La testa gli girava troppo forte. Per
quanto provasse, non riusciva a tenere lo sguardo fisso in avanti senza sentire un
conato squassargli lo stomaco. Come quando era costretto a subire il moncherino deforme dello Sconosciuto. Prima che il panico prendesse il sopravvento,
Mordraud corse a perdifiato dentro la foresta, inciampando su ogni radice, sbattendo contro ogni ramo.
La notte scese in fretta, accesa da una pallida falce di luna. Finché non sentì le
gambe cedergli, Mordraud corse. Incurante della fatica. Se si fosse fermato, sapeva che lo smarrimento sarebbe ritornato con ancora più forza, ma finché si
muoveva non aveva tempo per pensare. Le ore scivolarono via, e quando final69
mente la stanchezza lo scaraventò in terra, il tremore era ormai svanito.
Mordraud si addormentò rannicchiato su un cumulo di foglie secche.
L’alba lo sommerse impietosa.
Senza rendersene conto, Mordraud era arrivato quasi al villaggio, a pochi passi
dall’ultima fila di alberi del bosco. Ma non fu la luce a svegliarlo.
Furono un calcio secco nella schiena, e un paio di risate sommesse.
«Guarda qui, il figlio della strega!»
«E noi che volevamo andare a caccia di lepri… siamo stati più fortunati!»
Altri due calci. Un pugno nello stomaco. Niente, rispetto allo Sconosciuto.
Erano i ragazzi del villaggio. Gli stessi che lui aveva già caricato a testa bassa,
compreso quello a cui aveva fatto saltare i denti. La gamba più attiva contro i
suoi reni era la sua.
«Te la faccio pagare per questi!» biascicò il ragazzo più grosso, indicandosi con
un dito la bocca sfondata. «Forza, tenetelo fermo!»
Una selva di braccia lo inchiodò alla terra umida. Fra le mani del ragazzo senza
denti era apparso un lungo coltello da macellaio.
«Cosa ti tolgo? Un occhio?»
La punta della lama danzò a un palmo dalla sua faccia. «Un orecchio?»
Mordraud sentì ritornare il tremore, tanto forte che per poco non si mozzò la
lingua in bocca da solo. La scarica sfibrò i tendini e li accartocciò. Le dita divennero sassi gelidi e insensibili.
I volti dei ragazzini erano tutti uguali. Gli alberi sopra la sua testa si fusero in
un’unica macchia verde. Colori, pensò delirando. Colori dappertutto.
Il rosso e il giallo del cielo. La terra nera. Il verde irraggiungibile della salvezza.
«Ho deciso!» urlò trionfante il ragazzo con il coltello.
«I DENTI!»
Mordraud fletté la schiena e strappò via una gamba dalla morsa. Lo sdentato
volò a terra colpito al petto insieme al coltellaccio arrugginito. La sua reazione
colse tutti di sorpresa. Con un paio di gomitate riuscì a liberarsi e a rimettersi in
piedi.
«Maledetto ratto!»
Le loro voci erano tutte uguali. Anche i loro occhi. Lo Sconosciuto si era moltiplicato, ed era tornato per finire l’assalto della notte prima. Loro non potevano
saperlo, ma lui era molto bravo a incassare. Tristemente bravo. Aveva a che fare
tutti i giorni con un vecchio mercenario dalle mani dure come il ferro.
Le loro, in confronto, erano carezze.
Mordraud afferrò un ramo spezzato e colpì senza esitare la prima testa che
trovò a tiro. Il tremore allentò la sua furia. I ragazzi fecero un passo indietro, poi
gli corsero addosso tutti insieme.
70
Il fremito al braccio svanì del tutto quando vide il primo di loro cadere in terra
con la faccia spaccata.
Mordraud saltò indietro per schivare le lame dei temperini e delle roncole che
erano balenate fuori dalle loro cinture. Si sentiva calmo e a suo agio, come mai
gli era capitato. Il bastone volava colpendo a casaccio. Quando il braccio sinistro
si fermò, cinque ragazzi più vecchi, e molto più grossi di lui, giacevano a terra
doloranti. Alcuni non si muovevano. Gli occhi gonfi e il sangue che colava da
lunghi tagli sulle guance.
Mordraud si guardò la mano sinistra. Aveva appena scoperto un modo per
fermare quel maledetto tremore.
Per soffocare la paura.
Per trovare la pace.
***
Quella sera, Mordraud non seguì i passi del rito. Diede soltanto un’occhiata alla finestra di Gwern per controllare che tutto fosse a posto, ed entrò in casa. Il
lucchetto che aveva rubato si era rotto. Lo Sconosciuto doveva aver trovato un
martello. Per fortuna, la sbronza l’aveva steso prima che riuscisse a entrare, pensò sollevato.
Sarebbe tornato a breve. Lo sapeva. Mordraud mise sul fuoco un pentolino di
zuppa. Uscì, entrò nella rimessa e prese un piede di porco. Ritornò in casa e si
piazzò di fronte alla porta di sua madre. Forzò la serratura strappando il lucchetto dal montante, ed entrò chiudendosela alle spalle.
Non potevano impedirgli di portare avanti le sue abitudini. Sua madre doveva
mangiare la zuppa. Come nella vita di prima, quando ancora lo Sconosciuto non
li aveva trovati.
Si sedette vicino a Eglade, le sollevò la testa e iniziò a imboccarla lentamente.
Era magra da far paura. I suoi capelli erano diventati grigi. La pelle un tempo liscia e perfetta sembrava carta fradicia. Si sbriciolava fra le dita.
«Stanotte devo fare una cosa, mamma…» sussurrò Mordraud. Eglade lo stava
fissando, ma i suoi occhi non vedevano nulla. Lei non lo riconosceva. Si era dimenticato anche di lui.
«Una cosa che dovevo fare molto tempo fa.»
«Ealon… Sial’nar… »
«Cosa c’è mamma?» le chiese avvicinandosi per cogliere il suo mormorio.
«Notte… senza… fine… notte… senza… fine…»
Mordraud sentì Varno entrare in casa a passi sconnessi. Sbatteva contro le pareti martellandole con l’unica mano che aveva. Era ubriaco come al solito.
71
Quando vide la porta divelta, e lui che dava lentamente da mangiare a sua madre,
prese a urlare in modo stridulo. Si gettò nella stanza. Lo afferrò al collo.
«Te l’avevo detto, ratto! Non mi devi disubbidire!»
Mordraud era abituato ai pugni, ma quella sera Varno aveva con sé il randello
che usava per camminare. Lo prese in faccia, sul fianco e in schiena, senza fiatare. La scodella di zuppa si rovesciò sulle coperte ammuffite. Un orecchio era andato. Sentiva un rivolo di sangue colargli lungo il collo. Il randello gli si spezzò in
mezzo alla fronte con uno schiocco rivoltante. Il fremito al braccio sinistro lo
stava riducendo in una poltiglia tremula.
«Sial’nar! Sial’nar!» tossì Eglade a occhi sbarrati.
«Maledetto il giorno che ti ho fatto nascere! Tu e quello schifoso scarto di tuo
fratello, e la puttana di vostra madre!» urlò paonazzo Varno, sbavando come un
cane. «Lei mi ha tradito! Demoni della foresta schifosi! Figli di Aelian, voi siete!
PENSAVA CHE NON LA SCOPRISSI…»
La mano di Mordraud si mosse da sola.
«… PUTTANA MALEDETTA!»
Dalla manica scivolò fuori il coltello arrugginito dei ragazzi del paese. Lo piantò in mezzo al petto di Varno. Sprofondò fino al manico di legno tarlato. Suo
padre tentò di urlare ma la voce gli morì in un sibilo liquido. Mordraud strappò
la lama e la piantò ancora. Il fremito al braccio cessò di colpo. Lui continuò a infilzargli la carne in silenzio, fissandolo dritto negli occhi. Eglade cacciò un urlo
disumano. Lui non si fermò. Piantò il coltellaccio nel collo dello Sconosciuto, nel
moncherino schifoso, nel braccio, decine di volte nella pancia. Fino a sbudellarlo. Anche quando era già a terra e non respirava più. Lo sviscerò fino a raggiungere la spina dorsale.
Si fermò soltanto quando vide Gwern che lo fissava terreo, le mani avvinghiate
al petto. La faccia contratta in una maschera di gelo. Mordraud era imbevuto di
sangue dalla testa ai piedi. Il letto era ricoperto di schizzi rossi. Eglade piagnucolava rannicchiata su se stessa, e continuava a mugolare qualcosa in Aelian che lui
non riusciva a comprendere appieno. Ealon Sial’nar.
Notte senza fine.
«Aiutami» disse soltanto, rivolto a suo fratello.
Gwern si mosse meccanicamente. Senza dire una parola.
Insieme la portarono fuori da quel macello e la sistemarono nella loro camera.
Gwern e la madre restarono nel letto, abbracciati, mentre Mordraud trascinava
fuori dalla casa e dall’aia il corpo maciullato dello Sconosciuto, fin dentro il cuore
del bosco. Lo gettò in una buca fra alcune radici profonde.
Ci sputò sopra.
Lo ricoprì di terra umida e foglie morte.
Non si voltò. Non disse nulla.
72
Quello non era suo padre.
Varno non era mai tornato a casa dalla battaglia in cui Cambria l’aveva ucciso.
***
Eglade non si risvegliò più dopo quella notte. Gwern e Mordraud le restarono
vicino, nella disperata attesa che aprisse almeno un’ultima volta gli occhi. Non
accadde mai. Morì due mesi dopo. Senza sussulti, senza dolore. Smise semplicemente di respirare. Il suo volto si contrasse in un ultimo sorriso demente.
Gwern non aveva detto una parola fino a quel giorno. La sua mente era rimasta inchiodata a quella notte, quando aveva visto Mordraud ergersi sul corpo di
suo padre con il coltello ancora stretto in mano. Non riusciva a smettere di sognarlo. Ma quel sorriso riuscì a farlo finalmente piangere. Come se un peso fosse
scivolato via. O fosse precipitato un po’ più a fondo dentro di lui.
Un granello di piombo che si incastrò da qualche parte dentro Gwern, nelle
ombre.
Suo fratello poteva solo sperare che quel ricordo, prima o poi, sarebbe pietosamente svanito.
Decisero di seppellirla sotto l’albero più grande del bosco, nell’ingenua speranza che fosse il modo in cui gli Aelian rispettavano i propri morti. Non recitarono
preghiere. Non ne conoscevano.
Rimasti soli, radunarono le poche cose che potevano ancora essere utili e si
prepararono a partire. Mordraud diede fuoco alla casa, partendo dalla camera
dove era morto lo Sconosciuto. Il pavimento era lordo del suo sangue nero. Gettò dentro le fiamme anche la vecchia spada spuntata di suo padre.
«Dove andiamo adesso, fratello?» mormorò Gwern, mentre sentiva sopraggiungere una delle sue crisi. Erano peggiorate in modo preoccupante da quando
suo padre lo aveva quasi ucciso a schiaffi e calci.
Era il 1630. Eldain, il nobile che reggeva l’alleanza dei feudi contro l’impero di
Cambria, aveva superato la mezza età ma era ancora potente e determinato a
vincere la guerra. Gli scontri infuriavano, ormai da decenni, a poche settimane di
distanza dal loro villaggio.
«Andiamo a Eld. Devo trovare un lavoro. Per tutti e due» rispose Mordraud,
mentre fissava rapito le fiamme che si alzavano dalla loro vecchia casa. Il tetto
scricchiolò e crollò alzando una leggera nuvola di scintille infuocate. «Magari
qualcuno conosce una cura per la tua malattia. Ma prima devo trovare il modo di
metter su qualche soldo.»
Avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di andarsene da lì. Ma doveva scegliere dove.
Piuttosto che puntare a Cambria, Mordraud si sarebbe ammazzato. Non voleva
vedere Dunwich. Per lui aveva altri piani, ma era ancora presto.
73
Eld era l’unico posto dove poteva sperare di trovare un lavoro in fretta. E,
quando sarebbe giunto il momento opportuno, sapeva già cosa cercare.
Un datore di lavoro che aveva sempre carenza di manodopera. Pagava bene, se
si lavorava bene. E il cui unico obiettivo era distruggere la città dove si nascondeva suo fratello, la capitale che aveva ucciso suo padre.
La guerra.
74
VI
Dunwich visse la scoperta di Cambria come dentro un lento sogno confuso.
Già alla prima curva del sentiero che lo allontanava definitivamente da casa sua,
aveva percepito qualcosa di diverso intorno a lui. Una particolare morbidezza
della luce. Il vento portava con sé odori che non erano mai giunti fino allo spiazzo dove i suoi genitori avevano scelto di insediarsi. La prima notte fuori era stata
indimenticabile. Aveva scoperto che il cielo era più stellato e vasto. Il fuoco del
piccolo accampamento condensava l’aria in una bolla tremolante. Seneo, l’uomo
che aveva convinto suo padre a lasciarlo partire, gli aveva parlato a lungo, ma lui
ricordava soltanto a sprazzi quei momenti di intenso straniamento dalla realtà.
Immagini, stimoli. Seneo aveva un modo di parlare molto descrittivo. Come se
fosse sempre intento a criticare un quadro.
Dunwich, durante le settimane a cavallo con il cantore, ebbe modo di crearsi
una sua Cambria, la città ideale che si plasmò fra le parole lente e soppesate di
Seneo. Vide la sicurezza delle strade, la pulizia che sfoggiavano i suoi villaggi, il
gran numero di soldati che pattugliavano i boschi e le campagne. Fantasticò sui
dialetti e la cadenza musicale dei loro modi di dire. Finse di raggiungere la città,
tanta era la smania di arrivare. Restò senza fiato di fronte alla grandezza e alla
maestosità delle sue mura di pietra grigia, gli occhi si persero fra guglie sottili lanciate a sfiorare le nuvole. Si sentì piccolo e inutile di fronte al grande portone in
ottone, alto come dieci uomini. Oltrepassata la prima difesa esterna, le case bianche e basse costeggiavano strade disegnate con ordine e geometrica precisione,
disposte a formare spicchi e quartieri che nascondevano tutti i mestieri esistenti
al mondo. Avvicinandosi all’interno, i palazzi crescevano in lusso e i primi giar75
dini spuntavano fra i recinti di ferro, con alberi e siepi lavorate e curate nelle
forme più svariate.
Camminando, si poteva vedere che a un tratto terminavano le case, la strada
giungeva a un parco e proseguiva verso il cuore della città, costeggiava stagni
limpidi e cascate, progettate da un artista che sbizzarrendosi aveva plasmato la
natura in scenari di un’eleganza senza pari. Proseguendo ancora, il parco terminava e fra le cime degli alberi spuntava una torre senza finestre, inquietante e bellissima. Da entrambi i lati scorreva un cancello laccato in oro, alto quanto un
muro di cinta, che correva abbracciando il centro storico. Era intervallato da altre due torri identiche alla prima. Quella era la sede storica dei cantori, fulcro dei
loro studi e delle loro ricerche, e lì avevano vissuto e studiato le menti più brillanti di tutto il continente.
Il cancello d’oro era spaventoso. Scintillava nelle descrizioni di Seneo con la
forza di un’opera divina. Ricco di volute e di punte acuminate, poteva sembrare
un’inutile difesa se paragonata all’enorme muraglia di pietra che cingeva la città,
ma nessuno si era mai azzardato ad abbatterlo. Era un’opera più antica della
memoria del suo popolo. Nessuno sapeva chi l’avesse innalzata, e come fosse
stato in grado di dare all’oro quell’impossibile sensazione di plasticità. Solo un
arco chiuso da un’inferriata interrompeva la schiera di picche, e da lì si dipanava
la via verso il cuore della capitale, costeggiava palazzi sontuosi e giungeva alla colossale dimora dell’Imperatore, più alta e massiccia di tutte le altre guglie. Dai
suoi balconi si ammiravano i monti che, in lontananza verso Est, intrappolavano
il fiume Hann in una serie di anse, gole e pendii ricoperti di castagni.
Dunwich spinse la sua fantasia oltre le parole stesse dell’uomo che sarebbe diventato il suo maestro di canto. Vide dall’alto la popolazione che si accalcava sulle strade e nei mercati. Era eterogenea e indaffarata. Molti stranieri viaggiavano
giorni e giorni appositamente per vendere e comprare nei mercati di Cambria le
merci più pregiate. I nobili si muovevano in carrozza facendosi lentamente largo
fra la folla, spesso scortati da cavalieri armati, mentre la gente si scansava rapidamente e le urla dei venditori e dei passanti assordavano l’aria.
La massa informe e variopinta interrompeva il baccano soltanto in occasione
del passaggio delle truppe dirette al fronte. La voce di Seneo era un mormorio
addolorato. Nei primi anni, quando ancora si pensava che tutto si sarebbe risolto
in una breve stagione di sangue, le strade erano letteralmente invase da massicce
formazioni di cavalieri ben addestrati e protetti da poderose armature. Ma la
guerra durava da troppo tempo, e la maggior parte delle truppe era ormai composta da giovani delle campagne, allettati solo da vane promesse di fortuna e carriera. Più per rispetto della loro triste sorte che per paura, al loro passaggio la folla ammutoliva, chinava il capo, alcuni pregando sommessamente. I ribelli di
Eldain erano un nemico mortale e instancabile. Combattevano nascosti nelle ter76
re che conoscevano alla perfezione, sfruttavano le stagioni e le piene dei fiumi
per mutare continuamente i profili del fronte. Sapevano portare alleati alla loro
causa fra i villaggi lontani da Cambria. Non era più una guerra di conquista, ma
solo un lento e snervante macello.
Lo spettacolo era ben diverso, quando passavano le mitiche Lance Imperiali.
Le loro armature nere intarsiate d’oro, i mantelli preziosi trascinati dal vento erano uno spettacolo terribile e maestoso, degno della loro fama. Erano pochi rispetto alle truppe regolari, ma erano comunque considerati il più terrificante e
inarrestabile battaglione di tutto il continente. Maestri di canto e guerrieri fusi in
un soldato impressionante. Il braccio armato dell’Imperatore Loralon.
Seneo aveva lavorato con l’esercito, sapeva quello che diceva. La guerra continuava a infuriare contro ogni previsione. Il cimitero a Sud delle mura era troppo
piccolo per contenere tutti i caduti di buona famiglia che pretendevano una degna sepoltura. Intere casate nobiliari si erano ritrovate senza eredi, e molte avevano concesso l’utilizzo delle loro maestose cappelle private alle famiglie meno
fortunate che non avevano più spazio nei mausolei, stipandole di cadaveri avvolti
in sudari rossi, o in casse di legno scuro. L’aria della sera traboccava del fumo
acre portato dal vento delle pire accese nelle campagne, tutto ciò che restava dei
figli dei contadini. Nelle strade del mercato si affollavano i mercenari venuti dalle
altre regioni, che per denaro appoggiavano la causa di Cambria, non prestando
però il minimo rispetto per la sua gente. Risse, furti, saccheggi nei villaggi erano
una realtà con cui tutti dovevano convivere quotidianamente. La scena che aveva
accolto Dunwich, di ordine e pulizia in strade battute da simpatici gendarmi, si
corruppe in un quadro crepuscolare.
Il fronte di guerra era una linea frastagliata e complessa che copriva gran parte
delle regioni dell’Est. Cambria aveva già esteso il suo dominio sui territori che si
spingevano fino ai monti di Telatias, la nervatura centrale di montagne che tagliava il Nord del continente fino al mare interno, a Sud. Lo stesso fiume Hann
rappresentava per lunghi tratti il fronte, difeso dall’alleanza di Eldain che sapeva
come sfruttare le centinaia di acquitrini che si aprivano nelle ricche pianure circostanti. La linea dei combattimenti saliva fino al Terrapieno, a Nord-est di
Cambria. Il cuore della difesa di Eldain e i suoi. Ancora più a Nord del Terrapieno, le montagne segnavano una barriera difficile da superare, protette da castelli
arroccati e insidiose gole ammantate di foreste. Ma soprattutto, protette da
Cambrinn, un alleato storico di Eld, che si era dichiarata neutrale ma che si era
già dimostrato particolarmente fedele alla linea di Eldain.
Per chi abitava a Cambria era una consuetudine, ma Dunwich non aveva alcuna esperienza di guerra. Seneo non tralasciava i dettagli. La vita a Cambria peggiorava di anno in anno. Difficile farci l’abitudine, come già avevano dovuto fare
nelle campagne. La gente di Cambria ancora ricordava le gloriose annate di pro77
sperità e benessere che avevano preceduto la nascita del progetto imperiale, e il
gustoso afflusso di ricchezza generato dalle prime conquiste. Le stesse che avevano fomentato l’illusione di una guerra rapida e quasi indolore. Nessuno avrebbe mai immaginato, all’epoca, che l’alleanza dei feudatari ribelli potesse essere in
grado di fermare l’avanzata di Cambria. Era soltanto una questione di tempo, viste le forze in campo. Ma ogni giorno che l’impero perdeva, erano uomini che
morivano lontani da casa, abbandonati in campi di battaglia ormai lastricati di
vecchi corpi.
I giorni di viaggio a cavallo volavano fra una spiegazione di Seneo e l’altra.
Dunwich era strabiliato dalle conoscenze di quell’uomo. L’Imperatore Loralon
era un uomo nel fiore dell’età, che aveva ereditato dal padre la guerra contro
Eldain. Era di aspetto austero, con capelli neri corti, molto curati, alto e magro in
modo fuori dal comune. I suoi occhi erano due piccoli pozzi neri conficcati in
un volto pallido e tagliente. La sua dinastia era antica, ma non era stata l’unica a
dominare la capitale. Nessuno sapeva quanto Cambria fosse realmente vecchia.
Ma Dunwich invece lo sapeva. Era appartenuta agli Aelian prima di loro, ma
nessuno lo ricordava più fra gli uomini.
Era stato il nonno di Loralon a iniziare la guerra contro Elder, il padre di
Eldain. Quando l’impero era ancora confinato nelle campagne di Cambria e nei
sogni di Loren, il grande patriarca. I confini dell’epoca sfioravano le lande a
Nord-est della capitale, una zona ricca di boschi, campi e monti che creavano
netti confini naturali. Quelle erano le propaggini storiche delle terre possedute
dai nobili ribelli di Elder. La regione a Ovest che separava la capitale dai monti di
Telatias, e le pianure limitrofe a Nord si allearono con Cambria diventando protettorati. Essar a Sud-ovest non tardò ad allinearsi. Prima dell’ascesa di Loren,
Cambria fungeva da cuore di una enorme e fitta rete di città fortificate retti da
una moltitudine di nobili imparentati fra loro. Una consuetudine diffusa in tutto
il grande Est dell’intero continente. Non esistevano stati che accorpavano più
città. Cambria era la più grande e la più antica. Non era la prima volta che alzava
la testa dalla fossa della storia per partire alla carica. Nelaria a Nord ed Essar a
Sud avevano accettato di entrare a far parte del controllo di Cambria per evitare
di essere travolte dall’esercito imperiale. Avevano perso parte della loro indipendenza, ma la nobiltà locale era stata lasciata al comando delle decisioni minori.
Un giusto compromesso che Loren aveva sapientemente promosso con successo.
Dalla parte del nobile ribelle si erano schierate le regioni alle spalle del feudo di
Eld, che si estendevano fino alle coste dell’Oceano dell’Est, e che non avevano la
minima intenzione di cedere il potere a Cambria. I loro reggenti erano nobili non
imparentati con il resto dell’Est, più chiusi verso l’esterno. Secoli di legami
commerciali avevano indurito tutta la fascia affacciata all’oceano in una grande
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regione ricca di feudi e in equilibrio su una pace molto antica. Le lande
dell’estremo Nord a ridosso dei monti ghiacciati, oltre le pianure che erano già in
mano alla capitale, erano passate anch’esse sotto la guida indipendentista di
Eldain. Territori inospitali, che Cambria considerava inutili e disabitati. Restavano fuori dal conflitto l’immensa catena montuosa di Telatias, che fungeva da cuscinetto fra l’Est e l’Ovest, e lo stretto di Calhann, la lingua di terra che separava
il Nord dal Sud, che viveva di dazi e tasse sulle merci che transitavano attraverso
le sue strade.
Le parole di Seneo e ciò che Dunwich vide una volta arrivato a Cambria, si fusero in un’esperienza che accecò di gloria i suoi occhi per tutta la sua giovinezza.
***
Dunwich si stabilì a Cambria a undici anni. Viveva in casa di Seneo, una grande residenza che occupava interamente l’ultimo piano di un enorme palazzo storico. Soltanto le scale che salivano dall’ingresso erano più grandi di tutto ciò che
Dunwich avesse mai visto. La sua camera era molto più confortevole di casa sua.
Tutto era nuovo e magnifico. La nostalgia per la vita tranquilla venne facilmente
soffocata dalla valanga di novità che lui si trovò a dover affrontare.
Seneo accoglieva in casa sua altri cinque ragazzi. Il più giovane dei suoi compagni aveva quindici anni, il più grande diciannove. Lui ne dimostrava appena
sei. Scoprì molto presto che il suo mentore era un uomo famoso e rispettato nel
quartiere dove vivevano, una delle zone di Cambria più costose e prestigiose.
Lavorava all’Accademia come maestro di canto, esperto nella fusione unica delle
armonie che erano alla base della ricerca arcana che veniva svolta al suo interno.
Somigliava molto a una scuola. Dunwich si trovò ad assistere a lunghe lezioni di
teoria della musica, all’inizio solo come ospite ma dopo poche settimane, subito
come allievo. Non mostrava alcun problema a memorizzare intricate dissertazioni sugli effetti che l’armonia, fusa alla profonda concentrazione del cantore, era
in grado di manifestare nella realtà. Aveva fretta di imparare di più. I primi mesi
a Cambria volarono in una nube confusa di eccitazione continua.
Seneo era molto ricco. Pagava personalmente la sorveglianza di tutto il palazzo. E ospitava presso di sé tutti i ragazzi che lui riteneva potenziali. Una volta
concluso il lungo addestramento volto a plasmare le loro voci, lui rifiniva le loro
caratteristiche e li rendeva pronti a servire gli interessi dei nobili più facoltosi della città, o quelli della famiglia imperiale. In rari casi capitava che un suo allievo
venisse richiesto dalle Lance come maestro interno, e ciò fruttava a Seneo somme davvero considerevoli
Solitamente, il percorso di studi di un cantore consisteva in cinque anni di approfondimenti teorici e pratiche di canto insieme a un tutore. In quella fase, gli
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allievi dovevano imparare ogni aspetto della teoria musicale, e dovevano studiare
a memoria tutte le sillabe utilizzabili per comporre i canti. Chi riusciva a sviluppare la voce a sufficienza da poter essere sfruttata a dovere, proseguiva la carriera
entrando all’Arcana. Da quel momento, ogni sforzo era volto a mettere in sintonia il canto con la propria volontà. Era un passaggio estremamente complesso
che pochi erano in grado di compiere. La norma prevedeva circa dieci anni di
tempo, oltre i quali si potevano considerare fallimentari gli ulteriori tentativi di
ottenere un fenomeno attraverso l’armonia. Tale unione di mente e musica veniva chiamata risonanza.
La teoria era complessa, l’allenamento estremamente di più. Un cantore non
poteva appoggiarsi a uno strumento che lo sostenesse nello sviluppo delle melodie, poteva contare solo ed esclusivamente sulla sua voce. Un semplice errore
nella pronuncia delle sillabe, nel ritmo, in un passaggio o in un banale cambio di
tonalità interrompeva irrimediabilmente la risonanza e non produceva alcun effetto. Quando si era fortunati. Di solito, un canto interrotto tendeva a scaricarsi
contro lo stesso cantore. Spesso uccidendolo all’istante.
Per raggiungere un tale livello di concentrazione, i maestri insegnavano ai ragazzi tutti i segreti della musica. La logica di scegliere un ritmo diverso da un altro. La cadenza battagliera di un inno di guerra aveva i suoi pregi e difetti, mentre
una nenia sussurrata e sincopata produceva altri risultati, completamente diversi.
Esistevano decine di scale che i cantori sapevano utilizzare. Le note erano dodici,
le combinazioni studiate in Accademia erano innumerevoli. Dunwich chiese delucidazioni su chi avesse formalizzato la teoria della musica, e come fosse stata
ottenuta. Scoprì con grande stupore che nessuno lo sapeva. Era qualcosa che si
era perso nel tempo, e lui sospettava che fosse stato un atto voluto. Non esistevano libri che parlassero di un prima, di teorie più vecchie. Le dodici note erano
sempre le stesse, accordate alla perfezione con forcelle d’argento rimaste immutate nei secoli.
Anche il ribrezzo per la musica strumentale era un mistero irrisolto. Dopo generazioni intere di prove e valutazioni, si era accertato che una melodia prodotta
da uno strumento non poteva essere un veicolo adeguato a convogliare la volontà di un cantore. Per cui, gli strumenti erano stati completamente annichiliti dagli
studi. Una scelta parecchio drastica che Dunwich accettò ma non comprese mai
del tutto. Poneva molte domande, ma soprattutto i primi tempi tenne le questioni più controverse per sé. Cosa ci fosse alla base della risonanza, come fosse possibile plasmare una nube di fuoco partendo semplicemente dalla fiamma di una
candela. I suoi maestri gli spiegarono che era tutto frutto di un particolare stato
della mente, spinta in condizioni di concentrazione estrema, veicolata dalla guida
armonica del canto. Somigliava a un dogma, più che a una teoria certa. Preferì
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attendere di scoprire da solo il meccanismo di fondo, per non inimicarsi nessuno. Non poteva permetterselo.
I più meritevoli fra gli studenti erano agevolati non pagando nulla per studiare,
e alcuni di loro potevano godere anche del privilegio di un piccolo sussidio economico. Non poteva certo chiedere denaro a casa. Anzi, lui voleva trovare il
modo di inviarne al più presto, anche se il villaggio dei suoi rientrava nei territori
dei ribelli di Eldain, a più di venti giorni di viaggio da Cambria. Si dedicò allo
studio mostrando una passione maniacale. Imparò a memoria ogni dettaglio della
teoria delle Armonie. Si allenò a modulare la voce dormendo raramente e mangiando ancora meno. Scoprì con grande piacere che era nato per quello. Anche
Seneo non aveva dubbi. Dunwich riuscì a sviluppare un’estensione e una padronanza che avevano dell’incredibile. E prima ancora che gli fosse insegnato, aveva
già compreso l’obiettivo finale dei suoi studi.
La vera sfida era sintetizzare le melodie in modo da raggiungere più velocemente lo stato mentale necessario. Una breve scala, un motivo appena sussurrato
fra i denti. La scelta delle sillabe giuste per pronunciare le note. Era la continua
ricerca della perfezione. Una volta compresa e padroneggiata, era possibile innescare risonanze in pochi istanti di profonda concentrazione.
In un anno, Dunwich aveva già imparato tutte le nozioni di base, tanto da rendere inutile gli altri quattro anni iniziali dal suo tutore. La sua voce poteva ancora
migliorare, anche se già mostrava potenzialità notevoli. Seneo lo costrinse a frequentare un altro anno con lui di allenamento. Era troppo piccolo per tentare di
entrare all’Arcana vera e propria, e lui doveva ancora trovare gli agganci giusti
per superare quell’ostacolo.
Dunwich sembrava ancora un bambino. Nessuno lo avrebbe accolto negli studi superiori, senza oliare qualche ingranaggio.
***
Dunwich spense la candela che illuminava il suo scrittoio, e si sgranchì le braccia dondolandosi sulla sedia di legno. Il tomo di Sovrapposizione di arpeggi minori in
nove che aveva appena finito di leggere lo aveva un po’ deluso. Le solite cose.
Come ottenere dall’incrocio di scale minori un’armonia che rispettasse i principali passaggi mentali. Stato di coscienza alterata, attimo di smarrimento, la vista
aumentata. La luce troppo forte, poi l’attimo di buio che segnava il raggiungimento della risonanza. Che fossero appunto scale minori non modificava il discorso, pensò divertito dalla semplicistica visione dell’autore. Pazzesco che esistesse ancora qualcuno disposto a credere che una melodia in minore suonasse
oggettivamente più triste di una in maggiore, o cromatica. “Ridicolo…” pensò
mentre si versava un bicchiere d’acqua.
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Non esisteva nulla di soggettivo nell’armonia Arcana: ogni suo aspetto era riconducibile all’incredibile numero di combinazioni ottenibili attraverso il canto.
Oltre l’armonia, un cantore doveva scegliere le scale su cui muoversi, le modulazioni da effettuare, e le sillabe da utilizzare per pronunciare ogni nota. Doveva
sapere anche come muovere le mani per tenere e dettare il ritmo agli altri, usando i segni per impartire le tonalità a ogni linea vocale. Era un’arte estremamente
codificata e complessa.
Non c’era spazio per la bellezza, o per il sentimento. Il canto arcano era un insieme di prassi create per essere Dei. Era quello ciò che importava, non se le melodie fossero belle o brutte. Tristi e allegre. Qualcuno, magari anche lui, poteva
percepire tristezza in un arpeggio in minore, ma ogni ascoltatore era diverso.
Quel sentimentalismo era solo un effetto secondario e non desiderato.
Ormai conosceva la libreria di Seneo a menadito. Lui continuava a insistere
sulla teoria, anche se Dunwich aveva già tentato di spiegargli che le basi le conosceva fin troppo bene. Per evitare grane, si era sempre limitato a rimarcare il livello di preparazione che aveva raggiunto, senza entrare nell’argomento che invece gli stava più a cuore. Che tutte quelle basi erano inutili, e soprattutto, insulse. Seneo non l’avrebbe presa molto bene, pensò ridacchiando.
Dunwich si allenava nel canto da solo o insieme a Seneo, improvvisando melodie su basi scelte e interpretate da lui. Semplici arpeggi bassi, o a volte lunghe
note martellate in ritmi misti. Non era facile, o almeno, Dunwich aveva avuto
quell’impressione quando aveva assistito alle lezioni dei ragazzi più grandi. Si
perdevano, non riuscivano ad anticipare Seneo ingarbugliando la loro voce nel
tentativo di inseguirlo. Dopo i primi tentativi fallimentari, aveva compreso da
solo dove stesse sbagliando. Non doveva aspettare di capire cosa volesse da lui il
suo maestro, doveva essere lui a guidare. Inventare melodie era un atto quasi involontario per lui. Si divertiva a imbastire musiche senza parole sopra le linee di
basso di Seneo, e tendeva a non farsi sorprendere mai quando lui improvvisamente cambiava ritmo e tonalità. Affrontava lo studio come se fosse un gioco. E
proprio per quel motivo, si era stancato di lavorare tanto sulla teoria, quando
non aspettava altro di vedere finalmente gli effetti che la risonanza poteva produrre nella realtà. Aveva sentito dire dai ragazzi più grandi che all’Arcana mettevano continuamente in pratica le potenzialità dei cori. Motivi epici e gloriosi scatenavano fiamme e fulmini terrificanti. Sussurri cupi e maligni agitavano le ombre rendendole schiave del proprio volere. Un canto poteva creare dal nulla o
ampliare a dismisura qualcosa che già esisteva. Come una torcia poteva essere la
fonte di un mare di fuoco, o una pozzanghera in risonanza con la voce di un
cantore poteva dilatarsi e inghiottire un’intera strada. Non vedeva l’ora di mettersi alla prova, invece doveva rispettare gli anni accademici. Una vera tortura.
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Teoria, teoria e ancora teoria. Utile, per carità. Ma ormai l’aveva imparata più
volte a memoria. Conosceva ogni possibile sillaba utilizzabile per comporre i
canti. Sapeva armonizzare tutte le scale. Tutto ciò che Seneo poteva insegnargli a
riguardo, Dunwich l’aveva appreso. Si era anche spinto oltre, domandandosi chi
avesse formalizzato la musica sotto quelle regole, e se in passato fossero esistite
altre pratiche scartate dalla storia. Dato che nessuno lo sapeva, non doveva
nemmeno compiere lo sforzo di ricercare qualcosa di totalmente innovativo.
Doveva solo imparare a ripetere meccanicamente le stesse sequenze armoniche,
usare le giuste sillabe, scegliere i giusti ritmi, cercare l’atmosfera giusta. E lasciare
che la sua volontà si sciogliesse nella perfezione. A lui veniva mostruosamente
facile. Non capiva perché gli altri facessero tanta fatica, fino addirittura a non
riuscirci. Se voleva, lui poteva perdersi dentro la sua voce dopo poche note. Desiderava farlo, lo faceva. Un passaggio banale.
Tutti gli altri ragazzi che studiavano con Seneo erano degli idioti, pensò frustrato.
In realtà, avrebbe di gran lunga preferito passare qualche serata con i suoi
compagni a divertirsi, invece che leggere da solo in camera. Li sentiva sempre
ridere e gozzovigliare in cucina fino a tarda notte, quando il maestro si era già
ritirato nelle sue stanze, oppure era fuori città per lavoro.
Ma loro non lo volevano.
Per cui, erano dei completi idioti.
«Si divertirebbero con me» mormorò fra sé stizzito, mentre strappava
l’ennesimo libro dalla sua piccola biblioteca. Una guida alla voce ferma. «Come
utilizzare a fondo la respirazione totale… grazie, proprio non lo so» borbottò
sarcasticamente.
All’inizio aveva fatto colpo su di loro grazie alla sua precoce intelligenza. Ma
era durato poco. Alcuni avevano iniziato a prenderlo in giro, motteggiandolo con
gli epiteti più svariati. Marmocchio, bambello, mostriciattolo. Testina di merda. La
competizione a Cambria era uno stile di vita radicato sin da tenera età. Ma quando, durante le sue lezioni personali, lui aveva mostrato di poterli massacrare con
la rapidità con cui era in grado di assecondare Seneo nel canto, gli scherzi e i dileggi si erano trasformati in astio. Non lo volevano quando uscivano per andare
in città, né per cenare o divertirsi. Aveva provato a mangiare qualche volta con
loro, ma se ne era dovuto andare, infuriato per il silenzio finto e strafottente con
cui gli facevano capire che non era gradito alla loro tavola. Da allora mangiava da
solo in camera, sbocconcellando qualche tozzo di pane e il formaggio che la
cuoca di casa gli lasciava da parte.
«Bah, non ne posso più!» sbottò lasciando cadere il libro aperto sulla scrivania.
Il calamaio e la vaschetta di inchiostro dondolarono pericolosamente. Dunwich
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le afferrò entrambe con la mano aperta, usando solo le dita a forbice. Li rimise in
piedi e piantò i talloni sulla gamba del tavolo.
“Chissà come sta la mamma.”
Non vedeva la sua famiglia da tanto. Doveva accontentarsi delle lettere che
Eglade di tanto in tanto gli spediva. Ogni volta si riprometteva che sarebbe partito la mattina dopo per raggiungere la sua vecchia casa. Sapeva però che non sarebbe stato possibile, almeno fino alla fine del ciclo di studi con Seneo. Avrebbe
voluto anche parlare con suo padre, e raccontargli dei progressi che stava facendo. Varno era un uomo semplice, che non aveva mai compreso a fondo le doti
di suo figlio. Ma Dunwich sapeva che prima o poi avrebbe cambiato idea.
“Quando riuscirò a guadagnare più soldi… magari potrei chiederle di visitare
Cambria con Mordraud, così potranno vedere la capitale…”
Non aveva la minima voglia di continuare a studiare, e neppure di dormire.
Pensare a casa gli aveva fatto venire voglia di una passeggiata notturna.
“Un giretto al parco dei templi mi aiuterà a rilassarmi un po’” pensò Dunwich,
mentre già cercava i suoi stivali sotto il letto. “Potrei chiedere a Enio se vuole
venire con me… sembro talmente piccolo che non mi permettono di entrare
nelle taverne, mentre con lui magari… anche le guardie mi fanno delle storie se
mi beccano a bighellonare in giro.”
Lasciò subito perdere quella fantasia, quando sentì oltre le spesse mura di pietra le grida soffocate dei suoi compagni che brindavano, nelle cucine del palazzo.
Se glielo avesse chiesto, Enio lo avrebbe mandato a quel paese e tutti lo avrebbero preso in giro.
«Va bene… vado da solo» mormorò mentre chiudeva a chiave la sua camera.
***
Dunwich riuscì a entrare nell’Arcana l’anno dopo, con dieci anni di anticipo rispetto all’età media degli studenti e tre anni prima della fine del ciclo di noviziato. Di comune accordo con Seneo, continuò ad abitare e perfezionarsi da lui, cosa che gli permise di spedire quasi tutto il sussidio ai genitori, mese dopo mese,
senza mai tenere per sé più di quelle poche ramette che gli servivano per togliersi
qualche sfizio. Aveva già a disposizione tutto quello che poteva desiderare. Una
bella libreria, cibi raffinati, mobili di lusso e vestiti confezionati su misura.
Ed era soltanto l’inizio della sua dirompente carriera.
Nella sua nuova scuola, Dunwich riaccese le solite chiacchiere e gli stessi sospetti che aveva già dovuto sopportare nei suoi brevi studi con Seneo. Il suo ritmo di apprendimento era inimmaginabile. In sei mesi era diventato solista di coro. Aveva cantato in fila giusto per un paio di giorni, poi i suoi insegnanti erano
stati costretti ad assegnargli il ruolo principale. Nessuno degli altri ragazzi riusci84
va a stargli dietro, la sua voce spiccava sulle altre in modo imbarazzante. Grazie
all’interessamento del suo tutore gli fu data la possibilità di avanzare glissando i
primi anni di studi, e ciò gli permise, già all’età di quattordici anni, di entrare nelle
cerchie dei cantori più rinomati della capitale.
Fu in quel periodo che finalmente poté sperimentare le prime risonanze.
Lo scopo dell’Arcana non era formare degli eccelsi cantastorie. Attraverso la
musica era possibile ottenere un ventaglio di effetti tremendamente utili, soprattutto in ambito militare. Un coro in sintonia poteva mutare una pioggerellina
passeggera in una tempesta martellante. Un cantore solitario poteva spalancare la
terra sotto i piedi di un plotone lanciato alla carica. I nobili più facoltosi pagavano esperti per appoggiarli nelle contrattazioni. Un cantore immerso nella propria
concentrazione era in grado di percepire minacce e menzogne altrimenti invisibili. O poteva tirar fuori dai guai un mercante finito malamente in trappola. Era
sufficiente la giusta melodia, con la tonalità e il ritmo adeguato, per manifestare
una risonanza. Candele che esplodevano in globi ruggenti di fuoco. Il vento imbrigliato e concentrato in spuntoni assassini. Luci che si generavano dal nulla.
Inganni della mente che lasciavano senza fiato gli incauti ascoltatori.
Quando Dunwich riuscì ad avvicinarsi ai maestri di Armonia Militare, si rese
conto che quello era il campo in cui voleva eccellere sopra ogni altro cantore di
Cambria.
L’Arcana sorgeva nel cuore culturale della capitale, vicina alle torri che dominavano il grande cancello d’oro. Il palazzo era stato ricostruito poco dopo la dichiarazione del progetto imperiale, secondo il gusto pomposo e magniloquente
caro al patriarca della famiglia di Loralon, Loren. Marmo bianco interrotto da
decori in pietra policroma, ampie vetrate a sesto acuto, statue celebrative disseminate su piedistalli incastonati nelle pareti. Tutte le scuole di Cambria,
l’accademia militare e l’Arcana, l’antico circolo delle scienze e la biblioteca imperiale, sorgevano all’interno di un parco curato e rigoglioso dove tutti gli studenti
potevano incontrarsi, dialogare o pranzare all’ombra dei poderosi castagni che
l’Imperatore stesso aveva preteso fossero prelevati dalle foreste a Ovest della città. Il nonno e il padre di Loralon avevano sempre dimostrato un profondo interesse per la cultura, e il frutto di tale dedizione aveva generato una miriade di
premi, concorsi e fondazioni che occupavano un’importante fetta del patrimonio
della città. Pittori e scultori avevano prodotto opere magnifiche che abbellivano i
più importanti palazzi nobiliari, nei teatri si susseguivano una dopo l’altra le creazioni di giovani e affermati commedianti, gli alchimisti producevano medicamenti raffinati e i geografi ricavavano mappe leggibili da pergamene erose dai secoli.
I tempi stavano però cambiando rapidamente. Loralon non aveva la stessa
predilezione familiare per l’arte e la cultura, e non aveva neppure completato gli
studi da Maestro dell’impero, la figura di giudice supremo e custode della legge,
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perché era stato costretto a subentrare al padre morto prematuramente. Avrebbe
anche potuto concludere gli studi, ma si era ritirato per il bene della città, a suo
dire.
Una scelta che in tanti attribuirono alle sue scadenti doti di studente, più che a
una reale fretta di comandare.
La guerra continuava da decenni senza alcun progresso determinante, e il denaro ormai non traboccava più dalle tasche dei mecenati e dalle borse dei burocrati imperiali. Lo spazio si stava restringendo, e solo i più dotati riuscivano a restare ben artigliati ai privilegi concessi dalle fondazioni. L’Arcana godeva
dell’appoggio delle Lance Imperiali, perché forniva maestri di canto e specializzati in ricerca teorica, per cui il livello era ancora molto alto. Esserne membri era
un’opportunità molto rara, dedicata a pochi.
Dunwich era perfettamente conscio di non potersi permettere la minima distrazione, o il più piccolo ritardo. Come figlio del popolo, senza alcuna famiglia
alle spalle e un briciolo di dote economica su cui appoggiarsi, doveva primeggiare costantemente su tutto e tutti.
Cosa che non gli risultò affatto difficile.
86
VII
«Anche tu sei nuovo?»
Dunwich stava camminando a passo spedito lungo il vialetto di ghiaia bianca,
immerso nel ripasso della lezione del giorno prima. Applicare le terne emotive e
scegliere i giusti ponti armonici. Interessante l’esempio di un passaggio in minore
usato per introdurre un cambio drastico a una scala maggiore Cambriana, l’effetto
risultante era una vibrazione incontrollata dei metalli nobili. Un bell’argomento,
dove poteva mettere molto del suo. Inizialmente non si rese neppure conto che
la domanda fosse rivolta a lui, e non accennò a rallentare. Solo quando una mano
gli si posò sulla spalla i suoi pensieri saltarono, e si voltò per vedere chi lo voleva
a tutti i costi disturbare. Quasi ogni giorno qualcuno gli chiedeva se si fosse perso, o se stesse aspettando un fratello o il padre. Dunwich imprecò per l’ennesima
volta contro quel maledetto corpo da bambino che si ritrovava.
«No, non mi sono perso! Sto andando a lezione» esclamò stizzito senza degnare di uno sguardo lo scocciatore.
«Ma io ti ho chiesto se sei nuovo, non se ti sei perso!»
Dunwich scosse la testa per riordinare le idee e alzò gli occhi. Non solo aveva
frainteso la domanda, non aveva neanche riconosciuto lo scocciatore.
Era una scocciatrice.
«No, cioè sì… sono iscritto da tre anni, ma frequento i corsi superiori…»
Odiava parlare con qualunque essere umano, ma soprattutto con le ragazze. I
maschi lo prendevano in giro, lo sbeffeggiavano o se ne andavano intimoriti e
rabbiosi quando scoprivano la sua posizione nell’Arcana. Le donne invece lo
trattavano come un pupazzetto carino e adorabile. “Ma che bravo, come sei in87
telligente…” era la frase tipica che usciva dalle loro bocche ben disegnate dal
trucco. La cosa grave era che lui vedeva quelle labbra con gli occhi di un quindicenne molto sveglio, intrappolato però nel corpo di un marmocchio.
«Allora tu sei Dunwich! Ho sentito tanto parlare di te!»
“Ecco che inizia” pensò frustrato. “Bene, posso anche scappare via.”
«Ti ammiro molto, sai? Dicono in giro che tu sia un genio!»
Dunwich perse tutte le parole a disposizione nel suo elenco di scuse pronte
all’uso.
«Beh, ecco… grazie, sono… sono…» balbettò timidamente «onorato, sì ecco…»
«Onore mio! Scusa se ti ho scambiato per un novizio!» una mano si allungò
verso di lui. Era curata, liscia e magra. Dunwich la afferrò fra le sue piccole dita
da moccioso. «Mi chiamo Lisea. Sono arrivata da poco dalla scuola di alchimia di
Calhann.»
«Sei qui per affinare le arti erboristiche?»
«Sì, qui a Cambria vivono gli specialisti più rinomati di tutto il Nord, anche
se… avrei desiderato frequentare l’Arcana, ma alle donne non è concesso.»
«Una vera ingiustizia…» rispose Dunwich annuendo gravemente. Non che gli
interessasse particolarmente l’argomento. Finché poteva frequentarla lui,
l’Arcana, il resto aveva poca importanza. In effetti era curioso che le donne venissero preventivamente scartate. Raggiungere le risonanze era molto difficile,
pochi ne erano in grado. Lui non riteneva che fosse esclusivamente una prerogativa maschile.
Ma non voleva di certo perdersi quel piccolo momento di celebrazione, così
raro in mezzo a un mare di scherno.
«Già… è la tradizione, purtroppo.»
Carina, constatò Dunwich cercando di non arrossire. Magra e alta, con capelli
biondi raccolti sul capo e fermati da un punzone di legno. Occhi nocciola, ciglia
lunghe. Naso leggermente affilato. L’esempio vivente di una donna che mai al
mondo avrebbe potuto interessarsi a lui.
«C’è qualcosa che non va? Ho un’acconciatura troppo vistosa? Non sapevo
com’era la moda nella capitale… è la prima volta che la visito…»
Lisea si portò una mano fra i capelli corrucciando la bocca in un’espressione
squisita. Stava d’incanto con quella pettinatura. Dunwich mugolò fra sé. Arrossire non era più il suo primo problema. Si mosse a disagio e incrociò leggermente
le gambe.
«No no! È che non sono abituato a… non mi capita spesso di…»
Ecco un altro vuoto nella sua mente, pensò allarmato. Si stava comportando in
modo disastroso. «Notavo solo che mi superi in altezza di una spanna, o forse di
più…»
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Dunwich avrebbe già voluto conoscere un ottimo canto per sparire nella terra.
Un’armonia istantanea per fondersi con il basamento della strada. Lisea lo stava
fissando interdetta.
«Lascia stare… è un’idiozia.»
«Beh, mi ha fatto piacere conoscerti, Dunwich!» disse lei cambiando discorso.
«Magari uno di questi giorni, se ti va, potremmo mangiare insieme, così mi racconti un po’ di cose su Cambria e sulla scuola! Io sto nei dormitori destinati agli
stranieri, tu immagino nelle dimore dell’Arcana…»
«No, dormo fuori dal parco. Mi ospita un insegnante, si chiama Seneo» rispose
Dunwich, chiedendosi nel frattempo se lei si fosse offesa per il commento sulla
sua altezza. Come ci si doveva comportare con una ragazza? Cosa volevano sentire? Non era molto preparato sull’argomento. Quando ci fantasticava era decisamente più semplice.
«Addirittura! Devi essere proprio bravo… a presto allora!»
Lisea lo salutò con un sorriso e corse via. Dunwich restò fermo in mezzo al
vialetto a lungo, finché non sentì i primi canti alzarsi dalle sale di prova. Doveva
fare il solista di nuovo. Ma non vedeva l’ora che fosse sera.
Per incontrarla di nuovo all’uscita.
***
I mesi passarono, fra noiose sedute di prova dove non imparava nulla di nuovo e lunghe sedute di allenamento personale. Ogni volta che Dunwich approcciava un nuovo punto di vista interessante, lo divorava e restava in snervante attesa che anche gli altri alunni fossero in grado di padroneggiarlo. Stava iniziando
a manipolare le prime risonanze ma il resto dei suoi compagni non erano in grado di sorreggerlo. Per cui doveva sempre esercitarsi da solo. Non perdeva occasione di balzare avanti negli studi, frequentando come uditore gli altri cori
dell’Arcana, elaborando a casa le sue personali evoluzioni, ma dopo aver conosciuto Lisea ebbe per la prima volta l’occasione di passare un po’ di tempo con
altri ragazzi senza dover essere massacrato di insulti. La ragazza di Calhann si era
integrata bene fra i suoi coetanei, e grazie a lei anche Dunwich venne preso in
simpatia da alcuni giovani novizi che lo consideravano un esempio di bravura a
cui tendere, e che avevano espresso il desiderio di conoscerlo. I suoi studi notturni ne risentirono, ma il suo umore sempre acido e nervoso ne trasse grande
giovamento.
Anche se il primo approccio non fu dei migliori.
«Ragazzi, vi presento Dunwich. Ricordate? Vi ho parlato di lui l’altra sera…»
Il suo primo incontro ufficiale con il resto dell’umanità ebbe luogo nel parco
dell’Arcana, una fresca sera d’autunno. Lisea aveva insistito con lui fino allo sfi89
nimento, vincendo la sua corazzata ritrosia dopo tanti pranzi passati insieme a
chiacchierare. Per sua fortuna era lei a cercarlo, e non il contrario. Dunwich non
avrebbe mai avuto il coraggio di farsi avanti. Sentiva sempre la sgradevole sensazione di somigliare a un bambino impegnato a dar fastidio agli adulti.
«Il prodigio?! È un piacere conoscerti, mi chiamo Ronio» esclamò con voce
squillante un ragazzo basso dallo sguardo brillante «lei è Silia, praticante di scienze mediche, e lui invece è Denor. Lisea ci ha parlato spesso di te… vieni, raccontaci un po’ come sono gli allenamenti superiori. Dicono che siano estremamente
ostici. È vero? Hai già imparato qualcosa di utile?!»
«Piacere di conoscervi!» esclamò agitato Dunwich. «Ma cosa intendi per utile?»
«Risonanze di guerra, modi per deformare un terreno… o per gonfiare le
fiamme! Dicono anche che si possa giungere a cantare con due voci… ma è vero?!»
Dunwich prese a camminare in mezzo a loro cercando di tenere il passo. Dovevano avere tutti vent’anni, più o meno. Ragazzi svegli, già filtrati dai rigidi parametri di accesso alle prestigiose scuole di Cambria. Silia era bassa e robustella,
ma aveva un viso gradevole. Denor era il più alto di tutti, ed era parecchio robusto. Un armadio pronto a imbracciare scudo e spada. Un filo di barba gli donava
l’aspetto di un uomo con una certa esperienza.
«Sì, ho già sperimentato qualche risonanza… certo, cantare a voci molteplici
devo ancora provarlo… ma il resto non è molto difficile» esordì Dunwich, ma
subito si rese conto che rischiava di essere frainteso. «Intendo in generale, non
per me… bisogna applicarsi, ma niente di proibitivo… imparare a memoria lunghi e intricati canti, saper sillabare correttamente, lavorarci sopra, cercare la concentrazione necessaria…»
«Certo, ma bisogna anche saper sopportare l’urto di una dissonanza» esclamò
Ronio. «Quando la concentrazione entra in simbiosi con il canto… la difficoltà
sta tutta lì!»
«No, non credo proprio. Il canto domina su tutto. L’armonia può far male solo
quando sbagli. È sufficiente non sbagliare mai.»
«Lo dici come se fosse un gioco!» ridacchiò Lisea. «Tu da quanto pratichi il
canto?»
«Ecco, direi… tre anni, più o meno.»
«TRE ANNI?!» tuonò Denor, il sontuoso uomo barbuto. «Sembra impossibile… io studio da più di dieci anni e non riesco ancora a collegare mente e canto
per produrre più di una fottuta fiammetta da una candela morente…»
«Ma tu sei un grosso ritardato, Denor… infatti dovevi andare a fare il militare,
non l’artista!» disse Ronio con una linguaccia. «Il canto è per le menti fini…»
«Io voglio essere una Lancia, cantante da strapazzo!» ringhiò il ragazzo. Sembrava molto minaccioso ma Dunwich si rese conto che quei due stavano solo scher90
zando. Era un evento raro. Non era lui quello in mezzo agli insulti. La cosa gli
diede un coraggio nuovo e sconosciuto.
«Se non ti dispiace, ti andrebbe di farmi sentire come canti?»
Dunwich usò il suo tono migliore per non sembrare aggressivo, e con un sospiro di sollievo si accorse di esserci riuscito. Il piccolo gruppo si fermò. Denor
si schiarì la voce respirando lentamente, per tranquillizzarsi. Il parco era immerso
nella frizzante aria della sera, e una leggera brezza solleticava le fronde rossastre
dei grandi alberi disposti lungo il viale.
«Non sono abituato a farlo così all’improvviso…»
«Beh, ti ci dovrai abituare se vuoi farlo mentre cavalchi con una spada in mano!»
La sua frecciata generò qualche risatina divertita da parte di Silia e Ronio.
Dunwich fece finta di niente. Voleva sembrare il più autorevole possibile in quel
momento, e non un giullare. Il suo proposito di mantenere controllata
l’aggressività era stato soppresso dal primo sorriso ammirato di Lisea.
Denor intonò un paio di arpeggi, e mosse le mani aprendo e chiudendo le
braccia come in un lento applauso. Aveva una bella voce, ma era ruvida e poco
precisa nei passaggi. Sillabava strisciando troppo la s. La piccola fiamma ardente
apparve fra i suoi palmi chiusi a formare una capanna con le dita, ma dopo troppo tempo e uno sforzo eccessivo.
«Prendili come semplici consigli, ma…» esordì Dunwich avvicinandosi a lui.
Di fronte alla sua stazza sembrava ancora più piccolo, ma evitò di pensarci. Altrimenti non avrebbe mai avuto il coraggio di dire quello che stava per dire.
«Prima di tutto, sbarazzati dell’accento campagnolo e studia alla perfezione le sillabe. Poi… ti manca l’immaginazione… prova a immaginarti un fuoco da campo
acceso fra le tende disposte al fronte… l’odore della terra smossa dai cavalli, la
puzza di acciaio arrugginito… così…»
Dunwich iniziò a cantare sommessamente. La melodia era totalmente diversa
da quella di Denor, la solita cantata che insegnavano durante il noviziato. Sembrava la triste nenia di un vecchio soldato, ricca di passaggi melodici semplici e
ingenuamente struggenti. Dunwich aveva lavorato sulla sua voce in modo maniacale, plasmandola e torchiandola per darle flessibilità ed estensione. Le sue
mani si mossero solo una volta come per pulire una mela dalla polvere, e la
fiamma apparve subito a scaldargli le dita. Aveva gli occhi di tutti piantati addosso.
“È il mio momento, finalmente! Dov’è Lisea? Mi starà ammirando anche lei?”
Quando la cercò con lo sguardo, la vide stretta al braccio di Denor. Lo stava
accarezzando, gli occhi rapiti dalla fiamma.
Che imbecille che era stato a crederci, pensò.
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«Odore del sangue, carne sventrata, piedi mozzati!» urlò ferocemente continuando a modulare il suo canto passando dalla malinconia alla furia. Infilò le parole fra sillabe sempre più dure e aspre, martellanti. Un passaggio estremamente
raffinato.
«Il nemico che avanza e uccide i tuoi amici!» esclamò, mentre le sue mani si allontanavano e la fiamma si alzava sempre di più.
«Ecco, ti sono addosso!»
Dunwich allargò le piccole braccia magre e una colonna di fuoco esplose sorvolando le teste dei ragazzi che lo circondavano. La notte sparì per un istante,
lasciando il posto alla scena di un incendio devastante. Le fiamme svanirono solo
quando le sue mani si richiusero, e lui vide troppo tardi il puro terrore negli occhi dei suoi nuovi amici. Lisea era stretta a Denor e singhiozzava, il ragazzo tirava su con il naso cercando di vincere l’emozione che lo aveva travolto ascoltando la sua trascinante melodia. Ronio era arretrato di qualche passo, bianco in
volto, portando con sé Silia che invece lo stava fissando con una strana luce negli
occhi. Proprio lui.
“Perché mi guarda così?” si chiese Dunwich fra i morsi di vergogna per quello
che aveva appena fatto. La situazione gli era sfuggita totalmente di mano. Ma
almeno aveva ottenuto qualcosa.
Sembrava una morbosa attrazione, quella che balenava nello sguardo della giovane novizia.
«Scusate… non volevo…»
«Per gli Dei, sei… potente…» balbettò Denor mentre tranquillizzava Lisea al
suo fianco. «Incredibilmente forte…»
«Penso che sia ora per me di andare a casa» disse Dunwich mentre stava già arretrando, allontanandosi dai ragazzi.
«Cercherò di ricordare come hai fatto!» gridò Denor alle sue spalle.
Dunwich sperava di no. Per la prima volta aveva conosciuto qualche persona
simpatica, e forse aveva già rovinato tutto. Ma aveva anche imparato qualcos’altro. Un particolare nuovo e vergognosamente eccitante.
Lisea abbracciata a quel ragazzo alto e muscoloso lo aveva fatto infuriare. Aveva sentito l’odio scorrergli nelle vene.
E grazie a quella rabbia era diventato improvvisamente molto, molto più potente.
***
Per sua fortuna, il piccolo gruppo di amici di Lisea non sembrò serbare rancore per la sua incauta dimostrazione di forza. Le serate che passava con loro divennero il ritmo con cui Dunwich teneva il tempo dei mesi di studio, lo sfiato
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alle pressioni che si sentiva costantemente addosso. Denor migliorò vistosamente grazie ai suoi consigli, e così anche Ronio. Dunwich divorò letteralmente gli
anni dell’Arcana, superando in tecnica anche diversi insegnanti di canto. Solo
Seneo ancora gli riusciva a tenere testa, anche se in alcune occasioni Dunwich
provava a spingersi oltre le capacità tecniche del suo maestro. Era in grado di entrare in risonanza in tempi talmente brevi da non essere quasi notati. Era come
se cantasse dentro di sé, a una velocità che esulava dall’esperienza di ascolto. Le
voci su di lui giravano incontrollabili. In molti sussurravano che a breve si sarebbe affiancato a Raelin, il più vecchio ed esperto cantore di Cambria, che in quel
periodo svolgeva i suoi compiti sotto il diretto controllo dell’Imperatore Loralon, coordinando nel frattempo tutte le attività dell’Arcana.
Dunwich era a un passo dal diventare il successore di Raelin, e aveva meno di
vent’anni. Aveva anche l’appoggio incondizionato di Seneo, che vide accrescere
la sua fama di insegnante ai livelli degli storici fondatori del canto di Cambria.
Dunwich passava il suo tempo all’Arcana ma non partecipava ai cori. Spesso li
guidava, muovendo le mani imbastendo il ritmo e indicando, con i segni dei cantori, quali note e quali movimenti compiere. Oppure stava semplicemente ore ad
ascoltarli per comprenderne gli errori.
Vedeva spesso i suoi amici, gli era stata concessa apposta una porzione generosa della casa di Seneo. Gli altri ragazzi che avevano studiato con lui erano stati
cacciati, solo per fargli posto. Lui non perse un istante a dispiacersi. Dunwich
scoprì senza un fremito che poteva tranquillamente fottersene di quattro o cinque disgraziati. Nessuno avrebbe recriminato. Era lui al centro delle attenzioni di
tutti.
Un giorno, mentre stava uscendo dal palazzo dell’Arcana, invece che puntare
verso il parco per incontrare gli altri ragazzi, Dunwich si fermò a parlare con
Raelin. Il cantore personale di Loralon. Ogni tanto scambiavano quattro chiacchiere formali, non erano ancora vicini a sufficienza per trattarsi in modo più
amichevole. L’anziano cantore non era particolarmente contento di avere già un
potenziale sostituto, e Dunwich non amava comportarsi in modo sottomesso.
Presero a discutere sul suo futuro nell’Arcana.
«Non credo tu abbia ancora molto da imparare qui» esordì senza giri di parole
il maestro. «Dovresti intraprendere una carriera in città. L’arte si impara con la
pratica… tu non hai più bisogno di teoria.»
«Secondo il mio tutore, la teoria non basta mai…» rispose stupito Dunwich.
Pensava che Raelin fosse molto più contento a vederlo chiuso nell’Arcana, più
che lanciato a vele spiegate in un mare di proposte di lavoro. Non si aspettava
una sua spinta in merito.
«Penso tu sia troppo preparato per restare qui. Non hai più margini per crescere.»
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Da quando in qua gli interessava, pensò. Dunwich aveva raggiunto una notorietà meritata senza averla cercata attivamente. Era stato sufficiente mettere in
mostra le sue capacità. “E il bello è che ancora nessuno ha visto il frutto dei miei
allenamenti solitari…” pensò. Neppure Seneo era al corrente dei suoi progressi
nella ricerca delle risonanze. Non si era fermato alle semplici manipolazioni della
realtà che venivano insegnate ai coristi dell’Arcana. Plasmare il fuoco o l’acqua, il
vento. Dunwich era passato oltre.
Aspettava solo il momento per dimostrarlo. Non lo credeva tanto vicino.
Raelin l’aveva anticipato.
«Maestro, avete qualcosa di preciso in mente?»
«Mh, forse» accennò Raelin. Dunwich si guardò perplesso intorno. I suoi amici
avevano notato la sua assenza e si erano avvicinati al viale che conduceva alla
scalinata dell’Arcana. Inspiegabile come fossero cambiate le cose in pochi mesi,
si disse. In mezzo a loro, lui sembrava un bambino insipido. Molto carino ed
elegante, con i suoi capelli neri e spessi e gli occhi blu. Ma davvero troppo piccolo per girare con ragazzi così grandi.
Difficile credere che lui fosse diventato il loro punto di riferimento per tutto.
Chi riusciva a girargli appresso, poteva sperare in una spinta in più per la propria
carriera. Dunwich era un carro solido lanciato a folle velocità.
In discesa.
«Sono d’accordo con Seneo; domani sera ha organizzato una cena a cui parteciperò anch’io, insieme a un potenziale cliente. Il tuo primo… ed è molto importante.»
«Una cena? Elegante?» chiese Dunwich. Il giorno dopo. Non avrebbe avuto
nemmeno il tempo di elaborare la fine del suo percorso di studi all’Arcana. Le
infinite lezioni di armonia. Le esercitazioni del coro dove lui sembrava l’unico in
grado di mostrare un po’ di gusto per il ritmo.
Non vedeva l’ora che fosse il giorno dopo.
«No, Seneo ha piacere che vengano anche i tuoi amici. Sarà una festa, vedrai.
Considerando il cliente che mi ha chiesto di poterti parlare, è un po’ come se tu
avessi superato un esame… anche se non te ne sei accorto.»
***
«Ehi Seneo, penso che tu debba cambiare il servizio di cristallo…» esclamò
Dunwich rosso in volto, picchettando con il dito sul fondo del bicchiere. «Il
mio… è bucato!»
Raelin aveva detto la verità. La cena che Seneo aveva organizzato non era il solito simposio di noiosi puristi dell’Arcana. C’era la musica in un angolo, due viole
da gamba e un flauto che suonavano piuttosto bene. Erano nella sala principale,
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la più grande della casa. Il lungo tavolo era apparecchiato in modo semplice ed
era stato caricato di battilarde di salumi, formaggi, pesce marinato e piccole forme di pane ai cereali. Dunwich aveva i suoi amici seduti intorno, lui era a capotavola. Dall’altra parte conversavano Seneo, Raelin e qualche altro maestro
dell’Arcana. Curioso, pensò frastornato dal vino. Si erano presentati a cena solo i
più intimi amici del suo tutore. Molti altri insegnanti non erano stati invitati.
Dunwich non aveva ancora capito il perché di quella festa, una via di mezzo
fra un evento di gala e una sorta di compleanno.
«Vacci piano con il vino, ragazzino! Non hai il fisico per queste cose!» gridò
Ronio battendo la mano sul tavolo. Le posate e i piatti in porcellana tintinnarono
fra le risate di tutti i presenti. Lisea e Denor sedevano vicini e sghignazzavano,
Silia invece si era piazzata accanto a Dunwich e di tanto in tanto lo fissava, applaudendo a ogni sua battuta. Lui era in gran forma. Il vino gli stava dando una
mano. Seneo rideva e scherzava con i suoi autorevoli ospiti, che si stavano divertendo a vedere quel branco di giovani scalmanati prendersi in giro e festeggiare.
«Allora genio… non ci hai ancora detto qual è il motivo di questa magnifica
tavola!» urlò Denor alzando il calice mezzo vuoto, che venne subito riempito da
un servitore.
«Seneo!» Dunwich si alzò lottando per liberarsi dal lembo della tovaglia bianca.
«Mi chiedono a gran voce un motivo per festeggiare! Sai che vorrei saperlo
anch’io?»
«Manca ancora un ospite, mettiti comodo e vedrai» rispose Raelin al posto del
suo maestro. Si scambiarono un’occhiata che Dunwich non ebbe la malizia di
interpretare. Sembrava che stessero facendo apposta a farlo bere. Era una serata
davvero assurda, pensò. Si stava comportando come un idiota di fronte a colui
che gli aveva donato un tetto sulla testa, in compagnia del cantore più importante di tutto l’impero. Più svariate altre comparse di cui a lui non fregava assolutamente niente.
«Escono tutti in questo modo dall’Arcana?!» chiese a Ronio. Lui frequentava
l’accademia da più tempo di lui, ma non aveva mai dato motivo di credere che si
fosse stancato di frequentarla.
«No, di solito i migliori vengono presi e messi sotto le dipendenze di qualche
nobile importante» gli rispose lui con tono più sommesso. Ronio si stava contenendo molto, probabilmente perché stava cercando un modo per risaltare agli
occhi del direttore dell’Arcana. Dunwich lo lasciò fare. Per quanto si potesse
sforzare, i fatti parlavano da soli. Ronio era molto meno dotato di lui. Come tutti
gli altri, pensò immerso in un orgoglio liquido.
«E tu, Denor?! Cosa mi dici, vogliamo darci una mossa?! Passano gli anni e tu
invecchi…» lo punzecchiò Dunwich. Lui si sporse come per mollargli un pugno
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in bocca, lo mancò di un soffio e lo abbracciò ridendo. Una scena surreale. Un
gigante che tentava di non stritolare un marmocchio strafottente.
«Quando sarò Lancia giuro che userò tutta la mia paga per comprare i tuoi servizi… e ti faccio cantare mentre vado in latrina a cagare! Sai, mi stimoli come
niente al mondo.»
«Quando sarò Lancia, quando sarò Lancia» bofonchiò Dunwich ridendo
scomposto. «Parli tanto ma ancora non lo sei! Ti va di vedere una fiamma in risonanza come si deve?!»
Denor rise in risposta ma quando vide che Dunwich stava veramente per mettersi a cantare, perse il sorriso e gli prese una mano. «Lascia stare, ora non è il
momento…» disse preoccupato da quello che avrebbero potuto pensare le eminenze all’altro lato del tavolo. Anche lui non voleva fare brutta figura. E
Dunwich si stava comportando da bastardo, per quanto ubriaco fosse.
Lui riuscì a sfilare la mano, scolò il fondo del bicchiere e si spinse all’indietro
sulla sedia. Restò in equilibrio su due gambe con le dita strette fra loro, la fronte
corrucciata come se stesse premendo i palmi con forza sovrumana.
«Dove sei, fottuta fiammella…» ringhiò sbuffando in modo ridicolo. «Dove
sei, piccola lurida puttanella…»
Seneo rise e diede una pacca sulla spalla a uno degli altri insegnanti. Un tizio
con cui Dunwich non aveva mai praticato. Sembravano tutti molto felici e molto
contenti. Anche troppo. Raelin invece si era incupito senza che lui avesse notato
il cambiamento. Forse il suo maestro e lui si erano detti qualcosa di spiacevole,
pensò Dunwich. Vedeva un po’ troppa gente seduta intorno al tavolo. Anzi, i tavoli. Erano due. Ben distinti. Seneo picchiettò il coltello su un calice e richiamò
l’attenzione di tutti. Dunwich restò immobile e in equilibrio sulla sedia, le mani
giunte come in preghiera, la bocca mezza aperta come un ritardato.
«Ragazzi, ora un po’ di contegno!» esclamò il maestro. «Sono arrivati altri ospiti.»
«E chi, di grazia?! Ci siete voi, ci sono i miei… amici… chi manca?» berciò
Dunwich oscillando sulla sedia. Silia allungò una mano per sistemargli i capelli
neri che gli erano caduti sugli occhi. Gentile da parte sua, pensò lui. La squadrò
un istante. Non era splendida. Ma in quel momento lui ne vedeva quattro o cinque contemporaneamente, per cui gli piacque lo stesso.
«Il capitano delle Lance Imperiali… Asaeld.»
Subito Denor scoppiò a tossire, rassettandosi la morbida camicia di velluto
porpora che aveva indossato per la serata. Dunwich si guardò intorno disorientato. Si erano tutti irrigiditi. Lui non colse assolutamente l’importanza del visitatore.
«CHI?!»
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Due uomini erano entrati in sala da pranzo, entrambi con indosso l’armatura
delle Lance. Nera e lucida con dettagli in oro. Esseri partoriti da un incubo alcolico. Sontuosi e terribili, fu l’impressione che ebbe Dunwich.
Sontuosi e terribili.
«Lascia stare, Seneo… si sta gustando la serata. Mi sembra giusto.»
Asaeld era l’uomo più imponente che Dunwich avesse mai visto. Alto, robusto, con una mascella che sembrava fusa nel piombo. Gli occhi erano svegli e indagatori. Incuteva un timore anomalo, come se intorno a lui pesasse una nebbia
invisibile di autorità raddensata. Ma il modo con cui parlava, con cui si guardava
intorno, lasciarono Dunwich spiazzato. Quello era un vero uomo di potere, pensò. Ma era anche un compagno di guerra che sapeva come farsi amare, e soprattutto rispettare. Doveva avere circa cinquant’anni ma ne dimostrava meno. Le
altre Lance al suo fianco sembravano ragazzini denutriti al confronto.
«Scusate… non sapevo che…» balbettò Dunwich. Fece per tornare a sedersi
normalmente ma aveva completamente perso il senso dell’equilibrio. Piombò rovinosamente indietro. Dunwich visse un istante scandalosamente lungo in cui si
sentì un completo imbecille.
“No.”
La sedia impattò sul pavimento di cotto.
Tutti i presenti videro distintamente Dunwich immergersi e sparire sotto terra.
Aveva cantato d’istinto, centrando la risonanza con precisione e velocità impossibili. Appena il tempo della caduta. Poche sillabe mormorate a denti stretti.
Il suo corpo si era fuso con la sedia, l’aveva attraversata ed era affondato nel pavimento. Un’immagine che spense le parole all’intera tavolata. Seneo e Raelin fissavano interdetti il posto vuoto. I suoi amici erano sbiancati ed erano balzati in
piedi terrorizzati.
Asaeld era l’unico con un sorriso involontario che gli schiariva il volto.
Dunwich riemerse a pochi passi dalla sedia crollata. Si issò sopra le larghe piastrelle di cotto come se stesse faticando per scalare oltre un gradino. Sfilò i piedi
e la superficie del pavimento si increspò. La materia solida intorno al suo corpo
si comportava come se fosse un liquido in cui lui poteva muoversi a piacimento.
Si rialzò malfermo in piedi, mollò un rutto sommesso e si passò le mani fra i capelli scompigliati.
«Ma per tutti gli Dei benedetti…» esclamò sconvolto Seneo. «Cos’hai fatto?!»
«Era una sorpresa che tenevo in serbo per… boh, un momento migliore» rispose semplicemente Dunwich. Anche i musicisti lo stavano fissando basiti. La
stanza era immersa nel silenzio più assoluto. Seneo fece loro segno di riprendere
subito a suonare. Tutti ritornarono seduti a tavola. Asaeld prese posto vicino a
Raelin. I suoi amici guardavano i maestri presenti in attesa di una sfuriata, di un
rimprovero che non arrivò.
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«Non ho nemmeno sentito il canto… com’è riuscito a entrare in risonanza…»
mormorò Denor. Lisea scosse il capo perplessa. Silia lo fulminò con lo sguardo e
si strinse vicino a Dunwich.
La sua mano gli scivolò sulla gamba.
Dunwich accolse il suo gesto con una risatina compiaciuta. La sbronza sembrava essere svanita all’istante. Tutti lo stavano guardando intimoriti, incapaci di
riprendere a conversare in tranquillità. Raelin parlottava fitto con Seneo. Gli altri
maestri si stavano interrogando su come fosse possibile portare in risonanza il
proprio corpo con il terreno, soprattutto in pochi istanti come era riuscito a fare
quel ragazzino sbarbato.
Asaeld, inaspettatamente, alzò un calice e propose un brindisi. «Volevo farlo
prima, in onore di ciò che si dice di te in città, caro Dunwich… ma ora so che
non è una leggenda. Un brindisi è troppo poco.»
«Mi state lusingando» rispose Dunwich con tono pacato. Fissava Asaeld dal
basso verso l’alto, in un misto contorto di timore reverenziale e desiderio di prevalere su di lui. Voleva dimostrare a quell’uomo tutto ciò che era in grado di fare.
E non voleva aver paura di lui, come aveva notato in tutti gli altri presenti in sala.
No, desiderava essere un suo pari.
La mano di Silia era un incentivo notevole. Uno degli infiniti vantaggi del potere.
Asaeld rispose modellando magistralmente la voce in un rombo cubo e bassissimo, vibrante. Un tono splendido. Un comando che aveva scagliato orde di
uomini contro il nemico.
«Ho una proposta da farti.»
Un servitore sparecchiò all’istante il posto del comandante. Divenne inequivocabilmente chiaro che fosse Asaeld il cliente che aveva organizzato la cena. Seneo gli offrì una pipa d’argento e noce, e una saccoccia di tabacco chiaro. Asaeld
ringraziò e accettò l’offerta, caricando il camino della pipa con cura. Dunwich si
rodeva lo stomaco dalla curiosità ma tratteneva un’espressione imperturbabile.
Non era agitato o spaventato, aveva solo fretta di andare avanti. I musicisti abbassarono il tono per non infastidire il silenzio dei presenti. Denor era tanto teso
che si sarebbe potuto spezzare in due tronconi. Lisea si era stretta al suo braccio
e gli accarezzava lentamente il collo. Dunwich riusciva a sentire le dita di Silia
tremargli sulla coscia. Affatto spiacevole, pensò.
«Ti propongo di entrare nel corpo delle Lance Imperiali. Ovviamente con
l’obiettivo di diventare mio capitano» concluse Asaeld dopo la prima appagante
boccata di fumo denso.
«Mi sembra un ottima idea…» sussurrò Raelin annuendo ampiamente.
Dunwich colse infastidito quel gesto untuoso. Chiaro che fosse contento, si disse. La sua preoccupazione era che uno ambisse al suo posto. Ma con Dunwich
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nelle Lance, quello che doveva preoccuparsi era solo Asaeld. «Il ragazzo ha grandi potenzialità, questo è certo. Abbiamo ammirato una risonanza assolutamente
perfetta poco fa… potrebbe fare molto, molto bene fra le Lance…»
Dunwich non seppe subito cosa rispondere. Lui adorava i canti di guerra, sapeva di avere ancora molto da offrire in quel campo. Ma essere una Lancia Imperiale era qualcosa di diverso.
«Dovrai essere perfettamente addestrato nel combattimento individuale, nel
cavallo, nella strategia militare. Una Lancia deve essere in grado da sola di combattere, cantare, e studiare le mosse del nemico per controbatterle. È roba per
pochi» concluse Asaeld sbuffando fumo di nuovo.
«È un’opportunità mostruosa…» sibilò sconvolto Denor. Il suo sogno impossibile. Essere convocato da Asaeld in persona.
Ma Dunwich non sapeva nulla di scherma o di lotta. Non aveva ancora fatto le
sue valutazioni su un futuro nell’esercito. Più probabilmente come cantore, magari. Ma come soldato sul campo? A rischiare la pelle armato della spada e delle
sue risonanze?
«Dove potrei arrivare?»
La domanda spiazzò completamente Asaeld. Seneo aprì la bocca come per tacciarlo di insolenza ma non si permise di intromettersi. Dunwich si chiese quanto
potesse guadagnare da quell’affare. Una cifra considerevole. O forse importanti
favori. Lui ambiva a qualcosa di più. Il denaro, certo. Portare la sua famiglia a
Cambria, possibile.
La mano di Silia scivolò un po’ più giù lungo la coscia.
Dunwich notò con la coda dell’occhio Lisea stretta a Denor. Gli stava accarezzando la nuca. Un gesto lieve. Lei era attraente da morire. Ma con quel corpo
che lo intrappolava non aveva speranze.
Con lei.
«Tu dove vorresti arrivare?» gli chiese Asaeld di rimando. Lo stava fissando
senza espressione. Attendeva come se dovesse emettere una condanna.
Al potere, pensò Dunwich. Quello di avere una donna come Lisea addosso, o
di attrarre Silia. Di poter comandare altra gente. Di mettere in pratica le infinite
possibilità del canto.
Il potere di vincere sempre.
«Voglio arrivare… fin dove Cambria mi vuole.»
Asaeld sorrise, sbuffando una nuvola di fumo bianco dall’angolo della bocca.
«Mi sembra equo.»
Seneo passava lo sguardo da Raelin a Dunwich. Denor fu il primo a scattare.
Mollò un pugno sulla spalla dell’amico e gli strinse la mano. Subito si scatenarono i commenti dei commensali.
«Devo chiedere adesso cosa mi serve per iniziare?»
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Asaeld si alzò chinando la testa come un soldato verso il suo capitano.
«Non ce n’è bisogno. Avrai già tutto ciò che desideri.»
***
I ragazzi se ne erano andati da un pezzo, e Dunwich dormiva da ore sulla
grande poltrona di cuoio piazzata di fronte al camino nel salotto dei ricevimenti.
Dopo la breve e fulminante incursione delle Lance Imperiali, la festa era ripresa.
Denor aveva sfiancato Dunwich a furia di vino, dopo che gli altri ospiti se ne
erano andati. Seneo aveva cambiato sala insieme ad Asaeld. Riusciva a vederlo
dall’altra parte del corridoio, attraverso la porta aperta. Un ragazzino sdraiato
scomposto su una poltrona. Lo osservava sfumacchiando distrattamente dalla
pipa. L’aroma di tabacco leggero e legnoso volteggiava nell’aria risucchiata dalle
basse fiamme del fuoco.
«Non riesci proprio ad accettarlo, vero?»
Asaeld era seduto di fronte a lui, su una sedia. Si era tolto l’armatura e aveva
indossato gli abiti civili che il servitore si era portato appresso. Sembrava molto
meno imponente e autoritario, un tranquillo cinquantenne dai modi raffinati. Il
volto era l’unico dettagli duro che stonava. Squadrato, marcato. Anche lui stava
fumando da una pipa lunga e curva. Il braciere era coperto da una cupola
d’argento traforata resa opalescente dall’uso assiduo e dal calore. La classica pipa
di un soldato, pensò Seneo distraendosi un istante dai suoi ragionamenti. Adatta
a fumare al fronte, mentre pioveva o tirava vento.
«Proprio non ti capisco, Asaeld. Per quanto sia un cantore eccezionale, cosa ti
dice che saprà anche come maneggiare una spada? Può darsi che sia negato.»
«Non so, è una questione di pelle» rispose la Lancia con un filo di voce. «Spero
di essere stato abbastanza chiaro l’altro giorno. Puntare solo alla posizione di
Raelin è troppo poco. Ho già dei rapporti con lui. Piuttosto… proficui.»
«Così ho lavorato inutilmente» concluse irritato Seneo. «Io l’ho addestrato per
diventare un grande cantore. Non a fare il soldato.»
«Ti sbagli. Non hai buttato via neppure un giorno. Ora le Lance hanno un debito con te, e vedrai che ti tornerà assai utile. Oppure devo ricordarti il motivo
per cui ti conviene accettare sempre una mia proposta?»
«No, direi che non ce n’è bisogno» esclamò Seneo sprofondando di schiena
nella gonfia poltrona. Dunwich nell’altra stanza stava ancora dormendo pesantemente. «Un po’ mi dispiace, sarebbe stato grandioso come mio successore…»
«Il tuo… successore… come miri in basso, amico mio» sussurrò Asaeld sorridendo maliziosamente. «C’è di meglio, e mi stupisce che tu non l’abbia ancora
notato.»
100
«E cosa, che sia il tuo successore?! Non è molto gentile da parte tua» rispose
Seneo soppesando le parole.
«Tu volevi educare un maestro. Mentre, permettimi di dire, potresti anche aver
cresciuto un possibile… Imperatore…»
La pipa di Seneo gli si piegò sulle labbra. Imperatore. Era un’assurdità,
un’ipotesi impossibile. “Dunwich non è un discendente della famiglia Loren,
come potrebbe… Imperatore…”
«Non è un’ipotesi impossibile» proseguì Asaeld «Loralon non ha figli, ha tentato diverse volte… ma è sterile. Non sto qui a elencarti cosa io abbia visto e sentito, dalla mia posizione vedo molte cose. Ma ci ha provato in ogni modo. In ogni
modo.»
«Ma… ha dei cugini, dei parenti… sparsi nelle altre regioni conquistate come
governatori o comandanti! Ci sono loro in diretta linea di successione.»
«Oh, certo! Ma questo è un problema futuro, molto lontano. Le Lance vogliono ricevere finalmente la gratificazione che spetta loro. Loralon dovrebbe saperlo che, senza di noi, la guerra sarebbe già stata perduta.»
«Quindi…» sussurrò terrorizzato Seneo «stai parlando di… non vorrai dire
che…»
«Complotto?!» esclamò Asaeld sinceramente inorridito. «Ma stai scherzando?
Per gli Dei, non bisognerebbe neppure pensarlo. Un’idea abominevole, la tua.
No, io parlavo di successione naturale. Dunwich potrebbe essere perfetto.»
«E perché?! È proprio questo che non capisco!»
«Oh, è semplice!» la voce di Asaeld si ammorbidì in un tono ammirato. «Tenace, estremamente dotato, di umili origini, grande carisma, faccia tosta a volontà… deve solo imparare a governare con saggezza. Il coraggio di farlo ce l’ha già.
Loralon potrebbe notarlo, tenerlo in considerazione… dopotutto, anche se lui
non è il più scaltro dei Loren, sa che per guidare un impero ci vuole una persona
di polso, che abbia dalla sua parte il rispetto dell’esercito. Dunwich potrebbe diventare tutto questo.»
«Spero tu abbia ragione» concluse Seneo inspirando attentamente dalla pipa. Si
era spenta, ma era solo un gesto involontario. Qualcosa nei suoi occhi era cambiato. Interesse. La delusione era un’ombra fugace.
«Fidati di me. Lo fanno in tanti… basta che lo faccia anche tu» rispose Asaeld
sorridendo lieve.
101
VIII
Gli scontri al fronte oscillavano come un’immensa serpe sinuosa. Cambria
prendeva il controllo di una porzione di valle, i ribelli si insinuavano e ricacciavano gli eserciti imperiali da un monte. Cambria contrattaccava, e il nemico riacciuffava la valle. Le battaglie campali erano rare e improvvise, sostituite da una
guerriglia dissanguante, con i ribelli che piombavano sui battaglioni accampati di
notte lungo le strade che portavano alla frontiera, o spezzavano metodicamente
le linee di approvvigionamento verso la capitale.
Eldain era uno stratega scaltro, forse più abile di quelli alle dipendenze di Loralon, che continuavano imperterriti a puntare tutto sulla differenza numerica che
correva fra le loro forze e quelle del nemico. Le Lance avevano idee molto diverse, soprattutto Asaeld. Ma il loro comandante non esprimeva mai apertamente
un dissenso. Il corpo delle Lance era e doveva restare un’arma al servizio
dell’impero.
L’Arcana sfornava cantori, le fila dell’esercito erano rimpinguate costantemente da nuove leve, i raccolti erano abbondanti come sempre. Ma qualcosa stava
cambiando. Una tensione sottile che disturbava l’aria, l’odiata idea che la guerra
potesse non avere mai una fine rendeva i sapori più aspri, gli odori meno accesi, i
colori più annacquati. I cantori erano sempre meno preparati, allevati come polli
da cortile in fretta e furia per sostituire tutti quelli che venivano falciati durante le
incursioni mirate dei ribelli. Difficile schierare un coro al fronte. Tornava indietro sempre bucherellato e malconcio. Il controllo delle risonanze era l’unica forza che Eldain non possedeva. Infatti, temeva i cantori sopra ogni altra minaccia
imperiale.
102
Le nuove reclute spedite al fronte erano figli di contadini schiantati dalla fame,
orfani di guerra, gente senza alcuna preparazione, ragazzi poco motivati. I frutti
dei campi erano a esclusivo appannaggio dello sforzo bellico. La farina era controllata dall’esercito.
«Se non si danno una mossa, qui va tutto in malora.»
«Uhm? Cos’hai detto, tesoro?»
Dunwich si voltò allontanandosi dalla finestra, da cui stava contemplando
l’alba che sorgeva sui tetti di Cambria. Uno spettacolo in sintonia con il suo stato
d’animo. Una frenesia bruciante, che scalciava per risolvere tutti quei problemi.
Sapeva cosa fare.
«Nulla. Torna a dormire, è ancora presto.»
«Sei teso, vero? Se vuoi…» le lenzuola bianche si abbassarono scoprendole il
seno «… posso darti una mano a rilassarti un po’…»
«Non ora, Silia. Non ti è bastato stanotte? Riposati, avanti.»
La voce di Dunwich era distaccata, fredda. Gli occhi erano lontani. Anche il
suo corpo, nudo e modellato dagli allenamenti, non sembrava essere realmente
in quella camera da letto.
«Ti comporti come se ti infastidissi, ma ieri sera non mi guardavi certo allo
stesso modo… anzi… proprio non ti capisco» mugugnò la ragazza voltandosi
stizzita. Dunwich tornò a guardare fuori dalla grande vetrata, totalmente disinteressato alle sue pigolanti lamentele. Quello era il suo giorno. Solo il suo.
Non che Silia fosse una persona sgradevole da tenersi a fianco. Da quando il
suo corpo perennemente in ritardo nella crescita era finalmente sbocciato,
Dunwich aveva scoperto di avere molta presa sulle donne. Silia era stata rapida
ad acciuffarlo prima che lui potesse approfittarne. Sembrava quasi che aspettasse
quel momento da anni. Un’amante servizievole e brillante, poco fastidiosa e soprattutto capace di stare al suo posto. Non ricordava una sola volta in cui avesse
osato intromettersi in una sua scelta. Una ragazza perfetta.
Ma noiosa.
Dunwich non provava altro che un tenue affetto per lei, ed era discretamente
convinto che lei lo sapesse, e le bastasse. Silia amava la sua carriera lanciata al galoppo verso il successo, sognava già una villa in centro a Cambria, gioielli, ricchezza. Salotti buoni in cui passare tediosi pomeriggi di chiacchiere. O almeno,
Dunwich la vedeva in quel modo. Ma raramente sbagliava a valutare le persone.
Faceva parte del suo mestiere.
«E tu, tesoro? Non hai sonno? Anche tu dovresti riposare. Oggi è un grande
giorno!»
«No, non ho voglia di dormire. Lasciami pensare, per favore.»
«Va bene… va bene» mugolò sconsolata Silia.
103
Aveva avuto quella casa dalle Lance, l’attico di un palazzo storico poco distante dall’accademia militare. Quelle lenzuola di seta, i lussuosi mobili in castagno, la
testiera del letto istoriata e laminata d’oro, erano tutti regali delle Lance, preoccupati di curare il loro pupillo. Una ricchezza di cui Dunwich non sapeva che
farsene. La rendita che le Lance gli passavano ogni mese era cospicua al punto
che anche dopo averne mandato una grossa fetta a casa, avanzava in abbondanza. “A casa… spero siano arrivati gli ultimi scudi d’oro…” si chiese, mentre gli
occhi si perdevano fra le guglie che perforavano il mare dei tetti. Pensare alla sua
famiglia lo gettava sempre in una pericolosa nostalgia, e non era quello il giorno
per cedere ai ricordi.
“Chissà come stanno. Mamma si sarà ripresa? E i ragazzi?” pensò in preda a
un fastidio pungente.
Dunwich era riuscito a vedere Gwern una sola volta dopo la sua nascita, quando lui aveva tre anni. In quell’occasione si era regalato alcuni mesi di viaggio in
solitaria. Ne aveva approfittato per visitare Calhann a Sud, le scogliere bianche a
Est e i boschi del Nord, con una breve tappa a casa che non raccontò a nessuno.
Ma l’ambiente che aveva trovato era stato ben poco piacevole.
Eglade non sembrava in grado di riprendersi dalla gravidanza, e Mordraud lo
odiava. Per quanto si fosse sforzato di parlare con lui, di spiegargli il perché della
sua lontananza, non aveva ottenuto altro che travasi di bile e litigi. Se ne era andato quasi con la coda fra le gambe, con l’ingiusta sensazione di essere in torto
nei loro confronti.
In tutti quegli anni di studio continuo e martellante, non aveva dedicato molto
tempo alla sua famiglia. Ma era il motivo per cui era andato a Cambria, studiare e
diventare qualcuno.
Perché allora avrebbe dovuto sentirsi in colpa?
“Eppure, i miei soldi bastano per mantenerli tutti! Cosa avrei dovuto fare, non
venire mai a Cambria?!” pensò sibilando a denti stretti. L’alba era una coperta di
fuoco rossa distesa sull’immensa città addormentata.
Doveva dare un taglio a quei pensieri. Aveva mandato alcuni ottimi medici a
visitare sua madre, rischiando grosso. Se si fosse saputo in giro che aveva inviato
uomini oltre il fronte, la sua carriera avrebbe subìto un brutto colpo. Proprio ora,
che aveva raggiunto ciò che tanto aveva desiderato.
Quello era il suo giorno, e doveva pensare solo a quello.
L’accademia militare era stata una vera e propria passeggiata. Le lunghe lezioni
di strategia non erano neppur lontanamente paragonabili alla complessità delle
risonanze. Il suo talento aveva brillato anche nel combattimento, e con grande
sorpresa aveva scoperto che usare la spada gli piaceva quasi quanto cantare. Per
ovviare al suo corpo ancora immaturo aveva usato la creatività. Mentre di norma
le aspiranti Lance imparavano a duellare in armatura, a usare lo scudo per difen104
dersi, lui aveva puntato tutto sulla velocità e l’agilità. Aveva abbandonato lo scudo. Invece che parare, schivava o sfruttava l’irruenza dell’avversario per scivolare
dentro la sua guardia. Mancando di vera forza, aveva acuito la mira e la precisione. Già dopo il secondo anno di allenamenti, pochi potevano tenergli testa in
uno scontro. Al terzo anno, nessuno. Compresi diversi insegnanti.
Le lamentele erano montate come una bruma d’invidia. Lui non rispettava alcuna regola, non seguiva l’etichetta. Dunwich aveva le spalle troppo coperte, da
Asaeld e dagli alti gradi delle Lance. Solo per accontentare i maestri accettò, al
terzo anno, di indossare l’armatura. A ventitré anni ne dimostrava sedici, ma i
muscoli e le spalle larghe gli restituivano ciò che il sangue Aelian gli aveva rubato. A ventiquattro anni fu allontanato dagli ultimi di rango e fu assegnato alla
scorta personale di Asaeld. La sua carriera era appena iniziata, dal punto dove
molte altre solitamente finivano.
Suo padre aveva fatto un affare incredibile a puntare sulle sue capacità inespresse.
I ragazzi che aveva frequentato durante l’Arcana si erano dispersi. Ronio continuava a lavorare sulla ricerca pura di risonanze, per scrivere sempre nuovi canti
al servizio dei cori imperiali. Denor stava per completare il suo percorso, e a breve sarebbe entrato in accademia. Puntava ancora a diventare una Lancia, non
doveva mancargli molto. Da quello che sapeva, conviveva con Lisea che aveva
già iniziato a lavorare da un prestigioso erborista della città. Dunwich sorrise,
perché lei non poteva saperlo, ma quel lavoro gliel’aveva trovato lui. Lisea gli era
sempre piaciuta.
«Peccato che non me la sia mai portata a letto…» bisbigliò rattristato.
I suoi compagni fra le Lance l’avevano inizialmente odiato a morte. I primi
tempi l’avevano anche palesato. Poi avevano scoperto che era più salutare temerlo e starsene al proprio posto. A quelli più fastidiosi, Dunwich aveva impartito
qualche lezione di umiltà, svergognandoli di fronte a tutta la camerata in brevi
combattimenti già decisi in partenza. Vittorie su vittorie. Asaeld stesso si era presentato a una di quelle dimostrazioni arroganti, e aveva scherzosamente duellato
con lui alla fine della lezione. Dunwich non aveva sfigurato neppure con il comandante in capo delle Lance Imperiali.
Alla fine, aveva ottenuto ciò che più desiderava.
Il rispetto.
Il clima era cambiato radicalmente. Molti ragazzi che fino all’anno prima inveivano contro di lui avevano preso l’abitudine di girargli intorno, osservandolo e
cercando in ogni modo di guadagnare qualcosa dalla sua presenza. Aveva un
gruppetto di fedelissimi che già assaporavano una buona carriera nelle Lance,
spinta in modo decisivo dal fatto di essere suoi conoscenti. Senza neppure accorgersene si era trovato Silia a casa sua, pronta e servizievole a letto, impacchet105
tata come un regalo nelle coperte. Gente alla porta tutti i giorni che lo aspettava
per camminare insieme a lui. Bigliettini e lettere d’amore da spasimanti anche
molto più adulte di lui. E molto più belle di Silia.
Se a Dunwich fosse interessato qualcosa o qualcuna di loro, avrebbe potuto
passare settimane intere senza mai dormire nello stesso letto. Avrebbe potuto
sposarsi con ragazzine dell’alta nobiltà offerte da padri bramosi del prestigio che
lui poteva promettere loro. Ma, come non gli interessavano i soldi, così non aveva neppure la minima intenzione di prendere moglie, o vivere decine di avventure. Silia era più che sufficiente ad appagarlo, e non era d’intralcio a nulla.
La donna che gli serviva. Almeno fino a quando non sarebbe partito per la
guerra.
E il momento tanto atteso si stava avvicinando sempre di più. Quasi poteva
vederlo, oltre quell’alba rossa che segnava la fine dei suoi studi e della sua attesa.
Quel giorno, Loralon in persona lo avrebbe investito della carica di Lancia Imperiale, di fronte a tutto il battaglione schierato e addobbato a cerimonia. Avrebbe ricevuto l’armatura nera e d’oro dell’ordine, il mantello nero e la spada istoriata delle Lance. Asaeld ci sarebbe stato, come sempre. La figura che lo aveva protetto con la sua ombra per tutto quel tempo. Una presenza costante e sfuggente
allo stesso tempo. Dunwich era stato già informato che in autunno si sarebbe
presentata l’opportunità di partire per il fronte. Magari avrebbe trovato il tempo
per un breve saluto a casa. Magari.
Poi, la guerra.
«Chi riuscirà a sconfiggere Eldain, verrà trattato alla pari di un Dio» esclamò
Dunwich, sorridendo mentre citava le parole stesse dell’Imperatore Loralon.
«Mi hai chiamato, amore? È già ora di andare?» mormorò Silia, alzandosi a sedere sul letto. Il lenzuolo le scivolò giù fino alle gambe, scoprendole il seno piccolo ma tondo, la curva dei fianchi, le cosce nude. Era dimagrita. Anche lei stava
combattendo la sua guerra, pensò. In lotta con tutti quelli che volevano stargli
vicino, con pochi mezzi ma con molta dedizione.
«No, ancora no» sussurrò chinandosi verso di lei. L’alba bagnava di luce cremisi i preziosi mobili laccati e la pelle della ragazza. Un anello pacchiano scintillò
sul comodino. «Abbiamo ancora un po’ di tempo… e ho cambiato idea.»
«Ah sì?!» esclamò Silia mentre allungava una mano verso di lui. «Stupendo…»
Quello era il suo giorno.
106
IX
«Stai fermo, maledetto… non rendere le cose più difficili…»
Lo scoiattolo tremava come un appestato e gli mordicchiava le dita nel disperato tentativo di salvarsi. Mordraud avrebbe voluto evitare, più per suo fratello che
per sé. A Gwern gli scoiattoli piacevano da morire, e se avesse saputo che la cena
di quella sera sarebbe stata proprio uno di quei batuffoli di pelo marrone, si sarebbe rifiutato di mangiare. Cosa che non poteva permettersi assolutamente di
fare.
Mordraud aveva sbagliato tutti i conti. Fidandosi solo del suo senso
dell’orientamento, aveva tagliato attraverso i boschi nella speranza di raggiungere
Eld nel minor tempo possibile, evitando i sentieri e i villaggi. Non poteva sapere
di preciso dove si stavano svolgendo gli scontri fra Cambria e i ribelli, e neppure
quali fossero i villaggi amici e quelli ostili. Sapeva di essere in territorio di conflitto, ma non aveva idea di quanto fossero realmente al sicuro. Sempre che esistessero veramente posti amici per lui e suo fratello. Dai resti della loro casa aveva
raccattato qualche coperta, vestiti di ricambio per due, un acciarino, alcuni coltelli e un pentolino di rame, oltre ai pochi soldi che era riuscito a trovare. “Quel bastardo se lì è bevuti tutti” pensò mordendosi rabbiosamente le labbra.
«Hai capito o no?! Stai fermo!»
Mordraud razzolò con la mano libera nel fondo della sacca alla ricerca di
un’arma adatta. Il temperino che portava in tasca era troppo piccolo e spuntato
per uccidere quella bestiola. Almeno senza farle troppo male.
«Fosse per me, ti avrei già squartato con un sasso…» sussurrò alla palla di pelo.
«Lo faccio solo per Gwern. Hai capito?»
107
Non era vero. Anche a lui gli scoiattoli piacevano, e aveva il voltastomaco
all’idea di ammazzarne uno, ma Gwern non poteva più mangiare soltanto qualche frutto selvatico e un pugno di patate rinsecchite e mosce. Quello che gli serviva era un bel pezzo di carne fresca scottato sul fuoco.
«Tu non sei di certo grosso… due o tre morsi in tutto… magari non basti
neppure.»
Mordraud era sicuro che lo scoiattolo lo stesse guardando dritto negli occhi,
implorandogli pietà. Sentiva il suo minuscolo cuore battergli fuori controllo dentro il pugno chiuso. Due o tre morsi in tutto. Un mucchietto inutile di pelle e ossa.
«Bah, levati di mezzo. Essere inutile che non sei altro.»
Appena la sua mano si aprì l’animaletto schizzò via, sparendo nel tronco alle
sue spalle. Mordraud si alzò imprecando e aggiunse qualche rametto secco al
fuoco che aveva acceso per tenere Gwern al caldo. Suo fratello dormiva vicino ai
resti dei ciocchi bruciati, muovendosi tormentato sotto la coperta pesante. Era
una sera fresca, non abbastanza da dover accendere il focolare, ma Gwern aveva
sempre freddo. Un gelo che saliva dalle ossa e dai nervi.
“Che idiota che sono… e adesso? Cosa gli do da mangiare?” pensò guardandosi smarrito intorno. “Mi dispiace, ho cambiato idea… non avertene a male…”
Mordraud scrutò fra i rami e saltò aggrappandosi a quello più basso. Era stato
un suo passatempo da bambino, scalare tutti gli alberi che gli capitavano a tiro e
guardare tutto dall’alto.
“Tanto ho visto che andavi di qua… sono uno specialista nella caccia allo
scoiattolo.”
Mordraud salì ancora più in alto, avanzando sospeso sulle mani fin quasi a raggiungere la chioma del grosso castagno selvatico lì vicino. Per un istante vide la
coda pelosa della sua preda spuntare da dietro il tronco, e accelerò per trovare un
punto in cui saltare a cavalcioni sul ramo.
“Ci sono quasi…”
Sentì di aver sfiorato qualcosa con le dita aggrappate al legno. Si tirò su per vedere. Era un nido di chissà quale uccello, con quattro grosse uova marroni avviluppate nella paglia secca. Mordraud ci pensò finché le dita non gli fecero male.
Con la coda dell’occhio si accorse che lo scoiattolo lo stava fissando da un ramo
più alto, pronto a fuggire di nuovo.
“La mamma diceva sempre che se non c’era la carne, le uova andavano più che
bene…”
***
108
Finalmente il pentolino di rame era pieno. Con la punta di un coltello
Mordraud sbatté le uova aspettandosi di trovare un pulcino, ma la fortuna era
dalla sua parte. Grottesco da dire, pensò ridacchiando. Le ultime patate mosce
tagliate a dadini e abbrustolite completarono la ricetta.
«Gwern, svegliati… devi mangiare qualcosa, non ti fa bene dormire sempre»
bisbigliò Mordraud scuotendo lentamente il fratello.
«Mh… cosa c’è per cena? Patate?» chiese debolmente Gwern.
«No, molto meglio!»
Gwern si mise a sedere e si stiracchiò le braccia dietro la schiena. Era magro
come uno spettro, e molto più pallido.
«L’odore sembra buono…»
«Certo che è buono, e non hai ancora sentito il sapore!» esclamò Mordraud tutto pimpante. «Queste sono le Patate alla Mordraud! Non c’è paragone con le solite patate!»
«Patate alla Mordraud?!»
Annusando profondamente come un cuoco di fronte a una zuppa prelibata,
Mordraud rimescolò per l’ultima volta la sua creazione e allungò il pentolino al
fratello, tenendone per sé solo una cucchiaiata. Gwern si stropicciò gli occhi e
con la punta del coltello assaggiò il pastone.
«Proprio buono! Bravo fratello!» disse lui annuendo con grande convinzione.
«Perché non mi hai mai detto di avere una ricetta tutta tua?»
Mordraud guardò soddisfatto Gwern mangiare di gusto le sue uova, e assaggiò
la scodellata che aveva tenuto per sé.
Faceva schifo. Incredibilmente schifo.
«Beh… era un segreto…» rispose Mordraud deglutendo a fatica «e forse era
meglio se restava un segreto…»
«Ma che dici?! Sono ottime. Grazie, fratello.»
Gwern non avrebbe mai ammesso che quella poltiglia era immangiabile.
L’aveva fatta lui. E non sapeva neppure che uno scoiattolo, quella notte, sarebbe
tornato vivo a casa.
«Di niente, Gwern.»
Mordraud lo lasciò mangiare in pace, e approfittò del momento per raccogliere
altra legna fra i rametti caduti dal castagno che li accoglieva sotto le sue fronde.
«Quanto manca, secondo te?»
«Poco, pochissimo. Magari già domani vedremo Eld e le sue mura… alla peggio fra due giorni.»
Era la stessa cosa che aveva detto il giorno prima. E forse anche quello più indietro.
«Che bello! Non vedo l’ora di arrivare! Ci pensi, Mordraud? Un castello… vero!»
109
«Già… un vero, grosso e inespugnabile castello…» rispose lui cercando di non
mostrare l’ansia che provava. Un grande castello. Grandi pericoli. E una grande
guerra.
Un colpo di tosse interruppe la loro conversazione. Gwern aveva appena finito
di mangiare quando sopraggiunse uno dei suoi attacchi. Mordraud prese una coperta e lo afferrò prima che cadesse all’indietro, rischiando di sbattere la testa
contro il suolo duro e spoglio. Le crisi erano diventate talmente improvvise e devastanti che non poteva distrarsi neppure un momento.
«Manca poco. Pochissimo» sussurrò al fratello tremante. «Magari già domani…»
***
La mattina non portò con sé alcun castello, così anche il giorno dopo, e quello
dopo ancora. Mordraud aumentò il passo orientandosi con il sole e i profili dei
monti, risvegliando controvoglia le storie di suo padre su Eld e sulla resistenza
dei ribelli all’impero.
«Il castello è oltre il castagneto, dopo una valle stretta fra un nugolo di colline
basse e brulle, dove i pastori della zona portano le pecore al pascolo» gli aveva
detto in una rara occasione in cui gli aveva rivolto la parola. Era ancora l’epoca in
cui Varno aveva mostrato qualche interesse per lui, e ogni tanto gli aveva parlato
della fatica e dei pericoli della vita di un mercenario. Anni così lontani che non
sentiva più neppure suoi, immagini sbiadite e irreali.
«Ecco le colline, le vedi? Laggiù Gwern…»
Mordraud le indicò al fratello che ciondolava aggrappato alle sue spalle. Erano
già passati dieci giorni da quando erano partiti dalla loro vecchia casa, e Gwern
ormai non era più in grado di tenere il passo. Le strade collinari lo avevano
sfiancato.
«Sì, ci sono anche le pecore… come mi avevi detto…» rispose lui con voce
flebile. Si era addormentato di nuovo, ma a Mordraud quel sonno piaceva ben
poco. Gwern sembrava svenire di continuo, senza riposare mai. Era questione di
giorni. Doveva sbrigarsi a tutti i costi.
La vallata era una lingua di terra lunga e stretta che si scioglieva fra i morbidi
pendii delle colline, ricoperta di campi coltivati e di piccoli gruppi di fattorie.
Mordraud tirò un sospiro di sollievo. La guerra non era ancora giunta fin lì, lasciando la gente della valle libera di vivere in un fragile limbo di serenità. Affrontare le colline gli avrebbe permesso di accorciare di molto la strada verso Eld,
evitando allo stesso tempo la via principale, costellata di carri carichi e di viandanti. Quando sopraggiunse la sera, i due fratelli si accamparono ai lati della strada, oltre il fosso che costeggiava un campo di granturco, e dormirono senza ac110
cendere il fuoco. La notte era buia e senza luna. Gwern si agitò molto, mugolava
di sentire un gran freddo salire dal terreno secco e duro su cui si erano sdraiati, e
neppure tutte le coperte che avevano portato con loro sembravano sufficienti a
dargli un po’ di tepore.
Quando l’alba spuntò oltre le colline, Gwern aveva la fronte in fiamme.
«Maledizione, non ci voleva…» imprecò Mordraud tastando il volto arrossato
e contratto del fratello. «E adesso? Come faccio a portarti oltre le colline?»
«Andiamo lo stesso, mi basta riposare qualche ora… poi possiamo partire…»
mormorò Gwern cercando di sembrare convincente. I suoi occhi dicevano
l’esatto contrario. In quelle condizioni non poteva restare in mezzo a un campo,
o sarebbe morto prima di sera.
«No, dobbiamo chiedere aiuto a qualcuno. Dannazione, non volevo farlo…»
Mordraud dovette abbandonare tutti i suoi propositi. Sin dal primo giorno
aveva evitato ogni possibile contatto con altri uomini, spinto dalla paura di cadere nelle mani sbagliate. Per un ragazzino e un bambino malandato era pericoloso
andare a spasso da soli nelle terre contese dalla guerra, o almeno così credeva
Mordraud. La verità era che lui non si fidava di nessuno. Se non di se stesso.
«Vieni, proviamo in quella fattoria. Magari ci lasciano dormire nel fienile, e con
qualche moneta potrei farmi vendere una fetta di carne fresca…» disse mentre si
caricava in schiena il fratello. La tenuta agricola era poco distante. Quando la
raggiunsero, Mordraud vide che l’aia era animata da un piccolo mercatino.
«È pieno di gente! Aspetta Gwern… magari potremmo tentare alla prossima…»
«Fratello, mi dispiace.»
Mordraud capì senza bisogno di sentire altro. Gwern non lo avrebbe mai contestato, e lo avrebbe seguito ovunque lui avesse deciso di andare. Quelle scuse
significavano molto di più. Gwern sentiva di essere ormai giunto in fondo.
«Va bene, tentiamo.»
Tre carrozze e diversi cavalli sciolti aspettavano i loro padroni, impegnati negli
acquisti con i proprietari dei raccolti. Su alcuni lunghi tavoli coperti con bianche
tovaglie decorate di rosso, erano disposte le grandi cassette di legno cariche di
cibo fresco. Verdure, frutta di stagione, salumi e insaccati imperlati di pepe. Un
paio di uomini stavano bevendo vino vicino a una grossa damigiana di vetro scuro avvolta nella paglia. Le donne invece tastavano e annusavano i prodotti, discutendo animatamente con i contadini a caccia del miglior prezzo. Mordraud non
sapeva cosa fare. Gwern pendeva dalle sue spalle in malo modo, e il suo respiro
raschiante gli bruciava la faccia. Era un’occasione speciale. In tutta la sua vita
Mordraud non aveva mai visto così tante persone assiepate intorno a lui.
«Ehi piccolo, tutto a posto?»
111
Un uomo barbuto e grasso gli fece cenno di avvicinarsi al suo banco. Vendeva
prosciutti stagionati e pancetta affumicata. Il suo grembiule bianco era imbrattato in modo osceno da strati di sangue vecchio. Mordraud non era più un ragazzino, aveva diciassette anni ormai, ma il suo corpo ne dimostrava cinque o sei in
meno. Non gli piaceva affatto essere trattato come un bambino. Ma non era il
momento per prendersela a male.
«Mio fratello… non sta bene» rispose schiarendosi la gola. Gwern divenne ad
un tratto insopportabilmente pesante.
«Cos’è successo? La tua mamma è qui per fare la spesa?» continuò lui. Stava
spaccando le ultime ossa per il brodo. Usava un coltello piuttosto inquietante.
Mordraud si guardò intorno, chiedendosi se fosse il caso di fingere.
«No, siamo da soli…»
«Fammi vedere» disse il macellaio chinandosi al suo fianco. Con la mano sporca di grasso di maiale gli tastò la fronte, e senza alcuno sforzo lo sollevò dalle sue
spalle per guardarlo meglio. Gwern si sentì improvvisamente molto peggio, e
sbiancò in faccia. L’uomo si tirò indietro appena in tempo. Un fiotto di vomito
gli sfiorò il petto.
«Per gli Dei! Cos’ha mangiato questo bambino?!»
Mordraud ripensò alla cena del giorno prima. Aveva finito le sue scorte, e non
aveva trovato di meglio che un pugno di funghi mosci ma familiari. Sua madre li
aveva cucinati spesso per loro due.
«Funghi. Di quelli bianchi e grigi, con il cappello largo.»
«E tu?! Li hai mangiati anche tu?» gli urlò in modo sgarbato. Tutti i presenti si
erano zittiti e si erano voltati per vedere la scena.
«No… li ho lasciati a lui, erano troppo pochi per due persone…»
«Scommetto che questa è una intossicazione! LAROIS!» urlò il macellaio.
«Dove sei?! LAROIS!»
«Cosa c’è Brenno? Che succede?!» chiese un contadino che si era avvicinato a
loro con in mano una tazza di legno colma di vino. «Chi sono questi due marmocchi?»
«E che ne so?! Me li sono trovati davanti, il piccolo è mezzo morto!» rispose il
macellaio che doveva chiamarsi Brenno.
«Sta così male?» mugugnò disperato Mordraud, maledicendosi per quell’idea
disgraziata dei funghi.
«Male?! Se non gli danno qualcosa, ci lascia la pelle prima di sera!»
Mordraud barcollò stordito. Fra la piccola folla che si era creata intorno a loro
sbucò una donna di mezza età, bassa e tozza, con la faccia a fuoco per un paio di
bicchieri di troppo. Aveva i capelli arruffati come stoppa grigia.
112
«Arrivo Brenno, che hai da urlare come un pazzo?» esclamò con apprensione.
«E chi sono questi due bambini? Sono i figli di qualche contadino? Non li ho mai
visti prima.»
«Non lo so, non lo so!» ripeté l’uomo scuotendo come un sacco Gwern. «Piuttosto, guarda qua! Il piccolo sta davvero male!»
«E cosa ha fatto? Mettilo giù, razza di bestia che non sei altro!» esclamò la
donna, prendendo subito Gwern in braccio. Con dita agili ed esperte gli toccò la
fronte e il collo, sollevò una palpebra e gli tastò la pancia.
«È gonfia e brontola. Cos’ha mangiato?»
«Funghi. Forse il Cappello del Matto» rispose il macellaio.
«Oh, no! Ci vuole dell’acqua calda, del finocchio selvatico e un pugno di semi
di lino… vai, datti una mossa!»
Tutti gli uomini e le donne del piccolo mercato improvvisato si attivarono per
soddisfare le richieste della donna. Mordraud aspettava in silenzio vicino al fratello agonizzante. Ciondolava incapace di capire e rispondere alle domande che
Larois gli rivolgeva.
«Da dove venite? Dove sono i vostri genitori?»
«Siete profughi? Vi hanno attaccato sulla via Nord?»
«Figliolo, rispondimi! Tuo fratello soffre di qualche brutta malattia?»
Mordraud riusciva solo ad annuire, troppo disperato per poter ragionare e inventarsi qualche scusa plausibile. Non poteva certo dire che sua madre era una
Aelian, suo padre era morto, e che lo Sconosciuto aveva preso il suo posto.
«Per gli Dei, non vedi che tuo fratello sta male? Avanti, svegliati!» gli urlò in
faccia la donna prendendolo a schiaffi con abbastanza forza da farlo dondolare.
«Da cosa scappavate? Dove stavate andando?»
«Andiamo… andiamo a Eld» balbettò Mordraud, fissandola con occhi vacui.
Gli tremava in modo pietoso il braccio sinistro.
«C’è qualcuno laggiù che vi aspetta?»
«No, siamo… siamo…»
Arrivarono i primi ingredienti, e subito Larois prese ad amalgamare i semi di
lino nell’acqua bollente, mescolandoli direttamente con la mano. La sua pelle era
rossa, resistente come il cuoio vecchio.
«Siete soli?»
«Sì.»
Gwern gemeva e si contorceva come se qualcuno stesse rimestando nelle sue
budella con una lama. Larois lo spogliò per raggiungere il ventre, stese un velo di
semi caldi strizzati e maciullati, e con l’acqua rimasta spappolò il finocchio fra le
dita. Mordraud si perse il resto. Si muoveva troppo velocemente per i suoi occhi
dispersi. Larois ottenne una pasta puzzolente, che gli spalmò dentro le narici e
sulla lingua.
113
«Anche mio figlio una volta ha rischiato di morire per un pugno di funghi cresciuti nel posto sbagliato…»
Mordraud riprese a respirare solo quando sentì il suo braccio non tremare più,
e vide il volto di Gwern rilassarsi. Il rimedio della vecchia signora sembrava funzionare.
«Ora sta bene?!»
«Per ora sì, ma c’è bisogno di un paio di decotti che conosco, per esserne sicuri. Ora li preparo, dovrei avere qualcosa sul carretto.»
«Ma… davvero poteva morire?»
Larois strofinò con poca grazia la mano sulla spalla di Mordraud, una via di
mezzo fra una carezza e una strofinata a un cane. «No, di solito si passano giorni
sulla latrina, ma non si muore. La prossima volta stai attento, il Cappello del
Matto è molto simile al fungo di prato. Però tuo fratello sembra proprio debole.
È malato?»
«No, cioè… sì… ma da quando è nato» rispose Mordraud sopportando con la
pelle d’oca il contatto di quella mano sconosciuta. «È sempre stato molto debole.»
«E perché tu lo stai portando in giro per i boschi? Non avete una casa?»
«No» esclamò d’impeto. «Non più, ormai.»
«Capisco…» mormorò la donna. «E tu volevi raggiungere Eld, ho capito bene?
Perché?»
Il macellaio che aveva soccorso per primo Gwern imprecò con una sfilza di
bestemmie mostruosamente plausibili.
«Orfani di guerra, è sempre la stessa storia! Maledetta Cambria, sono tutti dei
cani bastardi!»
«Speravo di trovare un lavoro al feudo, ho un corpo robusto, e sono pronto a
fare qualsiasi cosa…» rispose Mordraud cercando di farsi sentire dalla donna sopra la cascata di invettive di Brenno.
«Allora vi accompagno io a Eld. Abito là, e ho un carro. Magari… forse un lavoro si può trovare. Sei pronto a tutto?»
Mordraud si raddrizzò e cercò di sembrare sicuro di sé. La signora rise e annuì
convinta. Negli occhi, una luce di affetto involontario.
«Sì…» esclamò ridacchiando Larois. «Penso che tu possa essere d’aiuto, al feudo e ai ribelli.»
Mordraud urlò di gioia dentro di sé. Forse stava passando oltre il crinale. Era
già sulla strada per Eld e il suo esercito. E con la guerra sarebbero arrivati i soldi,
il rispetto, e tante, tante occasioni per sfogare la sua rabbia.
Il fremito al braccio ebbe un ultimo sussulto poco rassicurante, e si placò del
tutto.
114
***
Viaggiare in carro era divertente. Le ruote filavano cigolando sulla strada sterrata, i barili scricchiolavano ondeggiando nella cassa scoperta. Gwern stava decisamente meglio dopo l’intervento di Larois, forse addirittura meglio di prima della crisi. Il suo sonno era tornato regolare e pesante, tanto che Mordraud arrivò a
invidiarlo. Erano anni che lui soffriva di insonnia, un malessere strisciante che
non gli dava mai tregua, neppure quando era stanco morto. La valle scivolò via
alle loro spalle. La strada ritornò a puntare verso Sud. Di notte dormivano dentro il carro scoperto, nascondendosi nella prima macchia di alberi che incontravano.
«Quanto manca?»
«Non molto, forse prima di sera vedremo le mura.»
«Siamo così vicini?!» esclamò Mordraud stupito. Era seduto a fianco di Larois
mentre Gwern dormiva sopra un sacco di cipolle alle loro spalle. Erano a metà
del terzo giorno di viaggio. «Pensavo che la valle fosse più lontana… sembra che
qui la guerra non esista.»
«E secondo te perché?»
La domanda lo spiazzò completamente. In realtà, sulla guerra sapeva solo ciò
che suo padre gli aveva raccontato, quando ancora avevano un rapporto. Cariche
di cavalleria, selve di lance e spade che si incrociavano, nubi assassine di frecce.
Ma nulla su cosa accadesse alla gente comune.
«Forse Cambria si concentra in altre zone… oppure non è interessata a questa
minuscola valle mezza disabitata.»
«Si vede che sei nato nei boschi, figliolo» ridacchiò Larois amaramente. «È grazie a Eldain che l’impero non è ancora riuscito a mettere le mani su questa minuscola valle, come la chiami tu. Gli scontri a Ovest di qui sono fra i più violenti
del fronte.»
«E perché?! Che senso ha?»
«Ma che domande fai? Pure una donna come me si intende di certe cose!»
Mordraud arrossì, ma non mollò la presa. Da qualche parte doveva pur iniziare
a imparare.
«Se l’esercito imperiale riuscisse a penetrare attraverso la valle, sarebbe protetto
a Nord e Sud dalle colline. In breve tempo riuscirebbe ad attaccare i feudi alle
spalle di Eld, i membri della confederazione ribelle. Sarebbe la fine, immediata e
senza speranza!»
«Giusto, non ci avevo pensato…» mormorò eccitato da quel ragionamento
strategico. «Quindi la valle è fondamentale per Eld, come tutte le altre barriere
naturali del territorio! Ma certo, che stupido a non arrivarci da solo…»
115
«Non dovresti parlare così della guerra. È un argomento molto brutto per un
bambino.»
«Così… come?!»
«Tu sorridi mentre pensi a difese naturali, barriere, strategie… muoiono un
mucchio di persone innocenti per attuare quei piani, lo sai questo?» sbottò Larois
scuotendo la testa con disappunto. «Sembri mio figlio, quando sentiva parlare di
guerrieri e di battaglie…»
«Avete un figlio?»
«Ce l’avevo.»
«E cos’è successo?» chiese Mordraud senza soffermarsi a riflettere.
«È morto in guerra.»
«Ah…» fu l’unica cosa che riuscì a dire.
«Ha voluto seguire suo padre in battaglia, quando Eldain richiamò tutti gli uomini dei feudi per difendere un confine che si stava sfaldando. Proprio qui a
Ovest, pensa. Ormai saranno passati dieci anni. Era poco più grande di te, gli
stava largo anche l’elmo, gli traballava in testa come una scodella per il minestrone…»
«E il padre?» chiese Mordraud.
«Morto anche lui.»
«Miseria, mi dispiace…»
«E di cosa?!» sbottò Larois.
«Ma… ecco…»
«Se l’è cercata, quello stupido di Nardic. Almeno è morto prima di veder cadere anche il mio piccolo Nardo… pensa, avevo anche accettato quella sua stupida
fissazione per il nome… voleva a tutti i costi il nome di suo figlio portasse impressa la radice della sua famiglia, come i nobili, come Eldain! Che stupido idiota.»
«Ma non era… tuo marito?!» chiese stupefatto Mordraud.
«Sì, ma era anche un idiota. Nardo lo seguiva come un idolo. E così sono morti insieme.»
«Qui vicino?»
«Sì, per difendere l’accesso alla valle. Almeno ce l’hanno fatta. Maledetta guerra
della malora.»
«Ma è giusto che Eldain si opponga a Cambria…»
«Giusto un cavolo! Giusto o sbagliato sono concetti fini, fumosi…» esclamò
Larois battendo la mano sull’asse del carro. Gwern si voltò masticando il vuoto.
«Cosa c’è, fratello?»
«Niente, torna a dormire tranquillo. Manca poco ormai. Pochissimo.»
«Che bello…» mormorò lui rigirandosi sul materasso improvvisato.
116
«Eldain cerca di difendere le nostre terre, dovrei essergli grata… ma faccio
molta fatica.»
Mordraud si agitò sulla panca al pensiero che lui invece si sarebbe gettato nella
mischia molto volentieri, e il prima possibile. Da bambino aveva disprezzato la
guerra, perché era stata la causa della lontananza perenne del padre. Prima però
delle bastonate e degli schiaffoni.
Prima di quel maledetto tremore al braccio.
Suo fratello stava facendo carriera dopo averli abbandonati, proprio a Cambria,
la città che stava soffocando tutto l’Est in una guerra infinita. Larois aveva ragione? Mordraud scacciò il dubbio senza esitare. Era facile credere nelle semplici
convinzioni in cui si era rinchiuso. Per dare sfogo alla rabbia che lo stava logorando, non poteva fare altro che azzannare e graffiare, come una bestia incattivita dal padrone. I colpevoli dovevano morire. Suo padre era stato il primo.
Dunwich sarebbe stato il prossimo.
«… ma mi stai a sentire?!»
La voce di Larois lo riportò indietro nella realtà. Mordraud si guardò intorno
spaesato, cercando di ricordare dove fosse.
«Ti ho detto che fra poco ci accampiamo. Devo sgranchirmi un po’ la schiena,
non ne posso più.»
«Ma che tipo di lavoro avresti da dare a me e mio fratello?»
«Vedrai. Passerai molto tempo con i soldati, e mi par di capire che la cosa non
ti dispiaccia.»
Ottimo, pensò Mordraud. Scudiero, stalliere. Più o meno, si disse. Andava bene qualsiasi lavoro in merito.
«Sono impaziente di iniziare!»
«Bene. È lo spirito giusto» rispose Larois «ecco, te l’avevo detto. Prima di sera
siamo a casa. Guarda!»
Mordraud seguì il braccio teso di Larois fino a incontrare la sagoma velata della
più grande costruzione che lui avesse mai visto. Dieci, cento volte più grande di
casa sua, alta fino in cielo, pesava su una collina schiacciandole la punta. La fortezza di Eld. Il cuore dei ribelli contro l’impero di Cambria.
«Fratello, svegliati! Guarda laggiù!»
«Dove?! Ah…» Gwern restò a bocca aperta, ancora mezzo addormentato. «Un
castello vero! Non pensavo che fossero così… giganti.»
«Ma dove avete vissuto finora voi due?!» rise Larois piegandosi sulla panca del
carretto.
«Quelle sono solo le mura… se già vi sembrano assurde… dovreste vedere
Cambria.»
Nessuno dei due ragazzi prestò attenzione a ciò che lei diceva. Persi nella contemplazione, erano caduti in un sogno a occhi aperti.
117
Il chiasso, i bambini e i giochi per Gwern.
Le possibilità, le ambizioni e la vendetta, per Mordraud.
118
X
«Ragazzo! Quaggiù c’è bisogno di te!»
Il guerriero tossiva e rantolava stringendosi il petto con una mano. Il chiasso
tutt’intorno era insopportabile, una tempesta di voci e grida che vibravano
nell’aria insieme al suono del metallo che cozzava contro altro metallo.
«Datti una mossa, ragazzo! In fretta!»
Mordraud schivò due tizi accasciati in terra, ed evitò il braccio teso che voleva
acciuffarlo. Muoversi era quasi impossibile in mezzo a quella calca. Finalmente
riuscì a raggiungere il guerriero, che senza ringraziare afferrò il balsamo che aveva faticosamente portato sano e salvo in mezzo alla bolgia.
«Ohhh… maledetto osso di pollo!» sbraitò lui picchiando sul tavolaccio il boccale di birra subito svuotato. «Stavo per soffocare! Grazie ragazzo. Sei stato svelto.»
La taverna era più affollata di un campo di battaglia. I bicchieri di peltro si
svuotavano a velocità allucinante. La cucina non riusciva a stare dietro alle richieste del famoso stufato di pollo e cipolle della casa. Mordraud si asciugò la fronte
con la manica ormai fradicia della camicia e aiutò un paio di soldati a risollevarsi
sulle panche. Gli ubriachi non si contavano. Trovare un uomo sobrio era
un’impresa impossibile.
«Mordraud, un altro vassoio!»
Gwern spuntò dalla cucina reggendo a malapena un enorme piatto di legno
stracolmo di ciotole. Un altro giro di stufato e boccali di birra. Larois si vantava
molto di quelle ciotole. Le intagliava lei stessa nel pane raffermo. La cosa scon119
certante era che le riutilizzava di continuo, lasciandole asciugare qualche ora al
sole dopo averle soltanto sciacquate.
«Ma nessuno si lamenta? È pur sempre pane… si inzuppa…» le aveva chiesto
Mordraud un giorno, mentre guardava vagamente disgustato la donna raschiare
le ciotole con una raspetta di ferro.
«I nostri clienti non sono molto raffinati» gli aveva risposto lei ridacchiando.
«Si fanno sei mesi al fronte, mangiare nello stesso piatto è l’ultimo dei loro problemi.»
Mordraud prese il vassoio dalle braccia del fratello e ricominciò il terribile giro
di ronda. La zuppa era rovente, lo sciabordio gli scottava le dita mescolandosi
con la birra fredda. Aveva di fronte un’altra, l’ennesima, giornata molto lunga.
Larois l’aveva ingannato, ma solo in parte. Aveva promesso un lavoro a lui e a
suo fratello, e un posto dove stare temporaneamente. Li aveva accolti in una piccola camera in casa sua, che sorgeva proprio a ridosso dell’unica, grande taverna
del feudo di Eldain. Gli aveva detto che avrebbe visto spesso i soldati, e che
avrebbe lavorato per loro. Tutto vero. Ma Mordraud non si aspettava di dover
fare lo sguattero in una locanda. Aveva sognato di servire un cavaliere, o di aiutare i ribelli al fronte anche solo scavando, portando acqua, o mille altre cose assai
più vicine al suo obiettivo.
«Ma perché ti lamenti?» gli rispondeva sempre la donna. «Non ti avevo detto
che avresti aiutato i soldati? Ecco come li aiuti! Portando loro da bere!»
Larois era la proprietaria della taverna, un grande salone con le pareti di legno
ammassate di cianfrusaglie appese a caso, piatti decorati, attrezzi da contadino,
lance e spade trafugate in guerra. L’aveva ereditata dal marito, che un tempo lavorava insieme a lei. Non se l’era sentita di chiuderla, dato che era l’unico svago
per gli uomini di ritorno dal fronte, e così aveva tirato avanti da sola per anni.
Finché non aveva trovato due nuovi aiutanti.
Mordraud serviva ai tavoli mentre Gwern le dava una mano in cucina. Troppo
piccolo per stare ai fuochi, troppo debole per caricare le provviste dalla cantina,
si impegnava al massimo per renderle il lavoro più agevole, e Larois era ben felice di avere un bambino intorno che le facesse compagnia. Con lei vicino, Gwern
sembrava stare molto meglio. Le crisi erano meno frequenti. Aveva ritrovato il
sorriso e un pizzico di vigore.
Il lavoro nella taverna andava e veniva a ondate, seguendo il ritmo dei rientri
dei soldati dal fronte. Mordraud approfittava dei giorni tranquilli per girovagare
lungo le vie del feudo, o per allenarsi da solo nel retro della casa dove Larois curava un orto rigoglioso. Il paese era molto più piccolo di come gli era parso la
prima volta. Un borgo stretto fra le imponenti mura di cinta perennemente sorvegliate dalle vedette, e il castello di Eldain. Botteghe, negozi, fucine e stalle, tutto era stipato dentro l’anello di pietra. Le case erano accostate alle mura una in
120
fila all’altra, piccole ma desolatamente sufficienti per le magre famiglie che vi abitavano. Eld stava pagando salato il conto di una guerra che non accennava a calare di intensità. Tutti in città avevano perso qualcuno, padre, marito o figlio che
fossero, e spesso più di uno. I campi erano coltivati dalle donne e dagli anziani,
sorvegliati a vista dalle guardie per paura delle incursioni dei briganti. In tanti
non avevano abbandonato le proprie fattorie, esponendosi così a pericoli continui, ma la gente di Eld era dura, poco avvezza al compromesso. Non era intenzionata a cedere neppure un palmo di ciò che era loro per diritto secolare.
Mordraud era stupito di quanta gente potesse vivere tanto vicino. A volte,
quando camminava a passo svelto davanti alle botteghe, dove le donne si radunavano per comprare quel poco di cibo che ancora arrivava al feudo, sentiva il
bisogno irresistibile di fuggire in vicoli più tranquilli. La folla lo terrorizzava.
Gwern invece sembrava trovarsi a suo agio fra tutti quegli adulti, che con lui si
dimostravano sempre gentili. Un pezzo di pane, un paio di fette di prosciutto salato, addirittura qualche frutto di stagione. Aveva sempre qualcosa in mano
quando tornava in locanda per iniziare a lavorare. La sera dormivano insieme,
stremati dal ritmo frenetico della giornata, e si raccontavano a vicenda cosa avevano visto di interessante. Gwern vinceva sempre, e se Mordraud non lo avesse
fermato, avrebbe potuto continuare per tutta la notte.
«C’è quel macellaio, hai presente? Magro e smilzo, con gli occhi fuori dalla faccia… è così perché andava a donnacce. Lo diceva una signora davanti al banco
del pane del fornaio… hai presente? Quello grosso e sempre rosso sul collo…
beve tutto il giorno, ma è un brav’uomo. La moglie lo racconta sempre alle amiche. Fra loro ce n’è una… bionda, bassa… si vede spesso in piazza…»
Mordraud annuiva, cercando di non perdere il filo del discorso. Impossibile.
Suo fratello era peggio di una zitella. Ascoltava, parlava con tutti, passava il suo
tempo in mezzo alla gente di Eld. Era un altro, da quando erano arrivati al feudo. Gwern stava crescendo nel luogo giusto.
«Mi stai ascoltando? Allora, devi stare attento… l’intreccio si fa contorto.
L’amica della moglie del fornaio, pensa… ha una tresca con un fante
dell’esercito, che è molto, ma molto… più giovane! Se la fanno di nascosto dietro le stalle a Sud delle mura. Non è incredibile?!»
«Mh… cosa?»
«Beh, è più giovane di lei! Immagino che sia come, ecco…» Gwern bisbigliò
per non essere sentito da nessuno «…è come se Larois se la facesse con te!»
«Fratello, sai cosa vuole dire se la fa, non se la fa?»
Gwern ci pensò su, e Mordraud ridacchiò sospirando.
«Vuole dire che si baciano, che si toccano, insomma… fanno certe cose…»
«QUELLO?!»
«Già.»
121
Mordraud ebbe la netta sensazione di avergli svelato il più grande segreto del
mondo. A volte dimenticava che suo fratello aveva dieci anni meno di lui, e che
fosse ancora poco più che un bambino.
«Non ci credo.»
«Guarda, domani vai da Larois e dille: io voglio farmela con te.»
Gwern scosse la testa sconcertato. «Ma cosa dici?! È vecchia!»
«Beh, tu hai detto che io me la faccio con lei… allora fattela tu, che ne dici?»
«Ma io non lo sapevo! No no! Tu non te la fai con lei, sono sicuro… e smettiamola di dire questa cosa, ormai mi esce dalla bocca anche senza volere!»
«Va bene… allora, dov’eri rimasto?»
Gwern riattaccò a raccontare. Quanto tempo era passato dalla notte con lo
Sconosciuto, pensò. Stava perdendo il conto. Lui non aveva dimenticato neppure un istante, ed era sicuro che neppure Gwern fosse libero da quel peso orrendo. Ma suo fratello stava facendo di tutto per lasciarsi il passato alle spalle, e ci
stava riuscendo alla grande. Lui molto meno.
«… com’era prima?»
Mordraud si rese conto di non aver ascoltato neppure una parola. «Scusami…
cosa?!»
«Papà e la mamma… come erano prima?»
La domanda gli gelò il sangue. «Come mai ti è venuta in mente questa cosa?!»
«Stavi mormorando il nome della mamma mentre ti parlavo.»
Ma come aveva potuto essere così idiota, si disse incredulo. Non si sentiva affatto pronto a parlare con Gwern della loro famiglia.
«Vediamo… Prima quando? Dieci anni fa? Venti?»
«No, prima che io nascessi» rispose Gwern, serio in volto.
«Non penserai…»
«Beh, forse» disse Gwern incespicando un po’ sulle parole. «Forse… la mamma si è ammalata per colpa mia, e allora papà…»
«NON DIRLO MAI PIÙ!»
Mordraud urlò senza rendersene conto, tirandosi su di scatto dal letto. Subito
si coprì la mano sinistra per nascondere il tremore. «Non è colpa tua se la mamma si è ammalata. È stata colpa di papà… tutta colpa sua. E di Dunwich che non
è tornato a casa per darci una mano.»
«Ma la mamma una volta mi ha detto che nostro fratello era talmente bravo
che lo volevano tutti a Cambria… e mandava tanti soldi a casa, e i medici per me
e lei…»
«E a cosa sono serviti?! La mamma è ancora viva? Tu stai bene?!»
«Mordraud, non urlare con me… mi fai paura…» mormorò Gwern angosciato.
«Scusa… scusami…»
122
Mordraud lo abbracciò, stringendolo con tutta la forza che aveva. Non riusciva
a controllare la sua rabbia. Non ne era capace. Ci riusciva solo quando poteva
lasciarsi andare. Una falsa soluzione, pensò cupamente. «Non è colpa tua, non lo
è mai stata. Ti fidi di me?»
«Sì che mi fido» balbettò Gwern con le lacrime agli occhi. «Ma non ti arrabbiare con me…»
«No che non mi arrabbio» gli sussurrò accarezzandogli i capelli. «Sono solo un
po’… ecco, non so come dire…»
«Scurrile?»
«E questa dove l’hai sentita?!» esclamò Mordraud.
«Lo dice sempre Larois. Che sei bravo, bravissimo… però sei troppo grezzo e
un po’ scurrile.»
«Ma sai cosa vuol dire essere scurrili?»
Gwern tirò su col naso e scosse con forza la testa. Mordraud si sporse per sussurrargli all’orecchio.
«Hai presente l’altra sera, quando quel soldato ha afferrato un boccale che non
era il suo?»
«Sì…»
«Sai cosa gli ho detto?»
Mordraud ripeté per filo e per segno la complessa imprecazione che andava di
moda fra i soldati in quel periodo. Gwern impallidì come un cencio e scoppiò a
ridere coprendosi la bocca.
«Di certo agli Dei non piacerebbe quella cosa, proprio lì…»
***
Arrivò l’inverno, e con esso anche la fragile e consueta tregua stagionale. Una
stupenda ricorrenza. Il freddo intenso, la neve e il ghiaccio spedivano in letargo
le manie di grandezza di Cambria, e davano tempo a Eld di riprendere fiato. Solo
qualche sporadica incursione degli eserciti imperiali punzecchiava il fronte, che
non veniva mai abbandonato dalle forze ribelli.
In quei mesi, la taverna diventava il fulcro di tutta la vita del paese. Mordraud e
Gwern lavoravano come schiavi, e Larois doveva inventarsi ogni sera qualcosa
da cucinare, dosando con attenzione le provviste che il castello le consegnava. La
birra iniziò come sempre a scarseggiare, e vennero tirate fuori le botti in cui saggiamente erano stati preparati e conservati i liquori più forti. Gli uomini si ubriacavano più in fretta, e ne chiedevano meno. In tutti i tavoli si faceva a gara a chi
raccontava le gesta più eroiche e improbabili, e Mordraud ascoltava mordicchiandosi frustrato le labbra. Anche lui voleva partecipare alla guerra. Il lavoro in
123
taverna lo soffocava, lo innervosiva fino a fargli perdere il sonno, che già era a
singhiozzo e tormentato anche nei giorni buoni.
«Ci stavano caricando le Lance, e una di loro ha tentato di scavalcare il Terrapieno per coglierci di sorpresa. Avevano già piantato le torce in terra… le fiamme stavano montando incontrollate!»
Una storia stava vincendo su tutte, per esagerazione e per fantasia. «Le frecce
cadevano come pioggia, e il mio compagno era ormai una trapunta per gli aghi…
ho sentito un dolore alla spalla, ma ho afferrato l’asta di legno, e ZAC!»
Il giovane soldato, ubriaco fino alle ossa, si alzò sbattendo il boccale di metallo
sul tavolo. «L’ho spezzata, e con il moncone ho trapassato la guancia del suo cavallo, che si fottano le Lance!»
«CHE SI FOTTANO!» urlò tutta la sala in coro.
«L’imperiale cantava come se gli avessero stretto le palle in una tagliola, così gli
ho cacciato la spada in gola, giù fino allo stomaco… e…» il soldato inspirò godendosi il suo momento di gloria. «Ho visto la punta della lama uscirgli dal culo!
GIURO!»
«Ma smettila Nero! Ho visto io cos’hai fatto!» gridò un altro ragazzo seduto
poco distante. «Dì la verità! Era così carino che gli hai messo qualcos’altro… nel
culo!»
«Come ti permetti! Vieni qui a dirlo! Forza…»
Non riuscì a finire la frase. Stramazzò disteso sul tavolo, completamente finito
dall’ennesimo boccale.
«Cosa piace a tutti noi?» urlò con le labbra schiacciate sulle briciole del tavolo.
Gli altri intorno risposero in coro.
«SPEZZARE LANCE!»
«Cosa sappiamo fare bene?!»
«SPEZZARE LANCE!»
Mordraud consegnò le ultime portate di corsa. Sentiva il bisogno improvviso
di una boccata d’aria fresca. Senza dire niente a nessuno corse fuori nel retro della locanda. Si sedette a terra sull’erba secca che scricchiolò come vetro frantumato. Incrociò mestamente le gambe al petto.
«Basta, non ne posso più!» mormorò ripetendo con cura la prima bestemmia
nuova che aveva imparato quella sera. «Ho sonno, mi fanno male le braccia… mi
trema la mano…»
Erano settimane che faceva sempre lo stesso sogno. Si svegliava in piena notte
in una casa sconosciuta, piena di facce di uomini che non riconosceva. Ovunque
andasse, non riusciva a ricordare come fosse arrivato lì, neppure il motivo.
Quando veniva finalmente svegliato dai galli si sentiva stanco più di prima e gli
facevano male le gambe. Come se avesse camminato per decenni.
«Devo fare qualcosa, devo… voglio combattere! Voglio andare al fronte!»
124
«È il desiderio più stupido che io abbia mai sentito.»
Larois era uscita per cercarlo. Lui non si era accorto di pensare a voce alta.
Mordraud si alzò di scatto ripulendosi rabbiosamente i pantaloni.
«Arrivo subito, avevo solo bisogno di un po’ d’aria.»
La donna lo spinse giù di nuovo calcandogli la mano sulla spalla, e si sedette al
suo fianco.
«Lo sai cos’hai appena chiesto? Te ne rendi conto?!»
Mordraud annuì d’istinto, intenzionato a non nascondersi più. Sapeva che lei
aveva perso tutto per colpa della guerra, e non avrebbe mai voluto darle un dispiacere, ma quella sera non si sentiva in vena di carità. Era stanco, sfiancato da
lunghe notti insonni.
«Andare in guerra non è un gioco, Mordraud! Laggiù muore un sacco di gente,
e in pochi riescono a vedere un inverno! Cosa pensi di fare al fronte, eh? Dimmelo!»
Larois non era arrabbiata, anche se la sua voce fremeva a ogni parola. La sua
era paura. Sconforto. Mordraud decise che non si sarebbe tirato indietro, non
quella sera.
«Voglio combattere. Cambria ha un lungo conto in sospeso con me…»
Suo padre. Dunwich. Ma non lo disse, perché lei non avrebbe mai potuto capire.
«E vuoi saldare il conto andando a crepare per una guerra inutile?»
«Io non ho intenzione di morire. Voglio solo fargliela pagare.»
«Non è così semplice, ragazzino! Morirai anche se non ne hai l’intenzione! Sai a
chi gliene frega di quello che vuoi tu?! A NESSUNO!»
«Sei tu che non capisci niente!» urlò Mordraud cercando di alzarsi. Larois lo
sbatté di nuovo a terra, senza molta cortesia.
«E tuo fratello? Ci pensi a lui? Se tu dovessi morire, chi gli resterebbe al mondo?!»
«Io non morirò mai, vecchia! E diventerò qualcuno, guadagnerò abbastanza
soldi da far studiare Gwern, che è sveglio e può imparare un mucchio di cose!
Lui è come quell’altro» preferì sputare piuttosto che pronunciare il nome di
Dunwich «… è bravo a leggere e a studiare… mentre io…»
«Sei bravo solo a fare del male agli altri?» disse Larois con durezza.
«Sì, proprio così.»
«Sentirti dire queste cose è una pena, sei solo un ragazzino…»
«NON SONO UN RAGAZZINO!» urlò Mordraud inferocito.
«Va bene… ho capito» esclamò Larois alzandosi in piedi. «Non cercherò più di
fermarti, Mordraud. Ma sappi che stai per commettere l’errore più grande della
tua vita.»
«Lo so, grazie.»
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«Aspetterai di avere l’età giusta, poi farai quello che vuoi. Ora fila dentro, c’è
un mucchio di lavoro da fare.»
Mordraud sgattaiolò dentro la locanda e ricominciò mestamente a servire ai tavoli. Larois tornò in cucina cupa in volto. Quando Gwern gli chiese cosa fosse
successo con suo fratello, lei non rispose.
126
XI
La mattina era fredda, addolcita da un sole pallido e bianco. Aveva nevicato
tutta la notte. Il paese era rannicchiato sotto una pesante coperta di lana scintillante. Larois aveva una lunga lista di commissioni da fare. Comprare cibo, radunare la legna, portare parte degli scudi d’argento accumulati nelle ultime serate
alle casse del feudo, e molto altro. Ma non aveva nessuna voglia di lavorare. Capitava qualche volta, molto di rado, il giorno in cui non riusciva a impegnarsi in
niente. La lista poteva aspettare. Decise di passare a salutare un’amica, che sapeva di certo fosse già sveglia.
Deanna era la moglie di uno dei capitani di Eldain, forse il più conosciuto e rispettato dalla gente del feudo. Il suo nome era Adraman, un uomo vicino alla
mezza età che aveva passato quasi tutta la sua vita a combattere per la causa dei
ribelli. Deanna invece era soltanto una ragazza, figlia di uno dei pochi mercanti
attivi in Eld, arricchitosi con gli affari che la sua famiglia aveva imbastito nei decenni con le città vicine. Molti anni addietro alcuni suoi zii avevano anche gestito
alcune botteghe a Cambria, prima che la guerra calasse su tutta la regione stroncando ogni loro velleità.
Il padre di Deanna aveva combinato il matrimonio con l’unico uomo
dell’esercito di Eldain che avesse una stilla di sangue nobiliare nelle vene. Adraman era l’ultimo discendente della famiglia Adren, una piccola casata rurale che
vantava un antico intreccio con la nobiltà di Calhann, a Sud di Cambria. Nelle
speranze di suo padre, il cavaliere rappresentava il miglior partito possibile a disposizione. Benestante, rispettato, e con alcuni labili contatti genealogici fuori
dalla regione, che si sarebbero dimostrati molto utili nel caso in cui la situazione
fra Cambria ed Eld fosse precipitata in maniera irreparabile. Una scelta forse
127
saggia, ma ben poco gradita a Deanna, che aveva odiato fin dal primo istante
quel matrimonio imposto con la forza.
Larois la conosceva sin da quando era bambina, quando giocava insieme agli
altri ragazzi del paese proprio di fronte alla locanda, nello spiazzo di ghiaia dove
gli avventori lasciavano i cavalli. All’epoca, suo figlio Nardo era già grande, ma i
ragazzi in paese erano pochi e passavano gran parte del tempo mischiati insieme.
La vita nel feudo era dura, tristemente ricca di lutti. Gli orfani erano di gran lunga più numerosi dei bambini i cui genitori erano ancora in vita.
Deanna era fra le preferite di suo figlio, e non perdeva occasione per punzecchiarla con consigli e paternali degne del peggior fratello insistente. Lei era sempre stata bella, ma con l’età era diventata splendida. Grandi occhi chiari, capelli
corvini e sempre acconciati con cura, labbra carnose e inclini al broncio. Era
piuttosto bassa, ma aveva un corpo molto femminile. La sua bellezza appariva
sempre un po’ fragile, venata di un’insicurezza ben nascosta sotto strati di aggressività e falsi atteggiamenti di superiorità.
Dopo la morte di suo figlio e di suo marito non si erano perse di vista, e tante
volte Deanna era andata a farle compagnia in locanda per aiutarla a non sentirsi
desolatamente sola. Per quelle serate, Larois le sarebbe stata grata a vita. Allora
era ancora una ragazzina, ma le aveva dimostrato un affetto che l’aveva tenuta a
galla, finché non era riuscita a sopportare almeno parzialmente la morte di tutta
la sua famiglia.
«Larois! Che piacere vederti, entra che fa un freddo cane!»
La casa di Adraman era forse la più bella della città, per quanto infima rispetto
a una villa qualsiasi del più misero tenente dell’esercito di Cambria. Deanna
l’aveva abbellita come meglio aveva potuto, con tappeti, vasi e alcuni quadri che
raffiguravano paesaggi all’alba e al tramonto. Le piacevano i colori marcati. Un
servitore la aiutò a liberarsi dalla mantella pesante e umida, e subito Deanna la
prese per mano accompagnandola di fronte al camino. Si sedettero vicine sul
grande divano avvolto da una spessa coperta di lana, e la padrona di casa richiese
con un gesto qualcosa di caldo da bere.
«Sembri proprio una nobile dama! Guardati… sei splendida!» esclamò sorridendo Larois.
«Se fossi una nobile dama, non sarei qui a Eld, in mezzo a tutti questi campagnoli!» rispose Deanna, sistemandosi la camicetta con fare vagamente stizzito. Le
due amiche scoppiarono a ridere. Il domestico portò una brocca rovente di tisana alla malva e due tazze dipinte.
Avevano entrambe una gran voglia di parlare, e così diedero fondo a ogni pettegolezzo, a tutti i piccoli segreti che un feudo poteva offrire, tradimenti, scappatelle, dicerie. Non si vedevano da prima dell’estate, da quando Deanna era partita
per passare la bella stagione nella casa di campagna della famiglia di Adraman, a
128
Est nelle terre degli alleati. Circondata da servitori, ma senza marito e amici, si
era ancora una volta annoiata fino a perdere il conto dei giorni.
«Ne parli come se fosse una tortura, eppure… fai una vita che poche donne
del paese possono anche solo sognare.»
«Larois, non puoi capire il supplizio!» mormorò Deanna sorseggiando lentamente la sua tisana. «Sempre da sola, senza mai nulla da fare… e quando lui torna, è anche peggio.»
«Dov’è adesso? Sta ancora dormendo? È da capire… dev’essere stanco.»
«Dormire?! Adraman? Lui non riposa mai. Sempre e solo lavoro» sbuffò
Deanna. «Si è svegliato all’alba, come tutte le mattine, ed è andato a passare in
rassegna le reclute per la prossima spedizione al fronte. Non riesce a pensare mai
ad altro…»
«Fa una vita dura, Deanna. Ha sulle spalle una grossa responsabilità, cerca di
capire…»
«Vedi, è questo il problema! Lavoro, lavoro e sempre lavoro. Sembra che abbia
preso la guerra come sposa, e non me…»
«Tuo marito è un brav’uomo, non esagerare sempre» la rimproverò Larois. «È
gentile con te, ti tratta come una regina, e non ti rendi neppure conto che è comunque avvenente…»
«… per l’età che ha, stavi per dire?! Dai, Larois… potrebbe essere mio padre!»
mormorò imbarazzata Deanna.
«Penso che tu gli debba almeno un minimo di riconoscenza, per tutte le attenzioni che ti dedica.»
«Ma è proprio questo che mi manca! Attenzioni! È sempre al fronte, a combattere per Eldain… torna a casa qualche giorno al mese, e ogni volta mi sembra di
condividere il letto con uno sconosciuto. Non mi racconta neppure cosa fa laggiù.»
«Non ti dice nulla perché al fronte la vita è orrenda!» incalzò Larois alzando la
voce. «Cosa dovrebbe dirti? Oggi ho visto morire dieci ragazzi della tua età?!»
Deanna non rispose, e arrossì chinando lo sguardo. Larois a volte era dura con
lei, come una madre. Ma era proprio quello che Deanna cercava. Sincerità e
schiettezza.
«No, ma se mi permettesse di far parte della sua vita… almeno un po’… sarebbe più sopportabile. Mi sento come un trofeo! La bella donna da esibire nelle
rare cene al castello con i delegati dei feudi alleati…»
«Capisco, piccola mia. Ma dovrai fartene una ragione, prima o poi. Lui è un
soldato, fedele prima di tutto al suo comandante. Però si vede che ti vuole un
gran bene.»
«Lo so, lo so… scusa, a volte mi comporto come una bambina viziata.»
«A volte?!»
129
«Dai, non sempre!» insistette Deanna spintonando scherzosamente Larois. «Se
solo avessi qualcuno con cui parlare, che mi facesse compagnia quando sono da
sola… ma i servitori sono tutti dei vecchi, e le donne mi parlano come se fossi
una padrona!»
«Guarda che lo sei…»
«Non essere pignola, hai capito cosa voglio dire. Vorrei solo non annoiarmi
così tanto, certe mattine non ho neppure voglia di alzarmi dal letto.»
«E i tuoi genitori? Non li vai mai a trovare?»
Deanna rise amaramente coprendosi gli occhi con la mano.
«Non l’hai saputo? Sono partiti per il Sud. Vogliono tentare la fortuna fuori dai
territori in guerra. Me l’hanno comunicato così, senza chiedere nulla! Mi hanno
escluso dalla loro vita, ben contenti di come sono riusciti a piazzarmi… come un
vitello al mercato…»
Larois ebbe un’idea improvvisa. Da quando aveva parlato con Mordraud, non
faceva altro che cercare una soluzione per il suo umore rabbioso. Lui aveva bisogno di stare vicino alla gente, di aprirsi, di capire che non esistevano soltanto la
forza bruta e la guerra. La differenza di età fra i due la riparava da qualsiasi rischio. Uno era un bambino, lei invece era già una donna sposata.
Deanna aveva proprio bisogno di qualcuno con cui passare del tempo. Ed a
Mordraud avrebbe fatto bene avere una sorta di sorella maggiore. Tanto, lei non
aveva quasi nulla da fare tutto il giorno, pensò.
«Conosco un ragazzino, si chiama Mordraud… ora sta da me in locanda insieme al fratello, mi aiuta la sera con i clienti. Non ha amici, e so che a lui non
piace lavorare come sguattero. Mi dispiace vederlo sempre da solo, magari potrebbe farti compagnia ogni tanto…»
«Quanti anni ha?» chiese Deanna incuriosita.
«Dodici, tredici penso. Forse qualcosa in meno.»
«Così piccolo?!»
«Oh, non lo diresti mai, a volte dimostra almeno cinque anni di più. È sveglio,
e quando vuole, è anche loquace. Adraman potrebbe assumerlo come tuo… non
saprei… paggio?»
«Ho sentito dire che anche molte nobildonne di Cambria hanno un paio di ragazzini fra i servitori…» pensò Deanna ad alta voce. «Proprio come una volta, eh
Larois? Tutti i bambini del paese che giocano insieme, sempre sotto l’occhio vigile dei fratelli più grandi, pronti a dispensare consigli. Come Nardo faceva sempre con me.»
«Era un bravo ragazzo, se la guerra non se lo fosse portato via…» sussurrò Larois distogliendo lo sguardo.
Deanna restò in silenzio un istante. Tornò malinconica agli anni della sua infanzia. Tutti i ragazzi più grandi passavano il tempo con i bambini, come se fos130
sero un esercito di fratelli e sorelle. Un bel periodo. Per Nardo e gli altri non era
stato avvilente prendersi cura di qualcuno più piccolo. In fondo era un impegno
che poteva distrarla un po’. Magari, la compagnia di qualcuno con cui parlare le
avrebbe fatto bene.
«Come hai detto che si chiama?»
***
«NON SE NE PARLA!»
«Non eri tu che ti lamentavi per il lavoro alla taverna?!» rispose Larois trattenendo un sorrisetto divertito.
«Ma non voglio di certo fare il… il… come si dice? Damerino?! Paggetto?! Far
compagnia a una donna sposata a un vecchio, ti sembro la persona adatta?!»
Mordraud era infuriato. Rosso in faccia, pugni serrati e sguardo da vero uomo,
era così ridicolo che Larois dovette sforzarsi per non ridergli in faccia.
«Deanna è una mia amica, una brava donna, solo che si annoia da morire sempre da sola, là in quella grande casa… la dimora più lussuosa di Eld…»
«Tu mi prendi in giro! Piuttosto lavo i piatti per tutta la vita!»
«Come vuoi, ragazzino. Ti ho dato un’opportunità, ma non vuoi coglierla»
esclamò Larois scrollando le spalle. «Ah, stavo quasi per dimenticarmene. Stasera
ci sarà più gente del solito, oggi sono state scelte le nuove reclute che gli alleati di
Eldain hanno concesso per la difesa del fronte.»
Mordraud sentì le budella torcersi dallo sconforto, ma non disse nulla. Non
voleva dargliela vinta, a quella vecchia volpe di Larois.
«Damerino… l’accompagnatore di damigelle… maledizione, ho quasi diciotto
anni!» sibilò fra i denti senza farsi sentire da lei, andandosene a passo spedito
verso il retro della locanda. Aveva bisogno di stancarsi un po’, e non conosceva
metodo migliore che picchiare il vuoto con un bel bastone pesante.
«Come state, signora? Come siete bella oggi, signora!» sbraitò agitando la mazza che aveva pazientemente intagliato nelle lunghe notti in cui non riusciva a
prendere sonno. «Vostro marito vi aspetta per il pranzo. Aspettate, vi do una
mano a stringere il CORSETTO!»
Con tutta la forza che aveva, Mordraud afferrò il bastone e lo schiantò contro
il pozzo di pietra.
“Se solo non avessi questo dannato aspetto da bambino, sarebbe tutto diverso!”
La sua arma non si era rotta, per fortuna. L’allenamento riprese furiosamente.
“Sarei già al fronte, e magari avrei già incontrato Dunwich. Potrei partecipare
alle battaglie, uccidere i soldati dell’impero… Cambria maledetta…” pensò depresso.
131
Mordraud prese il bastone a due mani e colpì il terreno duro e arido, alzando
schegge di fango congelate tutt’intorno a lui.
«Come state, signora? Oh, ma che dite… come siete brillante, SIGNORA!»
Il pomeriggio volò via e arrivò l’ora di andare al lavoro. Imprecando in perfetto stile ribelle, Mordraud si allacciò il grembiule bianco che Larois gli aveva accorciato per adattarlo alla sua altezza, ed entrò borbottando nelle cucine. Gwern
era già più che indaffarato. Correva avanti e indietro arrancando sotto una montagna di piatti e pentole.
«Di là è un incubo, fratello! Mai vista tanta gente tutta insieme!»
Mordraud si affacciò alla porta della sala. Gwern aveva ragione. Una fossa di
belve assetate. Una massa impressionante di uomini affamati era assiepata nella
grande sala della locanda, e molti erano rimasti in piedi. Quasi tutti soldati, ma a
un tavolo sedeva anche un manipolo di ufficiali piuttosto importanti. Mordraud
si fiondò a riempire caraffe e vassoi, tuffandosi nella bolgia a testa bassa.
«Ragazzo, una birra!»
«Ehi figliolo, quando è pronto lo stufato?! Qui si muore di fame!»
«Allora, eravamo sul Terrapieno… una Lancia tenta di saltarci con il suo cavallo, ma io…»
«Dovevi vederla, era tutta infuocata, si dimenava come una matta! E cosa diceva… uh, l’ho pagata cara ma che puttana…»
Mordraud scivolò dentro e fuori decine di discorsi diversi, finché le voci dei
clienti non divennero tutte uguali, e fastidiose allo stesso modo. Solo gli ufficiali
si comportavano da persone civili. Furono ovviamente i primi a cui portò lo stufato. La parte migliore, quella meno acquosa, con i pezzi di carne più compatta.
A suo modo, Mordraud voleva che la locanda non sfigurasse.
«Grazie ragazzo, sei stato svelto» gli disse uno di loro, un uomo di mezza età
dall’aspetto curato. Un palco di baffi tenuti in ordine gli donavano un’aria importante. «Tieni, questo è per te.»
Una mancia. Nel suo lavoro era molto raro vedere un soldo d’argento.
Mordraud chinò il capo per ringraziarlo. L’ufficiale aveva un aspetto imponente.
Portava impressi sul collo e sul volto i segni delle intemperie. Non era un semplice ufficiale, pensò. Di quelli che perdevano tempo in tenda con le mappe e le
bandierine. Quell’uomo era prima di tutto un soldato. Mordraud avrebbe potuto
scommettere che quello non era il tipo da tirarsi spesso indietro, nel momento di
guidare una carica contro il nemico.
Mordraud tornò verso la cucina giocherellando con la moneta, immerso nei
suoi pensieri. Gwern arrivò senza troppo garbo con un altro vassoio, e in fretta e
furia glielo sganciò addosso.
132
«Al tavolo dei soldati in fondo a destra. Occhio, quelli a volte non pagano. Ehi
fratello» Gwern prese la moneta d’argento che Mordraud teneva in mano, e la
rigirò ammirato. «Chi te l’ha data?»
«Quell’ufficiale laggiù. Un brav’uomo, e anche molto distinto» indicò alle sue
spalle. «Me l’ha data come mancia.»
«Certo che è una persona distinta! Quello è Adraman, non lo sai? Amico di
Eldain, e uno dei suoi migliori capitani. Me l’ha detto una donna al mercato, era
lì per comprare della frutta fresca.»
«Un capitano…» ripeté Mordraud soppesando quel titolo sulle labbra «… suona bene.»
«Come fai a non sapere chi è? Lo conoscono tutti! È sposato con una donna
molto bella, si chiama Deanna. Vivono nella casa più grande del feudo, non puoi
non averla notata.»
Mordraud inizialmente non colse le parole del fratello. Poi di colpo collegò tutto.
«La casa più grande, hai detto?»
«Sì, grande e con tanti mobili pregiati!»
«E sua moglie… Deanna… è molto giovane?»
«Allora vedi che anche tu ascolti i pettegolezzi?! Sì, è molto più giovane di lui»
rispose Gwern sorridendo. Gli piaceva mantenere in vita le voci. «Adraman è
molto ammirato giù al mercato… non sai quante donne…»
Mordraud smise di ascoltare il fratello. La ragazza di cui gli aveva parlato Larois era la moglie di un capitano dell’esercito. Una coincidenza pazzesca. Forse
aveva trovato un modo per raggiungere i suoi tanto agognati traguardi.
«Ma guarda te… la vecchia è proprio furba. Ha pensato bene di non dirmi
niente, e pensa che occasione stavo per perdere!»
«Come hai detto?»
«No, niente Gwern…» esclamò Mordraud. «Tieni un attimo tu il vassoio.»
«Ma… ma… bisogna servire ai tavoli!» gridò Gwern afferrando il pesante piatto di metallo. Mordraud si era già fiondato in cucina.
«Larois…»
«Sì, Mordraud?»
La vecchia cuoca stava affettando un mazzo di gambi di sedano, e non si fermò per ascoltarlo. Era girata di schiena, ma Mordraud sentì che stava sorridendo.
«A proposito di quel lavoro che mi dicevi…»
***
133
Larois accompagnò Mordraud a casa di Adraman il giorno dopo, per cena.
Gwern e la locandiera passarono tutta la mattina alla ricerca di vestiti nuovi, per
sostituire i vecchi stracci che lui usava tutti i giorni. Panni logori scovati in un
baule del figlio morto in guerra. Mordraud fu spinto a forza di fronte allo specchio per provare tutte le cose che gli avevano comprato. Un paio di stivali morbidi, alcuni pantaloni di lana scura, due camicie grigie e marroni, una casacca nera
di velluto. Non si era mai sentito così a disagio.
«Questa roba deve essere costata molto. Forse è il caso di riportarla indietro…»
«Perché fratello? Ti sta tutto molto bene. E poi non vorrai certo fare brutta figura con Deanna?!» esclamò Gwern tutto pimpante. «Non è costata tanto. Larois
ha detto che con tutto il lavoro che c’è stato nella locanda, da sola non ce
l’avrebbe mai fatta, e ha voluto pagare lei.»
«Non doveva, potevo anche pagarmela da solo questa roba…»
«Smettila di chiamarla roba! Sono abiti di buona fattura, ti fanno sembrare elegante!» Larois gli pizzicò la guancia e gli sistemò i capelli stringendoglieli in una
corta coda con un laccetto.
«Se avessi mandato te a comprare abiti, saresti tornato con delle pezze schifose. Lascia fare queste cose alle donne… o a un fratello con un po’ di gusto.»
«La casacca ti sta proprio bene, quella l’ho scelta io!» disse Gwern annuendo
verso lo specchio. Mordraud si chiese da quanto tempo suo fratello non avesse
una crisi. Quasi non se lo ricordava.
«Ed ora sei pronto per una cena a casa di Adraman.»
La casa del cavaliere era a ridosso del castello, nell’unica via del feudo che ancora portava i segni dell’antico fasto della casata di Eld. Ampie finestre, frontoni
incisi con scene di battaglia e paesaggi agresti, larghe scalinate che conducevano a
porte in bronzo da cui sarebbe passato senza problemi un cavallo. Mordraud
non credeva ai propri occhi. Per quanto Eld fosse ormai ridotta allo stremo, e
non fosse altro che un feudo periferico rispetto alla capitale Cambria, per lui quei
palazzi erano l’emblema di un potere cristallino.
La sala da pranzo era pronta e allestita con argenteria raffinata. Un servitore
aprì la porta e prese in consegna i loro mantelli, accompagnandoli poi alla lunga
tavola. I padroni di casa non erano ancora arrivati.
«Rilassati, figliolo. Sorridi un po’.»
Mordraud guardò Larois con disappunto, ma si rese conto che lei aveva ragione. Era rigido come un bastone, e si guardava intorno con troppa ansia, come se
si aspettasse da un momento all’altro di dover fuggire via. Per quanto l’idea di
conoscere un vero cavaliere lo esaltasse, la cena e le buone maniere lo mettevano
terribilmente a disagio.
134
“Se solo Gwern fosse qui con noi…” pensò mordicchiandosi un labbro. Suo
fratello era molto più bravo di lui a parlare con la gente, a farsi voler bene.
“Forse è per questo motivo che Larois non lo ha voluto portare… avrebbero
scelto lui” pensò.
«Accomodatevi, prego. I signori arriveranno fra poco» disse uno dei domestici
indicando loro i posti. Sulla bella tovaglia bianca ricamata in filo ramato erano
disposti quattro piatti, ma avrebbero potuto trovare tranquillamente posto altre
venti persone. Mordraud si sentiva perso in quel bianco mare di tela.
«Quando arrivano, Larois?!»
La locandiera lo fulminò con lo sguardo. Doveva proprio imparare molto, forse troppo, pensò. Passarono istanti lunghi quanto ore. Di tanto in tanto il cameriere riempiva i loro piccoli calici con un vino leggero, leggermente mosso.
Mordraud tracannava senza quasi sentirne il sapore, mentre Larois lo sorseggiava
con grazia. «Piano ragazzo, sei ancora un po’ troppo giovane per bere… così in
fretta.»
«Larois, non ti riconosco! Sembri proprio brava e educata, eppure in taverna a
volte sei peggio dei clienti…»
«C’è stato un periodo, quando la guerra era appena iniziata…» rispose lei sorridendo «in cui anche io e mio marito organizzavamo cene lussuose per le famiglie
facoltose di Eld. Tutto questo ovviamente prima che la maggior parte di loro
fuggisse via. Eravamo piuttosto bravi… peccato solo di non aver mai preparato
nulla per Eldain. Ancora ci penso, ogni tanto.»
«Mi sa che dovrò copiare un po’ da te, per non fare brutta figura.»
«Bene, se ti fa sentire meglio, fallo pure» rispose Larois agitando leggermente il
bicchiere che teneva in mano. Il messaggio era chiaro. Non bere come un disgraziato. Mordraud annuì posando imbarazzato il suo calice.
«Scusate il ritardo, mia moglie voleva farsi bella.»
Adraman e Deanna erano finalmente apparsi sulla scala che portava ai piani
superiori della villa. Il cavaliere indossava una camicia pesante di lino e un paio di
pantaloni grigi di ottima fattura. Portava i capelli corti e i baffi folti e curati, neri
ma in parte screziati di bianco. Tutto in lui trasudava compostezza. Il passo, la
cadenza della voce, lo sguardo. Ma Mordraud non aveva occhi che per Deanna.
Larois lo aveva avvertito. Non doveva fissarla troppo, sarebbe stato un gesto
molto maleducato. Difficile però rispettare un ordine tanto semplice. Era bella
oltre ogni sua previsione. Il lungo vestito color terra scura non lasciava intravedere nulla, pur non nascondendo un corpo formoso, impreziosito da occhi grandi e chiari, labbra morbide disegnate alla perfezione, e una cascata di capelli corvini mossi e lunghi fino alle spalle.
«Smettila, Mordraud.»
135
Il sibilo feroce di Larois lo riportò alla realtà. Mordraud abbassò gli occhi e salutò cortesemente i padroni di casa, alzandosi da tavola come una molla carica.
Deanna rise coprendosi la bocca vezzosamente. Adraman si avvicinò con la mano tesa per salutarlo, e lui rispose alla stretta con tutta la forza che aveva.
«Tu devi essere Mordraud. Piacere di conoscerti» esclamò Adraman stupito
dalla sua stretta di ferro.
«Il piacere è tutto mio, signore» rispose Mordraud chinando il capo. Adraman
gli diede una leggera pacca sulla spalla e lo invitò a sedersi. Deanna prese posto
proprio davanti a lui, cosa che gli provocò una fitta allo stomaco. La prima di
una lunga serie.
«È sempre bello rivederti, Larois. Spero che vada tutto bene alla locanda» disse
Adraman mentre con un cenno dava il segnale ai servitori di iniziare con la cena.
«Ti trovo bene, Adraman. Grazie per l’invito, la tua casa è sempre la più bella
del paese.»
«Devi fare i complimenti a mia moglie. È lei l’artista, io non ho la metà del suo
gusto.»
Le prime portate giunsero a tavola in grandi vassoi d’argento spazzolato. Piatti
semplici e spartani, che il cuoco aveva abbellito senza esagerare. Carni salate e
stagionate servite su crostini fragranti, formaggi duri, verdure sottaceto.
Mordraud si era aspettato un trionfo di ricchezza, ma Adraman era sobrio in
ogni aspetto della sua vita, ed evidentemente non amava la cucina elaborata tipica delle famiglie più altolocate.
«Allora figliolo, Deanna mi ha detto che le piacerebbe avere qualcuno in casa
che le tenga compagnia, e si occupi delle piccole faccende di ogni giorno…»
«L’idea è stata mia, Adraman» disse Larois prima che Mordraud potesse rispondere. «Sempre che a te non dispiaccia.»
«No di certo, anche se avevo già assunto i migliori domestici che un feudo in
guerra potesse reperire.»
Adraman parlava in modo educato, senza lasciar trasparire alcuna emozione.
Deanna sbocconcellava un crostino, bagnandosi di tanto in tanto le labbra con il
vino.
«Mordraud, parlami un po’ di te. Mi piacerebbe conoscerti un po’ meglio, prima di prendere una decisione.»
«Non sei tu a dover decidere» sibilò Deanna. Mordraud arrossì senza motivo,
colpito dalla durezza della sua voce.
«Invece sì, tesoro. Non voglio star qui a discutere con te» rispose Adraman.
«Dimmi allora, Mordraud. Da dove vieni? Non ti ho mai visto qui in paese.»
«Ecco signore, io non sono di Eld» iniziò lui cercando di parlare con un tono
piacevole. Sembrava avesse inghiottito un secchio. «Non vengo da un altro feudo, ho sempre vissuto in una casa isolata, a Nord di qui.»
136
«E i tuoi genitori?»
«Adraman, non sono affari tuoi!» esclamò Deanna, guardandolo infuriata.
«Mi sembra giusto che Mordraud racconti qualcosa della sua vita» rispose Larois intervenendo in aiuto al cavaliere. Deanna sembrava sempre pronta a criticare ogni parola del marito, e la cosa metteva Mordraud in un profondo imbarazzo.
«Mio padre era un… soldato al servizio di uno dei feudi alleati, ma è morto
qualche anno fa in guerra. Mia madre se n’è andata per una malattia, e così io e
mio fratello siamo fuggiti a Eld.»
Non poteva dire la verità, ed era pronto a inventarsi qualunque bugia. Larois lo
stava fissando in modo indecifrabile, e Mordraud sentì un brivido gelido corrergli lungo la schiena. Cosa le aveva detto Gwern sul loro passato, si chiese in preda al panico.
«Una storia triste. Mi dispiace per la tua famiglia» rispose Adraman addolorato.
«La guerra con Cambria avvelena la terra, purtroppo.»
Un vago disagio scese sulla tavola imbandita. Mordraud riprese a bere dal suo
calice, riempiendolo con allarmante velocità. Larois non mancava di lanciargli
occhiate molto eloquenti, ma lui aveva bisogno di sciogliersi un po’ la lingua, e
non se ne curò. Deanna spezzò il silenzio rivolgendosi direttamente a lui.
«Sai leggere, Mordraud?»
«Certamente» rispose lui.
«E ti piace?»
Le uniche storie che avesse mai letto erano le favole che sua madre aveva scritto per lui prima della malattia. Doveva fare colpo su Deanna per sperare di ottenere il posto, così annuì con convinzione.
«Anch’io adoro leggere. Ho tanti libri di sopra, nella mia biblioteca. Magari ho
qualcosa che ti può interessare… di solito cosa ti piace di più?»
«Non saprei dirlo, signora…» rispose «mi piacevano tanto le fiabe di mia madre. Storie sugli Aelian.»
Forse non aveva detto la cosa giusta, pensò Mordraud quando sentì di avere gli
occhi di tutti addosso.
«Aelian?!»
«Sì, ecco… Cambirian l’ultimo re, mostri che vivono negli incubi, guerrieri in
armatura d’oro che difendono fanciulle… roba così…»
«Non so nulla di Aelian, niente di niente. E poi, Cambirian… non ne ho mai
sentito parlare» mormorò Deanna.
«Oh, sono solo favole che mia madre scriveva per me e mio fratello, quando ci
insegnava a leggere… nulla di importante…»
«Scusa figliolo, come hai detto che si chiamava quel re degli… Aelian?» lo interruppe Adraman, scuro in volto.
137
«Cambirian, l’Antico e il Primo. Il suo nome significa colui che domina il cuore di
ogni cosa» rispose Mordraud senza riflettere, ripescando semplicemente dalla sua
memoria. Non capiva ancora il perché di tutte quelle attenzioni. Erano favole
che Eglade gli aveva raccontato mille volte prima di metterlo a letto. Semplici e
innocenti storie del suo popolo.
«Un giorno chiesi a un importante studioso di storia che abitava a Calhann,
quando ancora ero molto giovane e studiavo laggiù per affiancare mio padre, cosa volesse dire la parola Cambria. Ebbene, non ne aveva idea. Sapeva solo che era
una parola in Aelian, molto antica. Non sapevo nemmeno chi fossero. Cambirian… il cuore di ogni cosa…» la voce di Adraman si spense, perdendosi nella stanza come un filo di fumo.
«Tua mamma ti ha raccontato altre cose sugli Aelian?!» chiese Deanna mostrando finalmente un sorriso sincero. «Mi piacerebbe sapere chi sono…»
«Beh, certo… ricordo ancora tante favole, quelle sugli Aelian erano le mie preferite…»
Ma stava dicendo qualcosa di sbagliato? Non aveva certo raccontato a tutti che
sua madre era una Aelian, pensò Mordraud. Eglade gli aveva ripetuto fino allo
sfinimento di non dire mai nulla su di lei, a nessuno. Ma per le fiabe era diverso.
Mordraud aveva sempre pensato che fossero leggende che tutti i bambini sentissero prima di addormentarsi. Forse aveva sbagliato qualcosa, ma il sorriso di
Deanna gli stava dicendo con molta convinzione il contrario.
«Allora spero tanto che mi racconterai anche tutte le altre storie» disse lei, pulendosi la bocca con un fazzoletto bianco. «Non vedo l’ora.»
Mordraud annuì compiaciuto e tornò a dedicarsi al suo piatto, travolto da una
fame improvvisa. La tensione che lo aveva attanagliato fino a quel momento
svanì, aiutata dal vino e da quegli occhi strepitosi.
Occhi che lo avrebbero convinto a dire qualsiasi cosa, se solo avessero voluto.
***
«Aelian?! Ascoltami Deanna, non è per niente normale che un bambino sappia
la storia degli Aelian! È un argomento complesso, non fa parte della tradizione
popolare! Gli spiriti dei boschi, potrei capirlo… ma lui sembra conoscerli bene!»
La cena era finita da un pezzo, e gli ospiti erano tornati a casa accompagnati da
un servitore. Adraman si stava spogliando per andare a dormire, mentre Deanna
era impegnata a pulirsi le guance dal trucco.
«E allora? Non capisco perché ti dia così tanto fastidio. Cosa c’è che non va in
quelle storie? Anche tu non sai nulla, ma non sei nemmeno cresciuto a Nord, in
mezzo a dei contadini isolati dal mondo!»
138
«Niente, solo che…» Adraman non sapeva in realtà spiegare la sensazione che
provava. Nella sua mente risuonava ancora il nome dell’ultimo re, Cambirian.
Chi poteva mai sapere una cosa simile, si chiese. Non ne aveva mai sentito parlare. E considerando Eld, lui probabilmente era l’uomo più acculturato del feudo.
Sapeva che l’argomento Aelian era dibattuto, nelle accademie. Non di certo nelle
campagne.
«Ti preoccupi per nulla. Quel ragazzino mi piace, e non accetterò da te alcun
divieto.»
«Ma ci sono tanti bambini in paese che potrebbero farti compagnia…» tentò di
dire Adraman.
«Te lo ripeto. Non accetto divieti da te.»
«Va bene, tesoro… ho capito» concluse lui mestamente. «Da domani potrà stare qui da noi.»
Deanna era ancora seduta davanti allo specchio, quando Adraman le si avvicinò afferrandole impacciato le spalle.
«Cosa vuoi?!»
«Sono stato via molte settimane…»
«Non pensarci nemmeno!» esclamò lei alzandosi dal tavolino dei trucchi.
Adraman era mezzo nudo, coperto solo da una pezza intorno ai fianchi. Il suo
corpo non mostrava affatto gli anni passati, fortificato da decenni di scontri e
dalla vita all’aria aperta. Una rete di cicatrici ricamava strani disegni che salivano
dai polsi fino ai gomiti, allargandosi dove le punte delle spade erano penetrate
più a fondo. Deanna sentì un brivido di ribrezzo tanto forte da farle girare la testa.
«Sono stanca» riuscì solo a dire, scivolando sotto le coperte del grande letto
matrimoniale. Adraman restò in piedi con lo sguardo fisso sullo specchio. Alzò
le mani e si perse a osservare le sue dita incrinate dalle fatiche, i calli, i nodi che
sembravano tanti piccoli ceppi da falegname, e si sfiorò il viso con tutta la delicatezza di cui era capace. L’effetto fu come sfregarsi in faccia un pezzo di corteccia
rinsecchita.
«Cosa stai facendo?!»
«Stavo pensando che non sono più in grado di accarezzare nulla, con queste
mani.»
Deanna non rispose. Chiuse gli occhi e sprofondò nel cuscino gonfio di piume.
***
139
«Allora fratello, com’è andata?! È vero che la villa di Adraman è lussuosissima?
Cosa avete mangiato? Scommetto che vi hanno servito decine di prelibatezze su
grandi piatti d’oro…»
Gwern era un fiume in piena. Mordraud era uscito provato dalla cena. Tentare
di risultare accattivante a Deanna e interessante per il cavaliere lo aveva sfiancato. Non era sicuro di esserci riuscito appieno, ma il risultato andava comunque
ben oltre le sue aspettative. Deanna gli aveva sorriso finché la porta non si era
chiusa.
«Penso di essere andato bene… inizierò in questi giorni. Ma non è detto che
vada in porto, quindi non farti illusioni!»
«Larois, tu cosa ne dici?» le chiese Gwern, strattonandole la lunga gonna di lana.
«Dico bene. Deanna è rimasta colpita dalle storie di tuo fratello.»
Mordraud sentiva che la vecchia locandiera gli stava nascondendo qualcosa,
ma fece finta di nulla. Doveva essere ancora per quella storia degli Aelian e delle
fiabe, pensò liberandosi della casacca nuova.
«Ora vado un po’ in cortile, sono stanco di parlare. Mi fa male la gola.»
«Abituati, fratello! Ora sei il paggio di Deanna, la moglie del più importante
cavaliere di Eldain!»
Mordraud non attese oltre e corse in camera, si tolse gli abiti con cura cambiandoli con un paio di vecchi panni logori, e si fiondò fuori. Aveva un gran bisogno di sudare e faticare, dopo tutta la rigida compostezza che si era dovuto
sorbire a tavola.
«Ce l’hai fatta, Larois… sei felice?»
Gwern aveva cambiato radicalmente tono di voce. Larois gli accarezzò le spalle, annuendo in silenzio.
«Non penso però che riuscirai a tenerlo lontano dalla guerra… non è facile far
cambiare idea a mio fratello.»
«Almeno ci sto provando, Gwern. Magari qualche anno a fianco di Deanna gli
faranno passare i bollenti spiriti.»
«Ma non è… ecco… sconveniente?»
«Ma no, figurati!» esclamò Larois con piglio sicuro. «Lui è così piccolo, e lei è
già una donna sposata… al massimo Deanna lo prenderà in simpatia, come una
sorella maggiore…»
«Sarà… speriamo» mormorò Gwern. C’erano dettagli che lei non sapeva di suo
fratello, ma erano tutti segreti inconfessabili. L’aveva promesso a lui e alla
mamma. Non avrebbe mai dovuto dire a nessuno della loro origine Aelian.
Mai.
«Mi manca già… non sono mai stato lontano da lui, sono preoccupato…»
140
«Tranquillo, sei ancora qua con me, e lui verrà spesso a trovarti. L’ho fatto per
il suo bene, te l’ho già spiegato.»
«Mh…» rispose lui annuendo con poca convinzione. «A proposito… di che
storie parlavi prima? Cos’ha raccontato a Deanna?!»
«Storie di Aelian.»
Gwern tentennò solo per un breve istante. «Belle… le sue preferite. Gli ricordano nostra madre.»
«È stata lei a raccontargliele?»
«Sì, quando era piccolo, e io non ero ancora nato.»
«Non c’è niente di male. Curioso però che ne conosca così tante… le storie
sugli Aelian sono molto, molto rare.»
«Alla mamma piacevano tanto» disse soltanto lui. Larois sorrise e gli pizzicò
una guancia con affetto. «Va bene… quel che è fatto, è fatto… vieni, prendiamoci qualcosa di caldo. Ti andrebbe una tisana?»
Gwern aprì la porta della cucina, facendole strada come un vero cavaliere.
«Solo se abbiamo ancora qualche fetta della torta di mandorle di ieri sera.»
141
XII
“Mi duole informarvi che il guaritore a cui avete richiesto i vostri servigi è rientrato al tempio
senza aver potuto svolgere l’incarico…”
Dunwich sospirò stizzito, trattenendo l’impulso di fare a pezzi la solita, ennesima lettere di scuse dal tempio del Misericordioso. I classici incompetenti. Si era
sgolato fino allo sfinimento, ripetendo a quel branco di incapaci di non desistere
di fronte a Varno. Non era la prima volta che quel cocciuto testardo spediva via
in malo modo il medico che lui mandava regolarmente per visitare sua madre.
“… per quanto abbiano cercato, lui e i due uomini di scorta, non sono stati in grado di trovare la casa da voi descritta…”
Ancora peggio. Come avevano fatto a non trovare una casa?! Per di più dopo
che avevano ricevuto una minuziosa mappa per raggiungerla. Dunwich non aveva intenzione di fargliela passare liscia, al Maestro del Misericordioso.
Quell’omino insolente avrebbe avuto ciò che meritava, poteva starne certo.
“… al posto della casa, nascosti fra la vegetazione, è stato rinvenuto solo un cumulo di ruderi anneriti…”
Dunwich sentì il cuore piombargli fra i piedi.
“… provvederemo a inviarvi il prima possibile parte del pagamento, per scusarci
dell’inconveniente. I nostri più cari saluti.”
Dunwich corse fino alla porta, afferrò il primo mantello che trovò a portata di
mano e la spada appesa alla rastrelliera, e si precipitò fuori incespicando sui gradini dell’ingresso. Il cavallo aspettava pazientemente vicino alla cancellata che
separava l’elegante giardino curato dalla strada affollata e chiassosa. L’aria era
tiepida e piacevole, una splendida giornata primaverile.
“… sono stati rinvenuti solo un cumulo di ruderi anneriti…”
142
Dunwich raggiunse le grandi porte d’ottone di Cambria galoppando come un
pazzo fra la gente, fermandosi solo un momento dal capitano delle guardie, che
subito rizzò la schiena al suo cospetto, aspettando un suo ordine.
«Devo assentarmi dalla città per qualche settimana. È una emergenza grave,
devo controllare di persona che tutto vada per il meglio.»
Il soldato strabuzzò gli occhi perplesso, e annuì senza fissarlo.
«Avvisa il palazzo della mia assenza, manda qualcuno a riferire ad Asaeld.»
«Signore… un’emergenza?!»
«Hai per caso qualche obiezione?»
«No, signore.»
Dunwich ripartì al galoppo senza aspettare oltre. La faccia costernata del capitano gli strappò un sorriso, ma fu solo un istante.
“…solo un cumulo di ruderi anneriti…”
***
I segni della guerra avevano intaccato in profondità la terra, là dove si erano
svolte le battaglie più cruente. Distese di fango e radici divelte disegnavano i
campi dove l’esercito imperiale e i ribelli avevano combattuto per giorni e mesi.
La neve dell’inverno aveva ricoperto lo scempio, infiltrandosi sotto le zolle e mischiandosi alla melma, fino a rendere quella terra un’immensa spugna senza vita.
“I ribelli si sono spinti così lontano dal Terrapieno?! Non pensavo…”
Dunwich cavalcava da dieci giorni, fermandosi solo per lasciar mangiare il cavallo o per cambiarlo direttamente ai pochi ostelli che incontrava ai crocevia. Ce
n’era sempre uno a disposizione per una Lancia importante quanto lui. Lungo la
vecchia strada lastricata, il viavai era quasi inesistente. Tutti i mercanti che provenivano da Nord e da Sud utilizzavano le carraie e i sentieri più nascosti, protetti da scorte poderose di mercenari. Il motivo era tristemente noto. I villaggi che
un tempo correvano lungo la strada maestra erano stati tutti abbandonati, e si
erano trasformati in cupi e pericolosi covi di malfattori e sbandati.
“Dovremmo fare qualcosa… Cambria è così vicina, non possiamo lasciare
queste terre allo sbando…” pensò mentre seguiva con gli occhi i lontani profili
delle case di un villaggio diroccato. “Siamo a uno sputo da Etelan, questi territori
devono per forza essere tenuti sotto controllo. La gente ha troppa paura che le
loro case finiscano inglobate nel fronte… le campagne intorno a Essar sono in
condizioni migliori, laggiù non si nota neppure che siamo in guerra.”
Erano passati tre anni dal suo trionfale ingresso nelle Lance Imperiali, e tutto
stava andando a meraviglia. Era stato innaffiato d’oro, abitava in una villa lussuosa nel cuore della città, partecipava a cene e salotti prestigiosi più spesso di
quanto potesse sopportare. Aveva accesso alle sale dove si discutevano le strate143
gie della guerra, e poteva dire la sua in ogni momento. Insieme ad Asaeld aveva
partecipato ad alcune incursioni, gli era stato assegnato il comando di un plotone
di Lance, e si era comportato magnificamente. Tre anni incredibili e sontuosi.
Stracciati come un bel sogno da quella maledetta lettera.
Dunwich non si era neppure reso conto che sua madre non mandava più notizie da mesi. Di quanto fosse strano che suo padre respingesse i medici, che non
potesse essere solo un colpo di testa. Troppo assorbito dalla vita mondana, dalle
pianificazioni strategiche, dalle brevi battaglie che aveva l’onore di gestire senza
alzare un dito. Troppo impegnato a evitare le donne che cercavano di sedurlo.
Era affondato nel suo stesso ego, disinteressandosi di tutto e tutti.
“Chissà come sta Silia.”
Non pensava a lei da molto tempo. Un’altra vittima del suo successo. Dopo
solo pochi mesi di carriera, appena si era trasferito, non aveva esitato a sbatterle
la porta in faccia. Non gli era mai interessata molto quella ragazzotta, buona solo
a scaldargli il letto. Da quando era diventato una Lancia aveva ben altre ambizioni, prima fra tutte, la guerra. Voleva andare al fronte, viaggiare lungo i confini
dell’impero per ristabilire l’ordine, e non voleva di certo tenersi una donna a casa
ad aspettarlo.
“Avrei potuto almeno spiegarle cosa mi passava per la testa… ma ormai…”
Come aveva fatto a dimenticarsi della sua famiglia, si chiese. Gli ultimi medici
erano tutti tornati a mani vuote, scacciati via da suo padre. Perché non aveva
preso in mano la situazione? Ricordava molto bene le aspre critiche che
Mordraud gli aveva fatto, l’ultima volta che si erano visti.
“Torna a far carriera, Dunwich. Dopotutto, tale padre tale figlio.”
«Io non sono come Varno!» sibilò infuriato. Il cavallo stava rallentando sempre
di più, sopraffatto dalla stanchezza. Dunwich picchiò con forza i talloni e lo costrinse a proseguire ancora.
“Mio padre potrà aver fatto qualche errore, ma Mordraud esagera. Cosa avrei
dovuto fare?! Marcire in quella foresta e invecchiare di rimpianti?”
Per colpa di quella lettera avrebbe perso la festa di Primavera a palazzo, una
delle poche a cui partecipava l’Imperatore. Non riusciva a capire se gli dispiacesse, o si sentisse sollevato. Della vita mondana avrebbe fatto volentieri a meno,
ma le Lance avevano precisi obblighi da rispettare nella società. A volte si chiedeva se non fossero troppi, rispetto ai reali successi sul campo dell’esercito di
Cambria. Dunwich aveva idee ben diverse su come gestire la guerra. Niente dispersioni inutili lungo un fronte immenso, niente battaglie campali, nessuna parata né schermaglie diplomatiche con i territori in bilico fra le due fazioni.
“Un’incursione mirata, un cuneo con centinaia di Lance ad aprire la strada ai
cavalieri. Dobbiamo colpire a martello il Terrapieno, concentrandoci solo su una
direttiva, con le retrovie che si allargano sempre di più per prendere il controllo
144
delle zone intorno all’asse d’attacco. Puntare a Eld senza esitare. In estate, quando le loro forze sono disperse per proteggere l’intera tratta del confine. Il mio
piano è buono, maledizione…”
Era una strategia su cui rimuginava da tempo, e che aveva già proposto diverse
volte ad Asaeld senza successo. Non capiva perché si rifiutasse così ostinatamente di prenderla in considerazione.
«Non si può fare» gli aveva semplicemente risposto.
«E perché mai?! È un buon piano, e nessuno l’ha mai tentato prima…»
«Secondo te, come mai? Se è così buono, e così lineare, perché non l’ha mai attuato nessuno?» Asaeld era un uomo autoritario, e molti faticavano a reggere una
lunga conversazione con lui, schiacciati dalla sua presenza. Ma Dunwich no.
«Si vede che nessuno ci ha mai pensato…»
«No, che idiozia! In tanti ci hanno pensato. Ed è stata anche tentata!»
Dunwich era trasalito, inconsapevole di quell’importante precedente.
«E quando?!»
«All’inizio della guerra, fu uno dei primi tentativi. Ma andò male… assai male.
Da allora, nessuno ha più intenzione di tentare un’incursione simile.»
«Ma io non ho mai trovato nulla, nessun libro, neppure un commento su quella battaglia! Come mai?!»
Asaeld aveva scrollato le spalle disinteressato. «Si vede che è stata una sconfitta
fin troppo cocente, ed è stata rimossa dagli annali.»
Dunwich non era molto convinto della spiegazione del suo comandante, ma
non poté fare molto più che accettare la cosa in silenzio. Avrebbe studiato qualcos’altro.
I villaggi svanirono alle sue spalle, e la strada che portava alle montagne a
Nord finalmente scartò verso Est, tuffandosi fra le colline ammantate di boschi.
Il fronte era vicino, ma lui sapeva come aggirarlo. Negli ultimi tempi, la linea si
era spostata chiudendo il passaggio che aveva usato da ragazzo per tornare a casa. Ma in quella zona, le maglie del fronte erano ancora larghe. Cambrinn teneva
sotto osservazione le strade di montagna transitabili dall’esercito, ma non poteva
tenere d’occhio i sentieri più impervi. Lui ne conosceva diversi. Scelse quello più
imboscato e tortuoso.
Dunwich seguì a memoria il percorso, insinuandosi sempre di più all’interno
del letto di colline che salivano e scendevano senza sosta in tutte le direzioni. La
foresta aveva un potere calmante sui suoi nervi tesi. Al calar della notte si concesse un lungo riposo corroborante, ben nascosto dagli alberi e dalla coperta color terra che aveva nella bisaccia.
“Mi sembra di essere tornato bambino… quando passavo la notte fuori in
giardino e papà si arrabbiava” pensò fissando le fronde che si agitavano silenziose.
145
“Tre anni… Mordraud dovrebbe averne diciannove, ormai.”
Sperava con tutto il cuore che fosse soltanto un malinteso. Altrimenti cosa
avrebbe fatto, si chiese angosciato.
Si addormentò prima di conoscere una risposta.
***
Impossibile dimenticare quel sentiero. Saliva dolcemente piegandosi intorno alle basse pareti di terra bucherellate dalle radici, come un solco scavato da un aratro. Quando pioveva, i ciottoli ruzzolavano nei rivoli d’acqua ammassandosi a
destra, dove riposava un masso tondeggiante. Il sentiero lentamente saliva e saliva, fino a raggiungere il piano del bosco, battuto sempre da un leggero vento da
Ovest. Se si fosse arrampicato su uno di quegli alberi, la quercia a cui un fulmine
aveva spezzato uno dei rami bassi creando un bizzarro ponte levatoio, avrebbe
potuto vedere il piccolo villaggio a un’oretta di distanza. L’aveva fatto decine di
volte, quando giocava da solo e si immaginava grandi storie di mostri e guerrieri
come suo padre che li sconfiggevano, stanandoli uno dopo l’altro. Il sentiero
curvava ancora, superava un ammasso di pietre sbeccate che i suoi genitori avevano accumulato lì mentre sistemavano la casa, e finalmente avrebbe visto l’aia
dove razzolavano le galline, tenute d’occhio dal cane da caccia nero di cui non
ricordava più il nome. Era grosso e puzzava da morire, ma era sempre stata una
brava bestia. La sua cuccia era proprio a ridosso della parete a Sud della casa,
quella che guardava al sentiero, su cui si affacciavano le finestre quadrate decorate con il pizzo bianco.
Dunwich quasi credette di vedere la casa per davvero, perso in un viaggio
all’interno dei suoi ricordi. Invece, al posto del luogo in cui era nato, non c’erano
altro che arbusti, giovani alberi e muschio verde scuro.
“…solo un cumulo di ruderi anneriti…”
«Tutto distrutto» mormorò senza forze.
«Tutto bruciato.»
Dunwich vagò fra le rovine guardandosi intorno con occhi vuoti, spostando di
tanto in tanto le macerie nella speranza di trovare qualcosa, qualsiasi cosa potesse
aiutarlo a capire. Com’era potuto accadere, si chiese disperato. Era stata una fatalità? Erano riusciti a mettersi in salvo? Si sentiva travolto da una cascata di domande. Si guardò le mani. Erano nere di fuliggine e sanguinavano in più punti,
dove le schegge di legno erano penetrate sotto la pelle.
Dunwich iniziò a cantare. La sua voce disegnò nell’aria una triste nenia, un
canto funebre appena sussurrato, che crebbe fino a conquistare un ritmo e una
cadenza inquietante, zoppa. Il culmine giunse all’improvviso. I suoi occhi divennero vetro trasparente, due biglie che lasciavano intravedere il sangue e i nervi
146
rinchiusi oltre la cavità oculare. Il paesaggio virò al grigio, velandosi di una nebbia improvvisa. Non molto lontano dalla casa, Dunwich sentì due colonne di
suoni impennarsi fra gli alberi, piuttosto distanti l’una dall’altra, e non perse tempo. Risonanze di morte. Le vedeva come se fossero composte di note bianche.
Saltò le rovine e corse nel cuore della foresta mantenendo gli occhi al cielo, dove
le due colonne salivano fino a sfiorare le nuvole con i loro echi. Scelse la più intensa, deglutendo a fatica un sasso in gola.
Ai piedi di un vecchio albero ritorto, Dunwich prese a scavare con le mani,
scuotendo la testa per disperdere il canto. Ogni colore ritornò al proprio posto, e
i suoi occhi riapparvero nelle orbite. Non dovette scavare a lungo. Con i polpastrelli ebbe la sgradevole sensazione di sfiorare qualcosa di molliccio e putrescente.
Era la gamba di sua madre.
Dunwich cadde indietro e balbettò un urlo strozzato.
***
«MALEDETTO! CHE COS’HAI FATTO?!»
Il cavallo galoppava così velocemente che le sue lunghe zampe sembravano
sfiorare appena le lastre di selce che rivestivano la strada. Le colline, le foreste e il
fronte erano ormai alle sue spalle. Non ricordava un istante della sua fuga precipitosa, sapeva solo di aver gridato maledizioni cariche di rabbia corrosiva, e di
non essersi mai fermato per riposare. La bestia rantolava disperatamente, con il
cuore ormai finito. Dunwich strattonò le briglie con ancora più forza.
«Lo so che sei stato tu… bastardo infame!»
Si era aspettato di trovare la sua famiglia uccisa dalle fiamme o dal crollo della
casa, e si era preparato a sopportarlo. Ma quello che aveva visto superava di gran
lunga le sue più nere previsioni.
Il corpo di suo padre era stato crivellato di pugnalate, decine e decine di ferite
inferte da una mano imprecisa e brutale. Sua madre non avrebbe mai potuto fare
una cosa simile. Gwern era a malapena un bambino.
Mordraud.
«Perché l’hai fatto? PERCHÉ?!»
Eglade era morta di paura e di stenti. Varno era stato assassinato. La casa in cui
era nato non esisteva più.
Dunwich afferrò la testa del cavallo, urlandogli nell’orecchio una breve melodia rabbiosa e sgarbata. L’animale nitrì disperatamente, e sbavando a cascata dalla bocca aperta accelerò ancor di più, oltre ogni sua possibilità.
Doveva trovare Mordraud.
147
***
«Ti va un bicchiere di vino? Ci sono anche i biscotti secchi che la cuoca ha
preparato ieri…»
«Mh, perché no?!»
«Ci penso io.»
Mordraud si alzò dalla sua morbida poltrona, sgranchendosi le gambe dopo un
sbadiglio. La saletta da lettura era calda e piacevolmente profumata da un vaso di
fiori freschi, un aroma sottile e soporifero. Deanna passava la maggior parte del
tempo in quella stanza, a volte senza uscire neppure per pranzare. Mordraud, allora, si sedeva con lei sul largo davanzale della finestra, che dominava il cortile
sul retro della villa e i tetti delle case fino alle mura a Sud del feudo. Mangiavano
con il piatto in mano come in una festa all’aperto. Quando Adraman era a casa si
riunivano al tavolo nella sala dei ricevimenti, e Mordraud restava in rispettoso
silenzio in attesa del momento in cui Deanna si stancava di conversare distrattamente con suo marito, per poi seguirla di nuovo nel suo amato salottino.
I primi mesi con lei non erano stati facili. Deanna era abituata a comandare a
bacchetta, e Mordraud odiava essere chiamato per ogni sua frivolezza.
“Mordraud, raccontami ancora la storia di Cambirian” e ancora “Mordraud,
leggimi quel racconto della maga Isella mentre mi sistemo i capelli.”
Oppure, “Mordraud, vai in paese e compra qualche biscotto al mosto, e prendi
anche una bottiglia di vino dolce.”
“Mordraud fai questo, Mordraud fai quello…” era un ritornello che stava logorando la sua debole pazienza. Aveva superato i diciotto anni, era quasi un suo
coetaneo, ma il suo aspetto ancora infantile lo condannava a essere poco più che
un paggetto, o ancor peggio una balia. A volte Deanna gli chiedeva persino di
raccontarle una storia prima di appisolarsi, e Mordraud doveva convivere con
l’ansia di veder piombare Adraman in camera da letto, infuriato dalla mancanza
di rispetto della moglie.
La primavera portò con sé l’ennesima stagione degli scontri, e la maggior parte
dei soldati del feudo partì per dislocarsi lungo tutta la frontiera. Adraman se n’era
andato senza neppure salutarlo, dopo un brutto litigio con Deanna. Mordraud
sentì tutto dalla sua camera, anche se era dalla parte opposta della grande casa.
«Perché mi tratti così?! Non merito tutto questo!» aveva urlato Adraman, più
con dolore che con rabbia.
«Che diritto hai di pretendere qualcosa da me? Passi mesi lontano da casa, e ti
aspetti che al tuo ritorno io sia a braccia aperte, anzi… a gambe aperte sul letto?!»
148
Deanna non mostrava alcuna remora a rispondere a tono a suo marito. Quasi
sempre era Adraman a dover chinare il capo e accettare in silenzio. Ma quella
volta lui non sembrava intenzionato a mollare.
«Devi mostrarmi un po’ di rispetto, Deanna!» aveva risposto alzando la voce.
«Non puoi nemmeno immaginare come di solito gli uomini trattino le proprie
mogli!»
Mordraud era uscito per ascoltare meglio. Si era nascosto alla base delle scale,
pronto a sgattaiolare via al primo accenno di pericolo.
«Ah sì?! Vuoi sbattermi sul letto e scoparmi? Vuoi darmi un pugno in faccia
per riportami all’ordine?! Guarda, ho già la vestaglia, guarda qui… faresti in un
attimo a strapparmela via.»
Un silenzio innaturale era calato su tutta la casa, come se il litigio non avesse
mai avuto luogo. Ma durò poco.
Un tonfo, poi il suono di qualcosa che era volato in terra schiantandosi. Un solo, nitido cigolio del letto. E poi, un urlo spaventoso. Mordraud aveva visto
Adraman scagliarsi fuori dalla stanza sbattendo la porta con una tale forza da far
scricchiolare i cardini, e lo aveva seguito con lo sguardo fino all’ingresso.
Il cavaliere era rosso in faccia, ansimava e tremava. Aveva gli occhi rossi di un
pianto appena accennato. Era corso fuori a testa bassa, senza neppure chiudersi
la porta alle spalle.
Il giorno dopo, fu molto difficile convincere Deanna ad aprirgli la porta della
sua camera. Si era chiusa dentro e non era uscita né per colazione, né per pranzo.
Quando finalmente riuscì a entrare, Mordraud dovette dar fondo a tutta la sua
scarsa disciplina.
Deanna era mezza nuda, sdraiata sul letto a pancia in su. Non aveva alcun segno addosso, nessun livido o graffio, neppure il minimo accenno di uno schiaffo.
Stava bene, ma sembrava svenuta con gli occhi aperti. Si era alzata solo per
aprirgli, ed era subito ritornata sul grande letto disfatto.
La vestaglia di seta grigia era tirata su oltre la coscia, leggera come un bisbiglio.
Mordraud cercò in tutti i modi di non fissarle le gambe nude, e la curva invitante
del seno. I capelli neri le scendevano a scomposti boccoli sulla pelle, spargendosi
intorno fra le lenzuola sgualcite. Mordraud deglutì pesantemente. Era la prima
volta che vedeva da vicino il corpo di una donna, che non fosse quello di sua
madre. O di Larois, di striscio.
«Deanna, vieni a mangiare qualcosa…»
Lei non rispose. Mordraud si sedette e aspettò una sua risposta.
«Dopo ti va di giocare un po’ a dama? Devi darmi la rivincita!»
Nessuna reazione. Mordraud sentì per un istante l’insana pulsione di voltarsi,
afferrarla in modo virile, e guardandola negli occhi dirle sono io l’uomo che desideri.
Uno dei pensieri più idioti che avesse mai avuto in vita sua.
149
«Avevo poco più che la tua età quando mio padre mi ha promessa alla famiglia
Adren… anzi, mi ha venduta» mormorò Deanna con voce lontana. «Sai per
quanto mi ha venduta? La concessione di un terreno da pascolo a Est, una partita di legname e il diritto di prelazione su un ottimo raccolto di grano.»
«Io ero ancora piccola, non capivo cosa fosse un matrimonio, e mi sono ritrovata a dover dormire con un uomo che poteva essere mio padre» continuò lei.
Mordraud ascoltava imbarazzato, incapace di dire qualcosa di adatto. «Non mi ha
presa con la forza, anche se sarebbe stato un suo diritto. Ha aspettato per un anno. Alla fine ho ceduto. Cosa potevo fare?!»
Mordraud scosse la testa lentamente. Deanna voltò la testa per guardarlo negli
occhi. Non aveva pianto neppure una lacrima.
«Mi ha sempre trattato bene. Mi ha riempito di regali, vivo in una bella casa, ho
tutto quello che una moglie potrebbe desiderare. All’inizio ero anche riuscita ad
abituarmi all’idea di passare la notte con lui. Ma non è durato tanto.»
Mordraud sentì la mano fremergli. Era così vicino al suo seno che avrebbe potuto toccarlo senza muovere il braccio. L’idea che in quel momento Deanna lo
vedesse come un bambino gentile e pronto ad accogliere una confidenza lo faceva uscire di senno.
«Forse sono stanca delle sue continue partenze… mi aspetto di rimanere sola
da un giorno all’altro, una delle tante vedove di guerra che affollano questa città…»
«Adraman sa il fatto suo. Non è uno che si fa ammazzare» disse lui improvvisamente. Non era riuscito a trovare un modo migliore per dire ciò che pensava.
«Io so solo che da quando sento questa dannata paura, l’incubo della solitudine… rifiuto ogni sua cortesia, lo scaccio dal nostro letto… è come se, ecco…
per una parte di me, lui fosse già morto. E lo odio per questo, per avermi abbandonata. Sono una stupida, vero?»
«No, non dire così…» tentò di consolarla.
«Ma che sto facendo?» esclamò lei alzandosi a sedere sul letto. «Sei solo un
bambino, non dovresti neppure sentire certe cose… per gli Dei, cosa mi sono
messa a raccontare…»
Eccola, la parola maledetta. Mordraud le prese un abito, la accompagnò in cucina e mangiò qualcosa con lei, sorridendo e scherzando per tirarla su di morale.
Continuò finché Deanna non fece il primo sbadiglio, e solo allora se ne andò per
lasciarla dormire.
In piena notte, quando era sicuro che nessuno fosse nel salone, Mordraud prese una delle spade di Adraman che giacevano appese alla parete, e corse nel cortile dietro la villa.
150
Finché l’alba non spuntò all’orizzonte, Mordraud combatté contro il vuoto saltando e correndo senza mai urlare o dire una parola. Dentro la sua testa rimbombavano come martelli sull’ottone le ultime parole di Deanna.
“… sei solo un bambino… un bambino…”
Divenne un’abitudine. Quando tutti i servitori, Deanna, e chiunque potesse
vederlo dalle finestre delle case affacciate al cortile, erano andati a dormire, lui
afferrava una delle spade di Adraman dalla rastrelliera e si allenava da solo. Non
gli interessava la tecnica e la potenza. Tutto ciò che desiderava era racchiuso nel
semplice gesto di alzare e abbassare la lama, vederla scintillare alla luce della luna,
o ammirare le gocce di pioggia schizzare via quando un temporale lo sorprendeva ancora all’aperto. Se si accorgeva per tempo di aver fatto troppo rumore, spariva a ridosso del muro di cinta del cortile, nascosto dall’ombra densa.
***
«Posso entrare?» chiese timidamente Gwern, bussando lievemente alla porta.
«Mh! Sei già arrivato! Vieni, entra pure figliolo.»
La piccola casa sorgeva a un passo dalle mura a Nord, nel quartiere più povero
di Eld. Non era altro che una catapecchia in legno e argilla, costruita senza esperienza sopra le fondamenta di una vecchia guardiola per soldati abbattuta chissà
quanti anni prima. Fuori, la strada sterrata era un fiume di fango. Macerie coperte di muschio erano penetrate come un cuneo fra la parete della baracca e la possente fortificazione del feudo.
«Vi ho portato un po’ di verdura fresca, e quelle ossa per il brodo che mi avevate chiesto la settimana scorsa.»
«Ti sei ricordato! Grazie infinite… appoggia pure sul tavolo, e vieni di qua in
salotto.»
Chiamarlo salotto era una divertente esagerazione. Due sedie imbottite con
sacchi tagliati e sagomati colmi di paglia, un tavolino costruito con quattro assi
poggiate su ceppi di legna da ardere, e una stufa di ghisa con la canna sbilenca
che usciva dal tetto scrostato. Gwern entrò a passo felpato, sfilandosi gli stivaletti per non sporcare il vecchio tappeto liso che copriva il pavimento di terra battuta.
«Cosa state leggendo oggi?!»
«Consigli sulla semina del grano, anno 1522. Un ottimo manuale, ma non ci sono le
ultime pagine. Un vero peccato.»
Il suo nuovo amico poteva avere su per giù sei volte i suoi anni, e li dimostrava
tutti. Magro e curvo, vestito in modo sciatto, ma sempre pulito, Sernio passava il
suo tempo a leggere la miriade di libri che erano sparsi ovunque nella casa, impilati negli angoli, ammonticchiati per terra, nascosti sotto il tavolo. L’aveva cono151
sciuto al mercato poco prima dell’inverno. Vendeva libri usati dentro un feudo in
guerra.
Ovviamente, gli affari erano molto, molto sporadici.
A Gwern era piaciuto subito. Non aveva mai visto prima di allora il suo banchetto, perché Sernio lo approntava poche volte al mese, e un giorno aveva perso alcune ore a sfogliare i volumi in esposizione, leggendo le prime pagine e rimettendoli subito via per paura che il mercante lo rimproverasse. Lui non aveva
detto una parola, così Gwern, il giorno dopo, lo aveva cercato di nuovo per leggere qualcos’altro. Il piacevole intermezzo era continuato per molti giorni. Sernio
restava seduto e fisso con gli occhi sulla pagina di un grosso tomo rilegato di pelle, mentre lui sfogliava e pizzicava i fogli di pergamena continuando dal punto in
cui si era interrotto.
Gwern si era rattristato molto quando il suo piccolo passatempo era terminato
di colpo. Una mattina, il banchetto era stato smantellato, e nessuno al mercato
sapeva se e quando Sernio sarebbe tornato. Arrivò l’inverno, e Gwern continuò
immancabilmente a setacciare tutti i banchi nella speranza di ritrovare l’uomo dei
libri, come lui lo aveva soprannominato.
Larois lo aiutò senza saperlo. La locandiera, che conosceva tutti in paese, ogni
tanto effettuava qualche consegna a domicilio a chi aveva problemi a camminare,
ai malati e ai feriti. Un giorno particolarmente freddo, bloccata sul divano da un
brutto dolore alla schiena, chiese a Gwern di compiere il solito giro, e gli indicò
tutte le case in cui doveva passare. Quella di Sernio era l’ultima.
Quando Gwern vide le montagne di libri sparsi ovunque, restò a bocca aperta.
Aveva imparato a leggere da solo, o almeno così gli aveva raccontato tante volte
sua madre, grazie alle favolette che lei aveva scritto per Mordraud e che lui usava
per giocare. La malattia di Eglade non aveva fatto altro che peggiorare dopo la
sua nascita. Non aveva fatto in tempo a insegnargli tutto quello che lei sapeva.
Guardando quei tesori di conoscenza, Gwern si rese conto di quanto desiderasse
studiare. Come aveva fatto suo fratello Dunwich.
Sernio aveva lavorato in gioventù a Cambria come assistente nella biblioteca
dell’Arcana. Chiamato alle armi contro la sua volontà, aveva passato quasi un
anno al fronte in fanteria, defilandosi nelle retrovie ogni volta che iniziavano gli
scontri. L’idea di usare una spada dentro una scatola di metallo battuto lo disgustava al punto da rischiare le punizioni esemplari riservate ai codardi. Dovette
comunque incassarle in un paio di occasioni. Venti frustate al petto per essere
fuggito dalle punte di lancia nemiche. Quelle torture avevano minato la sua salute in maniera indelebile, e alla prima occasione, era fuggito dall’esercito.
Per qualche tempo aveva vissuto a Cambria, nascondendosi come un topo in
casa sua, finché una notte, terrorizzato dai vigilanti imperiali, preparò un carretto
con tutti i libri che possedeva e partì confondendosi fra i mercanti che conti152
nuamente andavano e venivano dalla capitale. La scelta del feudo di Eld era stata
una sorta di ripicca per quello che l’impero gli aveva riservato.
Dopo la sua prima visita, Gwern implorò Larois di poter effettuare personalmente le consegne, e la locandiera accettò senza fare storie. La sua schiena ringraziò, provata dalle lunghe sere di lavoro in taverna. Gwern imparò a conoscere
sempre di più il vecchio bibliotecario, finché fu lui stesso a invitarlo a leggere
qualcosa insieme. Sernio non frequentava nessuno ed era sull’orlo della povertà
assoluta. Gwern trovava sempre qualcosa da portargli. Per contraccambiare, lui
gli permise di prendere con sé i libri che desiderava, e lui passava le serate a impararli a memoria. Quando li riportava indietro poteva prenderne altri. Sernio
divenne ben presto il suo migliore amico, l’unico oltre Mordraud.
«Hai finito la storia delle isole Talbiadi? Ti è piaciuto?»
«Sì, mi è piaciuto moltissimo! Peccato che fosse breve.»
«Mh?!» Sernio ridacchiò e riempì la stufa con un ritaglio di radice secca. «Breve?! È un bel volume, di solito ci vogliono una decina di giorni per leggerlo tutto… tu quanto ci hai messo?»
Quello era il loro gioco. Gwern alzò il mento con orgoglio e fece un cenno
con le dita.
«Tre giorni?! Non ci credo!» esclamò il vecchio scuotendo scettico la testa. «Allora dimmi, come si chiama la moglie del maniscalco che cura e accudisce Tal
dopo che lui ha rischiato di affogare?»
Gwern fece finta di pensarci su, ma in realtà sapeva al volo la risposta. Voleva
creare la giusta attesa.
«Mh… vediamo… Clara!»
«Ottimo!» disse Sernio schioccando le dita. «Era facile. Ora te ne dico una difficile. All’inizio del racconto, Tal scopre nel cimitero di Calhann una lapide diversa dalle altre. Cos’aveva di particolare?!»
«Era di ossidiana, con venature d’argento!» rispose Gwern. Era una delle parti
che gli era piaciuta di più di quella storia.
«Sei proprio incredibile, Gwern!» Sernio batté le mani in un lungo applauso.
«Leggo tutte le sere, e anche al mattino se non devo lavorare. Altrimenti non
saprei cosa fare…»
«Mh… è per tuo fratello, vero? Ti manca tanto, immagino…»
Gwern annuì in silenzio. Da quando Mordraud viveva a casa di Adraman, lui
era sempre da solo. Prima di incontrare Sernio, non aveva mai qualcuno con cui
parlare. Larois gli faceva compagnia la sera mentre lavoravano, ma durante il
giorno lei era spesso impegnata nella gestione della locanda, e non poteva portarselo sempre dietro. Con gli altri bambini giocava molto di rado, perché il suo fisico era debole e incline alle crisi di cui ancora non aveva scoperto una causa.
153
«Il suo lavoro da Adraman sta andando bene?» chiese Sernio poggiando il libro
che stava leggendo prima del suo arrivo.
«Sì, mi ha raccontato che Deanna si è affezionata a lui, e che passano gran parte della giornata insieme. Giocano a dama, leggono… in realtà non riesco a immaginarmi mio fratello che chiacchiera di pettegolezzi, ma lui sembra trovarsi
bene…»
«E per quella tua paura? Dici che potrebbe veramente succedere?»
«È ancora presto per dirlo. Speriamo di no.»
Gwern aveva temuto sin dal primo giorno che Mordraud avesse accettato quel
lavoro solo per avvicinarsi a Adraman, con l’obiettivo poco rassicurante di entrare nell’esercito. Larois lo supponeva, ma sperava che la compagnia di una ragazza avrebbe ammorbidito il suo carattere acerbo e spigoloso, oltre che i suoi pericolosi propositi. E poi, nell’ottica della locandiera, Mordraud era ancora giovanissimo. Avrebbe avuto tempo per cambiare idea. Ma Gwern sapeva che suo fratello dimostrava un’età che non rendeva onore ai suoi veri anni. Il suo desiderio
di combattere non era solo una romantica infatuazione per la guerra. Era qualcosa di molto più profondo.
«Mh…» mormorò fra i denti Sernio «e tu, come stai? L’altro giorno mi hai fatto preoccupare.»
Gwern era stato male proprio durante la sua tanto attesa visita a Sernio. Una
crisi lieve, che però era stata sufficiente a stenderlo. Il bibliotecario era rimasto
paralizzato dalla paura, incapace di reagire. Per sua fortuna, Gwern ormai era
abituato a resistere a quegli attacchi, e si era ripreso dopo un paio d’ore di tormento.
«Oggi sto bene, Larois mi ha preparato la zuppa di erbe aromatiche. Mi piace
da impazzire, e fa anche molto bene… o almeno, così dice lei.»
«Fidati, quella donna sa il fatto suo» disse Sernio schioccando le dita. «Ma
adesso è arrivato il momento delle domande. Sei pronto?»
«Sì!» rispose Gwern saltellando sulla sedia.
«Bene, cominciamo…»
***
«… mi spieghi dov’eri finito?!»
Dunwich stava correndo a testa bassa lungo il corridoio principale del palazzo
delle Lance. Aveva sentito qualcuno chiamarlo a gran voce ma non poteva permettersi di perdere tempo. Doveva cercare informazioni, pagare le persone giuste per le ricerche che aveva in mente, preparare una breve argomentazione per il
prossimo incontro al tavolo della strategia. Doveva anche scoprire quanto tempo
era stato fuori città, perché durante il ritorno aveva perso il conto dei giorni.
154
L’unica sua preoccupazione era trovare Mordraud, e aveva già qualche idea su
dove potesse essersi nascosto.
«Cosa vuoi? Ci conosciamo?!»
La Lancia che lo aveva fermato in malo modo era più bassa di lui ma molto
più grossa. Un piccolo toro dalla faccia poco sveglia, incattivita da due occhi a
spillo.
“Siamo scesi così in basso da accettare soggetti così scadenti? Niente selezione?!”
«Tessaro, cavaliere di seconda classe. Assistente personale di Asaeld, grande
comandante delle forze imperiali. Devo continuare?»
«Senti, Tessáro» rispose Dunwich storpiando volutamente l’accento. «Chi ti ha dato il permesso di rivolgermi la parola?!»
«Asaeld in persona. Mi ha detto di cercarti, ed era molto arrabbiato.»
«Bene, allora levati di mezzo, stavo appunto andando da lui.»
Tessaro tossì con disinvoltura, senza togliersi dalla faccia quel sorrisino malizioso che Dunwich gli avrebbe volentieri strappato via con una coltellata. «Allora
sei fuori strada. Devi andare di là.»
Senza rispondergli, Dunwich tirò via il braccio che lui stava stringendo e si incamminò nella direzione opposta. «Branco di idioti perdenti…» sussurrò disgustato mentre cercava la porta dello studio privato del capitano.
Asaeld lo stava aspettando seduto sulla sua poltrona preferita, dietro la scrivania in legno nero e intarsi d’oro che era uno dei pezzi più pregiati del palazzo. La
stanza era pesantemente arredata nei toni cupi dell’ebano impreziosito da arabeschi di metalli preziosi, dalla mobilia fino ai bicchieri del servizio disposto sul tavolino accanto al caminetto. Per Dunwich, quel tripudio di lamine scintillanti,
intagli e decori era inutile, deprimente e di cattivo gusto. “Le Lance stanno diventando delle donnette, altro che guerrieri invincibili” pensò ridacchiando fra
sé.
«CHE COSA TI PASSA PER LA TESTA?!»
Dunwich chiuse la porta alle sue spalle con un leggero colpetto del piede.
«Qual è il problema Asaeld? Abbiamo perso un tafferuglio?»
«Sei proprio impossibile! Sei stato via per venti giorni! Te ne rendi conto?» Il
comandante aveva la faccia in fiamme e le nocche spellate per i continui pugni
sulla scrivania.
«Questioni familiari. Ora ho risolto tutto, quindi calmati» rispose Dunwich distrattamente.
«Ma con chi credi di parlare?! Sono il tuo comandante, per gli Dei! Mostra un
minimo di rispetto!»
Dunwich si profuse in un inchino formale dopo due secchi colpi di tacco.
155
«La mia famiglia ha avuto un grosso problema. Dovevo scoprire cosa stava
succedendo, altrimenti avrei perso tutta la mia concentrazione» disse Dunwich
umilmente. «Chiedo venia, comandante.»
Asaeld sembrava sul punto di esplodere di nuovo, ma il repentino cambio di
atteggiamento di Dunwich lo aveva spiazzato. Si ributtò a sedere sulla poltrona e
gettò un foglio sul piano di legno, su cui era tracciato un intrico di linee di colore
e spessore diversi.
«Dacci un’occhiata, voglio un tuo parere entro stasera. Un piano d’attacco in
zona Ansa dell’Hann. Dopo cena devo presentarlo alla fanteria.»
Dunwich prese lo schizzo senza abbandonare la rigida posa di inchino, lo osservò un istante, e lo mollò di nuovo sulla scrivania.
«In quel modo, dobbiamo coprire entrambi i lati della nostra colonna. Se spostassimo l’attacco in prossimità della collina del Nocciolo… hai presente? Ecco,
se ci spostiamo verso Sud, possiamo sfruttarla per coprirci il lato sinistro.»
«Così però perdiamo la possibilità di schiacciarli contro il fiume Hann nel punto in cui si allarga…» obiettò Asaeld, fissando attentamente il foglio.
«L’Hann? È troppo pericoloso in quella zona. Dovremmo puntare alla Lama
dell’Hann, conquistarla e spingersi fra le gole dei monti che si allungano verso
Est. I corsi d’acqua meridionali che attraversano il territorio dei ribelli sono pericolosi, perché loro li padroneggiano da una vita, mentre noi li abbiamo visti solo
sulle mappe. Evitiamo.»
«Quindi come proponi di effettuare gli spostamenti?»
Dunwich afferrò un pennino e lo intinse nell’inchiostro nero. Con alcune rapide pennellate allestì uno schema di posizione per le truppe, quasi senza riflettere.
Asaeld studiò il risultato senza mostrare nulla di ciò che stava pensando.
Era un ottimo piano. Forse migliore del suo.
«Devo rifletterci su. Ora puoi andare, e vedi di non farmi altri scherzi. Hai delle responsabilità nei confronti dell’impero, la prossima volta che fai una cosa simile…» Asaeld lo fissò con estrema serietà «… ti spedisco a pulire latrine al
fronte.»
«D’accordo, comandante» rispose Dunwich rompendo l’inchino. «Posso andare ora?»
Asaeld annuì e lui se ne andò a passo spedito, senza neppure salutarlo.
«Ho cacciato ragazzi più rispettosi di te, per motivi più futili» disse Asaeld parlando da solo. «Ma erano tutti molto meno dotati.»
La Lancia aveva ancora in mano il piano d’attacco improvvisato da Dunwich.
Lo guardò solo un ultimo istante, poi accartocciò il foglio minuziosamente, riducendolo a una piccola palla maciullata.
Asaeld tornò a leggere i documenti con un mezzo sorriso dipinto sulla faccia.
156
***
Il pane era caldo e fragrante. Mordraud prese la pagnotta e la annusò lentamente, chiudendo gli occhi per gustarsi quel fantastico profumo di buono. Prese
un lungo coltello, preparò quattro fette larghe, intinse il mestolo nel miele di castagno e lo spalmò con metodo, caricando il pane fino a farlo scoppiare. Dal
pentolino che bolliva sulla stufa saliva un filo di vapore sottile. Prese una spatolina e raccolse il grasso del latte che si stava condensando lungo il bordino di latta.
La colazione era pronta.
Deanna era piombata in una crisi nera, schiacciata da una velenosa depressione
che nessuna favola, nessuno scherzo o battuta sembravano in grado di debellare.
Adraman non era più tornato a casa dopo il loro violento litigio notturno, ed
erano già passati quattro mesi senza che giungessero sue notizie dal fronte, a parte i dispacci sui progressi del suo esercito. Spesso lei imprecava e ridacchiava in
modo malsano crogiolandosi nel pensiero che suo marito in realtà fosse morto,
ma subito scoppiava a piangere e si gettava sotto le coperte senza rispondere a
niente e a nessuno. Mordraud non sapeva più cosa fare.
Gli altri servitori non lo aiutavano, stanchi e incattiviti dai comportamenti di
quella viziata donnetta lagnosa. Lui però non riusciva a pensarla come loro. Sarebbe stato più facile, e anche più coerente con il suo piano iniziale. Quello di
entrare nelle grazie di Adraman e conquistare finalmente un posto fra i ribelli.
Ma non era proprio in grado di liquidarla come pazza e fregarsene.
“Non ti far venire strane idee, vecchio mio” pensò. “Lei è intoccabile. E tu
sembri un bamboccio col latte della mamma sulle labbra.”
Difficile resistere alla bellezza lasciva di Deanna. Ogni suo gesto, ogni volta
che muoveva la bocca per parlare o mangiare, tutto sembrava calcolato per enfatizzare al massimo il suo corpo. Più si avvicinava la bella stagione, più i suoi abiti
erano leggeri e svolazzanti. Mordraud non sapeva se avrebbe retto un’intera stagione di caldo e tessuti fini fingendo di essere un bambino, quando dentro si
sentiva ormai un uomo.
“Ora basta. Resta concentrato, vecchio mio… pensa solo all’obiettivo…”
Mordraud salì le scale e aprì la porta della sala da lettura. Deanna stava sfogliando senza interesse una vecchia raccolta di racconti cavallereschi. Una luce
calda e dorata inondava la stanza, velata dalle sottili tende di lino che ondeggiavano sulla finestra aperta.
«Ecco la colazione. Devi mangiare un po’, ieri non hai cenato» disse Mordraud
con un sorriso «e non accetto rifiuti.»
«Non ho fame.»
Mordraud si avvicinò con il vassoio e si piazzò immobile davanti a lei, senza la
minima intenzione di cedere.
157
«Allora Mordraud, hai sentito quello che ho detto?! Non ho fame!» sbraitò
Deanna alzandosi di scatto in piedi. Quando era in quello stato si arrabbiava con
chiunque, anche con lui. Ma ormai si era abituato.
«Non mi interessa se hai fame o no. Devi mangiare. Punto.»
Deanna lo fissò in cagnesco, poi improvvisamente piegò la testa socchiudendo
gli occhi.
«Cosa c’è? Sono sporco di miele in faccia?»
«No…» mormorò la ragazza «è che mi sembri più… mh… alto. Anche il tuo
volto è un po’ cambiato.»
«Come?! Ma cosa stai dicendo?»
«Guarda.»
Deanna alzò una mano e si toccò la fronte. «Quando sei arrivato qua da noi
ero più alta di te di tutta la testa. Ora mancano solo due o tre dita e poi potremo
guardarci negli occhi.»
Mordraud arrossì imbarazzato. C’era qualcosa che non andava, pensò. “Sono
sempre cresciuto con lentezza snervante. È impossibile, mi sta prendendo in giro…”
«Hai messo su anche i muscoli sulle spalle» continuò lei abbozzando finalmente un sorriso. «Non me ne ero mai resa conto…»
Mordraud tossì strusciando i piedi, mostruosamente teso. Sentire Deanna
commentare il suo corpo lo aveva gettato nella confusione più totale.
«Ecco… il tempo passa per tutti…» bofonchiò poggiando pesantemente il vassoio sul tavolino. «Oh, mi sono dimenticato il barattolo del miele. Vado a prenderlo.»
La sua fu una vera e propria fuga. Deanna non fece in tempo a dirgli che le fette erano già pronte e spalmate, che lui era già in cucina con il fiato grosso e gli
occhi spalancati.
«Ma cosa si mette a dire?!» imprecò annaspando. «Non mi sembra proprio di
essere cresciuto… sono sempre il solito bambino…»
Mordraud si guardò le mani. Il fiatone calò fino a sparire, così anche la tensione nervosa che lo aveva attanagliato.
Le sue dita sembravano diverse.
Erano più lunghe, e i calli della spada che manovrava tutte le notti rendevano
la sua pelle leggermente vissuta. Anche i polsi erano diventati più massicci, e via
così fino al petto. Si stava irrobustendo, e non se ne era neppure accorto. L’ansia
ritornò con la violenza di uno schiaffo.
“Non fare un’idiozia vecchio mio… non provare neppure a pensarci…”
Ovviamente la resistenza durò poco. Nella sua fantasia apparve Deanna, completamente nuda sul letto matrimoniale, che lo invitava a saltarle addosso strusciando le cosce e aprendole quel tanto che bastava a farlo sognare. Poteva ve158
dersi di schiena, mentre si avvicinava troneggiando su di lei. Spalle larghe e definite, gambe d’acciaio, braccia che avrebbero potuto scardinare il mondo.
«Questa non ci voleva» mugolò sconsolato, tornando a fissarsi le dita.
«Non ci voleva proprio…»
159
XIII
«Sernio, sei in casa?»
Il vecchio libraio trasalì stupito. Stava finendo di pelare un paio di vecchie patate mosce, non aspettava visite quel giorno. Aprì la porta della baracca e fece un
passo indietro per far entrare l’ospite inatteso.
«Signor Saiden, prego, entrate pure…»
Non lo vedeva da un paio d’anni. L’ultima volta che era passato da Eld aveva
comprato un borsone pieno di libri, e con il denaro che gli aveva lasciato, Sernio
era campato per molti mesi. Incredibile quanto somigliasse al nonno, pensò
mentre gli faceva segno di entrare.
Il signor Saiden era il nipote di Saite, un celeberrimo cantore di Cambria,
quando Sernio era ancora un ragazzo. L’aveva incontrato mentre svolgeva un lavoro all’interno della biblioteca dell’Arcana. All’epoca, suo nonno era molto famoso. Uno dei più grandi ricercatori di armonie della storia di Cambria. Un avido lettore. Suo figlio, a detta di chi l’aveva conosciuto, era almeno pari al padre
come capacità, ma se n’era andato da Cambria da giovanissimo. Per cui, Saiden
era cresciuto fuori dai territori imperiali, e non aveva seguito la fortuna di suo
nonno nell’Arcana. Si somigliavano come due gocce d’acqua. Gli stessi occhi
nocciola, i capelli neri e curiosamente lucidi. Il volto appena segnato da rughe
sottili. Pazzesco, pensò Sernio. Era la sua copia sputata.
«Vorrei comprare qualche romanzo. Passavo di qui per ordinare un po’ di
scorte per la brutta stagione, e ho pensato che tu potessi avere qualcosa di interessante.»
«Non molto in realtà, signore…» rispose Sernio con fare eccessivamente servile «ma sono certo di avere qualcosa che possa piacervi.»
160
Saiden viveva a sei giorni di cavallo da Eld verso Sud. Era una zona particolarmente selvatica, disabitata. In una torre che sorgeva sui resti erosi dal tempo di
una piccola cittadina abbandonata. Saiden gli aveva spiegato che la sua famiglia,
anche suo nonno, erano i proprietari di quella torre quando ancora la città era
abitata. Non aveva bisogno di molta compagnia, gli piaceva stare da solo. Per
anni era stato un cantore affermato a Calhann, sullo stretto del mare interno, e si
era stancato di vivere circondato dalla gente. Un tipo inafferrabile, pensò Sernio.
Ma gli ispirava una naturale fiducia, non sapeva il perché. Dopotutto, aveva conosciuto la sua famiglia e gli aveva lasciato una magnifica impressione.
Sernio prese a cercare fra i suoi libri qualcosa che potesse piacere al signor Saiden.
«Avete ancora degli allievi, signore? Volete qualcosa anche per loro?»
«Sì, ne ho qualcuno. Ma devono studiare altro, non lascio loro il tempo di leggere i miei romanzi…» rispose lui ridacchiando.
L’ultima volta che era passato, pensò, aveva fatto incetta di romanzi storici. Ricostruzioni romanzate di celeberrimi momenti del passato. Trovò un paio di libri
che probabilmente non gli aveva mai proposto. Agli albori del mito: la seconda era
imperiale di Syl, bel racconto pensò. Prese anche la battaglia sul ponte dell’Hann, un
grande classico. Glieli passò, Saiden li sfogliò velocemente e annuì soddisfatto.
«Ottimo… hai anche qualcosa di più vecchio?»
«Mh, vedete… non esiste molto materiale della prima era, gli storici hanno dibattuto spesso…» Sernio si fermò e si scusò. Quando entrava nell’argomento
tendeva a parlare troppo. Ovvio che il signor Saiden sapesse quelle cose, pensò.
Aveva sicuramente disposto di una fantastica educazione.
«No, continua» gli chiese inaspettatamente Saiden. Poggiò i libri sul tavolaccio
e si sedette su un ceppo. Sernio prese due bicchieri e una caraffa d’acqua, e si accomodò imbarazzato di fronte a lui.
«Gli storici hanno sviluppato molte teorie sulla Prima Era, signore… le uniche
tracce scritte di quell’epoca parlano già di Cambria capitale, di Syl e di Calhann
quasi come le conosciamo tutt’ora. Non disponiamo di alcun reperto più antico,
che ci possa aiutare a ricostruire chi le abbia innalzate, o come fossero fatte agli
inizi della Prima Era. Parlo del fatto che non abbiamo idea delle radici del mondo in cui viviamo, signore… siamo molto ignoranti per quanto riguarda il nostro
passato, se mi concedete la battuta.»
«C’è chi dice che la Prima Era sia stata vissuta e dominata dagli Aelian, no?»
ribatté Saiden. Sernio annuì poco convinto.
«Sicuramente, non c’è dubbio che gli Aelian abbiano caratterizzato
quell’epoca» rispose. «Ma cos’ha portato Cambria a diventare la nostra capitale?
E chi sono gli Aelian, cos’è successo fra noi e loro? Non sappiamo quasi niente.»
161
Saiden corrucciò un istante le labbra. «Stiamo comunque parlando di millecinquecento anni fa, facile che si sia perso tutto.»
«Mh, certamente…» rispose Sernio. Non voleva contraddirlo, ma a lui sembrava parecchio strano che ci fosse un tale buco nel quadro della storia.
«C’è da dire che molti non credono nemmeno che gli Aelian abbiano vissuto a
Cambria» concluse Saiden riprendendo a sfogliare uno dei due pesanti volumi.
«In effetti, capisco che l’argomento possa attrarre… anche i ragazzi che educavo
a Calhann si ponevano domande simili.»
«E voi cosa rispondevate, se posso chiedervelo?»
«Che gli Aelian sono esistiti, e hanno miseramente perso contro di noi» esclamò Saiden come se fosse un’ovvietà. «Inoltre, sono convinto che la nostra gente
sia discesa da Ankhar, e che proprio per questo motivo, non disponiamo di alcun
reperto scritto di un periodo più antico.»
Sernio lo fissò sbalordito. Era un’idea geniale. Azzardata, ma assolutamente
geniale. Che ci fosse un continente molto a Nord era una diceria comune, che lui
riteneva avesse molti spunti di verità. Con la soluzione di Saiden si risolvevano
parecchie incognite storiche.
«Resta il mistero di come gli Aelian siano crollati… e di conseguenza, come
abbiamo fatto noi a prendere il loro posto. Purtroppo, di loro non sappiamo
quasi niente.»
«Non sono molto diversi da noi» rispose Saiden. «Siamo più simili di quello
che sembra.»
«Ne avete incontrato uno?!»
«Un paio» disse Saiden. «Ho avuto la fortuna di scambiare con loro qualche
parola.»
«Fantastico…»
«Già» concluse il cantore alzandosi dal ceppo. Prese i suoi volumi e lasciò sul
tavolo una pila di scudi d’oro. Cospicua, anche troppo. Sernio fece per ridurle,
ma Saiden gli disse di lasciare stare. Uscì dalla baracca e Sernio lo seguì fuori.
«È stato un piacere.»
«Tutto mio, signore» rispose Sernio. Sulla strada che passava di fronte a casa
sua stavano camminando Larois insieme a Gwern. Sernio gli fece un cenno di
saluto e lui si sbracciò per ricambiare. «TUTTO A POSTO? HAI ANCORA LE
PATATE?» gli chiese Gwern, attirando l’attenzione di Saiden con le sue grida.
«Sì ragazzo, tranquillo!»
Saiden tornò sui suoi passi e si affiancò a Sernio. Stava fissando Gwern. Sembrava perplesso, spiazzato. «Chi è quel ragazzino?» gli chiese.
«Oh, un orfano del posto… mi porta ogni tanto qualcosa da mangiare, è un caro bambino.»
162
«Capisco…» rispose lui, continuando a seguirlo con gli occhi finché Gwern
non sparì oltre una curva.
«Sernio, possiamo rientrare un momento?»
«Certo maestro, prego…»
Saiden varcò la porta della baracca, diede un’occhiata alla strada e fissò la
schiena di Gwern, che si stava allontanando velocemente. Il vecchio libraio gli
chiese se ci fosse qualcosa che non andasse. Lui negò perplesso.
«Magari volete dare un’occhiata a qualche altro libro?»
«No… mi stavo chiedendo…»
«Ditemi» esclamò stupito Sernio. Il cantore sembrava in difficoltà. Anche se la
porta era chiusa, continuava a guardarsi le spalle come se non riuscisse a scollare
gli occhi di dosso a Gwern.
«Conoscete bene quel ragazzino?»
«Sì, è un caro bambino che passa a portarmi qualcosa da mangiare ogni tanto.
È molto sveglio. Ha una memoria pazzesca.»
«Proponetegli di venire a studiare da me.»
Sernio balbettò senza dire nulla. Era una sorpresa incredibile.
«Ma… siete sicuro, ecco… è ancora molto giovane… se volete, lo chiamo indietro e ve lo presento, così avete modo di farvi un’idea più precisa…»
«Ho già tutti gli elementi che mi servono per valutare.»
«Ma non so se Gwern abbia intenzione di studiare canto… o almeno, non
gliel’ho mai chiesto direttamente.»
«Per questo, vi sto chiedendo di parlargliene.»
Cos’era tutta quella fretta, pensò agitato Sernio. “Perché è interessato a
Gwern?”
Saiden si stava comportando in modo assolutamente incomprensibile. Era affrettato, frenetico. Pervaso da una vaga euforia.
«Quindi... non volete che…»
«No» tagliò corto Saiden. Si voltò ancora. Aveva la fronte imperlata di sudore,
e un lieve sorriso cristallizzato in faccia. «So già che quel ragazzino può fare
grandi cose. Si fida di voi, vero?»
«Sì, credo di sì…» borbottò Sernio.
«Bene. Gli farò anche un buon prezzo. Molto buono. Mi raccomando amico
mio…» sussurrò Saiden afferrandogli la spalla.
«Voglio Gwern come allievo. Non accetterò un rifiuto.»
***
«Siete riusciti a trovarlo?»
«No signore, sono dolente di informarvi…»
163
«Non fare il leccapiedi! NON PROVARCI NEMMENO!»
«Scusate signore… non volevo…»
Dunwich era seduto sulla sua poltrona preferita, con una gamba stesa sul bracciolo e il corpo scomposto sui cuscini. Aveva cercato dappertutto un buon
esploratore, qualcuno con la mente aguzza e gli occhi svegli, e quello era il migliore che era riuscito a trovare.
Avrebbe speso meno a prendere un ritardato dal tempio degli infermi, pensò
stizzito. Con lo stesso risultato.
«Ti ho anche detto dove avresti potuto trovarlo, cosa c’è di così difficile da capire?!»
«Signore, io ho cercato a Eld come mi avete consigliato, ma non ho trovato
nessun ragazzo che somigli alla descrizione che mi avete fatto… e poi sono un
po’ tutti uguali i ragazzini, laggiù ci sono branchi di orfani per le strade!»
Dunwich si portò una mano agli occhi per la disperazione. A volte pensava che
Cambria fosse una potenza di cartapesta. Come faceva a reggersi in piedi con
gente come quella, pensò depresso.
«Allora, ti avevo detto: ragazzo dai capelli neri e leggermente ondulati, probabilmente lunghi alla spalla… occhi di un verde molto intenso… sempre insieme
a un bambino magro e castano chiaro, malaticcio…» la voce di Dunwich montò
in un urlo scomposto «e tu in sei mesi non sei riuscito a trovare niente?!»
«Ma signore…» tentò di spiegare l’uomo terrorizzato «a Eld sono tutti diffidenti, riconoscono lo straniero anche solo da come cammina… ho dovuto prendere delle precauzioni, ho agito con cautela…»
«Bene!» Dunwich batté le mani in un sardonico applauso. «Allora facciamo così: anch’io devo prendere le mie precauzioni… ti dimezzo la paga promessa. Hai
qualcosa in contrario?!»
L’esperto cacciatore quasi si prostrò a terra, ma non si lamentò di nulla. Aveva
di fronte una Lancia, e una delle più influenti. Sarebbe bastato lo schiocco delle
sue dita per condannarlo a un divertente anno di guerra forzata al fronte.
«Vattene, e non farti più vedere. I soldi sono in quel sacchetto.»
«Grazie, signore…»
Dunwich ribaltò la testa indietro e sbuffò profondamente. Com’era possibile
che nessuno osasse perlustrare Eld con un po’ di attenzione, si chiese. I ribelli
erano pericolosi, ma non erano Dei. Un travestimento, qualche accortezza e a
Eld ci si sarebbe potuto anche vivere, Dunwich ne era certo. Avrebbe voluto fare tutto da solo, ma non poteva più assentarsi da Cambria. A breve sarebbe partito per il fronte, al comando di un plotone di cavalleria. Sorrise al solo pensiero.
Ricevere quell’incarico significava che avrebbe condotto la carica alle fila nemiche. Niente più giochetti da stratega con le preziose squadre di Lance. Finalmente la guerra vera.
164
“E pensare che da ragazzo non avevo mai preso in considerazione la carriera
militare” disse fra sé. “Ho scelto di accettare la proposta di Asaeld solo perché
c’era quella ragazza… come si chiamava?”
Ci pensò su. Aveva tanti di quei pensieri che gli ci volle un momento per ricordare.
“Lisea, ecco! Era sempre attaccata a quel tipo grosso e ruvido… Denor…
quanto l’ho invidiato! E lui voleva fare la Lancia. Certo che da ragazzo ragionavo
come un idiota.”
Approfittò del momento di riposo per riempirsi un bicchierino con un ottimo
distillato di malto dell’Ovest. Era una piacevole, e sempre più frequente abitudine che lo aiutava a rilassare i nervi e a riflettere.
“Se fossi diventato uno studioso delle armonie, un cercatore di risonanze, avrei
passato le giornate a disquisire con esimi colleghi di noiose teorie armoniche…
invece fra pochi giorni…”
Non stava più nella pelle. Se non in qualche scaramuccia che aveva seguito
come capitano, non aveva ancora veramente usato la spada sul campo, circondato da decine di nemici.
“Vedrò di essere il più spettacolare possibile… un po’ di ferro, i miei canti migliori… voglio stupire quei pomposi comandanti imperiali. Asaeld più di tutti.”
Qualcuno bussò alla porta. Dunwich si alzò per aprire, e con suo grande stupore si trovò di fronte proprio il comandante, come se l’avesse evocato con il
pensiero. Si accomodarono in salotto dopo alcuni saluti di rito, e Dunwich riempì un bicchiere di liquore anche per il suo ospite.
«C’è qualche problema Asaeld? Non mi aspettavo di vederti fuori dal palazzo
delle Lance.»
«Passavo di qui, e ho colto l’occasione. Non volevo aspettare domani per raccontartelo.»
«Mh? Che cosa?» chiese Dunwich incuriosito.
«Hai presente quell’attacco di cui abbiamo discusso un paio di settimane fa?»
Asaeld sembrava tranquillo e rilassato, e Dunwich lo prese come un buon segno.
«Abbiamo sfondato la linea di difesa di Eldain a Sud della Lama dell’Hann?
Quelle due colline sono fondamentali per creare una base d’appoggio per il nostro fronte.»
Asaeld sorseggiò il liquore, annuendo per dimostrare il suo apprezzamento.
«Abbiamo perso miseramente.»
«COSA?!» urlò Dunwich balzando in piedi. «Com’è possibile? La strategia che
tu e io avevamo impostato era ottima! Sfruttare il terreno, smobilitare quattro
reparti di cavalleria leggera, attacchi veloci e accerchianti… dove abbiamo sbagliato?!»
165
Asaeld schioccò la lingua assaporando la boccata piena del forte distillato.
«L’Imperatore ha modificato la strategia. Secondo lui era troppo poco aggressiva.»
«E cosa avrebbe deciso, per gli Dei?! Di attaccare direttamente la valle fra le
due colline?»
«Esatto.»
«MA È UNA FOLLIA! Lo sa anche un demente che Eldain queste situazioni
le sfrutta alla perfezione!» Dunwich era tanto infuriato che prese a camminare
avanti e indietro, riempiendosi diverse volte il bicchiere. «Scommetto che ci hanno massacrato ai lati, ma non prima di averci riempito di frecce!»
«Proprio così.»
«Ma a te non interessa? Stiamo parlando di una battaglia persa! Non del prezzo
della frutta al mercato!»
Asaeld poggiò il bicchiere e allargò le braccia rassegnato. «E cosa dovrei dire, o
fare? Se Loralon non accetta i nostri consigli, non possiamo farci nulla. Speriamo
che questa sconfitta non abbia ripercussioni sull’intera campagna.»
«Maledizione!» imprecò Dunwich prendendosi a pugni una mano.
«Quell’ometto non ha la minima competenza! Che schifo di governatore che ci
dobbiamo sorbire…»
«Non dire così…»
Dunwich, girato di spalle, non vide il leggero sorriso aprirsi e illuminarsi per un
istante sul volto di Asaeld, prima di sparire di nuovo nella stessa espressione distante di prima.
«Forza, approfittiamo di questa serata… diamo un’occhiata alle carte del prossimo scontro. Dobbiamo ancora prendere quel tratto di fiume Hann.»
«Sì, non perdiamo tempo… ora sono troppo infuriato per uscire a bere. Posso
farlo anche qui, con te.»
«Bravo, così si fa!» esclamò Asaeld dandogli una pacca sulla spalla.
Dunwich corse a prendere le mappe e le stecche di legno, e iniziò a disporre gli
strumenti. Aveva una mezza idea che non vedeva l’ora di spiegare ad Asaeld. Il
comandante delle Lance annuiva e si complimentava con lui a ogni sua congettura.
«Se avessimo più persone come te in consiglio… magari ai vertici del comando…»
Dunwich non colse il messaggio, troppo impegnato a impostare le direttrici
con le stecche di legno sulle grandi mappe colorate. Asaeld restò un momento in
silenzio a guardare il suo pupillo elaborare piani su piani, poi gli si avvicinò prendendo una delle stecche.
«Allora, secondo me dovremmo spostarci prima qui… non laggiù come dici…»
166
***
Era una mattina assolata e piacevole, araldo della bella stagione. Deanna sedeva sul davanzale della grande vetrata che si affacciava sul cortile nel retro della
villa, nella sua saletta da lettura. La tisana all’arancia che Mordraud le aveva preparato per colazione si era ormai raffreddata, ma era ancora molto buona.
“Se in questi mesi non lo avessi avuto vicino, sarei già morta di noia” pensò
sorseggiando la delicata bevanda appena addolcita da un cucchiaino di miele.
Proprio la giusta quantità. Non era né troppo dolce, né troppo amara.
Era trascorso più di un anno da quando Larois le aveva consigliato di prendersi in casa Mordraud. All’epoca aveva accettato con un filo di diffidenza, ma già
con l’arrivo della prima estate aveva ringraziato gli Dei di aver preso la decisione
giusta. Averlo sempre intorno era un toccasana per la sua naturale tendenza a
deprimersi, e le permetteva di rivivere almeno in parte i suoi anni migliori, quando da bambina passava tutto il tempo con gli altri ragazzini del paese tenuti
sott’occhio dai fratelli maggiori. A volte, Deanna sentiva che Mordraud fosse il
ragazzo più grande, e lei la stessa bambina di allora.
“Che scema che sono. Avrà quattordici anni appena, cosa vado a pensare…”
In realtà Mordraud stava crescendo, e anche piuttosto in fretta. Quando lei
glielo ricordava, lui arrossiva e strisciava i piedi come a voler scappare da un
momento all’altro, un vezzo che la divertiva un mondo. Il suo volto era ancora
acerbo, ma le spalle, le braccia e la schiena si stavano formando in modo armonico grazie ai continui allenamenti che svolgeva ogni sera, senza mai concedersi
una pausa. Mordraud non lo sapeva, ma Deanna lo aveva sentito spesso agitarsi
e sbuffare in cortile. Ormai era diventata una abitudine anche per lei, un suono
che le serviva per addormentarsi in fretta e senza pensieri.
Quella stanza era strana. I rumori nel cortile sembravano rimbalzare sulle pareti, e a volte lei aveva l’impressione che Mordraud fosse a un passo, tanto l’eco era
forte. Non gli aveva mai detto nulla, perché temeva che avrebbe smesso. “Diventeresti rosso come una donnetta” pensò ridacchiando. Si divertiva a punzecchiarlo di tanto in tanto, ma non si permetteva più da parecchio tempo di comandarlo a bacchetta. Come aveva fatto i primi tempi, o come faceva ogni giorno con il resto dei domestici. Mordraud era ormai un suo amico in tutto e per
tutto. Non era più un servo. Forse lo era stato per un giorno scarso.
“Vuole sempre farmi mangiare qualcosa anche se non ho fame. Riesce a sentire se sono triste dai miei passi. Ha sempre una storiella da raccontare, e so che la
maggior parte se le inventa la sera tenendole pronte per il giorno dopo, spacciandole per antiche leggende Aelian.”
167
Mordraud stava aiutando un fattore a scaricare dal carro le merci che avevano
ordinato. Vino, carne salata e affumicata, verdure in salamoia, pesce marinato,
barilotti d’olio d’oliva. Il carrettiere lo seguiva a braccia conserte, dispensando
continui e petulanti consigli. Conosceva quell’uomo, un vecchio reduce sciancato
che sfruttava ogni volta che poteva la sua menomazione per lavorare meno.
Deanna sorrise nel tentativo di leggere il labiale del ragazzo, un’imprecazione così sboccata da far impallidire un morto.
“Per gli Dei, ma dove ha imparato un linguaggio simile?! A volte sembra proprio una bestia…”
Il sole non dava tregua nel piazzale polveroso. Quando il carro fu svuotato fino all’ultima cassa, Mordraud si stropicciò gli abiti digrignando per il disgusto.
Era sudato e sporco dalla testa ai piedi. Deanna lo vide guardarsi intorno per
controllare che non ci fosse nessuno, e si allontanò dalla finestra quando il suo
sguardo si alzò verso la stanza della lettura. Convinto di essere da solo,
Mordraud entrò in casa passando dal magazzino, trascinò fuori una larga tinozza
in cui di solito venivano lavati i panni, e gli diede una pulita. Controllò il cancello
che conduceva alla stretta strada di accesso sul retro della casa, chiuse per bene i
catenacci, e iniziò a riempire il catino con l’acqua del pozzo a ridosso del muro di
cinta. Deanna seguiva divertita i suoi preparativi.
“Si vede che ha voglia di un bagno all’aperto. Fuori si sta proprio bene” pensò
arrossendo. Era arrivato il momento di fare altro, di lasciargli un po’ di intimità.
Proprio mentre si alzava dal davanzale un servo bussò alla porta.
«Una lettera per voi, signora.»
Deanna prese la pergamena arrotolata e sigillata con il marchio di Adraman,
una A e una N intrecciate in un rovo. Con un gesto allontanò il domestico e richiuse la porta.
«Cos’è successo?!»
Staccò affannosamente il sigillo e srotolò la missiva.
“Deanna, quest’anno ti chiedo di passare l’estate nella nostra tenuta a Est, in campagna.
Posso permettermi un breve periodo di riposo, e vorrei trascorrerlo nel luogo più pacifico e silenzioso che conosco. Partite appena possibile, poi manda una lettera ai corrieri che fanno la spola
fra il fronte e il feudo. Non appena la riceverò, ti raggiungerò. Mi manchi. Adraman.”
Ancora in campagna. Deanna sentì le gambe trasformarsi in burro fuso. Quel
posto era persino più noioso della sua casa a Eld. Irritata dalla notizia, schiacciò
la lettera e la gettò dall’altra parte della stanza. «Passa mesi interi al fronte, e poi
pretende che io lo aspetti a gambe aperte e col sorriso… maledetto vecchio» sibilò stizzita, ma subito si sentì a disagio, come se si fosse versata sul petto una tazza di melassa appiccicosa. Perché odiava tanto Adraman, si domandò. Perché era
così tanto più vecchio di lei… o perché aveva sempre paura di non vederlo più
tornare dalla guerra?
168
Non voleva pensarci. Con la coda dell’occhio sbirciò nel piazzale. Vide
Mordraud seduto su uno sgabello di legno, a torso nudo, con addosso solo un
paio di pantaloni puliti. Si stava asciugando al sole con gli occhi chiusi e la testa
tirata indietro. Poi, vide giungere al cancello un bambino magro e arruffato, e lo
sentì chiamare Mordraud con voce squillante.
«Fratello! Che bello, passavo di qua e…»
Mordraud scattò in piedi e corse verso di lui, spalancò il cancello e lo abbracciò con trasporto. Doveva essere Gwern, il fratello di cui ogni tanto parlava.
Non lo aveva mai visto prima.
“Non si somigliano per niente. Non sembrano neppure parenti alla lontana…”
Mordraud era felice, si sbracciava e rideva in modo così puro e innocente che
Deanna si sentì improvvisamente in imbarazzo a spiarlo. Allora si alzò tirandosi
dietro la tenda bianca, e si lasciò cadere sulla sua poltrona sprofondando nei
morbidi cuscini.
“Meglio lasciarli da soli…” pensò, sentendosi subito meglio. Quella scena le
aveva alleggerito l’ansia che la maledetta lettera di Adraman le aveva lasciato addosso, ma non sapeva bene il perché.
***
«Quando passo di qui guardo sempre se ci sei, che bello rivederti!»
Mordraud abbracciò Gwern sollevandolo da terra. Suo fratello scalciò l’aria ridendo a squarciagola. Non si vedevano da mesi.
«Non passi mai a salutarmi in taverna, pensavo che ti volessi dimenticare di
me!»
«Ma cosa dici?! È solo che prendo il mio lavoro seriamente… devo essere
sempre a disposizione di Deanna, non posso allontanarmi molto da casa!»
«Mettimi giù, sei tutto bagnato!» gridò Gwern. «Fa un po’ schifo!»
«Va bene, non iniziare a lamentarti» gli rispose a tono Mordraud, lasciandolo
cadere a terra. «Sei cresciuto, pesi come un sasso! Dì la verità, Larois ti abbuffa
tutti i giorni!»
«Hai visto? Sto anche meglio. Lavorare mi fa bene, e poi è divertente! I clienti
mi trattano come se fossi il figlio di tutti, e mi chiedono sempre come sto!»
«Te la cavi bene, allora! E bravo fratellino…» Mordraud gli afferrò la testa sotto il braccio e gli diede una grattata ai capelli con le nocche. Gwern scoppiò di
nuovo a ridere e a dimenarsi nel tentativo di liberarsi dalla sua morsa.
«E non sai il resto! Vieni, sediamoci un po’.»
Gwern gli raccontò di aver conosciuto Sernio, e di aver preso l’abitudine di
leggere a profusione libri su libri. Spesso perdeva il filo del discorso, e iniziava a
169
raccontargli le storie che aveva imparato, descrivendo minuziosamente trame,
personaggi e luoghi citando tutto a memoria.
«E ce ne sono ancora tante che non conosco, il mondo è pieno zeppo di storie
fantastiche! E poi fratello, non ti dico quanto mi piacciano… i cantori…»
«Perché proprio i cantori?!» chiese Mordraud perplesso e vagamente disturbato.
«La ricerca delle risonanze è una cosa bellissima! Sernio me ne parla sempre, ha
visto i cantori di Cambria esibirsi in piazza… trucchetti, nulla di più… e già quelli sono strepitosi, pensa: fai comparire il fuoco fra le mani, e lo fai danzare! Poi le
luci tutte colorate, e le nuvolette di fumo che puoi plasmare con la forma che
vuoi… vorrei poterli imparare anch’io… ma non ho idea di come si possa, cantando, entrare in risonanza con la realtà…»
Mordraud temeva le risonanze arcane, sia per una naturale superstizione, ma
soprattutto perché era la specialità di Dunwich. Non aveva mai pensato che
Gwern potesse interessarsi al canto.
«Sernio può insegnarti qualche trucco, non ti basta?!»
«Ma fratello, il potere del canto è molto di più! Sernio non è un esperto, ma dice sempre che io sarei portato, che ho buona memoria e imparo in fretta… vorrei tanto studiare, ma qui a Eld non ci sono scuole…»
Mordraud sentì che Gwern stava per chiedergli qualcosa. Un evento raro.
«Sernio mi ha detto che conosce un tale di Cambria, il nipote di un cantore
morto quando lui era un ragazzo. Molto famoso e rispettato. Lui ha conosciuto
suo figlio all’epoca, e da qualche tempo ha fatto conoscenza anche con il nipote.»
«Non capisco dove tu voglia arrivare» disse Mordraud.
«Stavo divagando. Comunque, questo signore passa ogni tanto da lui per comprare qualche romanzo. Vive da solo in una vecchia torretta, fra Eld e Inen. Sei o
sette giorni a Sud-est da qui. Viene da una famiglia di cantori, suo nonno era
molto famoso a Cambria e suo padre invece ha cercato fortuna a Calhann. Si
chiama Saiden. Vorrebbe farmelo conoscere.»
«Gwern, stringi per piacere, dimmi cosa stai pensando… fra poco devo tornare
al lavoro.»
«Ecco, Sernio vorrebbe chiedergli di insegnarmi a cantare qualcosa. Ma…»
«Ma?! Cosa?»
«Costa molto» ammise Gwern rassegnato. «Ci vogliono un mucchio di soldi
per studiare con un maestro personale, di solito ci vanno i figli dei ricchi, quelli
bravi si intende, i più bravi… non è roba per gente come noi.»
«Ne sei sicuro?»
«Me l’ha detto lui. Saiden qualche volta gli ha accennato al suo lavoro, quando
stava a Calhann. Insegnava canto. Gli avrà detto quanto guadagnava all’epoca.»
170
Turbato dalla delusione di Gwern, Mordraud tralasciò un momento l’idea che
il canto potesse essere pericoloso. Non era giusto che suo fratello si rassegnasse
a essere per sempre il povero garzone di una taverna pulciosa. Se lui aveva la testa per studiare, allora doveva studiare.
«Quanto costa?»
«Ecco… insomma… duemila cavalieri d’oro, più o meno. È una stima di Sernio, potrebbero volercene anche di più. Sono i soldi che potremmo guadagnare
io e te in tutta la nostra vita, anzi, forse non ci arriveremmo comunque.»
Mordraud fece un rapido calcolo. Gwern si sbagliava, non era una cifra tanto
mostruosa. Erano comunque anni interi di risparmi, ma se fosse riuscito a costruirsi una carriera nell’esercito, sarebbe bastato mettere anche solo una volta le
mani su qualche trofeo di guerra, una carovana, o un bel po’ di spade ancora
buone per essere vendute. Duemila cavalieri d’oro era una cifra fattibile.
«Non mollare, Gwern. Ti prometto che farò di tutto per mandarti da questo…
come si chiama?!»
«Saiden… ma non ero venuto qui per chiederti dei soldi, fratello. Volevo solo
raccontartelo. Mi presenterà a lui gratuitamente, ovvio… però mi andava di parlare di cosa poteva succedere…» Gwern era dispiaciuto a morte. Mordraud gli
pizzicò una guancia e gli mollò un calcio negli stinchi.
«Non fare il piagnucolone. Se sei così intelligente, bisogna farti studiare, e se
non ci penso io chi ci pensa? Ma vedi di non farmi scherzi, intesi?»
Gwern annuì sorridendo.
«Dammi un paio d’anni, fratello, e vedrai. Troverò quei soldi, e ti troverò anche una bella lettera di raccomandazione, scritta da Eldain in persona! Fidati di
me!»
«Grazie Mordraud!» urlò Gwern abbracciandolo commosso.
«Grazie…»
***
«Portatemi uno dei prigionieri.»
«Quale, signore?»
«Quello con la faccia più sveglia.»
Dunwich entrò nella sua tenda e lasciò cadere a terra il mantello nero imbrattato di sangue. “Questa dannata armatura pesa come una condanna” pensò mentre
slacciava le fibbie del largo pettorale d’acciaio nero. Avrebbe combattuto molto
meglio senza, ma Asaeld era stato lapidario. Doveva dare l’esempio ai suoi uomini. Incutere il giusto terrore al nemico.
“Le terribili Lance Imperiali! Bah…”
171
La battaglia era stata breve e violenta. L’impero voleva a tutti i costi ristabilire
alcuni confini persi prima dell’arrivo dell’inverno, e almeno per quel giorno era
riuscito nel suo intento. Ma se le Lance non avessero partecipato, sarebbe andata
ben diversamente.
“Loralon è un idiota. Quei ragazzi non sanno tenere in mano una spada, e devono combattere contro un manipolo di reduci ribelli che difendono il fronte da
anni… se li stavano mangiando vivi.”
Doveva ammettere che gli uomini di Eldain erano di tutt’altra pasta rispetto ai
bolsi cittadini di Cambria. Gente ruvida, dalla pellaccia dura come il ferro. Ne
aveva visti un paio non chiudere gli occhi quando erano iniziate a cadere le frecce. Neppure quando venivano infilzati.
«La mia prima battaglia» mormorò guardandosi la mano destra rovinata di vesciche.
«Dovrei essere euforico… abbiamo vinto…»
Aveva stretto troppo l’elsa. Alcuni canti si erano ingarbugliati prima di esplodere perché aveva perso la concentrazione. La fila dei bassi del coro, quella che
doveva sorreggere tutta l’impalcatura armonica, calava clamorosamente di un
quarto di tono. Avevano tutti sillabato peggio che nelle prove. La spada gli era
scivolata per terra e l’aveva dovuta recuperare alla fine.
«Non è stato un granché.»
La tenda si aprì e uno dei suoi uomini gli scaraventò davanti un ragazzo incatenato alla schiena. Uno dei pochi ribelli che non erano riusciti a darsi alla macchia. “La vera forza degli uomini di Eldain… il desiderio di lottare per un ideale
comune” pensò fissando il prigioniero.
«Lasciaci soli.»
«Ma… gli ordini sono di non perdere mai di vista…» provò a replicare timorosamente il soldato.
«Do io gli ordini. Vattene, o vuoi che chieda ad Asaeld un parere sulla tua
mancanza di disciplina?!»
La guardia si volatilizzò all’istante.
Dunwich si sedette su un ceppo di legno, e ne prese uno anche per il suo nuovo ospite.
«Non vi dirò nulla. Potete anche ammazzarmi adesso, eviterete di perdere
tempo» mormorò faticosamente il ragazzo. Aveva la bocca spappolata. Forse un
pugno, una bastonata, o magari un calcio, pensò Dunwich. Gli mancavano diversi denti, e un occhio era pericolosamente iniettato di sangue raggrumato.
«Se collabori c’è anche la speranza che tu possa sopravvivere. Non uccidiamo
tutti i prigionieri di guerra… solo quelli ostici.»
172
«Allora io sono il più duro di tutti» il soldato sputò a terra un grumo di sangue
a un soffio dai suoi piedi. «E poi non so nulla. Non sono io a decidere le strategie.»
Dunwich odiava quella parte. Aveva assistito tante volte agli interrogatori delle
forze imperiali, e li aveva sempre reputati inconcludenti, efferate violenze più utili all’ego del torturatore che alla causa comune. Lui non provava alcuna gioia a
tormentare un essere umano. Specialmente uno la cui unica colpa era quella di
aver creduto alla persona sbagliata, schierandosi dalla parte sbagliata.
«Non ho voglia di convincerti con la forza. Puoi essere duro quanto vuoi…»
Dunwich mormorò brevemente il tema di un canto che gli piaceva particolarmente. Non appena sentì che il suo corpo era in risonanza con la voce, dalla sua
mano sgorgò una piccola sfera di fuoco bianco. L’avvicinò alla guancia del prigioniero quel tanto che bastava a fargli sentire il suo tremendo calore.
«Ma conosciamo metodi per sciogliere la lingua anche a un uomo d’acciaio.»
Il giovane soldato impallidì senza distogliere gli occhi dalla fiamma. Restò in silenzio. Dunwich sospirò scuotendo la testa, avvicinandogli ancora di più la sfera
rovente alla pelle. I peli della barba rada raggrinzirono e sfumarono alzando un
filo di fumo fetido, lo stesso odore della cotenna di maiale scottata sul fuoco.
«Non so niente di niente. E anche se lo sapessi…»
«Sì, lo so… sei un duro, non me lo diresti.»
Il calore contorse la bocca del prigioniero in un ghigno disgustoso. «Ma quello
che voglio sapere io non c’entra nulla con la guerra.»
Gli occhi spaesati del ragazzo gli fecero capire che avrebbe avuto tutta la sua
attenzione.
«Hai mai visto due ragazzi al feudo di Eld, uno più grande e l’altro solo un
bambino, che stanno sempre insieme e vengono da fuori? Orfani di guerra, fuggitivi, una cosa del genere… quello più grandicello hai i capelli neri e gli occhi
verdi. Un verde intenso, non slavato. Il più piccolo è castano chiaro ed è magro,
malaticcio. Occhi grigi, particolari.»
«Ma… perché dovrei saperlo?»
La fiamma arrivò a lambire la guancia bruciando i pochi peli rimasti. «Va bene,
fermati! Aspetta!»
«Sono tutto orecchi.»
«Penso di aver visto un ragazzino molto giovane, con i capelli color stoppa,
basso e molto magro, alla locanda di Eld. Ma non sembrava malato, da noi i
bambini sono tutti magri…» il soldato ritrovò un momento di contegno, e alzò
lo sguardo in segno di sfida «… per colpa vostra e del vostro fottuto impero!»
Dunwich non raccolse la provocazione. Con un semplice gesto spense la
fiamma e si alzò per uscire dalla tenda. Era particolarmente soddisfatto. Chiamò
la guardia e diede l’ordine di portare via il prigioniero.
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«Non ammazzatelo. Si è comportato in modo rispettoso, svelando importanti
piani militari dei ribelli.»
«Dove lo mandiamo, signore? Alle miniere di ferro come tutti gli altri?»
Brutto posto, le miniere a Nord di Nelaria, pensò. Troppo brutto per augurarlo a un qualunque nemico, anche al peggiore.
«No, per quelli come lui ritengo più appropriati i lavori a Sud-est per
l’allestimento della nuova strada.»
«Quella che conduce ai primi territori alleati di Calhann? Ma di solito non
mandiamo ribelli giovani catturati in azione… solo prigionieri civili.»
Dunwich socchiuse gli occhi fissandolo con tutta la delusione che riusciva a
simulare. «Ancora questo vizio di contraddire, soldato?!»
«No…» rispose lui alzando le mani come per difendersi da uno schiaffo. «Non
mi sono spiegato bene… non oserei mai…»
«Datti una mossa, allora. Forza! Avanti, avanti!»
Dunwich trattenne una risatina divertita mentre guardava la recluta affannarsi
per tirare su il giovane ribelle e trascinarlo via. “Non saprai mai che favore ti ho
fatto, ragazzo” pensò pulendosi la mano sulla casacca.
“Ti ho appena salvato la vita.”
Se quel bambino nella locanda fosse stato Gwern, lui non avrebbe comunque
potuto averne la certezza. Conosceva pochissimo suo fratello minore, ed erano
ricordi troppo vecchi. Mordraud lo ricordava molto meglio, ma di lui sembrava
non esserci traccia. Dovevano per forza essere a Eld, l’unico insediamento fortificato nelle vicinanze della loro vecchia casa. Anche se avesse chiesto più dettagli
al prigioniero, come avrebbe potuto riconoscere suo fratello? Era poco più che
un marmocchio quando l’aveva visto per l’ultima volta.
Dunwich tornò a sedersi sul ceppo, e meccanicamente svitò il tappo di una
bottiglia d’acciaio stretta e alta, impreziosita da un’incisione paesaggistica. Un
gradito regalo di una nobildonna annoiata e in cerca di avventure, che non aveva
neppure mai visto in faccia.
“Ottimo. Un po’ forte, ma profumato. Peccato non averla frequentata…” pensò dopo una lunga e gustosa sorsata.
“Quella donna aveva gusto per i liquori.”
***
Tutto era pronto per la partenza. Per l’ennesima volta, Mordraud passò in rassegna i tre carri carichi di provviste, mobilia, coperte e vettovaglie contando e
controllando che tutto fosse al posto giusto. Non che servisse realmente, i domestici di Deanna avevano svolto un lavoro impeccabile. Ma era nervoso, teso e
anche vagamente irritato, e doveva trovare il modo di distrarsi.
174
Non aveva preso molto bene la notizia del trasloco. Si stava abituando lentamente alla vita da favorito dei padroni nella grande casa di Adraman, e in fin dei
conti non gli dispiaceva neppure tanto. L’idea di viaggiare fuori dai sicuri confini
di Eld con Deanna, cinque servitori e una manciata di soldati non gli piaceva affatto. Quanto erano pericolose le strade? Per quanti giorni avrebbero viaggiato?
Dove avrebbero dormito? Sentiva addosso un appiccicoso senso di responsabilità, come se l’incolumità di Deanna fosse stata affidata esclusivamente a lui. Un
pensiero molto stupido. Rispetto alle guardie che li avrebbero scortati, lui era una
mezza schiappa. Ma ciò non lo rendeva di certo più tranquillo.
«Deanna è pronta» disse finalmente una delle domestiche. La padrona di casa
si accomodò nella carrozza al seguito della carovana, e Mordraud salì con lei socchiudendo le tende. I carri partirono lungo le vie del feudo, presero la strada lastricata e puntarono a Est.
«Com’è la campagna intorno a casa? È bella?» chiese per spezzare il silenzio
che era calato subito nella carrozza. Deanna sembrava ancor più infastidita di lui.
Aveva provato a chiederle il perché, ma non era riuscito a scoprire nulla di utile.
Poteva solo sospettare che il motivo fosse Adraman, ma non parlavano quasi
mai di suo marito, se non per mezze frasi sibilate a denti stretti.
«Carina.»
«Nient’altro?! Cosa c’è da fare? Un fiume, un lago, un bel bosco, qualche sentiero per le passeggiate…»
«Non lo so. Non esco mai, al massimo leggo qualcosa in giardino.»
Deanna era ancora più chiusa del solito. Mordraud sospirò concentrandosi sul
paesaggio ritagliato dalle tende. Si prospettava un viaggio lungo e snervante.
«C’è un sentiero per andare a funghi» disse lei improvvisamente, dopo un tempo interminabile di silenzio. «Qualche volta ci sono andata con la cuoca per
prendere una boccata d’aria.»
«Funghi?!» esclamò Mordraud storcendo la bocca. Con i funghi aveva chiuso
dopo l’esperienza con Gwern. «Odio i funghi.»
Deanna abbandonò anche quel misero tentativo di conversare. Le ore scorrevano come massi trascinati nel fango.
***
Era la terza notte che dormivano all’aperto. Sembrava passato un mese.
Le guardie predisposero il solito fuoco sistemando i carri a semicerchio intorno al bivacco, e i domestici si accucciarono fra le casse e i barili ricavandosi un
giaciglio di fortuna. Mordraud cercò qualcosa da mangiare e riempì un pentolino
per preparare a Deanna qualcosa di caldo. L’aria era frizzante ma piacevole. “Stasera dormo fuori dai carri, là dentro russano tutti” pensò mentre armeggiava con
175
uno straccio per agganciare la pentola sulle stecche del focolare. “Già faccio fatica a dormire… magari le stelle mi aiuteranno a prendere sonno.”
Deanna sembrò leggergli nel pensiero. «Perché stasera non dormi dentro la
mia carrozza? Qui c’è posto abbondante per due… Le altre sembrano più scomode.»
Mordraud temeva quella richiesta più della morte. Se si fosse chiuso là dentro
con lei, era certo che non avrebbe chiuso occhio neppure un istante. Ma, d’altra
parte, non voleva dirle di no. Non poteva, era il suo lavoro.
Se lo ripeté un paio di volte per convincersi del tutto.
«Ecco… va bene, ma… non vorrei russare…»
«E allora?! Adraman sembra un corno da caccia quando dorme» rispose lei sorridendo. Una grande novità. Vedere un suo sorriso affiancato al nome del marito
era raro come una nevicata d’estate.
Alla fine Mordraud cedette, e dopo aver bevuto insieme una tazza di tisana,
prepararono i sedili per dormire. I cuscini erano morbidi, la coperta calda e
l’atmosfera tranquilla. Ma bastò che Deanna si sfilasse i lunghi stivali di pelle
chiara, perché lui cominciasse a sudare freddo.
«Tutto a posto? Non sei comodo?»
«Oh, no no… comodissimo…»
Non aveva mai dormito con una donna vicino, che non fosse sua madre. Senza un filo di sonno in testa, Mordraud si ritrovò inconsciamente ad ascoltare il
respiro di Deanna. Ogni tanto, lei si muoveva cercando una posizione più comoda e lui si irrigidiva di scatto, ma per sua fortuna lei non se ne accorgeva mai.
Quando Deanna trovò il sonno, e il respiro divenne regolare, Mordraud era perfettamente sveglio.
“E adesso? Che faccio?” pensò muovendo la testa da un lato all’altro contando
a ritmo il fiato di Deanna.
Uno, due. Tre, quattro.
“Dovevo restare fuori, sono troppo teso… ora non chiuderò occhio e domani
sarò uno straccio.”
Cinque, sei.
Sette, otto.
“Che notte tranquilla. Non tira un alito di vento. Fuori il cielo deve essere magnifico. Magari se faccio piano… potrei sgusciare fuori di qui…”
Nove.
Dieci.
Deanna fece scivolare via la coperta. Era nuda fino ai fianchi, illuminata da una
falce di luna che filtrava dalle fessure della tenda. Pelle di marmo. Lo stava fissando. Il suo sguardo diceva soltanto una cosa.
«Sei l’unico che desidero. Vieni qui… stringimi…»
176
Mordraud si guardò le braccia. Lunghe, muscolose, da vero uomo. Era nudo
dalla testa ai piedi, ma non si sentiva in imbarazzo. La carrozza sembrava enorme, e loro due erano sdraiati al centro, in un grande letto rosso. Le lenzuola si
muovevano come se il materasso fosse pieno di serpenti.
«Ti desidero… vieni qui, Mordraud…»
Non se lo fece ripetere. Si erse in ginocchio sopra di lei, e lentamente le sfilò la
gonna. Deanna si contorceva avvolta nella seta. I suoi capelli corvini erano sparsi
su un letto di sangue. Non aveva mai visto nulla di più bello.
«Baciami…»
L’urlo gli trapassò il cranio come uno spillone arroventato. Mordraud si ritrovò
chino a un soffio dal volto addormentato di Deanna. Si gettò indietro ansimando
sconvolto.
Stava sognando. Si era addormentato e non se ne era accorto. Un altro urlo lo
riportò totalmente alla realtà. Deanna si svegliò di colpo guardandosi intorno
senza capire quello che stava succedendo.
Erano stati attaccati.
«Cosa c’è? Dove siamo?!»
«Shh! Resta giù e non muoverti!»
Mordraud scostò di un palmo la tenda che dava sul bivacco. Sei, forse otto
uomini. Erano trasandati, armati alla meno peggio con strumenti da lavoro. Briganti, probabilmente. I quattro soldati di scorta stavano combattendo aiutati dai
carrettieri.
«Mordraud, ho paura…»
«Non ti preoccupare! Sono solo un paio di ladri. I nostri uomini si stanno
comportando bene… cerca di stare tranquilla.»
Tentò di suonare convincente, ma non credeva neppure lui a quello che stava
dicendo. Non si riusciva a vedere chi stesse avendo la meglio.
Qualcosa oscurò la piccola finestra della carrozza. Mordraud sentì Deanna urlare alle sue spalle. «Ce ne sono altri!» gridò nella speranza che i soldati lo sentissero. La porta di legno si spalancò e Deanna venne trascinata fuori da un uomo
barbuto e rovinato al volto da un’infezione. Mordraud si gettò verso di lei e le
strinse una caviglia, lottando inutilmente per un breve momento.
«Lasciami andare! AIUTATEMI!»
L’altra porta della carrozza saltò via e Mordraud si sentì afferrare ai fianchi da
due grosse mani dure. In un batter d’occhio si ritrovò all’aria aperta con le gambe a penzoloni. Deanna stava urlando come una disperata dall’altra parte.
L’intero bivacco si era trasformato in un campo di battaglia.
«DEANNA! DEANNA!» gridò dibattendosi come un ossesso.
«Sta fermo, piccolo ratto schifoso!»
Ratto.
177
Era la voce dello Sconosciuto. Era l’alito, il puzzo di vino, la pelle ruvida dello
Sconosciuto. Il braccio sinistro prese a tremargli furiosamente.
«MORDRAUD!»
Il suono di un vestito che si strappava, come se l’aria stessa fosse stata squarciata.
Mordraud tirò indietro la testa sbattendola contro la mascella del brigante. Una
zaffata di capelli unti lo schiaffeggiò in faccia. Allungò la bocca, e con tutta la
forza che aveva azzannò il collo dell’uomo alla giugulare.
«BASTARDO! MOLLAMI! Lascia…»
Mordraud strappò via un grosso boccone di carne e si trovò ad annaspare dentro una cascata di sangue.
«MORDRAUD!»
Lo Sconosciuto barcollò e lasciò la presa. Mordraud atterrò in piedi ma spiccò
subito un salto verso il tetto della carrozza. Lunghe schegge di legno gli penetrarono nei palmi sparendo sotto la pelle. Non sentì nulla, attratto solo dalla voce di
Deanna.
La carrozza ondeggiò sotto di lui ma riuscì lo stesso a mettersi in piedi. Sotto,
Deanna stava lottando contro un altro Sconosciuto. L’abito stracciato le cascava
a brandelli dalle spalle. Mordraud saltò avvinghiandosi al collo di quel maledetto
bastardo.
«Vieni qua, cosa credi di fare?!»
Un pugno. Un altro, e un altro ancora. La sua testa rimbombava come se fosse
vuota. Il bandito gli stava graffiando la schiena nel tentativo di liberarsi di lui.
Mordraud cercava di soffocarlo, ma era troppo debole. Non aveva le braccia di
un uomo, come nel sogno. I suoi erano solo miseri stecchi di carne senza nervo.
Tutta la sua forza era soppressa dal panico, dalla paura che potesse succedere
qualcosa di orrendo a Deanna.
La mano di Mordraud scivolò giù. Raggiunse l’elsa di un coltello appeso alla
cintola del brigante. Non ci pensò un istante.
La lama penetrò come nel burro lungo tutto il suo collo sudicio, finché la testa
quasi non spiccò via dal resto del corpo.
Deanna stava urlando stracciandosi il viso fra le mani. Un fiotto di sangue la
prese in pieno, mentre Mordraud si sbilanciava indietro nel disperato tentativo di
non crollarle addosso. Il peso del bandito agonizzante lo schiacciò a terra. Tutto
divenne buio.
***
«Avete sentito? Hanno attaccato la signora Deanna…»
«Dicono che siano stati dei briganti.»
178
«Così a Est? Dentro i confini dell’alleanza?! Per gli Dei…»
«Saranno stati disertori che si sono dati alla macchia… ormai la gente non ne
può più…»
Quella sera, tutta la taverna raccontava la stessa storia. Gwern continuava a lavorare imperterrito, ma la sua solita allegria era svanita. Nessuno sapeva se ci
fossero stati dei feriti. Solo che Deanna stava bene.
“Vorrei solo sentire che Mordraud non si è fatto male ed è al sicuro…”
Tutti avevano visto arrivare il domestico di Deanna. La voce si era subito rivelata veritiera. Un morto fra i soldati, altri feriti, ma Deanna era viva. Adraman era
giunto al feudo una settimana dopo l’attacco, per parlare con Eldain prima di
prendersi una breve pausa. Non appena aveva saputo quello che era successo,
era partito senza neppure scendere da cavallo, insieme alla sua guardia personale.
«Ehi Gwern, hai capito cosa devi portare?»
Larois aspettava con un vassoio di boccali in mano che lui tornasse dal mondo
delle congetture. Gwern prese l’ordinazione ma ciondolò senza sapere cosa fare.
«Al tavolo in fondo, quello sotto la lancia spuntata. Dopo torna in cucina,
dobbiamo parlare.»
Gwern si mosse meccanicamente, consegnando i boccali senza guardare in
faccia i clienti. Quella sera riusciva a pensare solo a suo fratello.
«Vai a casa, hai bisogno di riposare.»
Larois non era in vena di discutere. Anche lei sembrava molto preoccupata.
Gwern non obiettò e si slacciò il grembiule.
«Cerca di stare tranquillo, comunque. Hanno parlato solo di un soldato ucciso,
non di un domestico.» Nella fretta di affettare un gambo di sedano, il suo coltello
si avvicinò troppo alle dita e Larois si tagliò. Gwern non l’aveva mai vista così in
ansia.
«L’ho cacciato io in questa dannata situazione» riuscì soltanto a dire.
«No, tu non hai motivo di sentirti in colpa» le disse Gwern. «Chi si poteva immaginare una cosa simile?!»
«Probabilmente hai ragione» rispose Larois, ma non sembrava molto convinta.
«Ora va’ a casa, su! Riposati, domani ti voglio più in forma!»
Gwern uscì dal retro senza ribattere. Con uno straccio pulito, la locandiera si
tamponò il dito, fissando il tagliere macchiato di sangue. Un buon sedano da
buttare, pensò cercando di distrarsi. Non funzionò.
«Speriamo solo che a quei due non vengano strane idee…» borbottò pulendo
stizzita il macello che aveva fatto.
“Perché non ci ho pensato prima?! E ora anche questo, senza Adraman a proteggerla… solo con Mordraud vicino… ma no, è davvero troppo giovane per lei.
Deanna non può permettersi uno scandalo simile…”
Larois gettò via lo straccio e si scolò un bicchiere di vino colmo fino all’orlo.
179
“Avanti, c’è lo stufato da finire” pensò.
Con il mestolo ricominciò a mescolare nervosamente il calderone appeso sul
fuoco.
“Che giornata schifosa.”
***
«Come va la mano?»
«Meglio. Penso che domani toglierò la fasciatura, ormai sento che la ferita si è
rimarginata.»
Il parco della villa era stupendo, una piccola campagna verde e rigogliosa arricchita da panche, vialetti in ghiaia bianca e stagni coperti di ninfee. Un gioiello
fresco e silenzioso.
Mordraud passava gran parte della giornata fuori con Deanna. Tranquillizzarla
non era stato facile. Lei non faceva altro che toccarsi il viso, il collo, tormentarsi i
capelli. Per toglierle una parola di bocca aveva dovuto sudare un pomeriggio. Lui
si era svegliato solo il giorno dopo l’assalto, ma stava tutto sommato bene, a parte un lungo taglio nel palmo con cui aveva maneggiato il coltello. Agli altri era
andata molto peggio.
Una guardia aveva preso una botta in testa che gli aveva fatto schizzare fuori
gli occhi dalle orbite. Non si era più svegliata. Un’altra aveva nella schiena un
grosso livido bluastro, e faticava ancora a respirare. Due carrettieri avevano la
testa fasciata e parlavano in modo confuso.
Deanna non aveva rivolto la parola a nessuno fino all’arrivo a casa, tre giorni
dopo. Prima ancora di cenare o di riposare un po’ su un vero letto, si era lavata e
rilavata tutta la notte. Solo obbligata con la forza aveva accettato di mangiare
qualcosa.
«Adraman dovrebbe arrivare a momenti.»
«Sei felice?!»
«Non lo so… mi sento un po’ strana» rispose lei, sfiorandosi il collo e la camicetta bianca all’altezza del seno. Lo faceva spesso quando era pensierosa. Sembrava controllare che il sangue del brigante fosse veramente sparito.
«Ti manca…» bisbigliò lui incredulo.
«Così mi metti in imbarazzo! Smettila, non ci parlo con te di queste cose.»
«Perché?!»
Mordraud era proprio curioso di saperlo. Loro due parlavano di tutto, fuorché
di Adraman.
«Perché… no.»
«Uff… tieniti i tuoi segreti, allora!»
180
Deanna era allegra e scherzosa come poche altre volte l’aveva vista. «Esatto.
Una ragazza deve avere i suoi segreti… non lo sapevi?»
«No. Io le ragazze non le capisco» rispose Mordraud incrociando le braccia.
Comportarsi da ragazzino aveva i suoi privilegi. Deanna non gli avrebbe mai parlato tanto se fossero stati coetanei. Forse non avrebbe voluto nemmeno frequentarlo.
La cuoca di casa, una vecchia signora che tutti chiamavano Adrina in onore del
suo lungo servizio per la famiglia Adren, uscì dal porticato e chiamò Deanna a
gran voce.
«È arrivato il padrone! Deanna! È arrivato vostro marito!»
«Devo andare! A dopo, Mordraud.»
Deanna rientrò in casa a passo svelto. “Sembra proprio un’altra…” pensò
Mordraud con una punta di invidia. Adraman era davvero fortunato ad avere una
moglie così bella.
“Lasciamo stare, vecchio mio. Piuttosto… devo parlare con lui, devo riuscire a
farmi notare! Ho salvato sua moglie… dovrà pur mostrarmi riconoscenza…”
Mordraud si sfregò le mani pregustando la cena di quella sera, dove sarebbero
stati tutti insieme. Pensava e ripensava alla sua breve battaglia, cercava di gustarsi
di nuovo la carica che aveva sentito divampargli dentro, ma ormai l’euforia era
svanita.
Decisamente troppo presto.
Si rese conto solo in quel momento che quel gusto in realtà sapeva di aria vecchia.
«Questa vita da donnetta mi sta rammollendo» mormorò disgustato. «Non devo perdere di vista…»
Che cosa, si chiese. Cosa stava perdendo, e cosa invece stava guadagnando?
“Maledizione! Cosa mi metto a pensare proprio ora…”
Un po’ di fatica lo avrebbe rimesso sulla retta via. Mordraud corse alla legnaia
dietro casa e prese a spaccare qualche ceppo con una vecchia accetta spuntata.
Continuò finché non sentì la campana che chiamava a raccolta per la cena.
Come da tradizione, la grande sala da pranzo della villa era stata addobbata per
festeggiare l’arrivo del padrone di casa. Ruote e ghirlande di pane laccato con
l’uovo, mazzi di fiori secchi, lunghi fiocchi di tela colorata erano appesi alle pareti e ai candelieri di ferro, e disposti sul lungo tavolo centrale insieme ai fiaschi di
vino. Come sempre, Adraman avrebbe preparato le pietanze insieme alla servitù,
e le avrebbe servite lui stesso al primo giro di portate. Una consuetudine vecchia
di decenni pensata da suo nonno per festeggiare l’arrivo della stagione calda.
Adraman raggiunse la tenuta stremato da un viaggio senza soste. Lo stalliere
non aveva fatto in tempo a prendere in consegna il cavallo, che lui era già entrato
in casa e chiamava Deanna a squarciagola. Appena la vide spuntare in cima alle
181
scale le corse incontro e la baciò con passione. Lei non fece nulla per evitarlo.
Restarono abbracciati a lungo in bilico sul primo gradino della scalinata, finché
tutta la stanchezza accumulata nella corsa forsennata non venne a chiedere il
conto. Il cavaliere oscillò paurosamente e si aggrappò alla ringhiera in ferro battuto, scivolando lentamente a terra per dare tregua alle gambe distrutte.
«Hai bisogno di rinfrescarti, vieni… andiamo in camera.»
Adraman non aveva mai sentito sua moglie parlare con voce tanto morbida e
gentile. Obbedì in silenzio, ancora stordito dalle troppe emozioni. I servitori
avevano osservato tutto dal piano di sotto, e quando videro sparire i due sposi
oltre la porta, si strinsero le mani fra loro sorridendo con gioia. Mordraud si unì
ai festeggiamenti, ma con molto meno trasporto dei suoi compagni di lavoro.
Non era abituato a vedere Deanna a fianco di Adraman, accanto a un altro uomo
che non fosse lui.
«La devo smettere, la devo smettere…» biascicò cupo in volto, mentre si riempiva un generoso bicchiere di vino rosso. Lo scolò senza respirare, e subito ne
riempì un altro. E un altro ancora.
“Ecco, così va meglio” disse fra sé annuendo stordito. “Era quello che ci voleva.”
«E ora cosa facciamo?!» chiese agli altri Vosco, uno degli stallieri. «Aspettiamo
il padrone? Iniziamo a preparare noi?»
«Non c’è fretta… possiamo aspettare qualche ora» rispose Adrina, la cuoca di
casa. Di tutti i presenti, lei era la più anziana e vicina alla famiglia Adren, e la sua
parola era legge.
Mordraud sbuffò senza farsi notare e uscì, portandosi dietro uno dei fiaschi. Il
silenzio del portico al tramonto lo avrebbe aiutato a schiarirsi le idee.
In realtà, fu il vino ad aiutarlo. Mordraud non era abituato a bere, se non
quando Deanna chiedeva al cameriere un bicchiere di amaro dopo cena. Larois
lo aveva pizzicato qualche volta mentre nascondeva un paio di boccali di birra
durante il lavoro, ma all’epoca voleva solo somigliare almeno un pochino ai soldati che passavano la sera a ubriacarsi e a raccontarsi storie truculente. Quel ricordo lo fece sghignazzare a lungo, e a ogni nuova sorsata dal fiasco lo trovava
sempre più divertente. La luce del sole svaniva all’orizzonte tingendo la campagna di un rosso intenso.
«È così bello qui… da casa nostra non si vedeva il tramonto, e neppure l’alba.»
«E cosa si vedeva?»
Mordraud trasalì e si sbilanciò sulla panca, rischiando di cadere in terra in modo ridicolo. Non aveva sentito Adraman avvicinarsi lungo il portico.
«Signore… non mi ero accorto che voi…»
«Stai tranquillo, ragazzo» disse lui con un sorriso, indicando il resto della panca
vuota. «Posso sedermi con te un momento?»
182
«Certo… ecco…»
Aveva bevuto decisamente troppo. Solo il gesto di fare un po’ di spazio al suo
fianco gli aveva fatto girare pericolosamente la testa.
«Non avete fame? I domestici vi stavano aspettando.»
«Possono aspettare un altro po’» rispose il cavaliere allegramente. «Ora volevo
parlare con te, da solo.»
Mordraud si aggiustò nervosamente la camicia marrone, chiedendosi se si fosse
lavato dopo aver tagliato la legna. No, a giudicare da alcuni trucioli rimasti impigliati nel tessuto.
“Ottimo, ubriaco e per giunta sporco” pensò affannosamente.
«Rilassati, non sono qui per dirti nulla di male… anzi. Volevo ringraziarti,
Mordraud… con tutto il cuore.»
«Per cosa?!»
«E me lo chiedi?»
Non aveva mai osservato Adraman così da vicino. Portava addosso tutti i segni
del fronte, di una vita tormentata da problemi e decisioni da prendere. I suoi capelli erano spolverati di bianco e sfibrati dalle intemperie. Eppure, con quella luce rossa che avvolgeva ogni cosa, i suoi difetti, la sua età sembravano essere svaniti.
«Hai salvato Deanna! E da quello che mi hanno raccontato hai anche ucciso da
solo uno dei banditi!»
«Due…» disse senza riflettere. Quello con il collo mangiucchiato era suo di diritto, anche se non l’aveva visto morire.
«Addirittura?!»
«Sì, bisogna contare anche il primo che mi ha tirato fuori dalla carrozza. Gli ho
staccato la gola con un morso, proprio per bene…» Mordraud strabuzzò gli occhi mentre ascoltava cosa stava dicendo la sua voce. «Ecco, un morso piccolo,
proprio piccolo… sono stato fortunato… solo perché non sapevo cosa fare…»
«Non devi certo scusarti! Senza di te, chissà cosa avrebbero fatto quei bastardi
a mia moglie!»
«Prima di toccare Deanna, avrebbero dovuto uccidermi.»
Quella frase uscì da sola, spinta dal vino e dall’eco della rabbia. Adraman gli
stropicciò i capelli con poca grazia e molto affetto.
«Ti credo sulla parola! Ora, veniamo al dunque.»
«Che cosa, signore?»
«Prima di tutto, non chiamarmi più signore. Per te ora sono Adraman.»
«Va bene sig… Adraman.»
«Ottimo. Adesso, dimmi cosa vorresti in cambio per quello che hai fatto. Qualunque cosa.»
183
Adraman si era inginocchiato di fronte a lui e lo stava fissando in attesa, senza
la minima traccia di ironia nei suoi occhi. Mordraud balbettò qualcosa, imbarazzato e confuso.
«Forza, non temere. Hai la mia parola di soldato.»
«Voglio combattere insieme ai ribelli!»
Era il suo momento. Quando mai avrebbe avuto un’altra occasione?
Adraman restò un momento a fissarlo in silenzio, e Mordraud temette di aver
detto una colossale idiozia. Ma ormai non poteva più tirarsi indietro.
«Io ti ho chiesto un desiderio… e tu vorresti andare in guerra? Semmai, avrei
pensato il contrario» esclamò stupito il cavaliere.
«Sono anni che ci penso, e mi preparo tutti i giorni. Sono abbastanza forte per
maneggiare la spada… e vorrei vedere Cambria in fiamme!»
Adraman allungò una mano verso di lui senza dire niente.
«Avanti, stringila.»
Mordraud obbedì, e subito il cavaliere serrò le dita. Aveva la forza di una morsa da fabbro. Mordraud mugolò di dolore, ma resistette stoicamente. Adraman
tirò il braccio trascinandoselo addosso.
«Se non riesci a liberarti dalla mia presa, allora non sei ancora pronto per combattere.»
Mordraud prese a tirare, prima con un braccio solo, poi con tutti e due, ma anche puntando i piedi in terra sembrava che le sue mani fossero rimaste intrappolate dentro la pietra. Adraman non respirava neppure, mentre lui sbuffava e digrignava i denti.
«Sei ancora troppo piccolo. Dovrai aspettare qualche anno.»
La mano di Mordraud era poggiata al suo petto all’altezza del cuore. «Quando
riuscirai a liberarti, allora vedrò di accontentare il tuo desiderio… anche se non
vorrei.»
«Mi hai dato… la tua parola… la parola di un soldato» mormorò Mordraud,
ancora impegnato a tirare come un disperato.
«Lo so, e quasi me ne pento. Non mi aspettavo di certo una proposta tanto assurda.»
«Vedrai, ce la farò.»
Adraman mollò improvvisamente, e Mordraud volò indietro cadendo pesantemente sulla panca. Il tramonto era ormai svanito, e il porticato era immerso nel
primo buio della sera.
«Andiamo dentro ora. Si staranno preoccupando tutti, e c’è una cena da preparare!»
Si avviarono insieme verso la porta, Adraman tranquillo e sorridente,
Mordraud con la mano stretta nell’altra per trovare un po’ di sollievo. Il cavaliere
teneva ancora il braccio piegato sul petto. “Non mi aspettavo che fosse così for184
te” pensò colpito. “L’ho ingannato con la leva… ma ha ragione quando dice di
essere pronto per la spada. Quasi.”
«Cosa dicevi prima? Stavi parlando della tua casa» esclamò per distrarre
Mordraud.
«Sì… dicevo che non avevo mai visto un tramonto così bello. Dove sono nato
non si riusciva mai a vedere il tramonto… e neppure l’alba.»
«E cosa si vedeva allora?!» chiese Adraman.
«La notte» rispose Mordraud alzando gli occhi verso di lui.
«Si vedeva molto bene la notte.»
***
Come in un sogno. Uno dei tanti che riempivano le sue notti al fronte, mentre
aspettava che il nemico rivelasse le proprie intenzioni. La fantasia a cui si aggrappava per non affogare nel mare di fango del campo di battaglia.
Deanna era distesa sotto di lui, le gambe avvinghiate ai suoi fianchi. E gemeva.
Non l’aveva mai sentita gemere. Non di piacere, almeno. Solo qualche finto
mormorio di cortesia.
«Piano… aspetta ancora…»
Non era come in un sogno. Era ancora meglio. Adraman chiuse gli occhi e si
concentrò solo sul suo corpo. Non doveva avere fretta. Non come tutte le altre
volte. Quel momento doveva durare millenni.
«Ecco… continua… continua…»
I suoi occhi si riaprirono per non perdersi nulla di quel miracolo. Deanna lasciò scivolare le unghie giù lungo la sua schiena, e gliele piantò nei fianchi. Stava
decidendo tutto lei. Impossibile, pensò Adraman. Era morto e non se n’era accorto.
«Oh, sì… sì…»
La sua schiena si inarcò fin quasi a spezzarsi. Fu così forte da fargli male, un
dolore allucinante e stupendo. Adraman cadde riverso su di lei ansimando senza
più forze. E come nei migliori sogni, la baciò prima di scivolare al suo fianco.
«È stato… è stato…»
Deanna non rispose. Aveva ancora gli occhi chiusi. Tremava leggermente.
Adraman le accarezzò i capelli con la punta delle dita.
«Grazie amore.»
Lei gli sorrise in silenzio. Il suo sguardo sembrava perso oltre la stanza, chissà
dove.
«Buonanotte.»
185
Deanna si accoccolò vicino a lui aggrappandosi al suo braccio. Adraman trovò
il sonno poco dopo. Non aveva mai sentito il letto così comodo, l’aria così buona, i suoni così attutiti. Tutto era perfetto oltre ogni immaginazione.
Deanna, invece, non si addormentò subito. Con la mano si sfiorò il collo e il
seno, ancora immersa nella fantasia che l’aveva dominata. Le urla, il sangue, la
paura.
E Mordraud che la sovrastava, ansimando come una bestia selvatica, sporco
del sangue della sua preda. Mordraud adulto, più alto e muscoloso. Ma con gli
stessi occhi verdi di quella notte.
186
XIV
«Perché non la smetti di fissarmi?!»
Gwern non riusciva a lavorare bene come al solito. La taverna era semivuota,
come era normale in quel periodo dell’anno. I combattimenti al fronte erano
all’apice, l’ultimo strappo prima dell’arrivo della brutta stagione. Le piogge prima,
la nebbia e la neve poi, erano state una benedizione per i ribelli impegnati nella
guerra contro Cambria. L’impero non osa attaccare quando la natura impone la sua tregua
era un vecchio motto che aveva sentito dire spesso dai reduci più anziani. Ma il
freddo era ancora troppo lontano per poter gioire. Ogni giorno a Eld era vissuto
come un regalo, una speranza che aiutava tutti a tirare avanti ancora, e ancora,
anno dopo anno. Battaglia dopo battaglia.
Non aveva mai visto quell’uomo, ma di certo ne aveva già abbastanza. Da
quando era entrato, non aveva fatto altro che seguirlo con gli occhi, anche oltre
la porta della cucina, quando la apriva per prendere le consegne. Quasi nessuno
dei clienti parlava, tutti erano impegnati solo a bere la birra annacquata tipica di
chi era ormai ridotto sul lastrico. Feriti di guerra, mutilati, vecchi rimasti soli. Il
clima non era dei migliori, e non lo stava aiutando nella sua faticosa opera di
sopportazione.
Per l’ennesima volta, l’uomo misterioso lo chiamò e ordinò un altro boccale.
Gwern sentì i suoi occhi corrergli lungo la schiena, e capì di aver raggiunto il
culmine della pazienza. Quando ritornò con il bicchiere pieno lo sbatté sul tavolo e lo apostrofò in modo sgarbato.
«Non ti sto fissando, bimbo» rispose con sufficienza lo scocciatore.
«Ah no?! Vuoi forse negarlo?»
187
Larois gli sopraggiunse alle spalle sollevandolo di forza.
«Ecco dove ti eri cacciato! Avanti, dai una mano a tua nonna, e smettila di importunare i clienti!»
Nonna?!
«Ma lui mi stava fissando, non ce la facevo più…»
«Scusatelo, signore…» Larois chinò la testa rammaricata, rivolgendosi allo sconosciuto. «Per quanto mi sforzi, non riesco a insegnare a mio nipote le buone
maniere… ah! È dura tenere a bada questi marmocchi!»
Nipote?!
«Nessun problema.»
«Questa la offre la casa» disse Larois tornando verso la cucina con Gwern in
braccio. «E tu la devi smettere di dare dei problemi a tua nonna!»
«Ma Larois, che stai dicendo? Non sei mia…»
Gwern si trovò catapultato oltre la porta prima ancora che potesse finire di
parlare.
«Cosa ti è preso?!» esclamò toccandosi la testa con la mano, nel punto dove
aveva sbattuto contro uno dei mobili dei bicchieri.
«Impara a ragionare prima di aprir bocca!» sibilò lei mentre sbirciava dalla fessura della porta.
«Ma cosa ho fatto di male?! Ho solo chiesto a quel tizio…»
«Con cosa ti ha pagato?»
«EH?!»
«Ti ho chiesto con che soldi ha pagato le birre!» Larois allungò la mano e frugò
nella saccoccia che lui portava appesa alla cintura dei pantaloni. Una cascata di
monete scivolò in terra, i pochi spiccioli in rame della magra serata.
«Eccoli.»
Larois prese in mano cinque monete, rigirandosele attentamente fra le dita.
«Cosa c’è di così strano?»
«Guarda…» disse lei allungandogliene una. «Qui al feudo usiamo il conio di
Eld, ed è molto raro trovare altre monete di città diverse. A volte qualche scudo
di uno dei nostri alleati, magari anche un cervo d’argento dell’Est ma…»
«Qui c’è una biscia incisa sopra. Cos’è?»
«Non è una biscia!» esclamò lei. «È un fiume. Precisamente, il fiume Hann.
Queste sono monete dello stretto del mare interno. Il conio di Calhann.»
«E allora?»
«Ma hai dormito poco stanotte? Sembri meno sveglio del solito. Quell’uomo
viene da fuori, è uno straniero… e qui a Eld non viene mai, e dico mai nessuno
da fuori!»
«E quindi pensi che… sia venuto qui per spiarci?!»
188
Larois gli mollò uno schiaffo dietro la testa, forte quel tanto che bastava per
fargli capire di stare un po’ più attento.
«Sta spiando TE! Forse vi stanno cercando, non so chi però…»
«Ci stanno cercando…» ripeté Gwern incredulo «io e Mordraud… ci stanno
cercando…»
«Ho paura di sì. Quindi d’ora in poi io sono tua nonna, va bene? Hai capito
adesso?»
«Ho capito. Farò come dici tu… grazie Larois.»
«Di niente. Ora torna a lavorare, altrimenti creiamo solo inutili sospetti. Forza,
datti una mossa.»
Gwern prese uno straccio e ritornò in sala. Mentre puliva uno dei tavoli lasciati
liberi da un avventore troppo ubriaco per continuare a bere, fece di tutto per
non alzare gli occhi verso lo sconosciuto, ma resistette solo pochi istanti.
L’uomo se ne era già andato.
“Perché qualcuno vuole spiarci?! A chi può interessare?” si chiese incuriosito.
“Forse a Dunwich? Ma che senso avrebbe… lui lavora a Cambria, e siamo pur
sempre suoi fratelli… no, deve essere qualcun altro.»
“A proposito, chissà come sta Dunwich? Non riesco a ricordare quasi nulla di
lui… sono passati così tanti anni…”
***
«Voglio una spiegazione! SUBITO!»
La guardia si allontanò di corsa, chiudendosi al volo la porta alle spalle.
L’Imperatore era più rabbioso del solito.
Non era un bello spettacolo.
«Adesso come faccio?» mugugnò in preda allo sconforto «non posso entrargli
in camera da letto…»
Quando Loralon si comportava in quel modo, farlo ragionare era impossibile.
Lui aveva solo avuto l’immensa sfortuna di dover presenziare al turno di guardia,
proprio quella notte. Quando lo aveva visto srotolare le mappe con i nuovi territori contesi, aveva trattenuto il respiro. Sarebbe stata un’ottima nottata, se il
fronte si fosse mosso verso Est.
Il primo calice di vetro contro il muro aveva spento ogni sua speranza.
Come tanti altri che ingrassavano le file dell’esercito imperiale solo in attesa
della paga, la guardia non credeva più da un pezzo alla favoletta che i ribelli fossero un branco di violenti retrogradi che si opponevano all’avanzata dell’ordine
imperiale. Tutte balle. Aveva visto gli uomini di Eldain sul campo, e da allora
aveva lottato non per conquistare la gloria della prima linea, bensì la vergogna
delle retrovie. La crema dell’alta accademia militare era rancida e vaporosa. I ge189
nerali prendevano decisioni che poi venivano modificate e plasmate da altri sopra di loro, e così via, fino a creare un marasma di direttive, ordini, elaborate
strategie, piani assurdi. Alla lunga l’impero avrebbe vinto, nessuno ne dubitava,
ma a che prezzo… “È tutta una faccenda di bandierine sulle mappe. Questo è
mio, questo ancora no…” pensò mentre sentiva Loralon urlare infuriato a decine
di stanze da lì. “E ora devo anche trovare il comandante Asaeld nel cuore della
notte… come faccio?”
Gli Dei erano clementi quella sera, pensò quando vide proprio lui, il capo supremo delle Lance Imperiali, avanzare lungo il suo stesso corridoio. Neanche per
un istante si chiese cosa ci facesse Asaeld nel palazzo di Loralon a quell’ora tarda,
non erano affari suoi. La guardia gli andò incontro sorridendo in maniera sconsiderata. Forse sarebbe riuscito ad arrivare al giorno dopo con ancora un lavoro.
Per quanto schifoso potesse essere.
«Signore, comandante… vi stavo cercando… l’Imperatore Loralon chiede urgentemente la vostra presenza nella sala…»
«Sì sì, lo so. Ora vattene, il tuo turno è finito.»
La guardia avrebbe voluto abbracciarlo, ma ovviamente non fece altro che
prostrarsi a terra. Asaeld non rallentò neppure il passo. Giunto alla porta della
sala del consiglio, prese un respiro profondo e bussò con grazia esagerata. La
guardia stava già imboccando il corridoio che lo avrebbe portato fuori, alla sua
amata e desiderata branda nella caserma dei soldati. Sentì solo la voce vagamente
maliziosa della Lancia rimbombare nel silenzio del palazzo, ben lontano alle sue
spalle.
«Posso entrare, mio signore?»
Asaeld aprì senza aspettare una risposta. Il salone del consiglio era vasto quanto un teatro. Arazzi e quadri raccontavano la storia della famiglia Loren, le battaglie più eroiche, le leggende sul primo Imperatore di Cambria. Il tavolo al centro
era abbastanza grande da ospitare comodamente sedute cinquanta persone. Loralon era in fondo, impegnato a rovistare fra le mappe stese di fronte a lui. Rispetto alla sala e al tavolo sembrava un uccellino appollaiato su un trespolo.
Asaeld non poté trattenere un ghigno divertito.
«Ora dovete spiegarmi molte cose, comandante!» sbraitò lui picchiando il pugno sul tavolo. Una mappa perse il fermo che la teneva ben distesa e gli si arrotolò intorno al braccio. Fra mille imprecazioni, l’Imperatore armeggiò per rimettere tutto in ordine.
«Sono qui per servirvi, mio signore.»
«Allora inizia col darmi una mano, subito!»
Asaeld lo raggiunse e rimise il fermo sullo spigolo della mappa, stendendo il
resto con la mano. «Vedo che avete già ricevuto i resoconti sul tracciato del fronte…»
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«Questo non è un resoconto, è un DISASTRO!» urlò Loralon con voce stridula. «Arriva un altro inverno, e tutto quello che abbiamo conquistato è QUESTO!» con il dito tremante indicò un infimo tratto di costa affacciato sulla Lama
dell’Hann. Una zona minore, che i ribelli avevano praticamente abbandonato di
loro iniziativa.
«Mio signore, è stato un anno difficile… i raccolti scadenti, le difficoltà con le
colonie a Ovest… ma non dovete dimenticare la preziosa opera di snervamento
del nemico! Ormai Eld e i suoi sono ridotti allo stremo. È solo questione di
tempo… pochi mesi, magari un anno…»
«Dici davvero Asaeld?!» esclamò Loralon rosso in volto. «Non vedo chissà
quale successo su queste mappe…»
«Vi sbagliate, osservate qui… e qui… siamo passati oltre una collina, e qui…
abbiamo il fiume alle spalle, non più davanti… e non dimentichiamoci quaggiù…»
Asaeld correva avanti e indietro sulla mappa tanto velocemente che neppure
lui riusciva a seguire e focalizzare l’attenzione su ciò che stava indicando.
L’Imperatore annuiva borbottando congetture, avanzando progetti e idee per le
strategie future. Non aveva capito quasi niente di quello che lui gli aveva detto.
«Come potete vedere, alla fine è stato un anno fruttuoso. Ora cerchiamo di
consolidarci, poi provvederemo a prendere il controllo di alcuni punti strategici
che voi, nella vostra grande lungimiranza, mi avete appena indicato.»
Lo sguardo di Loralon gli disse tutto quello che voleva sapere. Asaeld salutò
dopo alcune frasi di rito, e se ne andò sorridente e tranquillo così come era arrivato.
***
Giunsero le prime giornate primaverili, guastate di tanto in tanto da improvvisi
scrosci di pioggia gelida e dalla nebbia che restava aggrappata ai campi umidi.
Deanna era come sempre seduta sul davanzale della finestra che dava sul retro
della casa. Aveva un libro fra le mani di cui non ricordava già più il titolo.
Mordraud si stava allenando, come ogni mattina, a maneggiare la spada in cortile.
“È così diverso quando lo guardo da quassù… con me è sempre timido e gentile, ma quando prende in mano quella spada diventa un altro” pensò rapita dal
ritmo delle sue braccia. Quasi non riconosceva più il bambino che molti inverni
prima aveva accolto al suo servizio.
Da quella famigerata notte d’estate erano passati quasi due anni. Ogni volta
che ripensava a quei momenti concitati, alle urla e al sangue che le colava addosso sui vestiti strappati, sentiva un brivido attraversarle la schiena. I mesi, le stagioni erano volate via, trascinate dalla lenta e costante ripetizione di giornate
191
sempre uguali. Ma qualcosa era cambiato. Ai suoi occhi Mordraud non era più lo
stesso.
Molte cose erano migliorate grazie a quella notte. Con Adraman si comportava
in modo diverso, con una gentilezza che non aveva mai avuto nei suoi confronti.
Era ancora ben lontana dall’amarlo, ma si era resa conto di poterlo almeno rispettare. Se quello che lei aveva visto solo per alcuni istanti era una macabra abitudine per suo marito, allora era tutto più chiaro. Il suo desiderio di pace, noia e
tranquillità aveva un senso. Le sue asfissianti attenzioni, persino l’incapacità di
comunicare cosa sentisse e pensasse avevano un senso. Quello che lui vedeva
ogni giorno al fronte superava le sue possibilità di comprensione. «Chissà quanti
ragazzi ha visto morire in una sola notte, una delle tante…» mormorò con la testa poggiata al vetro. «Come fa a sopportarlo?»
Qualche volta trovava anche il desiderio di concedersi, non molto spesso in
realtà, ma quel tanto che bastava per renderlo felice. Anche dopo tutti i cambiamenti che era stata in grado di apportare alla sua vita, non riusciva a trovare
Adraman attraente. Anni di odio cieco e stupido avevano lasciato il segno. Ma
aveva trovato un modo per accettarlo. Un trucco che all’inizio le era sembrato
più gretto di qualsiasi sordida fantasia.
Immaginava che sopra di lei ci fosse Mordraud, ancora sporco del sangue
dell’uomo che aveva tentato di violentarla. Non il ragazzino che correva e si
sbracciava nel piazzale, ma un vero uomo, maturo e passionale. Ogni giorno che
passava, il sogno e la realtà si fondevano sempre di più. Mordraud stava crescendo a vista d’occhio.
Forse erano i continui allenamenti, a cui si dedicava ogni giorno, con la pioggia
o con il sole. Lei non lo sapeva, e non voleva neppure pensarci troppo. L’idea
che il sogno diventasse realtà la imbarazzava terribilmente.
Le prime volte si era vergognata fino a stare male. Come poteva eccitarsi per
un ragazzino?! Gli voleva bene, era un amico che l’aveva aiutata a sopportare il
lento e snervante scorrere dei giorni, ma non avrebbe mai creduto di potersi sentire attratta da lui. Non prima di quella notte d’estate, almeno. Quel giorno aveva
sconvolto tutto.
Lei era a terra, con l’abito stracciato che le cadeva a brandelli fra le gambe. Lui
stava lottando per salvarla, combattendo con la ferocia di una bestia. Non aveva
esitato a uccidere per lei. Era pronto anche a morire per proteggerla. Non riusciva a dimenticare quella scena, e più la scacciava, più sentiva il sangue bollire e
pompare sotto pelle. Adraman diventava Mordraud, ogni volta. In realtà non
aveva più fatto l’amore con suo marito, ma solo con la sua immagine distorta.
Anche Mordraud era cambiato dopo quella estate passata insieme in campagna. La sua voce, il modo in cui le parlava erano diversi. Se prima aveva sempre
dimostrato più maturità dei suoi anni, dopo quella notte la differenza si era fatta
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più marcata. Mordraud aveva più anni di quelli che dimostrava. Ormai ne era certa.
«Non lo so Deanna, che domande mi fai… avrà sì e no tredici anni, quattordici
dai, si vede… è solo un ragazzino…» le aveva detto una volta Larois, quando lei
era andata a trovarla per sapere come si stesse comportando Mordraud.
«Ma quando parla non lo sembra affatto, dovresti sentirlo! E poi mi tiene
d’occhio, si preoccupa per me, e mi ascolta… sembra capire tutte le mie ansie,
quando invece alla sua età dovrebbe smaniare per correre e giocare con i suoi
coetanei.»
Quello che all’epoca già sembrava una stranezza, ormai era un dato di fatto. E
non solo per il coraggio che aveva dimostrato durante l’attacco notturno.
“I bambini non pensano ai pericoli, si buttano senza ragionare… la paura li
spinge a fare cose insensate” pensò chiudendo il libro che giaceva inutilmente fra
le sue gambe. Non era solo coraggio. Mordraud aveva dimostrato una freddezza
spaventosa.
“Ha preso quel coltello senza esitare. L’ha cercato al fianco del bandito, già sicuro di trovarlo lì. E invece che tremare, ha staccato il collo di quel bastardo con
mano ferma e decisa. Non ha avuto paura di uccidere un uomo.”
Deanna non riusciva più a vederlo come un ragazzino. Neanche nei lunghi
pomeriggi che passavano insieme a leggere o a chiacchierare davanti a una tazza
di tisana. Il suo volto era velato da come lei lo vedeva in sogno. I suoi occhi
sembravano pronti a trasformarsi da un momento all’altro nello sguardo di un
uomo.
“Per gli Dei, devo avere qualcosa che non va… non posso veramente sognare
di scoparmi un bimbo.”
Poteva ripeterselo infinite volte, recitare quel pensiero come una litania, ma
non sarebbe servito a nulla. Deanna guardò ancora in basso nel cortile, ma non
trovò Mordraud. Attese un momento, e quando stava per desistere lo vide rispuntare dalla porta sul retro.
Con una delle vasche per i panni.
“Adesso basta. Non posso spiarlo, non proprio mentre…”
Mordraud la riempì utilizzando l’acqua del pozzo, prese un pezzo di sapone
ceruleo dalle lavanderie, e iniziò a spogliarsi.
“Non sospetta neppure che da questa finestra si riesca a vedere fino a
quell’angolo di cortile. Non possono notarlo dalla strada, né dalle altre finestre.
Se alza gli occhi non può vedermi…”
Non lo aveva mai visto nudo. Deanna arrossì fino a sentire la pelle del volto
pizzicare, e tentò di distogliere gli occhi. Ma non ci riuscì.
“Avanti, smettila… ora mi alzo e me ne vado.”
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Mordraud entrò di schiena nella vasca e prese a bagnarsi le spalle e il torace,
strofinando con forza il sapone. In un attimo la sua pelle si riempì di schiuma
bianca e leggera.
“Dove nascondeva tutti quei muscoli?! Ormai è più alto di me e OH PER GLI
DEI!”
Deanna si tappò la bocca e scivolò indietro coprendosi con le tende.
“Mi avrà sentito?!”
Si sporse di nuovo e diede un’occhiata in basso. Mordraud stava guardando in
alto verso la sua finestra. In bocca teneva stretto il cordoncino con cui di solito si
legava i capelli prima di scendere a tavola per mangiare. Ma non sempre. Solo
quando…
“C’è Adraman a pranzo oggi! Oh maledizione… se mi scopre a spiare
Mordraud sono finita! E non mi sono ancora preparata!”
Deanna scattò in piedi e corse fuori dalla stanza, non senza lanciare un’ultima
occhiata a Mordraud in piedi nella vasca.
Una lunga e attenta occhiata.
***
“Se non riesci a liberarti dalla mia presa, allora non sei ancora pronto per
combattere.”
Quante volte aveva ripetuto quella frase, si chiese Adraman. Sorrise mentre
cercava di ricordarlo. Aveva perso il conto. Ogni volta che tornava dal fronte,
erano quelle le prime parole che sentiva. Ancora prima di essersi sfilato il mantello.
Mordraud lo aspettava nell’ingresso, da solo. Adraman non faceva in tempo a
sentirsi a casa che già lui aveva allungato la mano, nella silenziosa richiesta di un
nuovo tentativo. Non era mai riuscito a farcela. Tutto durava pochi e brevi istanti di silenzio, rotti solo dalla sua sentenza. La forza non gli mancava. Ne aveva
anche troppa. Ma era irruento, non sapeva usarla.
«Se non riesci a liberarti dalla mia presa, allora non sei ancora pronto per combattere.»
Deanna non sapeva nulla, e nessuno degli altri servi assisteva mai al loro piccolo rito. Adraman non era un uomo avvezzo a infangare la propria parola. Finché
Mordraud avesse insistito per provare, lui avrebbe acconsentito. Non aveva preso in considerazione l’ipotesi che prima o poi ce l’avrebbe fatta. Dopotutto, era
solo un ragazzino. Con il tempo, si diceva, avrebbe cambiato idea. Come tutti i
ragazzini.
Mordraud, però, non sembrava intenzionato a mollare. Quanto tempo era trascorso dalla sua promessa? Adraman contò le stagioni mentre legava il cavallo
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nei pressi delle stalle. «Due anni, più o meno. Quell’estate eravamo ancora impantanati vicino al fronte dell’Hann, l’anno scorso l’abbiamo perso, e adesso invece siamo riusciti a riprendercelo… sì, due anni.»
Era un suo difetto. Adraman riusciva a tenere il conto del tempo che passava
soltanto basandosi sugli eventi della guerra. Una primavera qualsiasi diventava la
battaglia del querceto, un vecchio inverno era soltanto la costruzione del nuovo ramo del
Terrapieno, e così via fino ai primordi della guerra. L’unico evento che era riuscito
a scalzare dalla sua memoria una vittoria o una sconfitta, era stato il matrimonio
con Deanna.
“Lei era poco più che una bambina… avrei dovuto aspettare e declinare
l’offerta di suo padre. Ma se avessi atteso, lei non mi avrebbe mai accettato di sua
volontà. Non ci saremmo mai sposati…”
Sarebbe stato un bene, o un male? Per quanto Adraman fosse abile nel prendere decisioni che salvavano o condannavano plotoni interi di soldati, i dilemmi
della sua vita privata restavano sempre tali. I metodi con cui guidava una difficile
guerra decennale sembravano ridicolmente semplici rispetto alla complessità di
un matrimonio.
“Ma ora le cose sono migliorate. Se tutto restasse come adesso…”
Deanna era molto cambiata, tanto che lui quasi non la riconosceva. Litigavano
ancora, passavano settimane senza sfiorarsi, ma era un’inezia rispetto al passato.
Finalmente sua moglie si concedeva con più trasporto, dimostrando per lui una
passione che non aveva precedenti. Adraman era di nuovo felice all’idea di tornare a casa.
«Una vera benedizione…» mormorò aprendo la porta. Mordraud era già lì,
pronto e in attesa.
Adraman alzò la mano e si preparò a stringere quel piccolo insolente nella sua
morsa d’acciaio. Mordraud piantò bene i piedi per terra, la afferrò e iniziò a tirare.
«Bentornato tesoro.»
Mordraud saltò via come una molla carica, e Adraman riprese a sciogliersi il
nodo del mantello. Il rito era stato profanato.
«Grazie amore, avvisa i domestici di preparare il pranzo.»
Deanna scese le scale e lo abbracciò. Mordraud restò indietro, ritto sulla schiena e sguardo umilmente a terra. «Ho già avvisato io. È tutto pronto in tavola.»
«Oh, grazie Mordraud!» Deanna si avvicinò sfiorandogli appena la spalla. «Io
ero di sopra a leggere… avevo perso il conto delle ore…»
Adraman contemplò la scena rapito da un dettaglio nuovo. Qualcosa che non
aveva mai notato prima, e che solo in quel momento risaltava in tutta la sua evidenza. Passava troppo tempo lontano da casa, si disse amareggiato. Ogni volta
che tornava, era come se dovesse riabituarsi a tante piccole cose.
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Mordraud si era irrigidito al tocco di Deanna. Lei lo aveva ringraziato con una
sorta di carezza. Comportamenti che avrebbero avuto un senso quando lui era
ancora un paggio, un bambino al servizio di una donna altolocata.
Mordraud era più alto di sua moglie. Portava un accenno lontano di barba. Era
in ordine, pulito ed elegante.
Non solo non era più un bambino. Era un ragazzo a un passo dal diventare un
uomo, e piuttosto bello per giunta.
Adraman sentì uno strano brivido corrergli su dallo stomaco.
***
«La lepre è ottima, non è vero tesoro?»
Adraman annuì abbozzando un sorriso poco convincente. Il cibo aveva il sapore del cuoio bagnato. Il vino sembrava acqua stagnante. Il pane, un blocco di
fango secco.
«Assaggia anche le patate, sono ottime. Adrina le ha cotte proprio come ti
piacciono, sotto la cenere calda del camino.»
«Grazie… magari dopo…»
Come aveva fatto a non pensarci? Prima o poi Mordraud sarebbe cresciuto,
ma in tempi che lui supponeva più lunghi. Invece, quel timido bambino si era
trasformato in un abbozzo di uomo in poco più che due anni. Come era possibile? Non riusciva a capacitarsi di una simile anomalia. “Forse voleva a tal punto
battermi che la sua volontà ha vinto sul tempo… ma che idiozia” pensò inforcando un pezzo ben cotto di lombo di coniglio. Il suo piatto preferito. Lo stomaco continuava a tremare, e rifiutava qualsiasi boccone di cibo.
Una tempesta di dubbi lo assaliva minacciando di mandarlo alla deriva. Da
qualche tempo Deanna era diversa con lui, ma per quale motivo? Quei due avevano una tresca e lei si sentiva in colpa? Anche se era ancora acerbo, Mordraud
aveva osato insidiare sua moglie?
“Devo smetterla, ma cosa mi prende?”
«Scusa amore, ma sono già sazio. Avrei bisogno di farmi un bagno, sai, dopo il
viaggio…»
«Non aspetti la fine del pranzo?» chiese lei aggrottando la fronte. «non è da te.»
«Non… ecco non mi sento molto bene. Forse mi ha dato fastidio qualcosa che
ho… mh… mangiato ieri.»
Deanna non replicò e mandò Mordraud a chiamare i domestici. «Bisogna sparecchiare e preparare la vasca per il padrone.»
«Alla vasca ci penso io» rispose Mordraud.
Adraman se ne andò scusandosi di nuovo con Deanna. L’intento di Mordraud
era chiaro. Il loro rito era stato solo rimandato a un momento migliore. Raggiun196
se a passo svelto la camera da letto e si accasciò sulla sua poltrona, cercando di
trovare un minimo di contegno.
«Cosa mi sta succedendo?! Devo mantenere la calma, questa non è una carica
di cavalleria… me ne sono accorto solo ora, ma forse è solo una mia fantasia…
sto lontano da casa troppo a lungo, quando torno vedo le cose in modo diverso…»
E se si stesse sbagliando, si chiese cupo in volto. Se non fosse soltanto un malinteso?
Alla fine, quando sentì qualcuno bussare alla porta, era giunto a una conclusione.
«Avanti.»
Mordraud entrò trascinando con sé una vasca di legno già colma per metà di
acqua calda. “Hai proprio una gran fretta, ragazzo… non faccio mai il bagno in
camera. Vuoi restare da solo con me, eh?” pensò stizzito. “Non è più un gioco, o
uno stupido rito…”
Mordraud chiuse a chiave e abbandonò la tinozza in mezzo alla camera. Con
piglio risoluto si piazzò davanti a lui e allungò la mano.
“Fra pochi mesi arriverà a guardarmi dritto negli occhi…” pensò Adraman accettando la sfida. Con tutta la forza che aveva tirò verso il suo petto, e subito
Mordraud inarcò le spalle e lottò per resistere.
Avrebbe potuto chiamare Larois e spiegargli il suo disagio. Mordraud sarebbe
svanito dalla sua casa in meno di una notte. Ma sarebbe rimasto a Eld, vicino a
lei.
«Sei sempre più forte, ragazzo.»
Mordraud tirava disperatamente, digrignando i denti in una smorfia animalesca. Adraman sentì il suo braccio raggiungere uno sforzo mai toccato prima, ma
poteva resistergli. Non avrebbe perso neppure quel giorno.
Adraman allentò impercettibilmente la presa.
«Volevo farvi una sorpresa, signore» sibilò Mordraud, sorridendo maliziosamente. «Volevo dire, Adraman…»
La sua forza aumentò di colpo. Adraman ricominciò a tirare al massimo della
sua possibilità, ma ormai era troppo tardi. Mordraud trascinò Adraman fino a
stringerselo al petto. Le parti si erano invertite.
«Ho vinto.»
Mordraud non disse altro. Adraman si aspettava grida di gioia, persino qualche
scherno. In fondo, quel ragazzo aspettava il suo giorno di gloria da due anni.
Eppure, Mordraud non sembrava esaltato, o felice della sua conquista.
“Non è più un bambino, sa già che questo è solo un primo passo. Uno dei tanti.”
197
Se solo avesse saputo che avrebbe vinto comunque quel giorno, si disse sentendosi vagamente in colpa. Con o senza merito, non aveva importanza. Adraman aveva già deciso il finale del loro gioco.
“Non puoi più restare a fianco di mia moglie, ragazzo mio.”
***
«LAROIS! LAROIS!»
La vecchia locandiera stava sonnecchiando sotto la veranda sul retro, gustandosi l’aria tiepida di una bella giornata primaverile. La sua schiena non era più
quella di una volta. Doveva ritagliarsi più tempo per riposare, pensò oziosamente.
«Sono qua, Gwern… cosa c’è?» rispose sbadigliando.
«Al mercato… ho sentito Adrina parlare con… con…»
«Ora calmati, prendi un bel respiro, e ricomincia.» Larois prese Gwern e se lo
mise sulle ginocchia. Aveva il fiatone ed era tutto sudato. «Se fai così poi stai male, e lo sai. Non devi sforzarti troppo.»
«MORDRAUD PARTE PER LA GUERRA!»
Larois spalancò gli occhi incapace di parlare. Gwern invece era un fiume in
piena.
«Adrina parlava con Lera, la moglie del fornaio, diceva che Adraman è tornato
a casa e si vuole prendere Mordraud, ha detto che lo porta al fronte, se lo aspettava, perché è un bel ragazzo e non si capisce come mai il padrone permetta che
sua moglie abbia in casa un così bel ragazzo, e poi è robusto, tanti partono giovani e non tornano, laggiù si muore se non sei scaltro, e lui è ancora un ragazzo,
e…»
«Aspetta, va piano!» Larois gli accarezzò la testa per calmarlo, ma era tutto inutile. Gwern tremava come una foglia, e balbettava solo frasi sconnesse.
«Mordraud è ancora molto giovane, non è pronto per fare il soldato, ti devi essere sbagliato, per forza!»
«Tu non lo vedi da tanto…» mugolò Gwern fra le lacrime «è cresciuto, non ci
crederesti mai… è alto più di te, e ha due braccia grosse come tronchi, e la barba,
non sembra neppure più lui…»
«Ma cosa dici?! Deanna me l’avrebbe detto no?! E poi non può mica crescere
come gli pare! Era un bambino fino a un paio di anni fa!»
«HA VENTIDUE ANNI!»
Per Larois fu come uno schiaffo. Era impossibile, una follia, il delirio di un
bimbo troppo fantasioso.
«Non ci credo. Non posso crederci.»
«Ha dieci anni più di me, e io ne ho dodici…»
198
«NON CI CREDO!» urlò la vecchia gettandolo a terra. Gwern ricominciò a
piagnucolare, rannicchiato sul pavimento della veranda. «Tu avrai sette anni al
massimo! GUARDATI! Cosa siete, due mostri?!»
Larois si sentì morire. Accecata dal piacere di avere in casa un bimbo, non si
era accorta che Gwern era cambiato pochissimo in quegli anni. Si era fatta ingannare dal fatto che non fosse davvero suo figlio. Per lei, Gwern era
l’opportunità unica di riavere indietro un bambino da accudire. E come tale
l’aveva cristallizzato, idealizzato.
«No, non siamo…»
«Ventidue anni! È un’idiozia! Allora per gli Dei quanti anni doveva avere
quando l’ho mandato da Deanna? Diciotto?! Diciannove?!»
Gwern annuì terrorizzato. Non aveva mai detto a nessuno il loro segreto, come tante volte Mordraud gli aveva ordinato. Ma solo in quel momento si rendeva conto di aver fatto una cosa molto stupida.
«Eglade… la nostra mamma… era una Aelian.»
«Chi?!»
Gwern scosse debolmente la testa. Larois non ci sentiva quasi più. Si guardava
intorno confusa e spaesata.
«Era una Aelian…»
Larois impallidì. Per un momento, Gwern pensò che stesse per svenire.
«Aelian?! Ma non esistono! Sono soltanto una leggenda popolare!»
«No Larois, non è così» balbettò angosciato Gwern. «Le storie che si raccontano sono esagerate e false, ma gli Aelian esistono… mia madre apparteneva al loro popolo. Aveva molti più anni di te, eppure sembrava ancora una ragazza.
Mordraud mi ha spiegato che è il sangue che condividiamo con nostra madre il
motivo per cui cresciamo così lentamente.»
«Ecco perché Mordraud conosceva tutte quelle storie… oh Dei, oh Dei…»
mormorò Larois stringendosi il volto fra le mani. «Allora le leggende hanno
qualcosa di vero, quando ero giovane se ne parlava ancora tanto… il popolo dimenticato… il popolo eterno…»
«E ora? Cosa facciamo?»
«Una Aelian…» Larois sembrava sparita dentro i suoi pensieri. «Non si è mai
sentito… è impossibile… ventidue anni…»
«Larois, ti prego, cosa facciamo adesso?!»
«Non lo so! Quello che dici non ha senso, come potreste invecchiare più lentamente di me, di noi…»
«Mia madre non me l’ha mai spiegato, è morta troppo presto… pensava a tutto
Mordraud, lui non vuole parlare spesso dei nostri antenati. Mi ha solo detto che
era un segreto.»
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Larois bofonchiò qualcosa, ma si azzittì. Anche se era un discorso che per lei
era senza alcun senso, dentro di lei sentiva che Gwern non le stava raccontando
una frottola. Da quando lo aveva conosciuto, lui non era praticamente cambiato
di una virgola. Suo figlio Nardo invece era diverso ogni giorno che passava,
quando aveva più o meno la sua età. Il desiderio di sentirsi mamma l’aveva completamente ingannata. Gwern non stava mentendo, si disse. Ma era qualcosa di
troppo grande perché lei potesse comprenderne appieno la portata.
«Qualcosa dovremo pur fare! Dobbiamo fermarlo!» continuò disperato Gwern.
«Non possiamo più farci niente, lo capisci?!» gridò lei infuriata. «Ormai è tardi,
io pensavo che fosse un bambino, che sarebbe cambiato col tempo… invece era
già un uomo, l’abbiamo solo aiutato! MALEDIZIONE!»
Gwern si era fatto piccolo per terra davanti alla sua sedia. Larois aveva una
gran voglia di prenderlo a schiaffi, di fargli rimangiare tutto quello che aveva detto. Non sapeva il perché, ma non aveva grossi problemi ad accettare di aver tenuto in casa due improbabili mezzosangue. Come se avesse già sospettato qualcosa, senza rendersene conto. Un puro istinto materno. Credeva ciecamente alle
parole di Gwern. Sentiva che non stava affatto mentendo.
«Non possiamo fare più nulla. Speriamo solo che veda quanto la guerra è orribile, e decida di tornare a casa. Possiamo solo sperare…»
«E tu ora… io…» mugolò Gwern in lacrime.
«No, no!» rispose lei subito, tirandolo su e abbracciandolo. «No, non ti caccio
via… scusami tanto…»
«Anche se mia mamma era una… una Aelian?»
«Non vuole dire niente, sei sempre il mio Gwern» la voce di Larois era ritornata gentile, e lui poté riprendere a respirare. «Anche perché non so nulla del popolo eterno… tu sei come un figlio per me. Non importa chi fosse tua madre. E
non mi interessa che tu cresca più lentamente di me… tanto ormai, io sono con
un piede nella fossa. Non ti caccio via, sta tranquillo.»
«Non dirlo mai!» mugolò disperato Gwern.
«Non ti preoccupare, scherzavo… ora, te la senti di raccontarmi chi sono davvero gli Aelian? Voglio che non ci siano più segreti fra noi. E per quanto riguarda quel piccolo bastardo di tuo fratello…» mormorò Larois con un sorriso stanco «possiamo solo sperare che, una volta conosciuta di persona la guerra, voglia
tenersene il più possibile alla larga.»
«Va bene Larois… e grazie» Gwern si asciugò il naso sulla manica e abbracciò
la vecchia locandiera.
«Spero solo tu abbia ragione.»
«Lo spero tanto anch’io» rispose Larois. «Lo spero tanto.»
***
200
«Domani, Mordraud parte con me.»
«CHE COSA?!»
Deanna schizzò fuori dalle coperte come se avessero preso fuoco improvvisamente. Adraman si tirò su poggiandosi contro la testata del letto, e non disse
nient’altro. Non poteva nasconderlo per sempre.
«Ho detto che domani porto con me Mordraud al fronte.»
«No, no… tu non lo porti da nessuna parte!» Deanna quasi non riusciva a gridare, tanto era sconvolta. «Come ti permetti di portarmelo via?! È un mio domestico!»
«È stato lui a chiedermelo.»
«Non ci credo! Non può averlo fatto!»
«E invece è proprio così. Mordraud mi ha chiesto di entrare nell’esercito, e io
ho accettato. Per la causa…»
«TU E LA TUA CAUSA POTETE ANCHE FARVI FOTTERE!»
«Deanna, vedi di smetterla, altrimenti…»
«ALTRIMENTI COSA?! SEMPRE IL SOLITO DISCORSO?!»
«Come mai ti arrabbi tanto?» Adraman si era alzato, e si stava rivestendo stizzito. «C’è per caso del tenero?»
«Sei un verme, lo porti con te solo perché sei geloso…» Deanna era paonazza,
le sue braccia tremavano d’odio. «Ti senti minacciato, povero idiota che non sei
altro…»
Fu un attimo. Adraman fece un passo e le mollò un ceffone in piena faccia.
Usò ben poca forza, ma valse come un affondo di spada. Deanna virò dal rosso
al bianco cenere. Non riusciva a respirare. Adraman aprì la porta pronto ad andarsene.
Mordraud era proprio davanti a lui.
«Che ci fai qui?! Come osi spiarci?!»
Mordraud era persino più sorpreso, e all’inizio non fece altro che fissare
Deanna che si teneva il viso fra le mani. Adraman lo afferrò per le spalle e lo
scosse fino a fargli battere i denti in bocca.
«VATTENE SUBITO VIA!»
«Deanna… ha ragione, gliel’ho chiesto io…»
Adraman si fermò, e si voltò verso la moglie. Deanna stava guardando tutti e
due con occhi spalancati e immobili.
«Andate via…»
«Hai sentito? Ora mi credi?!»
«ANDATE VIA! ANDATE VIA!»
Adraman non aveva mai sentito un urlo così in vita sua. Neppure da un uomo
sul punto di morire.
201
«Deanna, ascoltami… è una cosa che devo fare…» tentò di dire Mordraud.
«LASCIATEMI STARE!» Deanna si accartocciò su se stessa urlando ancora
più forte. «VATTENE! ANDATE VIA!»
Le sue mani afferrarono la porta e la scagliarono con una tale forza che i cardini si spaccarono con uno schiocco metallico. Deanna non si fermò, e continuò a
sbatterla fino a far saltar via anche la maniglia.
«ANDATE VIA! ANDATE VIA!»
Adraman e Mordraud corsero giù per le scale insieme senza dire una parola.
Imboccarono l’uscita dalla villa e scapparono a testa bassa.
«Io non… non ho mai cercato di sedurre… tua moglie…» ansimò Mordraud
stringendosi il petto come se gli si stesse aprendo in due. «Devi credermi Adraman.»
Il cavaliere non rispose. Non lo guardò nemmeno. Fissava il vuoto e respirava
a malapena.
«Tornatene in camera. Domani all’alba partiamo.»
«Mi credi? Io non ho mai…»
«Vattene, ho detto.»
«Va bene… signore…»
Mordraud sbirciò oltre la soglia, attese un momento e corse verso la sua stanza
rasentando il muro. Deanna urlava in modo inumano, interrompendosi solo
quando schiantava qualcosa contro la parete, un vaso, lo specchio, i candelabri
d’ottone.
«LASCIATEMI STARE!»
***
«Eccolo, l’ho trovato.»
Larois scese barcollando dalla vecchia scala a pioli che conduceva al sottotetto.
Per anni e anni aveva accatastato lassù tutto quello che non le serviva, una montagna di roba mescolata senza ordine che somigliava molto a una raccolta caotica
di ricordi. Abiti tarlati di quando era ancora una signorina, gli attrezzi preferiti di
suo marito, il rasoio, un paio di stivali con il tacco consunto, la camicetta di raso
che aveva indossato al loro matrimonio. E quelle erano solo le cose che aveva
riconosciuto alla prima occhiata. Avrebbe potuto passare un mese senza riuscire
a raccapezzarsi su tutto quello che si era accumulato là sopra.
«Dici che può andargli bene?»
«Penso di sì, così a occhio…»
«Larois, grazie di cuore… se ti dà fastidio lasciamo stare…»
«No, ci mancherebbe! Alla fine quel ferraccio abbandonato lassù non serve a
nessuno.»
202
Larois poggiò l’ammasso di stracci sul tavolo in sala e lo svolse con cura. Ricordava ancora il giorno in cui l’aveva avvolto dentro i brandelli dei vestiti di
Nardo senza smettere un momento di piangere. Quando le sue dita sfiorarono
l’acciaio dovette ricacciare in gola le stesse vecchie lacrime di allora.
L’elmo di suo figlio.
Era stato Nardic, suo marito, a insistere per quell’elmo di qualità. A ripensarci
dopo tanti anni, la cosa riuscì persino a farla sorridere. Come se un pezzo di lamiera potesse davvero fare la differenza.
«A cosa serve un buon elmo, senza tutto il resto?» mormorò mentre controllava che la giunzione della visiera fosse ancora oliata. Era rimasto tale e quale al
giorno in cui lo aveva gettato nel sottotetto. L’unico pezzo della sua famiglia a
essere tornata intatta dal fronte.
«Non c’è un graffio, un bozzo o una riga… questo elmo non è servito a niente.
Tieni, puoi farci quello che ti pare.»
Gwern lo prese in mano come se si trattasse di un bambino appena nato. Subito dopo aver saputo della partenza di suo fratello, si era arrovellato per trovare
qualcosa che potesse aiutarlo in guerra, una spada, un giaco di maglia o anche
una semplice sacca di cuoio nuova e resistente. Di soldi ne aveva pochi, e anche
il tempo era risicato. Così aveva chiesto aiuto a Larois.
«È… bellissimo…» sospirò ammirato.
«No, fa schifo» disse lei mentre armeggiava con la palla di stracci. «È un pezzo
di latta inutile che ti toglie il fiato, ti impedisce di vedere, e soprattutto… fa schifo perché ha visto una guerra. Fa tutto schifo.»
«Sei sicura che posso tenerlo?! Era di tuo figlio, non so se…»
«Se cosa? Hai paura che lui ritorni dal regno dei morti ululando e gemendo?
Quella stupida scodella non l’ha aiutato quando avrebbe dovuto. Spero che con
tuo fratello si comporti meglio.»
«Grazie infinite Larois» mormorò Gwern chinando il capo «e scusa…»
«Lascia stare le scuse, figliolo. Con quelle non ci fai nulla. Ora piuttosto…» Larois cercò dentro un cassetto rovistando fra gli strumenti da cucina, e infine trovò quello che aveva in mente. Un lungo e spesso puntale di ferro acuminato.
«Vediamo di abbellirlo un po’. Allora, cosa vogliamo farci? Un’incisione a forma di spada, un fulmine?» Larois si rigirò l’elmo fra le mani riflettendo sul da farsi. «Magari anche un cavallo imbizzarrito, ma non sono molto brava a disegnare.»
Gwern scosse la testa lentamente torturandosi le labbra con le dita. Voleva
qualcosa di unico, un portafortuna speciale.
«E se noi invece…»
***
203
Impossibile dormire. L’ansia per la partenza era già un pensiero preoccupante.
Le urla di Deanna avevano fatto il resto.
“Mi sembra di sentirle ancora… dannazione.”
Mordraud scagliò via il cuscino con cui aveva cercato inutilmente di tapparsi le
orecchie, nella speranza idiota di sopprimere lo stridio che ancora gli frullava
dentro il cranio. Non era più in grado di sentire il silenzio.
“Ho bisogno di un po’ d’aria.”
Il feudo era placido e tranquillo, attraversato da una brezza frizzante da Nord.
Mordraud imboccò il viale centrale e vagò a caso lungo i sentieri annidati fra le
pareti delle case, senza una meta né uno scopo. Avrebbe bevuto volentieri un
bicchiere di vino, ma a quell’ora la taverna era chiusa. Non andava dalla vecchia
Larois da tempo immemorabile.
“Forse non voglio che lei mi faccia la solita predica, o mi chieda come va nella
villa… vecchiaccia impertinente, come minimo può leggermi negli occhi cosa
penso, e non è il caso…”
Prima di partire doveva salutare Gwern. Quell’ultima incombenza lo metteva
in un disagio terribile.
“Mi dirà che faccio male, che non devo partire… chissà quanto ci resterà male.”
Affrontare la lontananza di Deanna non sarebbe stato un problema, o almeno
era quello che lui credeva con fermezza quasi fanatica. Ma Gwern era un’altra
cosa. Anche se si vedevano raramente, pensava spesso a lui e accumulava tutti i
soldi che guadagnava nella speranza di riuscire un giorno a farlo studiare. Magari
anche da quel tizio che conosceva Sernio, il cantore. Saiden. La sua paga non era
il massimo, ma era di certo maggiore dei due spiccioli che Gwern riusciva a tirare
su alla taverna. Di quel passo non ce l’avrebbero mai fatta a mettere da parte abbastanza.
“Quando sarò nell’esercito, cambierà tutto. Mi basterà fare qualcosa di eroico,
o magari riesco a mettere le mani su un bottino…”
In realtà, non aveva la minima idea di quello che si dovesse fare in guerra per
diventare ricco.
«Forse devo solo sopravvivere…» borbottò calciando un rametto secco incastrato fra due pietre. A furia di vagare non sapeva più dove si trovava, se a Sud o
a Est del castello. Quando alzò lo sguardo dalla strada vide proprio davanti a lui
la porta della taverna.
“Alla fine, senza accorgermene, sono tornato a casa…”
Una luce era ancora accesa sul retro, forse l’unica in tutto il feudo. Mordraud
oltrepassò il vialetto che costeggiava la grande casa e sbirciò fra i vetri sporchi.
Suo fratello era nella loro vecchia camera, seduto per terra e girato di schiena,
chino su qualcosa che da lì non riusciva a vedere.
204
“Un momento vale l’altro…”
Per fargli una sorpresa passò dalla cucina, ben sapendo che avrebbe trovato la
porta aperta, come sempre. A passo felpato superò il breve corridoio e sgusciò
dentro la stanza.
«Vedo che ti sei preso il lato migliore del letto.»
Gwern trasalì ingoiando un urlo strozzato. Qualcosa scintillava fra le sue mani,
ma subito lui nascose tutto alle spalle.
«Fratello! Mi hai spaventato a morte!»
«Non avevo sonno… e poi, devo dirti una cosa importante.» Mordraud strisciò
i piedi nervosamente, non sapendo da dove iniziare.
«So già tutto. Parti con Adraman domani mattina»
«Ma come lo sai?! È successo oggi pomeriggio!»
«Le voci girano in fretta, e io le ascolto sempre tutte» rispose Gwern con ben
poca gioia nella voce. «Speravo solo che saresti passato a salutarmi.»
«Ma cosa ti gira in testa? Vedi?! Sono qui!» Mordraud si sedette per terra al suo
fianco e lo prese in braccio, strinandogli i capelli con la mano libera. Come al solito Gwern si dimenò per liberarsi e mugugnò di finto fastidio.
«Allora hai deciso di partire… speravo che la vita in casa con Deanna ti avrebbe convinto a non farlo…»
«Ehi, io sono un uomo, non divento una donnicciola solo perché faccio un lavoro da donna!»
«Ma non fai un lavoro da donna.»
«Beh, più o meno… comunque lo sai, sono anni che voglio far parte delle
truppe di Eldain. Questo è il mio momento.»
Gwern lasciò perdere ogni tentativo di liberarsi, e si accoccolò sul suo petto.
Era magro come un chiodo. Mordraud non sentiva addosso il suo peso.
«Speravo che tu venissi a salutarmi, anche perché ho qualcosa per te.»
«Che cosa?!»
«Non è ancora perfetto, ma a questo punto non posso farci niente…»
«Va bene, ho capito. Ma cos’è?!» chiese Mordraud incuriosito.
«Ecco qui!» Gwern allungò un braccio sotto il letto e gli mise davanti agli occhi
un grosso oggetto in ferro che subito Mordraud non riconobbe.
«Ma… è un elmo!»
«Shh, fa piano… Larois sta dormendo e ha il sonno leggero!»
«Un elmo…» sussurrò Mordraud «molto bello tra l’altro. Ma è per me?!»
«No, è il mio e te lo spacco in testa se non torni indietro tutto intero…»
Gwern gli mollò un colpetto in mezzo alla fronte con un dito. «Ma certo che è
per te! Per tener ferma questa testa calda che ti ritrovi.»
«Aspetta che lo provo…»
205
Mordraud si calò l’elmo e armeggiò con la visiera. Solo con l’aiuto di Gwern
riuscì a venirne a capo.
«Devi imparare come si fa, sennò ti ammazzano, e avere un elmo non ti sarà
servito a nulla!»
«Allora, ci sono quasi… ecco!» Mordraud si alzò e giocherellò con la visiera,
camminando avanti e indietro a passo di parata. «Suonate le trombe, è arrivato
l’eroe di Eld… Mordraud!»
Con la voce simulò il boato di una folla estasiata, poi iniziò a salutare intorno
sbracciandosi. Gwern rideva soffocandosi la bocca con una mano.
«Ma non è tutto. Vieni qua, togliti quel coso.»
Mordraud tornò al suo fianco e si sfilò l’elmo.
«Leggi lì dietro, alla base della nuca…»
«Gwern protege la tua vita.»
«Ho sbagliato a scrivere?!» esclamò Gwern sbigottito. «Non ci credo, che imbecille… ero troppo teso…»
«Ma non si nota neppure!» annuì Mordraud con grande serietà. «E poi così è
ancora più efficace. Mi protegerà fino alla fine…»
«Dai, non prendermi in giro!»
Mordraud lo afferrò di nuovo e se lo strinse al petto buttandosi in terra insieme a lui. Gwern ricominciò a ridere sotto l’attacco del solletico ai fianchi.
«Non ti prendo in giro, mi hai fatto un regalo stupendo, fratello! Con quello
sono sicuro che non mi succederà mai niente.»
«Mi prometti che tornerai a casa vivo?»
Gwern rideva e piangeva allo stesso tempo. Mordraud gli asciugò una guancia
e sollevò l’elmo in cielo, parlando in tono solenne ed estremamente serio.
«Giuro sugli Dei, che possano crepare tutti in modo atroce, che io non morirò,
né ora né mai. Non posso farlo. E, se anche un nemico riuscisse a ferirmi, allora… mi dimenticherò di dover morire.»
«Ti dimenticherai davvero?!»
«Hai la mia parola, fratello.»
***
Tutti i domestici erano accorsi nel piazzale della villa per veder partire il padrone e il suo nuovo scudiero, sebbene l’alba non fosse altro che un alone rossastro all’orizzonte. Lo stalliere aveva finito di preparare i due cavalli, un servo
aveva provveduto a caricare le sacche di provviste che Adrina aveva preparato al
volo, e Adraman aveva terminato di elencare le consegne. Mordraud arrivò correndo, con gli occhi ancora mezzi chiusi dal sonno. Si era addormentato da
Gwern, abbracciato a lui sul pavimento di legno. Non ricordava di aver mai
206
dormito così bene, e per poco non si era perso la partenza. Con sé aveva solo un
fagotto di stracci in cui aveva deposto l’elmo. Adraman lo salutò alzando una
mano alla maniera dei soldati, e lui rispose imitando il suo gesto. Tutto era pronto.
Mancava solo Deanna.
«Non scenderà, avete sentito stanotte?! Ha continuato fino a poche ore fa…
mamma mia che paura che ho avuto.»
«Bah, non dovrebbe comportarsi in quel modo con il signor Adraman… è così
un brav’uomo…»
I domestici mormoravano fra loro, stando attenti a non farsi sentire dal padrone. Ma glielo si leggeva in faccia, che Adraman stava ascoltando tutto. Scrutava la
porta e la finestra della sua camera, nella speranza di vedere almeno un cenno, o
anche solo il viso infuriato di sua moglie. Non aveva dormito con lei, non aveva
neppure tentato di tornare a letto. Si era appisolato su una poltrona in sala, con
in mano una bottiglia mezza vuota di liquore.
«Possiamo partire» disse dopo una lenta e inutile attesa. «Devi prendere qualcosa, Mordraud?»
«No, signore… volevo dire, Adraman. Non devo prendere nulla.» Mordraud
non voleva mettere piede in quella casa, memore delle urla disumane che lo avevano tormentato per tutta la notte.
«Bene, una volta arrivati al distaccamento ti troverò qualche abito adatto al
fronte.»
Adraman salì a cavallo, ma Mordraud esitò sulle staffe.
«Cosa c’è?»
«Niente, pensavo a una cosa… quando arriviamo mi daranno anche una spada?»
«Certo, come pensi di combattere altrimenti? Che domande fai?!»
«Non so se è il caso, ma… ecco… potrei avere una delle tue, quella lunga con
l’elsa nera che c’è vicino all’ingresso?»
Adraman lo fissò con genuino stupore.
«Posso sapere il perché?»
«Ci sono affezionato, tutto qua. L’ho usata quando non c’eri…» Mordraud arrossì abbassando lo sguardo. «Per allenarmi, sai…»
«Mh, va bene. Vai a prenderla, forza.»
Mordraud corse dentro casa soddisfatto e sfilò l’arma dalla rastrelliera. Con
quella, si sentiva più al sicuro. Era il simbolo di tutti i giorni che aveva passato a
menar l’aria del cortile. Mentre si voltava per uscire di nuovo, sentì un brivido
alle gambe. Alzò gli occhi e vide Deanna in cima alle scale che lo fissava in silenzio.
«D…»
207
Mordraud alzò una mano, ma perse le parole. Lei sembrava un’ombra bianca
di neve. Immobile, inquietante. Non ebbe il coraggio di correre da lei per abbracciarla, anche se avrebbe voluto farlo. Il modo in cui lei lo stava guardando lo
angosciò. Gli occhi di Deanna erano spalancati e opachi, totalmente privi di vita.
Mordraud corse fuori trascinandosi dietro la spada, senza più guardarsi indietro.
«Ora possiamo partire. Grazie Adraman… sei stato generoso.»
Il cavaliere puntò i talloni ai fianchi del cavallo e varcò il cancello della villa.
«Di cosa? È solo un pezzo di ferro. Uno dei tanti. Non fidarti troppo della
spada. Fidati solo del tuo braccio.»
Il primo insegnamento. Mordraud cercò di allontanare lo spettro bianco per lasciare spazio alle nuove regole della sua vita, ma non ne fu in grado. Sentiva ancora gli occhi liquidi di Deanna addosso.
«Grazie lo stesso…» mormorò accarezzando il fodero scuro. La casa scivolò
alle loro spalle, e con essa anche i saluti dei domestici. Erano sulla strada, finalmente.
Il fronte lo stava aspettando.
208
XV
«Proprio nella notte dei Fuochi?! Ne sei sicuro?»
«Così si dice in giro…»
«Non è di malaugurio rompere la tradizione?»
«Sembra che all’Imperatore non interessi.»
Dunwich aveva sentito quella voce vagare fra le truppe da diversi giorni, ma
non l’aveva tenuta minimamente in considerazione. La notte dei Fuochi era una
festività strana. Per quel che ne sapeva, nessun comandante aveva mai osato
muovere battaglia proprio in quella notte.
A metà esatta dell’autunno, l’orizzonte si tingeva di rosso al tramonto, il sole
calava, ma il bagliore non svaniva. Restava vivido per tutta la notte. Le stelle,
l’aria e la terra, tutto diventava rosso, come se il mondo intero fosse in preda alle
fiamme. Nel cielo appariva un lembo di luce cremisi da cui piovevano lacrime di
sangue. In città si notava meno, ma nei campi era una visione così terrificante
che i contadini dell’Est accendevano enormi pire con la legna più buona che
avevano, come sacrificio simbolico e propiziatorio.
«Non sarà un attacco come tutti gli altri. Loralon ha chiesto all’intero battaglione delle Lance di guidare l’assalto al Terrapieno.»
Asaeld finì di caricare la pipa e l’accese. L’aria si gonfiò di fumo bianco e soffice. La locanda degli ufficiali era deserta, il momento migliore per fare due chiacchiere senza troppe orecchie intorno. E quello che Dunwich aveva da dire era
assai sconveniente.
209
«Loralon è un malato di mente! Un assalto al Terrapieno nella notte dei Fuochi?!»
«Già.»
«Non sembri preoccupato, Asaeld!»
«Mancano ancora diversi mesi, è presto per agitarsi. Magari cambierà idea, oppure il fronte si sposterà e così potremo evitare il Terrapieno.»
«Mi piace come tu riesca a vedere sempre il meglio delle cose…»
Dunwich scosse la testa e finì in un sorso il suo bicchiere di vino. La bottiglia
era finita, e a un suo cenno il servo ne portò subito un’altra uguale.
«Dovresti provare anche tu. Le giornate passano meglio» concluse sardonico
Asaeld.
«Il Terrapieno…» mormorò preoccupato Dunwich.
«C’è di peggio.» Asaeld prese una profonda boccata e soffiò verso il soffitto.
«Pensa se avessimo dovuto attaccare la postazione sulla lama dell’Hann.»
«Ma scherzi?! La lama dell’Hann è niente! Il Terrapieno è tremendo, manovrare la cavalleria laggiù sarà un incubo!»
«Ed è per questo che noi Lance saremo lì. Quindi fattene una ragione» concluse seccamente Asaeld inghiottendo una sbuffata di fumo denso.
Il Terrapieno era uno dei più vecchi baluardi della resistenza di Eldain. Un muro di terra alto più di tre uomini che correva lungo i boschi, attraversava la valle
stretta fra due catene montuose, e proteggeva il ventre debole dei feudi alleati, il
famigerato Passaggio a Est. Era stato innalzato prima della guerra, molti secoli
prima. Non se ne conosceva il motivo, o la storia più antica. Eldain, e suo padre
prima di lui, l’avevano sfruttato con grande attenzione per difendersi da Cambria. Per decenni, l’impero aveva tentato di conquistarlo. Senza successo, neppure una volta.
Sul Terrapieno, erano sufficienti pochi soldati armati di lancia per tenere a freno un’orda di cavalieri, mentre i fanti arrancavano per scalarla e venivano massacrati dalle spade di chi aspettava in cima. Una difesa che poteva sembrare debole
e facilmente aggirabile solo a chi non avesse mai tentato di conquistarlo. Eldain
era un fine stratega, e con tutta la sua maestria aveva pianificato e addestrato i
suoi uomini affinché sfruttassero al meglio quell’immenso cumulo di terra. Entrambi i lati si chiudevano dentro fitte macchie di bosco intricato che salivano
rapidamente e si accavallavano sui monti circostanti. Il terreno era crivellato di
tane e trappole. Gli arcieri vivevano appollaiati fra i rami. Le colline impedivano
a battaglioni numerosi di riuscire ad aggirare la barriera. Eldain aveva l’uomo giusto in ogni punto necessario.
L’impero aveva provato a passare più a Nord, ma aveva dovuto desistere di
fronte alle rocche alleate che sbarravano ogni altra via. Anche se fossero riusciti a
passare le prime fortificazioni avrebbero dovuto affrontare una discesa verso il
210
Terrapieno per sgombrarlo, trovandosi in quel modo stretti fra due fuochi. Eld e,
appunto, il Terrapieno. Da Sud, con le sue anse e gli acquitrini insidiosi, il fiume
Hann rappresentava una barriera naturale che era costata migliaia di vite nel tentativo di oltrepassarla. Anche in quelle zone, l’esperienza di Eldain dominava incontrastata. Non c’era rivolo o stagno che lui non avesse contemplato nella sua
strategia, compresa la Lama dell’Hann, l’isola stretta e lunga che spuntava al centro di quel territorio lacustre. L’impero aveva perso innumerevoli plotoni fra i
canneti avvolti da perenni brume fradice. E anche i pochi che erano riusciti a
passare, si erano persi nelle ramificazioni del fiume che si incastravano fra i monti aguzzi di quel territorio aspro, e allo stesso tempo maledettamente putrido.
«Con le Lance potremmo fare la differenza… ma sarà comunque un massacro.»
«E allora?! È una guerra, non una festa di paese. Noi dobbiamo solo rispettare
gli ordini dell’Imperatore, è il nostro mestiere.» Asaeld lo fissò con quello sguardo che solo lui sapeva fare. Indagatore, amico, minaccioso allo stesso tempo.
«Stai per caso cambiando idea? Essere una Lancia non ti interessa più?»
«Figuriamoci» rispose Dunwich a disagio. «Stavo solo commentando
l’operazione, tutto qua.»
«Sarà meglio…»
Dunwich tornò a dedicarsi al vino, ma dopo un paio di bicchieri iniziò a sentirsi piuttosto alticcio. Era ora di tornarsene a casa. Asaeld non sembrava dello
stesso parere. Dopo aver frugato nella tasca del suo mantello gli allungò una bella pipa in legno chiaro, invitandolo a farsi una fumata.
«Stasera ho un ottimo tabacco, me l’hanno spedito da Sud oltre il mare interno.
Qualità sopraffina. Ti aiuterà a schiarirti un po’ le idee.»
Dunwich accettò con poca convinzione, ma la prima sbuffata bastò a fargli
cambiare idea. Denso, profumato, ricco d’aroma.
«Una fumata così non si rifiuta mai…» esclamò soddisfatto.
«Bravo il mio ragazzo… ora, torniamo ai discorsi seri. Come pensi che dovremmo affrontare l’assalto al Terrapieno?»
Non era la prima volta che Asaeld chiedeva una sua opinione. Quando lo faceva, l’Imperatore si intrometteva e modificava radicalmente i loro piani. Una
coincidenza insolita, ma che in quel momento non lo colpì più di tanto. Il vino e
il fumo gli avevano sciolto la lingua e alleggerito notevolmente la testa.
«Penso che le Lance dovrebbero concentrarsi ai lati, per poi sfruttare la potenza dei nostri cori… la notte dei Fuochi è già abbastanza spaventosa, se poi i ribelli vedono piovere lampi mortali insieme al sangue dal cielo, magari riusciamo
a spezzare tutto il loro coraggio…»
«Interessante, continua!» disse Asaeld annuendo lentamente, mentre due lembi
di fumo uscivano dalla sua bocca arricciata sfiorandogli le guance.
211
***
«Mi raccomando, al mio ritorno voglio trovarla lucida come uno specchio.»
«Ma l’ho pulita anche ieri…»
«COSA… HAI… DETTO?!»
«Va bene, signore!»
Mordraud proprio non digeriva ricevere ordini. Se almeno si fosse trattato di
caricare il nemico gettando il suo coraggio oltre il Terrapieno… invece doveva
pulire, pulire e ancora pulire. E lucidare. E pulire.
Adraman era cambiato completamente da quando avevano raggiunto il fronte.
Da lui pretendeva lo stesso comportamento formale e ossequioso che ogni soldato dell’esercito doveva tenere di fronte agli ufficiali. Anzi, a volte con lui era
più duro che con gli altri. Non gli risparmiava nulla, qualunque lavoro umile a
disposizione nel campo doveva essere il suo.
Era passato un mese da quando si era unito all’esercito. Non aveva ancora maneggiato la spada, non gli avevano spiegato un briciolo di strategia. Niente. Non
aveva nemmeno fatto pratica al cavallo, cosa che fortunatamente per lui non era
un problema, era naturalmente portato a cavalcare. Adraman passava intere
giornate chiuso nella tenda del comando, rivolgendogli la parola solo per impartirgli tutta una serie di lavoretti da sguattero.
Pulire la sua armatura. Lucidare la sua armatura.
Strigliare i cavalli nelle scuderie. Pulire la merda dei cavalli nelle scuderie.
E così via, giorno dopo giorno.
“Mi hanno pure tagliato i capelli, per gli Dei… sembro un bimbo…” penso
frustrato Mordraud. Riusciva ad accettare che il taglio corto fosse anche per il
suo bene, per evitare i parassiti dormendo sempre per terra in tenda, ma faticava
a farsene una ragione. Gli piacevano i suoi capelli lunghi. Inoltre, vedeva che a
parte le reclute, tutti i soldati tenevano i capelli a loro totale discrezione. “Li tagliano solo a noi novizi… per prenderci per il culo” concluse amareggiato.
Il viaggio da Eld era stata l’unica parentesi emozionante in quella che si stava
profilando come una grande delusione. Lui e Adraman avevano parlato di guerra, storie avvincenti su grandi cavalcate notturne, sotto cieli impestati di frecce
infuocate, su cui Mordraud aveva fantasticato per anni mentre si allenava da solo. La sensazione che finalmente qualcosa nella sua vita stesse cambiando per
sempre era stata potente, e se l’era goduta fino in fondo. Quando aveva scoperto
che, in realtà, il Terrapieno era il posto più sicuro di tutte le terre dell’alleanza,
era stato come svegliarsi da un bel sogno con un pugno nella schiena.
Cambria non osava assalire il fronte principale da mesi. Eldain aveva lottato
per anni su quella linea immaginaria che difendeva l’accesso al cuore della regio212
ne, e aveva lentamente consolidato i confini fino a renderli praticamente inespugnabili. Se Cambria avesse mosso guerra con tutta la sua forza straripante, probabilmente il Terrapieno non avrebbe retto. Ma gli eserciti imperiali attaccavano
soltanto le zone periferiche, conquistando pochi palmi di terra che inevitabilmente finivano per essere riconquistati, e poi persi di nuovo, come in un balletto
senza fine. Un paio di batoste storiche sul Terrapieno avevano raffreddato i bollenti spiriti di chi smaniava di tentare un assalto frontale. Nessuno osava prendersi la responsabilità per una manovra che sarebbe potuta costare migliaia di
morti inutili.
Adraman stazionava nel grande campo a ridosso del Terrapieno, ma a breve
doveva partire per ispezionare gli altri battaglioni dislocati lungo tutto il fronte, e
Mordraud sarebbe invece rimasto lì ad aspettare un attacco inesistente.
“Forse sono l’unico qua che vorrebbe essere da un’altra parte…” pensò mentre lucidava per l’ennesima volta gli schinieri dell’armatura del suo padrone. I
soldati di Eldain che erano destinati al Terrapieno si consideravano molto fortunati. Gli scontri più furiosi sembravano essersi concentrati più a Sud, nei pressi
del fiume Hann. Laggiù l’alleanza riusciva a reggere soprattutto grazie agli acquitrini, che livellavano le forze in gioco favorendo chi conosceva meglio il territorio. I ribelli, ovviamente. Curioso come Cambria si ostinasse a impantanarsi in
una guerra di posizione, pensò Mordraud ripetendo meccanicamente un dubbio
interessante che Adraman gli aveva confidato.
La corazza brillava come uno specchio. Mordraud aveva le mani doloranti a
furia di strofinare e pulire. «Sono passato da un lavoro da femminucce a uno ancora peggiore…» borbottò mentre ricomponeva i pezzi per controllare le fibbie.
Aveva un gran bisogno di sfogarsi un po’. Diede un’occhiata fuori dalla tenda e
se ne andò verso il quartiere delle reclute.
«Ehi Moretto, finito con la merda?!»
Un coro di sghignazzi accolse il suo arrivo nel grande tendone della fanteria.
Tutto come al solito, pensò senza rispondere alla provocazione. Per gli altri, lui
era il piccolo cocco di Adraman. Nessuno sospettava che il più vecchio dentro
quella tenda fosse proprio lui.
«Moretto, se vuoi qua ne abbiamo un bugliolo pieno… vuoi dargli una lucidata?»
Odiava quel nomignolo. Deciso a non finire nei guai, Mordraud puntò dritto al
suo giaciglio, nient’altro che un pagliericcio con un paio di coperte e un sacco di
iuta con i suoi effetti personali. I soldati lo presero in giro, poi tornarono a giocare a dadi concentrandosi su un altro novizio, un ragazzetto magro e lentigginoso
che aveva solo avuto la grande sfortuna di nascere come terzogenito di un cavaliere di Eldain. Dritto nell’esercito, marchiato da quella carriera quando ancora
era in fasce.
213
«Guardate, è arrivato il butterato! Vieni qua, ti va di fare un gioco?!»
Quel giorno, i ragazzi erano più scalmanati del solito. Mordraud frugò velocemente sotto il suo giaciglio alla ricerca della spada. La teneva nascosta in un vecchio fodero che aveva trovato nel retro della fucina, per paura che potesse diventare appetitosa per qualche anziano con la mano lunga.
«Moretto?»
Mordraud si voltò sfilando il braccio da sotto la paglia. Il soldato stava agitando una spada sopra la testa.
«Cerchi questa?»
Era la sua spada. Alla fine l’avevano trovata.
«Ridammela subito!» urlò inferocito.
«Oh, avete sentito?! Il moretto rivuole il regalo che gli ha fatto la mamma…»
Il bastardo si chiamava Benno. Un grosso e stupido contadino abituato a menar le mani in osteria. A detta di tutti si era arruolato perché preferiva di gran
lunga fare a botte piuttosto che lavorare. Mordraud era incappato nel peggiore
della combriccola.
«Proprio una bella spada, varrà un mucchio di soldi eh, ragazzi? Te l’ha regalata
il tuo padrone? O la mamma? Ti sei fatto rompere il culo per averla?»
Mordraud si piazzò davanti a lui con le mani sui fianchi. «Ho detto ridammela.»
Benno era seduto su un ceppo. Per quanto Mordraud fosse alto, Benno sembrava proprio un gigante. Alcuni soldati si tirarono indietro pregustando il pestaggio.
«Ehi moretto, non ti conviene esagerare…» disse uno di loro stiracchiandosi le
dita callose. Mordraud non cedette.
«Porco merdoso, dammi la mia spada!»
Benno fece per alzarsi ma Mordraud si mosse d’anticipo. Con entrambe le mani lo afferrò per la testa e spinse in basso, mollandogli una ginocchiata in piena
fronte. Prima che lui potesse reagire, Mordraud prese a colpirlo in faccia. Una
gragnola di pugni ben assestati. Si fermò solo quando sentì il tipico suono di un
naso che si rompeva.
«FOTTUTO BASTARDO!» biascicò Benno con la faccia coperta di sangue.
«TI AMMAZZO!»
Il soldato aveva ancora la spada in mano. Mordraud gli prese il polso non appena intuì le sue intenzioni e lo torse finché le sue dita non mollarono la presa.
«Ti avevo detto di ridarmela, porco merdoso.»
Mordraud prese da terra la sua arma e indietreggiò. Benno si alzò ruggendo
fuori controllo, ma dovette fermarsi all’istante. Mordraud aveva alzato minacciosamente la spada.
«Non ti conviene esagerare…» biascicò Benno sputandosi un dente in mano.
214
Il ragazzo era stupido, ma non idiota. Moretto era pronto veramente a ucciderlo. Sembrava non aspettare altro. Benno tornò a sedersi bestemmiando ferocemente, e Mordraud se ne andò nel silenzio generale.
«Dei, mi sono cagato addosso…» mormorò appena fuori dal tendone. «Mi è
andata bene.»
Si era appena fatto un nemico. Uno di quelli grossi.
«Beh, almeno non mi annoierò più…» concluse con un’alzata di spalle.
“Meglio togliermi di mezzo per stasera” pensò Mordraud fiondandosi fra le
tende del campo. “Raggiungo i ragazzi alla Latrina e resto un po’ lì in attesa che
l’atmosfera si calmi…”
La Latrina era una delle grandi tende comuni dove era acconsentito bere dopo
gli addestramenti e le ronde. Chiaramente, non era fra le migliori a disposizione
nel campo del Terrapieno, ma aveva un pregio indiscusso: era possibile imboscarsi fino a notte fonda senza che nessuno venisse a controllare. La tenda sorgeva quasi al confine Nord del campo, lontanissima dalla strada di accesso al
fronte, e in una posizione avvallata che tratteneva con notevole potenza il fetore
delle latrine poco distanti. Il posto più infame di un luogo già infame di suo.
Mordraud raggiunse la Latrina e trovò subito i suoi compagni di bevute.
C’erano Maglio, Rosso, Pietà e Gigante. Erano già mezzi alticci, cosa che a
Mordraud non dispiacque. Lui non riusciva a reggere quanto loro, e spesso finiva
schienato a metà serata e deriso da tutti. Forse quella sera non sarebbe stato il
primo a capitolare.
“Che squadra d’eccellenza…” pensò ridacchiando mentre li sentiva bestemmiarsi addosso uno con l’altro. Non conosceva i loro veri nomi, perché se li era
dimenticati subito quando, nei primissimi giorni di permanenza sul Terrapieno,
era entrato in contatto con centinaia di persone diverse, e aveva dovuto imparare
decine di nomi di capitani che era necessario saper ripetere al volo. Non se n’era
mai reso conto prima, ma non aveva una memoria di ferro. Gwern era decisamente più portato a ricordare, pensò Mordraud.
Aveva scelto lui i nomignoli: Maglio era un ragazzone delle campagne di Eld
che, prima di essere chiamato a difendere i confini, faceva il fabbro con suo padre. Si diceva che picchiasse con la stessa ritmica brutalità di un martello battuto
sull’incudine. Mordraud l’aveva visto solo un paio di volte durante
l’addestramento, e aveva avuto anche lui quella precisa impressione. Maglio alzava e abbassava la spada come per piantare, per rompere, più che per tagliare. Un
torello inarrestabile. Era un ragazzo dai pensieri estremamente semplici e concisi,
cosa che a Mordraud piaceva particolarmente.
Rosso e Gigante stavano sempre insieme. Il primo aveva il volto deturpato da
una malattia della pelle; aveva le guance disgustosamente spellate e butterate.
Non era un bel vedere, ma controbilanciava con un carattere solare e decisamen215
te poco permaloso. Gigante invece era un nanerottolo che non sapeva infilare tre
parole senza infarcirci a forza un insulto o una bestemmia. Parlava di continuo, e
soprattutto, beveva di continuo. Diceva di essere figlio di un oste, anche se qualche volta Mordraud non si era chiesto se Gigante fosse figlio direttamente di un
fiasco, più che di un uomo.
Pietà era il ragazzo più strano di tutti. Non era di Eld, non era nemmeno nato
nei territori della ribellione. Qualcuno diceva che fosse di Cambria, lui invece
aveva detto in giro di essere di Calhann, la grande città sullo stretto del mare interno. Parlava pochissimo, ma osservava con dedizione maniacale. Solitamente,
quando Pietà apriva bocca, era per affermare un’incontrovertibile verità assoluta.
Minuto, all’apparenza leggero, era dotato di forza insospettabile e di una malsana
propensione a muoversi senza farsi troppo notare. Si diceva che fosse stato un
tagliagole, prima di diventare soldato. Come si diceva anche che fosse stato assassino per conto di nobili, ladro di polli, trafficante di puttane. Nessuno sapeva
realmente chi fosse. Anche il soprannome, Pietà, se l’era dato da solo, senza che
fosse stato Mordraud a doverlo scegliere. Lui avrebbe voluto chiamarlo Smilzo,
ma ormai tutti lo conoscevano con il nome di Pietà. Alla fine dei conti, nessuno
aveva la minima idea di chi lui fosse realmente.
«Questo giro lo offro io!» urlò Mordraud tirando un calcio alla sedia di Maglio.
Lui si voltò e gli tirò un pugno sul petto che per poco non gli fermò il cuore. Pietà annuì lentamente, soddisfatto da quell’iniziativa. Rosso e Gigante brindarono
con i boccali vuoti, e li lanciarono all’unisono alle loro spalle, oltre la recinzione
che separava la Latrina dalle fosse piene di merda.
«Oste! Il meglio della casa!» gridò Gigante. «E datti una mossa, vecchio ritardato!»
Mordraud non sapeva come fosse possibile, ma quando era con quei quattro,
si sentiva al sicuro come mai prima d’allora.
***
«Sono già tutti dentro?»
Adraman aiutò il messaggero a sfilarsi il pesante mantello fradicio. Da sotto il
cappuccio spuntò una coda di capelli bianchi, stretti in fondo da un semplice
cordino di canapa. I suoi abiti erano logori e sporchi, come il fodero della spada
che portava al fianco. L’elsa però scintillava mostrando una ricchezza che mal si
sposava con tutto il resto. Nel campo era stato chiamato da poco il riposo.
All’orizzonte si stagliavano i soldati di ronda sul Terrapieno, sagome nere ritagliate nella luce bianca della luna.
«Sì, ci stanno aspettando. Com’è andato il viaggio?»
«Come al solito. Stancante, lungo e solitario» rispose il vecchio messaggero.
216
«Lo sai che è per la tua incolumità… se si sapesse in giro…»
«Lo so, lo so… non ti preoccupare, non è poi così male farsi ogni tanto una
lunga cavalcata!»
«Sei sempre il solito, Eldain» disse Adraman sorridendo sollevato. «Vuoi qualcosa da bere? Devi cambiarti quei quattro stracci, sono gonfi e puzzano di pioggia.»
«Bah, solo un temporale… è un giorno che cavalco ridotto così, posso sopportare ancora qualche ora. Forza, andiamo! Non facciamo attendere gli altri capitani.»
Il grande comandante dell’alleanza usciva raramente dal feudo, ma quella era
un’occasione particolare. Erano giunte voci nuove e preoccupanti, di un attacco
massiccio sull’ansa dell’Hann che nessuno si aspettava in quel periodo di piena
del fiume. L’estate stava sfiorendo, lasciando il posto alle prime piogge autunnali.
Eldain aveva passato da tempo gli anni migliori. Il suo volto era rugoso e stanco, la schiena non era più quella di una volta. Ma i suoi occhi grigi erano ancora
limpidi e scaltri. Non poteva più permettersi di visitare il fronte come avrebbe
meritato, con la servitù e una scorta degna del suo rango, così doveva viaggiare
da solo in incognito ogni volta che abbandonava Eld. Cambria aveva attentato
alla sua vita in molte occasioni, infiltrando nel suo esercito decine di sicari. In un
paio di situazioni erano arrivati a un soffio dal successo, ma Eldain era sempre
sopravvissuto.
«Nessuno sa che sono qui, vero?»
«Come sempre, puoi stare tranquillo» rispose Adraman aprendo le falde della
tenda per farlo passare. «Ne ho parlato solo con gli altri capitani. Non lo sapevano neppure le guardie all’accesso.»
«Bravo ed efficiente come sempre… ricordami che dopo dobbiamo parlare. In
privato.»
La tenda del comando era satura del fumo delle pipe accese. Seduti intorno a
un tavolo grezzo su cui era distesa una mappa del territorio, aspettavano quattordici uomini in abiti civili, intenti a parlottare fra loro con una coppa di vino in
mano. All’arrivo di Eldain, tutti si alzarono di scatto chinando la testa in silenzio.
«Bene, ci siamo tutti» esclamò Eldain con voce gioviale «nessuna faccia nuova… un buon segno!»
I capitani risero in coro e tornarono a sedersi.
«Possiamo iniziare.»
Il tavolo venne ben presto coperto dai piccoli dadi di legno bianchi che rappresentavano i contingenti dell’alleanza, e da quelli neri che simboleggiavano le
forze di Cambria. Ogni capitano usava una lunga stecca di legno per spostare le
forze in campo, a turno. Eldain aspettava di ascoltare l’intera spiegazione, poi
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dava la parola a un altro, senza giudicare. Adraman avrebbe parlato per ultimo,
come sempre.
I primi a esporre furono i portavoce dei battaglioni affiliati a Eld, rappresentati
dai figli e i cugini dei nobili che governavano i feudi dal Terrapieno al mare
dell’Est. Di solito tendevano a propugnare idee che già avevano discusso in precedenza, così da avere maggior peso e più potere, e anche in quella occasione
non cambiarono strategia. Il loro piano era piuttosto semplice e approssimativo.
Se Cambria intendeva spostare il fronte più a Sud, sarebbe stato necessario convincere una volta per tutte Calhann ad appoggiare la loro causa. La regione dello
stretto, l’unico ponte di collegamento fra il Nord e il Sud del continente, manteneva un atteggiamento neutrale da secoli, e vantava i migliori diplomatici del
mondo conosciuto. Se Cambria avesse tentato di sconfinare verso i suoi territori,
allora si sarebbe trovata a dover affrontare un problema assai peggiore dei ribelli.
Calhann si era dichiarata neutrale ed era una città florida, praticamente inespugnabile e avvezza a farsi i fatti propri da secoli. Eldain aveva già tentato molti
anni prima di ottenere un loro appoggio, senza successo, ma secondo i capitani
dell’Est le cose erano cambiate a tal punto che anche Calhann non poteva più
tirarsi indietro di fronte all’allargamento delle maglie dell’impero.
«Sapete bene che Calhir non acconsentirà mai a spendere soldi e uomini in una
guerra che non è stato lui a iniziare!» esclamò di punto in bianco Berg, uno dei
comandanti diretti di Eldain e discendente di un’antica famiglia amica del vecchio nobile. «Quel merdoso avaro tiene troppo agli scudi che sta guadagnando
grazie alla continua richiesta di mercenari…»
«Non interrompere, Berg. Aspettiamo di sentire tutte le opinioni» lo ammonì
Adraman.
«Non è detto, non possiamo esserne certi!» proseguì stizzito il rappresentante
degli alleati dell’Est, un giovane cavaliere biondastro e sbarbato dai lineamenti
effeminati. Tutti lo conoscevano come Ghiaccio, dopo che in un combattimento
a difesa dei confini esterni a Nord aveva perso tre dita di una mano per congelamento. In molti raccontavano ancora che se le fosse poi amputate da solo con
un coltellaccio da macellaio, per dimostrare a tutti che non gli mancava un briciolo di fegato.
«Se Cambria continua a spostarsi lungo il fiume Hann, è chiaro che mirano ad
accerchiarci sforando verso le Piane dell’Hann, per poi puntare al mare… ma per
farlo dovrebbero per forza conquistare una regione da sempre amica di
Calhann…»
«Mh, ti dico che Calhir preferisce farsi amico Loralon, piuttosto che aiutare
noi… non c’è da fidarsi del sangue del mare interno, ve lo dico io!» disse di nuovo Berg. L’atmosfera iniziò a scaldarsi, e l’ordine di parola saltò per aria.
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«Dobbiamo chiedere aiuto, altro che pianificare tutto da soli! Esiste anche la
diplomazia, non la stiamo neppure prendendo in considerazione!» sbraitò Ghiaccio.
«E con chi vorreste trattare?! Si sa che Calhir è una serpe, e i governatori dei
suoi protettorati non scorreggiano neppure senza il suo consenso!»
«La solita finezza, eh Berg?!»
«Cosa c’è ghiacciolo, ti prudono i moncherini? Fai fatica a pensare dal fastidio?!»
«ORA BASTA!»
Eldain scagliò un pugno sul tavolo talmente forte da far saltare via tutti i dadini, che picchiettarono come pioggia sul pavimento di assi della tenda. I capitani
si zittirono di colpo, ritrovando immediatamente il contegno. Potevano passare
settimane a sfottersi, litigare anche furiosamente, ma quando parlava Eldain, nessuno osava alzare la voce senza un vero, importante, vitale motivo.
Il reggente di Eld si era guadagnato il rispetto sul campo, da talmente tanti anni
che molti dei presenti non erano neppure nati la prima volta che lui aveva ucciso
un uomo dell’impero. Aveva fama di spietato sul campo di battaglia, ma allo
stesso tempo di raffinato stratega e uomo dalla morale dura come l’acciaio. Se
esisteva qualcuno che odiava Cambria, lui era il primo e il più determinato.
«Comportiamoci da persone civili, per gli Dei! Avanti Ghiaccio, finisci di parlare, poi proseguiamo! Ti ascolto con attenzione, non temere.»
«Grazie, Eldain» disse lui annuendo soddisfatto. «Allora… dov’ero rimasto?»
Venne poi il turno di Berg, la voce della schiera di irriducibili che consideravano una perdita di tempo trattare con le regioni che per anni non avevano mai
preso una posizione nella guerra. La sua idea era ancora più semplice di quella
degli alleati dell’Est. Alleggerire il fronte sul Terrapieno, e spostare i combattimenti verso Sud. Ma non solo. Per la prima volta da anni, si ritornò a parlare di
attaccare direttamente, senza attendere oltre, i territori confinanti all’Hann.
«È l’occasione che aspettavamo da tanto tempo! Laggiù loro pensano di essere
in vantaggio, e si sono convinti che sfondando sull’Hann riusciranno a prenderci
in una morsa da Sud.»
Berg urlava come al solito. Era mezzo sordo, per colpa di una vecchia infezione mal curata. Incredibile guerriero, orripilante diplomatico. «Ma quel che dico
io, per tutti i fottuti Dei, quella terra la conosciamo come i nostri calzoni, punzecchiamoli! Conquistiamo qualche loro villaggio, diamogli fuoco, e vedrai come
si calmano! Sono solo dei cagasotto, e lo dico da una vita!»
«Che idea brillante…» sussurrò Ghiaccio coprendosi la bocca con il palmo.
Berg era già sul punto di riprendere a bisticciare, ma un’occhiata di Eldain bastò
a fargli passare i bollenti spiriti.
«Bene, abbiamo ascoltato le vostre opinioni. Adraman, tu cosa ne pensi?»
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Il cavaliere stette un momento in silenzio a rimuginare, poi spostò alcuni dadi
sulla mappa, senza un preciso piano in mente.
«Per ora abbiamo solo delle voci, vorrei ricordarlo a tutti. Non lo so, mi puzza…»
«Che cosa, Adraman? Eppure abbiamo visto tutti che Loralon sta progressivamente spostando il conflitto sull’Hann, è chiaro!» esclamò Berg. Loro due erano grandi amici, sin dai tempi delle loro prime esperienze in battaglia. Non si
contavano le volte che avevano combattuto insieme, uno alla carica con la cavalleria, l’altro ben piantato a terra alla guida dei fanti.
«Ma che senso ha spostare tutto a Sud, mi chiedo… cinque anni fa, a Nord…
ora a Sud… perdono tempo, giochicchiano…» borbottò Adraman scompigliando i dadi sulla mappa. «Sembra che neppure loro sappiano cosa fare, o magari
hanno un piano maledettamente astuto che ancora non abbiamo capito…»
«Quindi? Cosa consigli di fare?» chiese Eldain.
«Mandare qualcuno a Calhann non è una cattiva idea. Non ci costa nulla, a parte dover pagare un paio di diplomatici dalla lingua lunga e sciolta. Perché non
tentare? Però non sono d’accordo nel fidarsi troppo dello Stretto, penso che
possa bastare come segnale di avvertimento per Cambria… mettiamogli un po’
d’ansia addosso… mi sembra una buona idea.»
«E per quanto riguarda il Sud?»
«Di alleggerire il Terrapieno non se ne parla» rispose Adraman in modo perentorio «però potremmo dislocare qualche battaglione da Nord, dalle zone in cui
l’inverno arriva prima… alla peggio, teniamo gli occhi aperti e prepariamoci a
intervenire d’anticipo appena vediamo movimenti sospetti delle forze imperiali.
Rimpinguiamo il Sud, e magari potremmo anche tentare un assalto alla Punta di
Lancia, l’isola al centro dell’ansa larga di Hann. L’hanno conquistata l’estate scorsa, per loro sarebbe uno smacco non da poco, perderla di nuovo.»
«Mh… mi sembra un’ottima mediazione. Voi che ne dite? Piace a tutti come
idea?» chiese Eldain agli altri capitani.
Adraman sapeva con chi aveva a che fare. Più o meno aveva accontentato tutti,
limando gli eccessi delle rispettive proposte. A parte qualche mugugno di Berg,
che si aspettava chissà quale roboante assalto alle terre di Cambria, il piano fu
approvato senza intoppi.
La seduta fu sciolta, e i capitani poterono così tornare nei loro alloggi. Eldain e
Adraman presero un paio di bicchieri puliti e un fiaschetto, e si accomodarono
sulle poltroncine di vimini sotto la veranda. La notte era serena, il fronte brillava
alla luce della luna.
«Non ti smentisci mai, vero?»
«Perché?» esclamò perplesso Adraman.
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«Non riesci proprio a prendere una posizione netta… cerchi sempre la giusta
via di mezzo.»
«Pensi che io abbia detto qualcosa di sbagliato?»
«No, anzi… avrei detto anch’io la stessa cosa. Ma io mi riferisco ad altro» continuò Eldain con un sussurro.
«Prima volevi dirmi qualcosa, in privato…» chiese Adraman mentre caricava la
sua pipa di legno con un tabacco secco e leggero, ottimo per concludere una
lunga giornata.
«È quello che sto facendo. Lo sai che non mi piace farmi gli affari tuoi, però…»
«Si tratta di Deanna, vero?»
Eldain si riempì di nuovo il bicchiere, e lo scolò d’un fiato.
«Al feudo sono girate voci… di un brutto litigio a casa, e della tua signora che,
ecco…»
«Eldain, da quanto tempo ci conosciamo?» disse Adraman interrompendolo di
colpo.
«Da una vita, perché?»
«Allora non girarci intorno. Dillo, forza. Hanno detto che Deanna è matta, e
che forse si era trovata un amante. Un giovane amante.»
«Cercavo parole migliori, ma più o meno…» rispose Eldain imbarazzato.
«Se volevi sapere la verità, io…»
«No, non voglio sapere se è tutto vero. Io volevo soltanto darti un consiglio.»
«Meno male, anche perché la verità non la conosco. Avanti, dimmi.»
Eldain agitò il fondo del bicchiere e buttò giù l’ultima sorsata. «Vedi, tu hai il
grande pregio di cogliere la giusta via di mezzo in tutto, ma non nella tua vita.
Deanna è giovane, ed è molto bella. Non puoi pretendere da lei la fedeltà che ti
dimostrano i tuoi soldati. Loro sono pronti a morire per te.»
«Dove vuoi arrivare?» chiese nervosamente Adraman, giocherellando con la
pipa fra le dita.
«Se vuoi avere un buon matrimonio, devi stare a casa con lei. Fare il marito, insomma. Se però non vuoi rinunciare alle tue responsabilità verso di me, allora,
devi accettare che lei trovi, ecco… un equilibrio…»
«Mi stai consigliando di lasciarla libera di andarsene?!» esclamò lui indignato.
«È inaudito! È una follia assurda! Proprio…»
«Vedi che non sei capace di trovare la giusta via di mezzo?!» lo interruppe
Eldain bruscamente. «Dai Adraman, svegliati… la moglie di un soldato cosa fa,
quando è lì che aspetta suo marito? Non sa neppure se lui tornerà a casa su un
cavallo, o caricato su un carretto… si troverà qualcuno con cui alleggerirsi i pensieri, poi al ritorno del marito, si comporterà di nuovo bene. Farà la moglie, come se non ci fosse nulla di sbagliato. Certe regole non si infrangono. Dove pensi
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che possa andare una donna fedifraga?! Ti resterà a fianco, e tu almeno avrai i
tuoi giorni sereni a casa.»
«Ne parli come se fosse una banalità…»
«Ma è una banalità! Succede sempre così, solo che tu non vuoi accettarlo… e
lei piano piano sta ammattendo. Preferisci questo?»
«No di certo! Ma quello che tu dici…» mormorò Adraman.
«Se ami Deanna, allora devi scegliere: abbandoni la guerra, e allora te ne vai a
casa a fare il marito, oppure resti qui, e le permetti di essere una donna. Decidi tu.»
«Se fosse stato un altro a dirmi una cosa simile, lo avrei già chiamato in duello…»
«Non essere stupido» sorrise Eldain. «Sei come un fratello per me. Come parlano i fratelli fra di loro?»
«In modo schietto» rispose Adraman. Non era la prima volta che Eldain ripeteva quella frase. Era un suo modo di dire.
«Allora io ti parlo in modo schietto. Poi deciderai tu. A proposito… quel giovane di cui parlano…»
«Si chiama Mordraud.»
«Secondo te, è realmente stato con Deanna?» chiese maliziosamente il vecchio
comandante.
Adraman non seppe rispondere. «Pensi che dovrei rispedirlo a casa?»
«L’hai trascinato tu, o è voluto venire lui?»
«No, ha scelto tutto da solo.»
«Allora lascialo qua. Deanna ha bisogno di qualcuno che se ne stia lontano dalla guerra. Qualcuno con cui ritrovare un po’ di tranquillità. Speriamo almeno che
questo… Mordraud, hai detto? Speriamo che possa almeno diventare un buon
soldato. Ce ne servono, ora più che mai…»
«Hai un brutto presentimento? Uno dei tuoi?»
Eldain annuì, e offrì il fiasco all’amico.
«Non uno normale. Uno di quelli grossi.»
Adraman accettò, e si attaccò direttamente al collo della bottiglia. «Speriamo
che questa volta tu ti stia sbagliando. Se Cambria sta preparando un tranello…»
«Ce la faremo, vedrai» disse Eldain cingendo le spalle di Adraman con un
braccio. «Come abbiamo sempre fatto. Io e te, insieme. Contro un impero.»
«Che si fotta la famiglia Loren…» bofonchiò il cavaliere asciugandosi la bocca
con la mano.
«Parole sacre, parole sacre…»
***
222
Il soldato puzzava di birra rancida e grasso di maiale, tanto che da solo riusciva
a mascherare l’odore dei cavalli bagnati che aspettavano pazienti i loro padroni.
Non era di certo il miglior uomo della guarnigione. Le voci che circolavano sul
suo conto non erano per nulla lusinghiere. Avido, ubriacone, violento e sporco.
Amava spendere tutti i soldi che guadagnava nei suoi lavoretti misteriosi in baldracche e vino scadente.
“Ma intanto lui parte… e io resto qui a marcire.”
Adraman aveva ordinato a un battaglione di recarsi a Sud, verso le sponde
dell’Hann in mano ai ribelli. In tutto il campo non si parlava d’altro. Una battaglia. Un vero scontro faccia a faccia, un evento campale.
«Guarda te… io resto qua coi vecchi e le vedove…» borbottò Mordraud, dando un calcio a una pozzanghera. Pioggia, maledetta pioggia. Acqua dal cielo come se il mare avesse preso il posto delle stelle. E una noia che non avrebbe mai
pensato di poter provare. Passava le giornate a bighellonare insieme a Maglio,
Pietà, Rosso e Gigante, oppure a prendersi delle sbronze colossali sempre insieme a loro. Non aveva molti altri amici nel campo. Non con il carattere affabile
che si trovava, pensò sogghignando.
Almeno aveva gli allenamenti. Nel suo piccolo, era stata una grande conquista.
Alla fine Adraman aveva acconsentito, non senza imbottirlo di prediche infinite.
“Sei uno dei tanti, quindi vedi di comportarti bene. Segui tutto quello che dice
il tuo maestro. Non muovere un dito senza il suo permesso.”
“Quando cavalchi, guarda sempre i tuoi compagni. Non sei da solo. Vedi di
non dimenticarlo mai.”
“Sei mancino, dici?! Come fai a saperlo? Non essere presuntuoso. Non sai
neppure cosa significa usare una spada.”
Mordraud avrebbe potuto recitare a memoria tutti i suoi consigli.
“Per chi mi ha preso?! Ho già ucciso due… anzi TRE uomini!”
Nell’elenco lo Sconosciuto non mancava mai. Anzi, era il pezzo più pregiato.
«So usare la spada meglio di quel ciccione ubriaco e schifoso… e invece guarda
dove mi tocca stare!»
Almeno per qualche giorno non avrebbe ricevuto altri ordini da Adraman,
l’unica magra consolazione di quella mattina umida e grigia. Il cavaliere doveva
scortare un battaglione al campo a Sud, e così lui sarebbe stato libero di respirare. L’allenamento di quel pomeriggio voleva gustarselo fino in fondo.
«IN RIGA!»
Il tutore dei novizi, un vecchio guerriero con una grottesca cicatrice in testa al
posto di gran parte dei capelli, non aveva la minima intenzione di aspettare che
smettesse di piovere. Mordraud ne fu felice. Non vedeva l’ora di sgranchirsi le
braccia.
223
«Allora bimbetti, oggi è proprio una splendida giornata per allenarsi, non è così?!»
Un coro assai svogliato rispose alla domanda di Gabor, l’addestratore. Non era
particolarmente robusto, né alto. Senza la sua armatura addosso avrebbe potuto
facilmente essere scambiato per un anziano contadino, o un mercante da quattro
soldi. Ma Mordraud l’aveva visto una volta prendere a schiaffi un ragazzo poco
rispettoso. Più che mani, quell’uomo aveva attaccato alle braccia due martelli da
maniscalco.
«Ora il Terrapieno è nelle vostre mani, e infatti prego tutte le notti il Dio della
misericordia, che ci tenga lontano il nemico… avete paura di un po’ d’acqua?!
Avanti, forza! Direi di iniziare con un po’ di sano corpo libero!» sbraitò
l’addestratore con gusto malsano.
Mordraud si voltò verso il compagno alla sua destra, come tutti. Più che un allenamento, era un pestaggio. L’obiettivo era restare in piedi finché Gabor non
chiamava la fine.
«INIZIATE!»
Aveva avuto fortuna. Il suo avversario era un nanerottolo magro e pieno di
nervo dagli occhi piccoli e poco affidabili. Non sapeva il suo nome, ed era un
bene. Così poteva divertirsi di più.
Mordraud era piuttosto bravo a fare a pugni, ma soprattutto non aveva eguali
nell’incassarli. Avrebbe potuto prendere per sfinimento qualsiasi nemico, se solo
avesse voluto. Ma quel giorno aveva bisogno di sfogarsi, così non si fece pregare.
I ragazzi si fiondarono uno contro l’altro in mezzo al fango, fra urla e bestemmie di ogni tipo. La pioggia e le pozze ben presto divennero una cosa sola, e tenere gli occhi aperti era un’impresa ardua. Mordraud afferrò le spalle del suo avversario, piantò a fondo le dita e con tutta la forza che aveva spinse verso il basso. Alla prima resistenza, piazzò una gamba in mezzo alle sue e spinse di lato. In
uno schiocco di dita il ragazzino era già per terra, schiacciato da tutto il suo peso.
«EHI EHI EHI, oggi qui abbiamo un esperto!» urlò Gabor, applaudendo in
modo strafottente. «Voi pivelli siete ancora lì a prendervi a pugni, e guardate invece il vostro amico! Come ti chiami ragazzo?»
«MORDRAUD!» gridò lui rizzando la schiena.
«Ah, Moretto! Ho sentito parlare di te. E non farti bello, erano tutte cose schifose!» Gabor gli fece cenno di avvicinarsi. Tutti i novizi avevano abbandonato la
lotta per guardare.
«Comandi!»
«Perché hai fatto quella mossa al tuo avversario?» sbraitò l’allenatore.
«Per vincere subito!»
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«E lo hai fatto perché hai visto che era più basso di te, non è vero?!» Gabor
sembrava orgoglioso di lui. Mordraud annuì con un mezzo sorriso ebete dipinto
in faccia.
«Io sono più basso di te, Moretto. Non è vero?»
Mordraud si trovò spiazzato. Non fece altro che annuire perplesso.
«Allora fallo con me!»
Gabor allargò le braccia e gli mostrò il petto. Era vero. Mordraud era più grosso e alto di lui, e probabilmente anche più forte.
«Avanti, cosa aspetti?!»
Nel silenzio generale, Mordraud afferrò il suo allenatore alle spalle e spinse
brutalmente verso il basso e in avanti, cercando di sbilanciarlo indietro. Gabor si
piegò come un fuscello, e Mordraud ne approfittò per rifare il gioco della gamba.
Fu come tentare di fermare un macigno con la guancia.
Mordraud volò in mezzo al fango con le stelle negli occhi, senza aver avuto il
tempo di capire cosa fosse successo.
«IDIOTA DI UN MORETTO!» ringhiò Gabor compiaciuto. «Mi hai lasciato
le braccia libere! Potevo spezzartelo quel tuo collo da pollo inutile, avrei fatto un
favore a questo esercito. Ma mi facevi troppo schifo, quindi fatti bastare la lezione!»
Fra le risate generali Mordraud tornò a capo chino in mezzo ai novizi, e riprese
ad allenarsi senza più dire una parola. Sentiva la faccia gonfia come un otre e gli
sanguinava copiosamente la bocca, ma nulla era abbastanza doloroso per distrarlo da quella colossale figura da imbecille.
L’allenamento finì dopo ore interminabili, e ormai Mordraud aveva i lineamenti deformati in modo talmente grottesco che in tanti non lo riconobbero. Invece
che recarsi dai guaritori, però, preferì starsene un po’ da solo nel retro del tendone comune. Seduto a terra sotto la veranda di tela, restò in silenzio a osservare la
pioggia che cadeva imperterrita, incurante degli uomini che la maledicevano.
“Oh, Deanna… spero di non aver fatto un’idiozia…”
Pensava spesso a lei, soprattutto quando era da solo. Erano passati pochi mesi
dalla sua partenza, ma sembravano anni. La vita tranquilla, asciutta e calda nella
villa era ormai un ricordo che si sfilacciava ogni giorno di più.
“Chissà cosa stai facendo…”
La sua fantasia plasmò la scalinata, le stanze da letto e la grande sala da pranzo.
Si divertì a rievocare odori, colori e suoni di una tranquilla sera qualunque. La
sua voce, le rare ma tanto attese risate di gioia. I suoi lunghi capelli corvini. Gli
occhi grandi e carichi di pensieri che aveva imparato a conoscere alla perfezione,
la sua bellezza un po’ fragile e per quel motivo irresistibile. Ma non fu in grado di
fermarsi al momento dovuto.
225
Sognare Deanna nuda nel grande letto del marito gli scatenò un lungo brivido
alla schiena e al basso ventre. “Devo smetterla, una volta per tutte! Ora sono
qua, devo combattere una guerra. Non ho tempo per… per…”
La pioggia gli stava dicendo che invece di tempo ne aveva, e tanto. Mordraud
lasciò partire a briglia sciolta la sua immaginazione, tormentato solo da quella
piccola e fastidiosa punta di rimorso che rendeva il tutto ancora più eccitante.
***
«L’avvistamento è confermato?»
«Sì, signore!»
«Quanti uomini?»
«Un battaglione, signore.»
Uno solo, pensò Dunwich mordendosi il labbro per la delusione. Se lo aspettava, che Eldain si muovesse con i piedi di piombo. Un battaglione era poco più
che una pagliuzza al vento. Il campo dell’esercito di Cambria, il Foce dell’Hann,
brulicava di soldati freschi e giovani, ma quello che più contava era che tutte le
Lance Imperiali della guardia capitale erano state convocate per l’assalto. Un
evento raro, rarissimo. Asaeld si era opposto, aveva sbraitato e puntato i piedi
contro quel progetto, ma Loralon si era dimostrato stranamente inflessibile. Un
evento ancor più raro che vedere tutte le Lance radunate insieme.
«Assaltare il Terrapieno con tutte le nostre forze migliori… un muro contro
muro… in tanti anni di servizio non avevo mai sentito un’idea tanto demente!»
aveva ripetuto Asaeld continuamente durante il viaggio dalla capitale al campo.
Molti dei suoi lo appoggiavano, ma non erano poche le Lance che invece apprezzavano la strategia dell’Imperatore. Dunwich non aveva mai visto i propri
compagni tanto spezzati in due fazioni opposte, da una parte i lealisti all’impero,
dall’altra i fedeli al loro comandante. Lui ovviamente sapeva da che parte stare,
senza aver bisogno di pensarci troppo.
Asaeld.
«Quanto manca alla notte dei Fuochi?»
«Venti giorni, signore.»
Con un cenno Dunwich allontanò il giovane fante, che ricambiò chinando il
capo in segno di rispetto. L’armatura nera e oro delle Lance faceva sempre un
certo effetto sui soldati semplici. Lo divertiva leggere quel misto di paura e ansia
negli occhi dei suoi sottoposti.
“Saremo in cinquecento a caricare… Loralon voleva addirittura convocare i
compagni degli avamposti a Sud, ma Asaeld non ne ha voluto sapere” pensò
mentre puntava dritto verso la baracca degli ufficiali.
“Una notte, al massimo due… e si parte.”
226
Solo il pensiero lo fece tremare. Non che avesse paura di scendere in campo,
anzi. Si augurava che quel giorno arrivasse il più presto possibile. A preoccuparlo
invece era la marea di Lance all’assalto del Terrapieno. Doveva stare molto, molto attento. Non sarebbe bastata la sua bravura per uscire vivo dal caos che già
prevedeva. Troppe risonanze insieme, se non veicolate in un coro, potevano incastrarsi fra loro, stonare e causare spaventosi effetti collaterali. E durante una
mischia, gli stimoli di disturbo erano tanti. Nubi di frecce. Urla disarticolate. Cariche da più parti. Il tutto immerso nella luce rossa della notte più assurda
dell’anno.
“C’è solo da sperare che i ribelli restino impietriti dalla paura… ma è così maledettamente difficile crederlo…”
L’atmosfera nella casa degli ufficiali era calda e piacevole. Conosceva tutti, dal
primo all’ultimo graduato presente nella sala, e subito fu accalappiato da un
gruppetto che stava disquisendo sulle strategie che avrebbero voluto adottare
nell’assalto. Dunwich era ben visto, ma soprattutto ammirato per la sua particolare vicinanza con l’inarrivabile Asaeld, l’uomo più influente di tutto l’esercito.
«A proposito, dov’è? Non è ancora arrivato?» chiese ai colleghi.
«Penso sia sul retro, nella saletta privata» rispose uno di loro, un distinto signore di mezza età di cui gli sfuggiva il nome. Con addosso le loro armature sfavillanti, le Lance si somigliavano un po’ tutte.
«Con chi?»
Dunwich ricevette come risposta una pletora di sguardi vagamente ammiccanti.
“Una donna?! Strano, non è da lui…”
Con una scusa si defilò dal gruppo e, senza dare troppo nell’occhio, si diresse
sul retro attraversando la sala da pranzo e il salottino dedicato al dopocena. Mentre apriva la porta, sentì solo uno sprazzo di un discorso mozzato, di cui colse
alcune brevi parole.
«… interrompete all’ordine…»
«Disturbo?» chiese Dunwich varcando la soglia. Asaeld era seduto su una larga
poltrona di cuoio, circondato da sei giovani Lance che Dunwich non aveva mai
visto in giro nel campo. In realtà non era sicuro di averle neppure mai viste in
città.
«Figurati Dunwich, entra pure! Vieni, stavo raccontando ai ragazzi una vecchia
battaglia nel Terrapieno, per prepararli a dovere.»
Asaeld era cordiale e distante allo stesso tempo, come sempre. Difficile capire
cosa pensasse, nascosto dietro occhi capaci di bucare un cranio e sviscerarlo a
piacimento. Dunwich con un cenno salutò i presenti, ma declinò l’offerta.
«Non voglio disturbare. Ero solo venuto a metterti al corrente degli ultimi spostamenti dei ribelli.»
227
«So già tutto, grazie Dunwich» rispose lui con un sorriso. «Tra due giorni partiamo. Non possiamo sbagliare i tempi, dobbiamo essere al fronte nel cuore della
notte dei Fuochi… altrimenti immagina quanto si arrabbierà il nostro Imperatore!»
Le altre Lance ridacchiarono, facendo il verso al loro comandante. Dunwich
fece finta di nulla, si inchinò con calcolata cortesia e uscì salutando tutti.
«Non vuoi neppure un bicchiere di liquore? Me ne hanno portato uno ottimo.»
«No grazie, Asaeld. Ho molte faccende da sbrigare.»
«Va bene, ragazzo. Ci vediamo per cena.»
Dunwich chinò il capo di nuovo e uscì dalla saletta. La porta si stava chiudendo alle sue spalle, quando sentì ancora la voce di Asaeld chiamarlo.
«Mi raccomando Dunwich…»
«Che cosa?»
«Ti voglio al tuo posto durante la carica, come abbiamo già pianificato» disse la
Lancia con voce improvvisamente grave. «Non sono previsti colpi di testa.»
«Certo Asaeld, non c’è bisogno che tu me lo dica…»
«Oh sì, invece» mormorò lui annuendo lentamente «non ti dovrai allontanare,
mi raccomando.»
«Hai la mia parola.»
«Bravo il mio ragazzo…»
Dunwich chiuse la porta, giusto in tempo per sentire le ultime parole di Asaeld.
«Sarà una giornata memorabile, vedrete. Una giornata davvero memorabile per
l’impero.»
228
XVI
«La cena è già in tavola, signora.»
«Non ho fame.»
«Ma signora…»
«Ho detto che NON HO FAME!»
Adrina ritornò sconsolata in cucina e ordinò agli altri domestici di sgombrare la
tavola. Quando Deanna era di quell’umore era impossibile farla ragionare, cosa
che ormai si ripeteva praticamente ogni giorno.
«Io esco. Se la signora torna giù fatele trovare qualcosa di pronto sopra la stufa.»
Quando Deanna aveva una delle sue crisi, era proprio sul testo della stufa che
Mordraud lasciava sempre i piatti che più le piacevano. Qualche volta l’aveva
sentita scendere dalla sua camera in piena notte per prendere ciò che lui le aveva
tenuto in caldo. Mangiava da sola, in piedi accanto alla stufa mezza spenta, beveva un goccio di vino e se ne tornava a letto. Si era chiesta spesso se quello fosse
un solo gioco fra loro due, o se Deanna sentisse soltanto il bisogno di ricevere
un po’ di attenzioni.
“Da quando lui è andato via non c’è verso di tranquillizzarla… ah, Adraman…
non avresti dovuto accoglierlo nella tua casa.”
Mordraud era un bravo ragazzo, e soprattutto sembrava l’unico in grado di
sopportare Deanna. Anche lei, che di pazienza ne aveva da vendere, avrebbe dato spesso e volentieri un ceffone a quella bambina viziata. Ma non era sua figlia,
purtroppo. Però, per quanto Mordraud si fosse dimostrato utile, era sbocciato
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così in fretta da sorprendere tutti. Avrebbero dovuto mandarlo via prima che potesse creare dei danni, pensò.
“Sono cose da nobili, e io sono solo una cuoca” si disse mentre attraversava il
feudo sotto una leggera pioggia autunnale. Faceva molto freddo, più del solito.
Mancavano pochi giorni alla notte dei Fuochi. Adrina aveva già dato le dovute
disposizioni per far trovare al padrone la casa pronta, convinta che sarebbe tornato come sempre. Erano secoli che la notte dei Fuochi veniva rispettata.
«Larois? Ci sei?»
La vecchia locandiera aprì la porta, e con un sorriso le fece segno di entrare.
«Che piacere vederti! Ho finito di cenare da poco. Hai già mangiato, Adrina?
Vuoi qualcosa?»
«No grazie. Sono passata solo per vedere come stavi.»
«Siediti, ti preparo una tisana.»
Larois non era molto in forma. Avevano la stessa età, ma sulla sua amica gli
anni si vedevano tutti. La vita in taverna era ben più dura che la sua, in una bella
casa senza spifferi.
«Come sta Gwern? Ti da una mano al lavoro?»
«Oh, è proprio un bravo ragazzo… si preoccupa sempre per me, e mi sbriga
tutte quelle faccende in giro per il feudo che ormai io non riesco più a fare. A
volte sta male, ha quelle brutte crisi… non riesco proprio a capire che malattia
possa essere!»
Larois si chiese se fosse il caso di confidare a Adrina la verità su Gwern. Magari, pensò, i malori che lo tormentavano erano dovuti al sangue Aelian. Poteva essere quello il motivo per cui nessuno sapeva cosa fosse a causarli. Una malattia di
un popolo diverso dal suo. Lasciò perdere, voleva proteggerlo dalle malelingue e
dal pregiudizio della gente. Anche se Gwern le aveva mentito, lei non percepiva
la sua discendenza Aelian come una minaccia. In fondo, non le interessava. Era il
suo bambino, l’avrebbe amato comunque. Il suo passato, come quello di suo fratello, non le apparteneva. Poteva tranquillamente continuare a vivere con Gwern,
a godersi la sua presenza, senza tormentarsi troppo.
Aelian o umani, che differenza poteva mai fare, si disse con una scrollata di
spalle. Se Gwern era una persona tanto deliziosa, gli Aelian non dovevano poi
essere malaccio.
Adrina accettò la tazza rovente e prese a sorseggiarla piano, gustandosi il composto di erbe preparato da Larois. «Amara e cattiva come piace a noi vecchi.»
«Ma fa un gran bene. Vedrai che le tue ossa mi ringrazieranno» rispose lei sedendosi al suo fianco.
Parlarono del più e del meno, delle tresche di una moglie di mezza età piuttosto conosciuta, o dei nuovi vitellini del macellaio che crescevano sani e forti.
Erano amiche da troppo tempo per ricordarselo. Si conoscevano da una vita, sin
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da quando erano ragazze in attesa di un marito. Per loro non c’era niente di più
bello di una tisana e quattro chiacchiere notturne.
«Come sta Deanna?»
«Non molto bene. Sono preoccupata, Larois.»
«Quella ragazza è sempre stata un po’ inquieta…»
«Inquieta?! Vorrai dire matta…» borbottò Adrina con una punta acida nella
voce.
«Non dirlo neppure…» Larois batté la tazza sul tavolo e la ammonì con un dito «è ancora giovane, vedrai che prima o poi capirà la fortuna che le è capitata.»
«Quale fortuna?! Un marito in guerra? E questa sarebbe fortuna?»
«Non è ancora vedova, come la maggior parte delle donne di questa regione.
Come me e te. Anche tu hai perso qualcuno in guerra, o sbaglio?!»
«Come tutti…» sospirò Adrina.
«Adraman è un capitano, corre molti meno rischi di tutti gli altri. Infatti dopo
tanti anni è ancora vivo e può tornare a casa, non come i nostri mariti. E poi è
un brav’uomo, e le vuole un gran bene.»
«Magari lei avrebbe voluto qualcun altro a fianco…»
Larois si alzò di scatto e riempì nervosamente la sua tazza e quella dell’amica.
«Stai insinuando qualcosa?»
«No, nulla…»
«Guarda che le orecchie ce le ho ancora buone! Ho sentito cosa dicono le
donne al mercato. Mordraud di qua, Mordraud di là…»
«Non volevo dire questo…» rispose Adrina scuotendo la testa.
«Ma lo pensi, non è vero?! E sono stata io a mettervi in casa quel ragazzo…
ma sappi che non potevo immaginare…»
Larois si bloccò, ma Adrina era troppo curiosa di sapere cosa stesse per dire.
«Che cosa non potevi immaginare?!»
«Ecco… che sarebbe stato un problema per tutti… nient’altro.»
«Larois…»
Adrina la chiamò bisbigliando, e lei si voltò verso la porta. Gwern era entrato
senza che loro se ne fossero accorte. Ciondolava in piedi con gli occhi mezzi
chiusi.
«Stai bene, Gwern?»
Il ragazzo non rispose, continuando semplicemente a dondolare la testa avanti
e indietro. Larois si avvicinò e gli prese le spalle, ma lui stava guardando altrove.
«Sembra ancora addormentato» mormorò Adrina. «Gli capita spesso?»
«No, o almeno credo… Gwern, mi senti? Va tutto bene?»
«Piove sangue dal cielo» sibilò lui. Un filo di voce piatta, insensibile. «L’ho visto.»
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«Piccolo mio, è normale… fra qualche giorno è la notte dei Fuochi, ti ricordi
l’anno scorso? L’abbiamo guardata insieme e…»
«Piove sangue di uomini. Ero lì, l’ho visto.»
«Non hai visto niente di brutto… era solo un sogno, ora vieni che torniamo a
letto.»
«Ho visto mio fratello ferito da una lancia.»
«Ora basta, Gwern! SVEGLIATI!» gridò Larois scuotendolo fino a fargli tremare i denti. I suoi occhi però restarono mezzi chiusi, lontani da quella stanza.
«Si vede solo sangue, in cielo e in terra… e lance ovunque che brillano…»
Larois gli mollò uno schiaffo. Le ginocchia di Gwern tremarono e cedettero di
schianto. Lei lo afferrò prima che cadesse, ormai sveglio e spaventato a morte.
«Dove sono? Cos’è successo?!»
«Nulla figliolo, ti eri addormentato qui con noi… ora fila a letto che è tardi.»
«Mi fa male la faccia…» balbettò strofinandosi la guancia arrossata «non mi ricordo niente…»
«Eri troppo stanco, e ti sei addormentato con la testa sul tavolo. Ora vai, forza!»
Gwern se ne andò malfermo e si chiuse la porta alle spalle dopo aver salutato
Adrina. Larois tornò a sedersi sospirando preoccupata. Le due amiche si guardarono per lunghi momenti imbarazzati, senza trovare le parole.
«Il sogno di un bambino, tutto qua…» esclamò Adrina interrompendo il silenzio.
«Già.»
«Si è fatto tardi, forse è ora che…»
«Hai ragione.»
Adrina ripose la sua tazza e uscì senza salutare. Larois restò ancora a lungo seduta al tavolo della cucina, tormentandosi le mani.
«La notte dei Fuochi è vicina» mormorò, ricacciando un pugno di lacrime in
gola.
***
«PRONTI?!»
Il primo capitano gridò il nome del proprio battaglione. Altri lo imitarono, uno
dopo l’altro. I soldati risposero con uno spaventoso boato. Migliaia di uomini
erano schierati alle sue spalle. Al suo fianco, i mantelli neri delle Lance Imperiali
garrivano al vento del mattino. Le grida divennero una marea che montava e
spumava infuriata. Asaeld era un dio della guerra, in testa al più grosso esercito
che Dunwich avesse mai visto o sognato. Migliaia di arcieri, un oceano di fanti, i
232
cavalieri ai lati pronti a partire. E poi loro, il giudizio di Cambria, le mitiche Lance.
«AVANZARE!»
Una tempesta di piedi di ferro si mosse nello stesso istante. La terra vibrò sotto
il loro peso. Dunwich inspirò profondamente e sentì il bisogno di urlare al cielo.
Si sentiva grande, partecipe e fautore della storia. Quasi poteva sentire il mondo
stretto fra le sue mani. Non aveva mai avuto tanta paura, e la cosa lo eccitava in
modo viscerale.
L’impero era in marcia per mettere la parola fine a una storia tirata ormai troppo per le lunghe.
***
Mordraud era in piedi sul Terrapieno. Stava sferzando con la spada l’aria nera
venata di rosso. Piccole scintille piovevano dal cielo senza bruciare, giocando intorno alla lama come lucciole deformi. In alto, sopra tutto e tutti, danzava la vela
cremisi che aveva trasformato la volta celeste in una cupola di fiamme. Il silenzio
perfetto era rotto solo dal suo respiro. Tutti gli animali della regione sembravano
svaniti, nascosti nelle loro tane per sfuggire alla tinta sanguigna di quella notte.
La notte dei Fuochi.
Era da solo sul Terrapieno. Tutti i soldati erano radunati intorno ai falò accesi
fra le tende del campo, intenti a bruciare legnetti incisi nelle svariate forme dei
sogni e dei desideri. Ogni forma sembrava dipinta con le infinite sfumature del
rosso. L’acciaio delle spade era arroventato come se fosse stato appena forgiato.
L’aria era fredda e senza un alito di vento. Mordraud ripercorse le volte in cui
aveva osservato la notte rossa da casa sua, insieme a sua madre e a Gwern. Si poteva scorgere in lontananza, appena una bava cremisi stesa sull’orizzonte ammantato dalla notte. Erano stati bei momenti. Ma vista da dentro, schiacciato
sotto il cielo imbevuto di sangue, la notte dei Fuochi era tutta un’altra cosa.
Un’esperienza tremenda, magniloquente.
All’improvviso, Mordraud colse qualcosa all’orizzonte. Forse gli zoccoli di un
cavallo, oppure un grido smorzato. Difficile dirlo. L’atmosfera era irreale, ovattata. Si fermò di colpo, abbassò la spada e tese l’orecchio nel vuoto. Ancora quel
suono. Mordraud si accorse che la sua mano sinistra aveva preso a tremare.
Strinse le dita con più forza intorno all’elsa, ma il brivido risalì lungo il braccio e
gli raggiunse il petto.
«Ma cosa…»
Il rumore divenne un ritmo. Il ritmo si plasmò in un corpo.
Un cavallo con la bava alla bocca stava correndo all’impazzata verso il Terrapieno. Sulla sua schiena era riverso un uomo, uno degli esploratori di fiducia di
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Adraman. Mordraud raggiunse una passerella e scivolò faticosamente giù dalla
barriera. Afferrò le briglie sciolte della povera bestia sfiancata. Il soldato era svenuto per la stanchezza, e aveva le labbra spaccate dalla sete.
«Cos’è successo?! Stai bene?»
«Cambria…»
Mordraud sentì tutto il sangue defluirgli fuori dal corpo.
«Cosa ha fatto Cambria?! Adraman è al sicuro? RISPONDIMI!»
«Stanno arrivando, un’ora… forse meno… il comandante ha saputo… tardi…
arriverà, ma non in tempo… ti prego, un sorso d’acqua…»
Mordraud lo aiutò a bere dal suo piccolo otre, e il soldato tracannò avidamente
fino all’ultima goccia. «Non dormo, non mangio… non piscio da quattro giorni… ma li ho superati! Li ho superati!»
La sua voce era pericolosamente vicina alla follia. Mordraud gettò via la borraccia e saltò sul cavallo. Poco distante era distesa la passerella con cui i cavalieri
potevano salire e scendere dal Terrapieno. La imboccò alla massima velocità, rischiando anche di volare di sotto. Ma non c’era tempo.
Il nemico era alle porte.
«L’IMPERO! L’IMPERO!» urlò con tutto il fiato che aveva, battendo l’elsa
della spada contro l’elmo che gli pendeva dalla cintura.
«STA ARRIVANDO L’IMPERO!»
Dalle tende spuntarono le facce arrossate dal vino. Piccole macchie opache
della notte dei Fuochi. Le danze e le musiche intorno ai falò si spensero.
Mordraud gridò ancora più forte, tagliando al galoppo il campo e picchiando
l’acciaio contro l’acciaio.
«L’IMPERO!»
«Mordraud, che succede?!» Gabor afferrò il cavallo fermandolo con una sola
mano. «Se è uno scherzo, domani non immagini neppure…»
«Non è un fottuto scherzo! Adraman ha visto l’esercito di Cambria! Stanno arrivando, e lui è tagliato fuori! DOBBIAMO PREPARARCI!»
«Ora calmati, figliolo… e ricomincia. Un bel respiro, forza.» Gabor aveva
cambiato completamente tono e sguardo. Non era più l’allenatore dei novizi.
Non in quel momento, in quella notte di morte. «Ci vuole sangue freddo. Quanti
sono? Quanto sono lontani?»
«Meno di un’ora, signore» rispose il soldato seduto alle spalle di Mordraud.
«Mai visto un esercito così vasto, penso quindici, anche venti battaglioni di fanteria… migliaia di cavalieri… e due file di Lance.»
«DUE FILE?!» la voce di Gabor si spense per lo sconforto. «Trecento Lance… no, di più… impossibile…»
«L’ho visto con i miei occhi! Li ho superati nascondendomi nel bosco… procedono a marcia forzata…»
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«Mordraud, corri al comando, io inizio a spegnere i falò e raduno gli uomini.
AVANTI!» Gabor urlò a tutti i soldati che aveva intorno. «Soffocate i fuochi!
Prendete le armi! ALLARME! ALLARME!»
Mordraud lasciò a terra il soldato sfinito e galoppò verso le tende degli ufficiali.
Ghiaccio era fuori insieme ad altri capitani, impegnati in una partita a dadi piuttosto accesa. “Siamo tutti ubriachi, maledizione!” pensò rabbioso. Doveva esserci anche Berg, da qualche parte. Molti altri uomini di Eldain erano partiti poche
settimane prima per riprendere i loro posti lungo il fronte. Alcuni erano con
Adraman.
«Ghiaccio! Ghiaccio!» gridò buttandosi giù da cavallo. Il generale lo guardò
strabuzzando gli occhi. Mordraud lasciò perdere ogni formalità e si fiondò ansimando in mezzo al gruppetto.
«Cosa vuoi, soldato? Hai dimenticato le buone maniere?!»
«Cambria sta per attaccare. Il loro esercito sarà qui a momenti.»
Mordraud non si aspettava di ricevere come risposta un coro di risate.
«Non mi credete?! È tutto vero!»
«Avanti ragazzo, lasciaci continuare la partita, e farò finta di non aver visto né
sentito nulla. Solo per stanotte, però. È festa per tutti!»
«Non sto scherzando, idiota! Dobbiamo prepararci! Gabor sta già radunando
gli uomini!»
Le risate si trasformarono in mugolii soffocati. Ghiaccio divenne persino più
pallido del solito. Mordraud si irrigidì terrorizzato. Lo aveva appena chiamato
idiota. Si era praticamente impiccato da solo.
«Siamo veramente sotto attacco?!»
«Lo giuro sulla testa di tutti gli Dei!»
Il comandante degli alleati a Est aprì e chiuse la bocca per un momento, guardandosi intorno in preda al panico. Durò poco. Ritrovò istantaneamente la calma. Preso atto che Adraman era lontano, e che lui e Berg erano gli ufficiali di
rango più alto, scrollò la testa per liberarsi dal torpore e subito iniziò a sbraitare
ordini precisi.
«Voi due, alla cavalleria. Ditegli di prepararsi lungo i lati del Terrapieno. ATTENZIONE ALLE FORESTE, tenteranno di passare anche di lì. Tu, trovami
Berg» gridò indicando altri tre soldati. «Voi invece andate nei reparti a piedi, ordinate una doppia linea sul Terrapieno. Preparate le lance. E PORTATE VIA
QUELLE FOTTUTE PASSERELLE!»
Mordraud poté tornare a respirare, ma il fremito alla mano crebbe e sfondò la
linea del polso. Stava salendo a velocità allarmante. Ghiaccio si congratulò con
lui con una pacca sulla spalla.
«Come ti chiami ragazzo?»
«Mordraud, signor Ghiaccio…»
235
«Va bene Mordraud, ora vai al Terrapieno. Hai fatto un ottimo lavoro. Voglio
vederti ancora vivo domani mattina… così posso punirti di persona per come mi
hai chiamato.»
«Grazie signor Ghiaccio!»
«E smettila di chiamarmi in quel modo, disgraziato!»
***
«PREPARARSI!»
Pochi passi ancora.
Dunwich sentì la voce di Asaeld vibrargli nello stomaco. La notte era un sasso
nero intinto nella pece insanguinata. Nel cielo volteggiava in silenzio la vela rossa. Una pioggia di scintille picchiettava senza suono su un oceano di spalle corazzate. Le Lance si mossero come un solo corpo, spezzandosi in due tronconi. I
fanti accelerarono il passo e iniziarono a correre. I cavalieri si raggrupparono in
rostri appuntiti.
«PRONTI ALL’IMPATTO!»
Dunwich sguainò la spada. Una selva di canti si alzò dalle Lance al galoppo.
Una cupa foresta di risonanze. Dunwich cancellò tutto ciò che non aveva alcuna
importanza, e si concentrò solo sulla sua linea di canto. Le altre Lance gli vennero dietro improvvisamente. La pressione delle loro voci in sintonia perfetta si
concentrò in una sorta di muro intangibile che tremolava avanzando alla loro
stessa velocità. Il suo cuore pompava e spingeva follemente per lanciarsi in un
assolo omicida. Il filo della lama gocciolava di fuoco misto a sangue.
«CAMBRIA!»
***
Le rastrelliere vennero prese d’assalto. Centinaia di uomini sciamavano fra le
tende del campo alla ricerca di un’arma, preparando le armature, o semplicemente pregando in lacrime. Le attrezzature erano poche e ridotte male. Gli scudi e gli
elmi non erano sufficienti, e mancavano anche molte spade. I cavalieri caricarono le bardature sui loro destrieri. Gli scudieri affilavano le punte di lancia con le
pietre grigie. I capitani di brigata urlavano a squarciagola ordini e posizioni. Molti
ubriachi vennero ficcati nell’acqua gelida e armati alla meno peggio, e prima che
potessero capire cosa stesse succedendo si trovavano già a correre verso le prime
linee.
Mordraud era assiepato sul Terrapieno insieme ai suoi compagni. La terra
all’orizzonte tremava e alzava spirali di polvere rossastra. Il silenzio della notte
era svanito, sostituito dai canti e dallo schiocco degli arcieri. Una nube di frecce
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attraversò l’aurora di sangue. L’esercito dell’alleanza era riuscito a schierarsi, ma
nessuno era pronto a quella visione maestosa e letale. La potenza di Cambria era
dispiegata su un tappeto incomprensibile di armonie.
«Sono troppi… troppi…» mormorò piangendo uno al suo fianco.
Era Benno. Il grosso mentecatto a cui aveva spaccato il naso.
«Meglio così.»
Mordraud si passò la lingua sulle labbra, giocando con le dita intorno all’elsa.
La paura era svanita. Il tremore, svanito. Il tempo si sfilacciò, gli attimi divennero
ore, e tutto si fermò. I primi fanti raggiunsero il Terrapieno.
Il coro di Cambria pompava ferocemente bordate di bassi a ritmo serrato, e
strilli sovrumani che compivano l’intreccio degli assoli. Ovunque nell’aria sbocciavano lampi di luce azzurra ferma e tremolante. Sembravano sfere di vetro
zuccherino. Il passaggio dei solisti le faceva scoppiare in boati cadenzati con il
resto dei canti. Bolle d’aria turbinante travolsero gli uomini di Eldain e li scompaginarono scagliandoli nel vuoto. Volavano giù a secchiate dal Terrapieno agitandosi inutilmente nella notte rossa, come pupazzi lanciati da un ponte. Il silenzio tornò per un breve istante, ma le Lance Imperiali non diedero tregua al Terrapieno. L’attacco continuò con un’altra pioggia di risonanze mortali che falcidiò
i sopravvissuti alla prima sfoltita. Molti uomini erano accucciati a terra in lacrime,
terrorizzati dalle micidiali armonie delle Lance di Cambria. Altri cercavano di zittire i canti dell’impero stringendosi disperatamente la testa fra le mani.
Ma Mordraud non stava piangendo. Le risonanze l’avevano soltanto sfiorato.
Stava contemplando rapito la mostruosa potenza del nemico, abbracciandola in
uno sguardo dilatato da un’estasi perversa. Fece sua quell’incredibile forza respirando lentamente. Restò immobile di fronte alla muraglia di carne e ferro lanciata
alla carica verso di lui, il braccio alzato per coprire gli occhi dai riverberi dei lampi azzurri.
L’aria si gonfiò cavalcando l’urlo dei primi uomini trafitti.
La battaglia era iniziata.
***
L’impatto fu devastante. Un maremoto si infranse contro il Terrapieno. Centinaia di lance ribelli baluginarono nella luce rossa a caccia dei primi pesci spauriti.
La fanteria imperiale si riversava contro la muraglia nel disperato tentativo di scalarla, spinta dalle grida dei comandanti e dalla calca. Le Lance avevano scatenato
contro la linea di difesa nemica un muro armonico che fece traballare gli uomini
in piedi sul Terrapieno. Altri presero a volare via, devastati dalle bolle d’aria in
risonanza. Ma i soldati imperiali non riuscirono ad approfittarne. I cadaveri pio237
vevano giù schiacciando chiunque si trovasse sotto. Il sibilo delle frecce si mischiava ai rantoli strozzati dei morenti.
Mordraud prese una delle lunghe lance che i soldati nelle retrovie continuavano incessantemente a passare alla fila del fronte, e la piantò in piena gola a un
ragazzo dai capelli biondi, imbottito di cuoio e di stracci. Strappò via l’asta e la
spinse giù di nuovo. La punta strisciò sulla spalla di un uomo barbuto che raspava la terra alla ricerca di un appiglio. Provò ancora, ma la sua armatura resistette.
Quando la sua testa raggiunse l’altezza dei primi piedi, Mordraud con il tacco lo
schiacciò finché non sentì il suono liquido del suo mento che si spaccava. Subito
un altro dietro. Alzò ancora la lancia e digrignando i denti la scagliò verso il basso, piantandola nella schiena di uno a caso. Il suo corpo restò appeso al Terrapieno come una bambola di pezza.
Mordraud scoppiò a ridere selvaggiamente. Il braccio non tremava più. Sentiva
dentro di sé la forza per sollevare tutto il Terrapieno, per scrollargli di dosso
quelle piccole briciole umane.
Benno piangeva e mugolava. Grande e grosso, un picchiatore nato, ma non
riusciva a piantare la sua arma perché aveva le mani molli dal terrore. Qualche
fante era già riuscito a mettersi in piedi e spingeva contro la fila per lasciare spazio agli altri. Mordraud sguainò la spada e mozzò le mani dell’uomo che stava
per squartare Benno. A pugno chiuso gli frantumò la faccia con l’elsa. «SVEGLIATI MERDA!» urlò in faccia al compagno fuori di sé, lo schiaffeggiò fino a
fargli sanguinare la bocca. «COMBATTI!»
Non aveva tempo da perdere con i codardi. Altri soldati stavano salendo da
tutte le parti. Uno di loro volò giù dopo un calcio ben assestato. Con la spada
stretta a due mani aprì l’elmo e il cranio di un ragazzino, che lo guardò fino
all’ultimo con gli occhi accecati dal terrore. Qualcuno si era aggrappato alla sua
gamba. Mordraud gli afferrò la faccia sfondandogli un occhio con il pollice, torse
il polso e gli schiantò l’elsa in mezzo ai denti.
«AVANTI! VENITE SU CANI BASTARDI!»
Mordraud sentì il bisogno di ridere. Ma non era una risata. Era un ululato deforme. La punta di un’alabarda gli sfiorò il ventre. Schivando di lato, strinse la
spada e la piantò in mezzo al torace del suo avversario.
«ANCORA!» una testa spaccata come una noce. «ANCORA!» un braccio
mozzato che si agitava stringendo un lungo pugnale. «ANCORA!» denti sparsi a
terra che scricchiolavano sotto le suole di ferro dei soldati. La terra aveva la stessa tinta cremisi dell’aria e del cielo. Le facce erano diventate tutte uguali.
Lo Sconosciuto. L’uomo senza un braccio che aveva preso il posto di suo padre. Erano una marea. Migliaia di Sconosciuti, come se al mondo non esistesse
altro.
238
«CONTINUATE! NON FERMATEVI!» gridò ai compagni. Intorno a lui, il
suo gruppo era ancora integro. Chiunque tentasse di salire a portata del suo
braccio, inevitabilmente moriva. Altrove era il delirio. Il nemico era riuscito a salire in più punti sul Terrapieno. La linea si stava sfaldando.
«CON ME! UNO!»
Mordraud falciò una testa a filo del Terrapieno, come per mozzare una spiga in
un campo di grano. Benno, galvanizzato dalle sue urla, lo imitò.
«DUE!» qualcun altro si unì al ritmo dei suoi colpi.
«TRE!» dieci spade calarono all’unisono su altrettanti invasori.
«QUATTRO!» altri ripeterono il conto.
«CINQUE!» lungo la linea del fronte le lance si alzavano e abbassavano nel
medesimo istante.
«SEI!»
***
Dunwich scartò insieme al suo gruppo di Lance e puntò verso il bosco a ponente del Terrapieno. La muraglia non si interrompeva, scorrendo alla perfezione in mezzo agli alberi. Per la loro fanteria era ancora più difficile farsi largo fra
l’intrico di piante appesantiti dalle corazze. L’ordine di Asaeld era chiaro. «Sfondate ai lati. Usate i vostri canti migliori. Liberate spazio per il fronte a piedi.»
«PREPARATE LA TEMPESTA!»
Cinquanta uomini all’unisono intonarono un canto marziale. I bassi sostenevano la carica creando lo slancio per i solisti. Un paio di ragazzi disarmati trascinarono e mollarono di fronte al coro un calderone di brace rovente. Scapparono di
corsa mentre i bagliori rossi presero a gonfiarsi a velocità allucinante, sospinti
dalla violenza del coro di Lance. I lampi mutarono colore, si condensarono intorno a loro, finché un’esplosione di luce gialla sconvolse gli alberi piegandoli e
schiantandone a decine. Una pioggia di fiamme biforcute vorticò di fronte ai
cantori, prese slancio cavalcando le loro perfette risonanze, e spazzò il bosco a
ridosso del Terrapieno. Quando il fuoco dipanò, i ribelli nascosti dietro gli alberi
giacevano in terra ridotti a carboncini fumanti.
«CAVALLERIA! DIFENDETE IL CERCHIO!»
Le Lance vennero circondate dai cavalieri imperiali e ressero l’impatto della carica dei ribelli accorsi per fermarli. Subito fu intonato un altro canto. Di colpo, la
terra nei pressi delle pendici del Terrapieno si aprì in tante bocche tenebrose.
Come pozzi scavati all’improvviso. Le ombre danzavano confondendo ogni cosa. Gli uomini di Eldain cadevano senza accorgersene nelle viscere della terra, e
finivano schiacciati quando le risonanze delle Lance si concentravano su altro.
«Sono in pochi! Non hanno cavalieri!»
239
«PENSATE SOLO AL CANTO! NON DISTRAETEVI!» urlò Dunwich infuriato. Una leggerezza, un passaggio poco chiaro, e il complesso intreccio del
coro si sarebbe potuto ritorcere contro di loro. Una risonanza così imponente
poteva anche spazzarli via tutti in un istante. Dunwich prese a dare il tempo ai
suoi muovendo ritmicamente le mani, aprendole e indicando alle varie linee i
cambi d’armonia da rispettare. Le Lance si adeguarono velocemente, muovendo
le loro voci con raffinata precisione.
Stava dirigendo una sinfonia di morte. Dunwich rabbrividì estasiato.
La musica disegnò arabeschi cupi e profondi. Le sillabe pronunciate dalle Lance schioccavano e strisciavano, perfettamente intonate fra loro. Il bosco venne
scosso da un terremoto in sintonia con le loro voci. Gli alberi oscillarono, molti
caddero. I primi fanti riuscirono a prendere possesso di palmi di Terrapieno.
Sembravano esploratori che avevano appena raggiunto una rovina dimenticata in
una terra sconosciuta. Si guardavano intorno perplessi e ansiosi, in attesa che le
Lance finissero di ripulire il terreno di scontro.
Fu in quel momento che iniziarono a cadere frecce da ogni parte. Una slavina
di ferro acuminato. Due suoi compagni si afflosciarono senza un gemito. Un cavallo fu preso in piena fronte e stramazzò schiacciando il suo padrone.
«DOVE SONO?! PERCHÉ NON SONO STATI ABBATTUTI DAI NOSTRI CANTI?!»
Dunwich era sicuro che gli arcieri imperiali avessero già vomitato frecce su tutto il bosco prima del loro arrivo. E inoltre, dopo quel macello armonico sopravvivevano in piedi meno della metà degli alberi. Il nemico era invisibile. Dunwich
non ne vide nascosti dietro i tronchi o fra le radici. E quelle non erano le solite
nubi di frecce sparate senza obiettivo. Qualcuno stava mirando con precisione
solo contro le Lance.
«SUGLI ALBERI, SIGNORE! SONO FRA LE…» la frase rimase sospesa,
come l’asta che spuntava dal collo del cavaliere.
«INDIETRO, INDIETRO! Fuoco fra le fronde!» gridò Dunwich alzando il braccio al momento giusto, d’istinto. La punta di ferro sfregò sulla sua armatura e
schizzò via rimbalzando contro un tronco. «COSA ASPETTATE?! HO DETTO CANTATE, MALEDIZIONE!»
Lui stesso dovette intonare, mentre contemporaneamente dettava il ritmo con
i segni delle mani. Le altre Lance avevano perso il momento della risonanza e
stavano ricercando di nuovo. Quegli arcieri erano maledettamente bravi. La cavalleria di Eldain accorse dagli scontri frontali e approfittò del momento per tagliare la fuga ai cavalieri imperiali. Le Lance arretrarono da sole. Il canto del coro
riuscì a scatenarsi all’ultimo momento, per un soffio. Altre due Lance caddero
appena conclusa l’ultima nota. Il cielo si riempì di folgori azzurre, che violentarono le fronde degli alberi incenerendole a caso. Non era una risonanza perfetta.
240
I lembi di distruzione raggiunsero i loro uomini che erano riusciti a salire sul terrapieno, e li spazzarono via insieme ai ribelli contro cui stavano combattendo in
mischia. Le frecce rallentarono soltanto. La notte era alleata dei ribelli. Le chiome degli alberi in fiamme erano nubi rosse disperse in un cielo ondeggiante e
sanguigno.
«Signore! Signore!»
Una Lancia raggiunse il suo gruppo al galoppo fra gli alberi. Era uno della
scorta di Asaeld, che secondo i calcoli di Dunwich doveva trovarsi dalla parte
opposta del campo di battaglia.
«Abbiamo un problema al fronte di levante!»
«Dillo ad Asaeld, allora! Non vedi che…» una freccia passò proprio fra i due,
piantandosi a terra a un palmo dalle zampe del cavallo «… abbiamo dei problemi
anche noi?!»
«Mi ha mandato lui, il comandante! I ribelli stanno sfondando il fronte centrale!»
«IMPOSSIBILE! C’è tutta la fanteria che blocca il Terrapieno!»
«Un gruppo dei loro è sceso dal Terrapieno e punta verso Asaeld!»
«Che cosa?!» urlò sconcertato. «Chi potrebbe mai tentare una mossa così folle?!»
***
Sul Terrapieno regnava il panico. La fanteria nemica aveva rallentato la spinta,
e al suo posto dalle retrovie erano giunte centinaia di passerelle. «Cosa vogliono
fare?!» gridò Mordraud all’orecchio di Benno. «Non lo so!» rispose lui. Ogni loro
dissapore sembrava svanito nel nulla. Mancava il tempo per odiarsi.
«Non importa! Tiratele giù!» urlò qualcuno alle loro spalle. Era Berg, il loro capitano in persona.
«Signore, è pericoloso stare qui!»
Mordraud rafforzò le sue parole aprendo la faccia a un fante imperiale troppo
ardito. La punta si incastrò fra i suoi zigomi e dovette scrollarla con forza per liberarla.
«Fatti fottere ragazzo, pensa a fare il tuo lavoro e lasciami fare il mio! Continua
a pestare, maledetti gli Dei del cielo! TIRATE VIA QUELLE PASSERELLE!»
Le prime non fecero in tempo a poggiarsi al Terrapieno che subito scivolarono
giù schiacciando chi le stava portando. Erano larghe e borchiate, pesantissime.
Perfette per… «la cavalleria! Vogliono saltare il Terrapieno!»
La marea di fanti iniziò ad aprirsi.
«MALEDIZIONE! BUTTATELE GIÙ!»
Troppo tardi.
241
I primi cavalieri raggiunsero le passerelle al galoppo e si fiondarono sul Terrapieno falciando ribelli a folate. Atterrarono direttamente nelle retrovie di Eldain
seminando il caos. Si mossero e si raggrupparono per dare il tempo ai loro compagni di imitarli.
Mordraud prese un lungo respiro, abbassò le spalle, e partì a testa bassa.
Una delle passerelle era vicina. Intorno, soldati caduti in terra per l’urto, o già
morti. Mordraud piantò un piede, strinse la spada e disegnò un arco verso l’alto
non appena vide stagliarsi un cavallo contro il cielo. Dalla pancia squartata cadde
un grumo di viscere. La bestia non resse l’atterraggio buttando malamente a terra
il suo cavaliere. Dietro, ne stava già arrivando un altro. Mordraud si piazzò sulla
passerella con la spada alta sopra la testa. Alle sue spalle Berg stava massacrando
il cavaliere caduto, mentre abbaiava rabbiosamente comandi e insulti all’impero.
L’altro cavallo si spaventò quando vide Mordraud frapporsi al salto. Impennò
e scalciò, mancandolo di un palmo. Mordraud prese la gamba del suo padrone e
lo disarcionò, gettandolo giù dalla passerella. Sotto di lui si agitava un mare di
lame e punte affilate. Con una mano sulle redini, piantò un piede sulla staffa e si
lanciò sopra il cavallo. Il Terrapieno era un camminamento esiguo, e tutt’intorno
a lui stava infuriando una carneficina.
Senza pensarci un momento, Mordraud si gettò di sotto. Il cavallo atterrò
scomposto, e lui si ritrovò in mezzo al nemico ai piedi del Terrapieno.
«BERG! RADUNA QUALCUNO E SEGUIMI!»
Nessuno si aspettava una mossa simile. Mordraud prese a menare la spada con
forza brutale. Ogni suo attacco sembrava casuale, mosso dall’istinto. Ma immancabilmente, la sua lama mozzava testa, orecchie e mani degli sventurati soldati
imperiali. La massa di fanti perse il controllo e si richiuse bloccando l’arrivo di
nuovi cavalieri. I primi ribelli stavano scendendo lungo la passerella guidati da
Berg.
«SEI UN PAZZO!» sbraitò il capitano incredulo. «DOVE CREDI DI ANDARE?!»
«Guarda nel bosco!» rispose Mordraud indicando il fronte a levante. Fra gli alberi esplodevano raffiche di lampi accecanti. Le fiamme erano già alte in molti
punti. Quelle fottute merde dei cantori, pensò annaspando dalla foga. Le loro
voci tremende sovrastavano come una condanna il frastuono della mischia ai
piedi del Terrapieno.
«PRENDIAMOLI ALLE SPALLE!»
Il suo braccio sinistro si alzava e calava senza un attimo di sosta. Aveva solo
l’imbarazzo della scelta. Quando vedeva una spada avvicinarsi troppo al cavallo,
Mordraud tagliava. Era come far legna in mezzo a una fitta foresta secca.
«È un’idea assurda!» gridò Berg, senza però troppo slancio. «Dobbiamo tagliare
il fronte per arrivare fin laggiù!»
242
Mordraud iniziò, da solo, a spingersi dentro l’esercito nemico. Anche se non
aveva alcuna speranza di reggere. I nemici erano troppi. Confidava però che
Berg lo seguisse, come un matto dietro uno ancora più matto. E infatti, con sua
somma gioia, il suo capitano lo fece. Gli venne dietro. Amava quell’uomo. Berg
aveva radunato un gruppo di veterani e lo aveva raggiunto alle spalle, allargando
la ferita all’interno del muro di fanti imperiali. C’erano anche i suoi amici Maglio
e Pietà. Bene, pensò trionfante Mordraud.
Almeno sarebbero morti tutti insieme.
Quello che accadde da quel momento in poi fu una confusa discesa in un gorgo di morte. Il cavallo procedeva lentamente in mezzo ai nemici, che cadevano
falciati lasciandogli lo spazio di appena un passo. Gli zoccoli pestavano su un letto di schiene corazzate. Aveva ferite su entrambe le gambe, malamente protette
dalla leggera corazza di cuoio che l’esercito gli aveva assegnato. La povera bestia
arrancava e nitriva, sfiancata dai tagli che le spade nemiche le avevano aperto
lungo i fianchi. Ma, incredibilmente per lui e per tutti quelli che stavano contemplando la scena, Mordraud si ritrovò fuori dalla mischia. Lui e il gruppo di Berg
avevano tagliato tutto il fronte sbucando vicini al bosco di levante. Il suo gesto
fu come un sassolino prima della frana. La fanteria asserragliata sotto il Terrapieno perse slancio, trafitta al cuore dal loro passaggio. Altri ribelli stavano prendendo il controllo della base della muraglia.
«Se fermiamo le Lance, il fianco è salvo!»
«Prendete tutti i cavalli che trovate e attacchiamoli alle spalle!» ordinò Berg «e
tu, ragazzo, non osare più fare di testa tua! Do io gli ordini!»
Le sue parole si sciolsero nel vento. Mordraud era già partito al galoppo verso
le profondità del bosco. Le pendici esterne del Terrapieno correvano fra gli alberi come vecchie rovine imponenti di una città dimenticata.
«Ma guarda te che animale…»
***
«Dove sono le Lance?! Perché il fronte centrale è scoperto? CHI HA DATO
IL COMANDO DI CONCENTRARE TUTTO PROPRIO AL CENTRO?!»
urlò Dunwich infuriato. Per poter raggiungere l’altro lato del campo di battaglia
avevano dovuto aggirare tutto il loro esercito. Qualcosa stava andando storto. Il
piano degli strateghi di Loralon doveva essere ben diverso. Almeno sulla carta.
«Stiamo solo rovesciando gente contro il Terrapieno! Chi ha avuto questa fottutissima idea?!»
«Non lo so, signore. Il gruppo di Lance che doveva attaccare il Terrapieno ha
ripiegato e si è frammentato per rimpinguare il vostro plotone e quello del comandante…»
243
«Così non va maledizione! Loro dovevano appoggiare la fanteria! Così, i nostri
uomini non hanno la copertura dei cori!» Dunwich si picchiò una gamba con il
pugno fino ad ammaccare la corazza. «Guarda laggiù, stanno dilagando dal Terrapieno, la nostra linea a ponente sta saltando! Se fossimo rimasti al nostro posto, forse almeno quell’area avrebbe potuto reggere! VOGLIO LA TESTA DI
CHI HA ORDINATO TUTTO QUESTO!»
Dunwich e i suoi raggiunsero il bosco. La cavalleria di Eldain stava combattendo contro i loro uomini, mentre le Lance di Asaeld erano più lontane, e stavano macinando armonie su armonie contro il Terrapieno fra gli alberi. Gli assistenti avevano piantato una fila di torce in terra, e da quei miseri fuochi le voci
delle Lance stavano innalzando ondate assassine di fiamme, che si abbattevano
sulla muraglia senza però incidere particolarmente sulle difese di Eldain.
Come se stessero sbagliando mira, o armonia.
«Ma dove sta l’emergenza?! Perché Asaeld mi ha fatto chiamare?» disse con un
filo di voce. Era tutto troppo assurdo, pensò sconcertato.
Dunwich piombò per primo sulle linee nemiche, spada alla mano. La mischia
era furibonda. Difficile capire chi fossero i compagni e i ribelli. Senza scomporsi,
ragionando attentamente, Dunwich colpì solo chi era certo fosse un avversario.
Un unico gesto ben mirato alle giunture dell’armatura, com’era nel suo stile. Voleva raggiungere al più presto Asaeld e venire a capo di quella delirante situazione. Una saetta impazzita quasi lo prese in piena faccia, e l’onda d’urto spaccò i
sostegni del suo elmo. Una risonanza fuori controllo, pensò imbestialito. Una
Lancia che aveva perso il controllo della voce. «Mirate dritto brutti idioti!» gridò.
La visiera calò di scatto. Dunwich imprecò e tentò inutilmente di liberarsi la faccia, ma il meccanismo si era rotto.
Fu in quel momento che vide un cavaliere solitario sbucare dagli alberi proprio
in mezzo alle Lance in lontananza.
***
Un lampo verdastro gli sfrecciò a fianco. Istintivamente, Mordraud si calò in
fretta e furia la visiera dell’elmo. Se l’era calcato in testa dopo essere uscito dalla
mischia sul fronte del Terrapieno, ma l’aveva tenuta sollevata fino a quel momento per vedere meglio. “Gwern protege la tua vita…” pensò sogghignando.
“Speriamo.”
Non gli piaceva particolarmente la sensazione di ferro sulle guance, ma aveva
più paura dei canti nemici. Si sentiva meno reattivo. Un altro dardo prese in pieno petto uno dei cavalieri di Eldain al suo fianco. Mordraud vide la sua armatura
sfrigolare e fumare. Il guerriero colpito vomitò sangue e stramazzò a terra.
244
“I canti… sono spaventosi…” pensò freneticamente mentre tentava di schivare le saette che fendevano l’aria tutt’intorno. Schizzavano da un piccolo sole di
luce che galleggiava di fronte al coro a cavallo delle Lance. Uno dei dardi gli strisciò sul braccio. Il dolore fu improvviso e terribile. Le Lance erano ormai vicine.
Mordraud alzò la spada e urlò nervosamente. Per scacciare quelle armonie urticanti e mostruosamente efficaci. Un altro lampo gli sfiorò una gamba, ma ormai
il bersaglio era a tiro. Non rallentò. La sua lama aprì un taglio sulla lucida armatura nera e d’oro, e si piantò nella spalla della Lancia. Con un pugno gli spaccò la
mascella di ferro e l’uomo stordito cadde a terra liberandogli la spada.
«MORTE ALLE LANCE! MORTE ALLE LANCE!» urlò al cielo cremisi.
Dalla foresta stavano arrivando altri compagni. Le linee vicine al bosco avevano
ceduto, lasciando spazio ai ribelli assiepati sul Terrapieno. Maglio stava guadagnando lenti passi misurati, falciando con il suo spadone tutto ciò che si azzardava a muoversi intorno a lui. Non rallentava, non perdeva il ritmo. Sembrava
che stesse forgiando qualcosa sull’incudine, compiva gli stessi movimenti ripetitivi e brutali. Pietà invece si era immerso nella folla e stava combattendo come
più preferiva. La tecnica del figlio di puttana. Colpi alle spalle, ai tendini e alla gola. Staffilate veloci che davano fin troppo l’idea di che lavoro Pietà svolgesse
prima di diventare un soldato di Eldain. Prima o poi avrebbero dovuto parlare
del suo passato, pensò rabbrividendo Mordraud.
La battaglia stava diventando una sola grande mischia confusa. Qualcosa era
andato storto nella strategia imperiale, pensò. Altrimenti non riusciva a spiegarsi
il modo approssimativo e stupido con cui avevano portato avanti un attacco già
vinto in partenza.
Le Lance, i pezzi pregiati dell’impero erano degli ossi veramente duri.
Mordraud combatteva senza regole, usando solo la forza bruta e la foga. Tutto
divenne molto più difficile. Le Lance non cedevano un passo al loro assalto.
«ALLE SPALLE!»
Mordraud sentì a malapena l’urlo di Berg, che era impegnato nel mucchio ben
più indietro di lui. Stava tenendo testa da solo a un gruppo che lo stava accerchiando. Digrignava i denti e ululava fuori di sé. Ogni volta che riusciva a stendere qualcuno, Berg trovava il tempo di ridere, come se trovasse la situazione
fottutamente divertente. Maglio lo liberò dalla stretta imperiale travolgendo
l’accerchiamento, e affiancandosi prontamente a lui. Pietà stava pensando alle
retrovie nemiche. Mordraud dovette distogliere lo sguardo da ciò che stava succedendo ai suoi amici. Si voltò giusto in tempo per vedere una Lancia scagliata al
galoppo contro di lui. Alzò disperatamente la spada e per un soffio riuscì a evitare il suo fendente. Dalla fessura dell’elmo nero brillavano due occhi azzurri e furenti.
245
***
Dunwich aveva raggiunto il cavaliere solitario che stava spargendo il panico fra
le Lance, ma il suo primo colpo non andò a segno. Un evento raro. Subito girò il
cavallo e spinse in avanti la spada mirando alla gola. Niente da fare. Il suo avversario era goffo e si difendeva senza eleganza, ma era anche dannatamente reattivo. Riusciva a mettere la spada in mezzo ai suoi colpi all’ultimo momento, quasi
per caso. Perse le prime occasioni, Dunwich dovette riallineare il cavallo, e gli
diede così il tempo per contrattaccare. Dunwich schivò il primo affondo sbilanciandosi sulla sella. Fermò il secondo fendente stringendo la spada a due mani,
dalla punta. Non si aspettava una forza tanto bestiale. Per poco non perse
l’equilibrio, e dovette inarcare pericolosamente la schiena indietro per sopportare
il colpo.
Mordraud approfittò del momento e tempestò il suo avversario picchiando
dall’alto in basso. L’urto alzava scintille bianche che si confondevano con l’aria
rossa della notte. Impegnato solo sul suo nemico, Mordraud non fece caso a
quello che gli stava succedendo intorno. Solo all’ultimo momento sentì la minacciosa chiusura di un canto solitario, e il sibilo del lampo d’energia. Una Lancia
bastarda lo aveva attaccato alle spalle. Il dardo lo centrò in pieno. L’aria che aveva nei polmoni si incendiò. Sentì i sensi abbandonarlo, e le gambe cedere la presa
sulla sella. Un puzzo di carne bruciata salì disgustosamente da dentro il suo naso,
e per poco non si vomitò addosso.
Mordraud vide la spada della Lancia con l’elmo in testa caricarsi a lato e schizzare verso di lui. Agì d’istinto, in preda all’istinto. Cambiò la presa sull’elsa e trapassò la testa del cavallo nemico alla base delle orecchie. L’animale tremò e
stramazzò in terra proprio nell’istante in cui la Lancia stava per spaccarlo a metà.
Il colpo non andò a segno, ma prese comunque il muso del suo cavallo.
Mordraud e Dunwich caddero a terra nello stesso preciso istante.
Ormai la mischia aveva raggiunto il bosco. Cavalieri, Lance, fanti e soldati ribelli si trovarono tutti contro tutti senza più una linea di confine, senza ordini
precisi e strategie. Dunwich cercò di rialzarsi ma aveva picchiato duro con una
gamba. La caviglia non voleva saperne di reggere il suo peso e quello
dell’armatura. Mordraud boccheggiava, con un filo di fumo verdognolo che si
alzava dalla sua schiena e gli usciva inquietante dalle narici. Il lampo di luce stava
divorando il cuoio dell’armatura. Orrendo, pensò impazzito dalla paura. Luce
che corrodeva la materia, generata solo dalla voce di un singolo uomo. Una morte impossibile da comprendere.
Per un lungo momento nessuno dei due attaccò. Dunwich riuscì a mettersi in
piedi e raggiunse zoppicando Mordraud. Entrambi con l’elmo in testa, non si riconobbero. Deciso a farla finita una volta per tutte, Dunwich prese la rincorsa
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saltellando su una gamba sola, roteò la spada e la calò con violenza. Mordraud
era in ginocchio, aveva gli occhi appannati e la visiera gli impediva di vedere bene, ma parò lo stesso il colpo. Dunwich non riuscì a ritrovare l’equilibrio con la
giusta rapidità, e per evitare la portata letale del braccio di Mordraud, si gettò indietro rotolando di spalle. Quando tentò di nuovo di rimettersi in piedi per provare un secondo assalto, la gamba lo tradì e lui perse il momento. Mordraud tentò la mossa disperata. Ribaltò la spada in mano, tirò indietro il braccio e la scagliò sbilanciandosi in avanti.
Dunwich osservò incredulo la lama roteare verso di lui.
Si spostò per evitarla, ma caricò troppo peso sulla gamba malridotta. Il piede
cedette. Dunwich si accasciò, prendendosi la spada in piena faccia. L’elmo si incrinò e la mascella di ferro saltò via. Una lunga scheggia d’acciaio gli sventrò la
guancia dalle labbra fin quasi alla tempia. Dunwich urlò impazzito dal dolore, e
cadde riverso di schiena stringendosi fra le mani la faccia devastata. L’elmo delle
Lance era un cartoccio di latta sventrata.
Mordraud sogghignò, ma la sua gioia durò poco. La vista divenne confusa, la
mischia intorno si scompose in una bruma di macchie grigie, e ogni rumore
sembrava ovattato, coperto da un pesante drappo di lana.
«Adraman! È arrivato Adraman!»
Fu l’ultima cosa che riuscì a sentire. La battaglia lo sommerse, i corpi dei soldati uccisi presero a cadergli addosso, schiacciandolo a terra. Fece giusto in tempo
a vedere una Lancia a cavallo afferrare il corpo del suo avversario sconfitto, caricarselo sulle spalle e fuggire dalla bolgia, prima di perdere conoscenza.
247
XVII
La pelle dell’Imperatore era tesa e rossa come il cristallo di un calice macchiato
di vino. Asaeld era convinto che, se si fosse soffermato con cura, avrebbe potuto
facilmente contare le vene, i muscoli, persino i suoi denti. Loralon abbaiava da
tempo interminabile, rimestando le mani fra le carte e scagliando ai quattro venti
i dadi colorati, le bandierine e tutte le cianfrusaglie con cui i generali segnavano i
progressi sul fronte. La sua voce ormai era ridotta a uno strillo isterico. Tutti, a
parte lui, si erano fatti piccoli sopra le loro ombre.
“Branco di codardi senza palle…” pensò Asaeld senza cambiare espressione.
«VOGLIO SAPERE COME ABBIAMO FATTO A PERDERE!»
Silenzio. Era stato già detto e ridetto. Vagliata, scandagliata, setacciata ogni responsabilità. Analizzata ogni mossa. Niente da fare. Nessuno voleva prendersi la
responsabilità. Anche perché nessuno sapeva veramente di chi fosse.
«Chi ha dato l’ordine di attaccare il Terrapieno frontalmente? Chi ha richiamato le Lance?! DOV’ERA LA CAVALLERIA?! DITEMELO!»
L’idea di assaltare centralmente la barriera era frutto solo in parte delle strategie impostate alla partenza. Era cambiato qualcosa in corso d’opera. Le Lance
erano state redistribuite ma nessuno osava dire chi fosse stato il primo ad avere
l’idea. Contro il Terrapieno, la cavalleria da sola era semplicemente inutile. Impossibile sperare di scavalcare la muraglia e proseguire a cavallo, sfruttando soltanto le passerelle. Si correva il rischio di aprire pericolose falle sulla linea a piedi.
Incredibilmente, qualcuno aveva anche tentato di farlo. Erano stati necessari
molti errori concatenati per arrivare a una sconfitta così epocale. E Adraman alle
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spalle aveva fatto il resto. Detto e ridetto. Mille volte. Loralon stava ancora
aspettando un colpevole. Nessuno voleva dargliene uno in pasto.
«E ADRAMAN?! VOGLIAMO PARLARE DI ADRAMAN?»
Anche su quel punto, il buio. Come i ribelli avessero scoperto il piano
dell’impero in tempo per approntare una contromossa. Le ipotesi erano state innumerevoli, tutte chiaramente inventate di sana pianta. Ma i generali avevano
caldamente convenuto che al suo arrivo con i rinforzi, la battaglia era già stata
persa.
Per i motivi già ampiamente discussi.
«Nessuno che si senta in dovere di prendersi la colpa, EH?! Tutti troppo bravi,
troppo scaltri per aver sbagliato, non è vero? IO VI FACCIO IMPICCARE!
CARNE PER I PORCI, ECCO COSA SIETE! VI FACCIO IMPICCARE PER
LE PALLE E VI LASCIO SECCARE AL VENTO!»
Loralon prese una manciata di dadi e tempestò i suoi consiglieri, i generali e i
comandanti di reparto. Le armature picchiettavano come sotto un pesante acquazzone. Asaeld vide arrivare il proiettile in tempo, e piegò la testa quel tanto
che bastava per non prenderlo in mezzo agli occhi. Le sue labbra si incresparono
in un lieve sorriso compiaciuto.
«Centoventi Lance morte! Centoventi per gli Dei, non ne sono morte così tante
in dieci anni di fila! Più di ottomila fanti! Nessuno sa quanti cavalli azzoppati,
sbudellati, dispersi! Gli uomini del Terrapieno hanno preso persino il controllo
delle retrovie, le tende, il cibo, l’oro, tutto! Siete scappati abbandonando un campo intero! ABBIAMO FATTO UN REGALO A ELDAIN! VOGLIO IL
COLPEVOLE!»
«Signore, l’alleanza ha subito perdite ingenti… e loro sono pochi rispetto…»
Il povero consigliere, un giovane brillante che era uscito dall’accademia militare
con voti ed elogi clamorosi, venne letteralmente sommerso da urla disarticolate e
dadi d’osso. Uno gli si piantò nell’occhio, e lui dovette restare in piedi e
sull’attenti con un’espressione ridicolmente grottesca in faccia.
«SONO IN POCHI?! E NOI SIAMO IN TANTI?! ECCO IL RISULTATO!
UN FOTTUTO DISASTRO!»
«Se Eldain pianificava di attaccare i nostri territori…» esclamò improvvisamente Asaeld con voce pacata e ferma «ora non lo farà, perché gli abbiamo fatto capire cosa può succedere se prova a mettere il becco fuori dai suoi territori.»
«E cosa dovrebbe succedere? Che perdiamo tutte le battaglie?!»
«No. Che a ogni passo che fa, lo attende un esercito che, senza il suo bel muretto di terra, lo può schiacciare come un insetto.»
Loralon era pronto a ribattere, ma la visione di Asaeld aveva aperto una breccia nel tetro velo della sconfitta.
«Quindi dici che ora l’alleanza ci teme più di prima?»
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«Non ho dubbi» rispose lui fermamente «ci hanno visto sacrificare ondate di
uomini senza battere ciglio. Loro questo lusso non possono permetterselo. Ci
penseranno due… anzi tre volte prima di fare un’altra mossa.»
«Non sapevo che Eldain volesse attaccarci…» mormorarono fra loro due generali vicino a lui. Asaeld li inchiodò con lo sguardo.
«Non è stata quindi una sconfitta così umiliante…» mormorò Loralon quasi
implorando. Senza le sue grida e le sue minacce, era tornato velocemente a essere
il solito Imperatore di sempre.
«Assolutamente no. Avete la mia parola di Lancia.»
«Se è così che stanno le cose…» borbottò, mentre la pelle del suo volto tornava pallida, cerulea e secca. «MA QUALCUNO PAGHERÀ! POTETE STARNE CERTI!»
Il consiglio si sciolse. Quando si ritrovarono fuori dalla grande sala del comando, e le porte furono ben chiuse alle loro spalle, tanti generali diedero una silenziosa pacca sulle spalle di Asaeld. Qualcuno invece se ne andò senza degnarlo di
uno sguardo, evitando persino di passargli vicino. Il comandante non prestò la
minima attenzione né agli adulatori, né ai suoi detrattori. Tutta quella serata non
era stata altro che una noiosa e inutile perdita di tempo.
Doveva parlare ancora con molte persone, quella notte. Di molti argomenti diversi, e assai più interessanti.
***
Lo scudo d’acciaio rifletteva impietoso la sua testa avvolta nelle larghe bende
di lino. Sulla guancia era già spuntata una macchia di sangue color ruggine, sebbene la fasciatura fosse nuova, chiusa alla perfezione. Non aveva ancora visto la
ferita. Poteva solo immaginarla, un sorriso slabbrato e senza denti aperto sulla
sua guancia sinistra.
Con la lingua sentiva il filo che il medico aveva usato per cucirgli la faccia. Anche se gli faceva un gran male, non riusciva a smetterla di tormentare la sutura.
Come un cane che si leccava le ferite, lui aveva l’orgoglio da placare. Era quasi
morto per mano di un soldato semplice. Un invasato solitario contro dieci Lance. Ma soprattutto contro di lui.
Un disastro. Un fallimento su tutta la linea. Le sue idee erano state tutte scartate, e le poche che aveva visto applicare erano state gestite molto male. Nel peggiore dei modi. E tutto per colpa di Loralon.
“Ci governa un incapace. Un malato di mente. Cambria contro i contadini,
l’impero contro i pezzenti. È impossibile… è un incubo!”
Si era svegliato su una branda in un angolo del tendone dei feriti, già medicato
e ricucito. Gli altri soldati non avevano avuto la sua fortuna. In tanti piangevano
250
e urlavano nell’inutile speranza che un medico venisse a dar loro un’occhiata. Altri restavano rigidi e immobili, con la pelle del volto bianca, azzurrognola, verde,
nera. Non ricordava quasi nulla di ciò che era successo dopo la fine della battaglia. La spada che vorticava verso di lui, la mischia che si stringeva intorno, la
terra puzzolente di ferro e sangue, il cavallo che lo aveva portato al sicuro. Poi, il
vuoto. Non aveva più visto Asaeld, neppure una Lancia qualunque. Aveva una
gran voglia di bere, magari insieme a una buona presa di tabacco. Ma più di ogni
altra cosa voleva scoprire come fosse stato possibile perdere una battaglia già
vinta.
«Capitano, dovete tornare a letto…»
La guaritrice che gli aveva cambiato le bende, una bella donna mora che seguiva esclusivamente i feriti di rango, lo prese per mano spingendolo dolcemente a
ritornare nel tendone.
«Non ho bisogno di riposare ancora» grugnì Dunwich senza articolare bene le
parole.
«Invece sì. Le erbe che vi ho dato calmano i dolori, ma vi rendono debole. Potreste svenire da un momento all’altro.»
«Non mi interessa. Devo vedere il comandante Asaeld, subito!»
La donna scosse il capo perentoria. «Allora manderò qualcuno a chiamarlo.
Ora voi siete sotto la mia custodia, e farete come dico io. Anche perché se qualcosa andasse storto, per me sarebbe la fine. La vostra vita è molto più preziosa di
quella di tutti gli altri.»
Dunwich tirò via stizzito la mano dalla sua presa, ma la seguì senza fare storie.
«Questo posto mi da i brividi» mormorò mentre varcavano le falde
dell’ingresso. «Non posso tornare nella mia tenda?»
«Non lo sapete?!» esclamò lei squadrandolo stupita. Era proprio una bella
donna. Dunwich si sentì ancora più a disagio. Com’era ridotta la sua faccia, si
chiese.
«I ribelli hanno preso tutto. Le retrovie dell’esercito non erano state piazzate
abbastanza lontano, e il loro capitano, Adraman, le ha conquistate attaccandole
alle spalle. Abbiamo perso praticamente tutto.»
«E dove siamo ora?!» ogni parola era una tortura, ma niente era paragonabile a
quell’ulteriore vergogna.
«In un campo intermedio, a metà strada fra il Terrapieno e Ansa dell’Hann. È
stata una settimana molto difficile, capitano.»
«Ho dormito per una settimana?»
«No, siamo stati noi a tenervi sedato. La vostra ferita era infetta. La febbre vi
stava per uccidere, e soffrivate troppo…»
«Non ricordo nulla…» mormorò Dunwich confuso.
«Meglio così. Come vi ho detto, è stata una gran brutta settimana.»
251
Lo accolsero le solite urla strazianti. Dunwich tornò a sedersi pesantemente
sulla sua branda e tirò la tendina che lo isolava dal resto della stanza. «La mia vita
vale di più…» bofonchiò cercando di non mordersi la carne molle e sfilacciata
della guancia. L’aveva pensato tante volte. Ma in quel momento non gli suonava
particolarmente bene.
«Te l’ho detto, sono sicuro… non posso aver sentito male.»
Un paio di soldati già medicati stavano parlando fra loro. Dunwich si sdraiò
con le braccia dietro la testa e tese l’orecchio. Ascoltò le loro chiacchiere per avere un po’ di compagnia.
«Non l’ho mai sentito nominare. Non è un generale alleato, allora… in molti
dicono che fosse Ghiaccio. Anche se io non credo. Per me era Berg. Quello è
una bestia.»
«No no, ero troppo vicino per aver capito male. Hai presente Gren? Era al mio
fianco. Gli ha tagliato via la testa in un colpo solo, e quasi prendeva anche me!
Berg era dietro di lui, distaccato dai nemici. Ne sono certo.»
«Non possono aver mandato alla guida dell’incursione un soldato semplice…»
«Ah, io non so chi fosse, ti dico solo che si chiamava Mordraud…»
Dunwich strappò via la tenda e schizzò in piedi. I due soldati quasi rotolarono
per terra dalla paura.
«Cosa avete detto?!» gridò mangiandosi le parole in modo ridicolo.
«Niente signore, stavo raccontando di Gren e…»
«COME SI CHIAMAVA QUEL RIBELLE?»
«M… Mordraud, signore…» balbettò il giovane. La sua faccia era più bianca
delle pezze di lino di Dunwich. Tutti sapevano che una Lancia importante era in
camera con loro, ma quei due non pensavano di avercela a un palmo dal naso.
«Mordraud? Sei sicuro?»
«Sì signore» rispose annuendo con estrema convinzione.
«E aveva un elmo senza cresta, di acciaio lucidato? Con la mentoniera corta?»
«Ecco… sono sicuro che non avesse un elmo quando l’ho visto io… capelli
neri tagliati da soldato, occhi chiari… ma niente elmo, signore.»
«A me sembra però che ne avesse uno legato alla cintura, sai?» si intromise
l’altro soldato, squadrando preoccupato la reazione di Dunwich.
«Mh…» fu tutto ciò che lui riuscì a dire. Tornò a sedersi sulla branda, tirò di
nuovo le tende e si chiuse nei suoi pensieri, senza più ascoltare una sola parola
dei soldati.
“Fratello… eri tu? Oppure no?” si chiese.
Dunwich sfiorò le bende insanguinate. Gli occhi fissi sui polpastrelli imbrattati
di rosso denso e scuro.
«No. Non eri tu, non devi essere tu…»
252
***
«LA MIA SPADA!»
Adraman entrò di corsa nel tendone chiamando subito a raccolta alcuni soldati
che erano lì intorno per portare un saluto ai feriti. Due medici piuttosto nerboruti stavano lottando disperatamente contro un ragazzo steso sopra una panca di
legno.
«CHI L’HA PRESA?! RIDATEMELA SUBITO!»
«Ci penso io ora. Ragazzi, datemi una mano, forza!»
Placare il ferito non fu un gioco da ragazzi. In quattro si piazzarono sopra di
lui, ma più spingevano, peggio andava. Adraman armeggiò con la cintura e sfilò
un fodero di pelle nuovo di zecca.
«Ce l’ho io, Mordraud. Sta’ tranquillo…» disse stropicciandogli i capelli corti.
Poi gli mollò un ceffone con tutta la forza che aveva. Mordraud sgranò gli occhi
e si fermò di colpo.
«Cosa succede?! Chi sono tutti questi? Ahi…»
Adraman si sedette al suo fianco e gli pose la spada sopra il petto. «A volte
succede, se si sviene in battaglia, di non rendersi conto che è finita… ti risvegli
da un’altra parte, e non capisci… ne ho visti tanti messi come te, ragazzo mio.»
«La battaglia… è finita? E abbiamo vinto?!»
«Sì, abbiamo vinto. Da non crederci vero?»
I soldati e i medici se ne andarono strofinandosi le braccia indolenzite per lo
sforzo. Mordraud sguainò la lama solo per controllare che fosse proprio la sua, e
tirò un sospiro di sollievo. «Non è il mio fodero» osservò dispiaciuto.
«Lo so, quello l’hai perso. Avevi l’elmo ridotto a un pugno di latta. Te l’ho dovuto sradicare dalla testa con una tenaglia, credevo che mi sarei ritrovato fra le
mani il tuo cervello! Però ti ha salvato la vita, e non so nemmeno come… quando ti ho trovato eri per terra, rannicchiato sulla spada, in mezzo a un letto di cadaveri. Una scena davvero terribile. Deve anche averti pestato un cavallo.»
«Ma io… non ricordo di aver recuperato la spada. L’ho lanciata, e poi…
poi…» Mordraud si alzò di scatto dal letto, ma si pentì subito di quella mossa.
Era ferito in decine di punti diversi, più o meno gravi. Tagli, contusioni, bruciature. Anche un morso sul polpaccio.
Un morso umano.
«L’ho ucciso, vero?! La Lancia è morta?»
«Di chi parli?! Io non ho visto nessuna Lancia vicino a te.»
«Sono sicuro di averlo preso, ma forse non è bastato…» sbuffò con rammarico. Per qualche strano e assurdo motivo era quasi contento di non aver fatto
fuori quella Lancia. Era stato un gran duello, proprio come quelli che sognava da
253
ragazzino. Lui, solo in mezzo ai nemici, che si giocava la vita contro il migliore. Il
campione.
«Che idiota che sono…» borbottò ributtandosi sulla panca.
«Perché?»
«Lascia stare. Piuttosto… com’è finita la battaglia? Raccontami!»
Adraman si mise comodo e gli spiegò come erano andate le cose. Quando il
suo battaglione aveva raggiunto il Terrapieno, la battaglia era già naufragata in
una mischia caotica e indistricabile. Per loro fortuna, le Lance rimaste erano tutte
concentrate dalla parte opposta, impegnate ad arretrare e abbandonare il campo.
Tutte le altre erano già andate via, e avevano lasciato solo fanti stanchi e cavalieri
allo sbando. La notte dei Fuochi aveva giocato in loro favore. A ogni passo
avanti i ribelli si erano sentiti galvanizzati, mentre i loro nemici avevano perso
sempre più la speranza di vincere facilmente e in fretta. L’impero aveva sbagliato
tutto, forse anche di più. Adraman aveva concluso l’opera nel migliore dei modi.
«Sono piombato sulle loro retrovie e le ho spazzate via. Poi abbiamo aggredito
il grosso delle forze, scompigliandoli con una carica dei miei ragazzi. Ma quello
che è incredibile… è che forse non saremmo neppure serviti. Ce l’avete fatta da
soli, e per gli Dei… che gran cosa avete fatto!» Adraman sorrise con slancio e
schioccò le dita compiaciuto. «L’impero ha commesso molti errori ma i suoi
uomini erano comunque in maggioranza schiacciante… Ghiaccio e Berg hanno
fatto un ottimo lavoro.»
Mordraud si morse un labbro per non interromperlo. Avrebbe voluto dirgli
che era stato lui ad avvisare tutti, ma di sicuro i comandanti si erano già presi tutto il merito.
«… e anche tu sei stato grande! Mi hanno detto tutto. Hai chiamato Ghiaccio,
ti sei messo là davanti e hai trascinato i tuoi compagni…» Mordraud annuiva a
occhi socchiusi, cullato dagli elogi. Un altro dei suoi sogni giovanili. La gloria sul
campo. Quella che suo padre non aveva mai ricevuto, anzi. Neppure l’aveva mai
sfiorata.
«… e li hai trascinati in un massacro!»
Mordraud non colse al volo il cambio di tono.
«Sì, è stato proprio un vero massacro! Dovevi vederci, li abbiamo tagliati a metà come un coltello caldo nel burro… una cosa…»
«UNA COSA IDIOTA!» gridò Adraman, e solo allora Mordraud si rese conto
del fatto che avevano idee ben diverse sul concetto di eroismo.
«Hai abbandonato i tuoi compagni, e costretto un gruppo dei miei migliori in
una mossa suicida! Potevate morire tutti, è stata una gran fortuna che quei senzapalle di Cambria fossero intimoriti dalla notte dei Fuochi! Senza poi contare
che hanno fatto un errore strategico dopo l’altro. Te ne rendi conto?!»
«Ma abbiamo vinto… anche tu hai detto che non te lo aspettavi… e Berg…»
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«Berg ti ha seguito, e l’ho già abbastanza rimproverato per questo. Ma tu, ragazzo…» Adraman gli prese le spalle, e lo guardò con un misto di compassione,
rabbia e paura «non devi mai più fare una manovra così stupida. Segui gli ordini,
resta al tuo posto, e fa’ quello che ti dicono di fare. Niente di più, almeno finché
non avrai un po’ di cervello dentro quella zucca vuota per guidare qualcuno di
persona. Fino a quel giorno… niente iniziative. È chiaro?!»
«Ma…»
«È CHIARO SOLDATO?»
«Sì… è chiaro…» mugugnò riluttante Mordraud «ma perché ci tieni tanto a
quello che ho fatto? Sono un soldato come tutti gli altri… e ne sono morti tanti
nella battaglia seguendo degli ordini…»
«Ti ho portato io qui» borbottò Adraman. «Sul Terrapieno non si combatteva
da mesi. Era il fronte più tranquillo e sicuro della regione… pensavo di fare la
cosa migliore. Per tutti.»
«Per tutti chi?!»
«Per tutti noi. E basta. Riposati ora, fra un paio di giorni te ne torni un po’ a
casa. Eldain vuole sapere come sono andate le cose.»
“Devo incontrare Eldain?!” pensò eccitato. Mordraud non stava già nella pelle.
Era la sua occasione per chiedere una mano per suo fratello. E che mano.
«Cosa devo dirgli? Come mi devo comportare?»
«Digli che abbiamo vinto, raccontagli come è andata, e avvertilo che abbiamo
anche materiale nuovo per i campi. Le retrovie dell’impero erano ricche e ben
fornite. Ah, dimenticavo…»
Adraman sciolse una saccoccia dalla cintura e gliela poggiò sul petto. «Abbiamo anche oro. Fior di conio. E questa… è la tua parte.»
«Ehi!» esclamò Mordraud con un grido strozzato, quando le monete scintillarono sulla sua mano. «Non ne ho mai viste tante in vita mia!»
«Anche se ti sei comportato come una bestia, te le sei meritate.»
«C’è una cosa che però ancora non ho capito…» chiese Mordraud giocherellando con uno Scudo di Cambria. L’Imperatore Loralon campeggiava su un lato,
con uno sguardo serio e importante che rendeva il saccheggio ancora più gradevole. «Come hai fatto a sapere dell’arrivo del nemico? Non puoi di certo averlo
visto e basta.»
«Questo lo dirò io personalmente a Eldain. Tu fai solo quello che ti ho ordinato… siamo intesi?»
«Intesi!» rispose Mordraud. L’oro, e il ritorno a casa, lo avevano reso di ottimo
umore. Le faccende dei generali in quel momento non gli interessavano. Aveva
altro per la testa.
Avrebbe rivisto Deanna. Al solo pensiero, rischiò di arrossire proprio davanti a
Adraman. Ma per sua fortuna riuscì a controllarsi. Solo quando lui uscì dal ten255
done, si lasciò prendere dall’euforia, ridendo a squarciagola e giocando con le sue
nuove monete. Sentiva dolore dappertutto, e alcune ferite sulle spalle erano proprio brutte. Tagli neri e purulenti che neppure ricordava come se li fosse procurati.
“È un miracolo essere sopravvissuti…” pensò, smorzando i toni
dell’entusiasmo.
“Ma ora, finalmente, sono in ballo. Dunwich, dove sei? Se lavori ancora per
Cambria… prima o poi ti troverò…”
***
«Allora, hai strigliato per bene il tuo ragazzo?»
Adraman si sedette sulla sedia di paglia intrecciata e chiese un bicchiere di vino
al servo delle cucine. Ghiaccio si era già servito, e stava sorseggiando un grosso
calice di distillato di vinaccia. Trasparente e pesantissimo. Perfettamente in regola con il suo stile algido.
«Non penso che abbia davvero capito cos’ha sbagliato.»
«Non avevo dubbi. Tu non l’hai visto, Adraman. Un trascinatore nato. Dovevi
sentirlo, quando si è messo a contare urlando a ogni nemico ucciso. L’hanno imitato tutti. Pure quel grezzo di Berg…»
«Già, proprio lui…» sbottò il cavaliere «solo Berg poteva seguirlo in una follia
suicida come quella di scendere dal Terrapieno.»
«Vedila diversamente. Se non l’avessero fatto, forse non avremmo vinto tanto
facilmente» esclamò Ghiaccio sorridendo sarcastico. «Dopo, immagina solo
quanti problemi avresti avuto con i rappresentanti degli alleati… che ti avevano
proposto di fortificarsi, e trattare… e tu invece sei partito per il Sud…»
«Ancora con questa storia?!» Adraman prese il bicchiere dal servo e lo tracannò
in un colpo. Prima ancora che il ragazzo si fosse allontanato, ne chiese subito un
altro. «È andato tutto bene, no? Io ho scelto solo la giusta via di mezzo.»
«Ehi, non ti sto accusando di nulla! Che hai, Adraman? Sembri ancora più cupo del solito… e ce ne vuole…»
«Niente, sono solo stanco.»
«Quel ragazzo, Mordraud… lo rispedisci a casa?»
«Perché me lo chiedi?!» chiese bruscamente Adraman. Ghiaccio sorrise compiaciuto, e glissò. «Lascia stare, non importa. Piuttosto, ora mi spieghi chi ti ha
passato la notizia dell’arrivo del nemico? Una vedetta? Una spia? O altro…»
«Niente da fare, vipera bianca. Prima devo parlarne con Eldain. Poi tu e gli altri
saprete tutto.»
«Va bene, va bene…» disse Ghiaccio con una scrollata di spalle. «Ero solo curioso, tutto qua.»
256
«Sarà meglio…» concluse Adraman «piuttosto, dove si è cacciato Berg?»
«Si starà ubriacando giù in fanteria… sono tre giorni che beve dalla mattina alla
sera. O magari è andato a baldracche, solo lui ha lo stomaco per quei relitti.»
«Mah… noi dobbiamo discutere di guerra, e lui si diverte a più non posso…»
«Rilassati, Adraman!» esclamò ridendo Ghiaccio. «Abbiamo vinto una battaglia
impossibile da vincere! Se solo Cambria fosse stata un minimo più organizzata,
ora saremmo tutti carne per corvi. Lascia divertire i ragazzi, se lo meritano.»
«Allora sono l’unico che non si diverte…» sbottò Adraman scolando l’ultimo
sorso di vino.
«Come sempre, vecchio mio» Ghiaccio toccò con il suo calice il bicchiere vuoto di Adraman.
«Come sempre.»
***
Quando Gwern aprì la porta, per poco non svenne. Un essere incappucciato e
irto di graffi rossastri era venuto a prenderlo nel cuore della notte, per portarlo
nel regno dei perduti. Si era addormentato poco dopo il tramonto, dato che quella sera non c’era stato lavoro in taverna. Larois dormiva da un pezzo, e lui aveva
un grosso libro da finire. Sernio gli aveva dato uno dei pezzi pregiati della sua
collezione. Storia di Cambria, un vero mattone. Infatti, nonostante lo trovasse assai interessante, si era addormentato come un sasso sulle pagine aperte.
«Che hai fratello? Non mi saluti? Ti sei dimenticato di me?»
«Mordraud!»
Gwern gli corse in braccio e per poco non volarono tutti e due per terra.
«Fai piano, ti prego! Sono tutto dolorante… molte ferite non si sono ancora
rimarginate per bene.»
«Sei vivo! Non ci credo!» esclamò Gwern. «Qualche giorno fa sono tornati i
primi reduci… hanno raccontato della battaglia sul Terrapieno, e che ci sono stati un mucchio di morti… Dei, ero preoccupato da morire!»
«Te l’avevo detto, no?!» Mordraud sollevò il fratello da terra scuotendolo in
aria. «Io non posso morire, fratellino. Nessuno può farmi fuori!»
«E tutti quei tagli? Te li sei fatti da solo?!»
«Bah… solo graffietti. Niente di che.»
«E i capelli?! Te li hanno tagliati! Sembri più giovane…»
«Ricresceranno» esclamò Mordraud. «Tornerà tutto come prima.»
I due fratelli si fissarono in silenzio, entrambi zittiti da un pensiero. Sarebbe
mai potuto tornare tutto com’era prima?
Esisteva un prima nella loro vita a cui voler tornare?
«Vieni, ti racconto tutto!»
257
Mordraud descrisse ogni momento della battaglia, saltando solo le parti più
crude. Suo fratello era troppo sensibile per sentire tutti i dettagli macabri. Alla
fine raccontò anche il duello con la Lancia, e si ritrovò a gridare dall’emozione.
Più ci pensava, meglio si sentiva.
«Ne ho uccise un paio, di quelle Lance… ma lui era il più forte di tutti. Te lo
assicuro!»
«Lo dici come se fosse stata tutta una passeggiata…»
«No, è che… non so come spiegartelo… è stato esaltante! Prima, una paura
fottuta… e poi più niente! Non mi sono mai sentito meglio, non mi tremava
neppure la mano!»
Mordraud non aveva mai parlato con il fratello di quel problema. L’aveva
sempre nascosto a tutti, ma Gwern annuì dimostrando di aver capito alla perfezione.
«E ora? Resti qui a Eld? Hai finito con la guerra?»
«Ma no! Ho solo iniziato, e pensa… domani mattina devo parlare con Eldain!
Mi hanno incaricato di portare la notizia ufficiale della vittoria, è un grande onore sai?»
«Ne sono felice…» rispose Gwern, ma senza molta convinzione.
«Ehi fratello, non devi preoccuparti…» Mordraud gli scompigliò i capelli e se
lo strinse al petto «guarda qui…»
Mordraud slegò la saccoccia dei soldi e la rovesciò sulla testa di Gwern, che
subito si gettò per raccogliere le monete trattenendo il fiato. «Ma sono tantissime… quaranta scudi d’oro…»
«Quaranta scudi, oppure duecento cavalieri. Quanti te ne servono?»
«Non penserai davvero di…» chiese Gwern con un filo di voce.
«Erano duemila i cavalieri d’oro che ti servivano, giusto? Bene allora, altre…
nove battaglie come questa, e siamo a posto!»
«Non posso! Sono troppi, e tu rischi la vita…» Gwern chiuse il sacchetto e lo
spinse nella tasca del mantello di Mordraud. «Non li voglio!»
«Gwern, che tu voglia o no, io in guerra ci torno. Lo capisci?! Smettila di fare il
bambino, e tieni questi soldi. Io non posso girare con tutto questo oro in tasca.»
«Sono sporchi di sangue…» mugolò Gwern rosso in volto.
«Anch’io sono sporco di sangue. Come tutte le monete di questo mondo, e
come tutti gli uomini. Solo tu sei ancora puro.»
Mordraud riprese la saccoccia e la spinse fra le sue mani. «Devo mandarti via il
prima possibile. Voglio che tu riesca a studiare, sei tu il genietto della famiglia. La
mamma lo diceva sempre…»
«Davvero?!»
258
«Sì, e diceva anche che eri il suo figlio preferito, perché eri tranquillo e sensibile. Lascia fare a me queste cose. I soldi non sono un problema. La guerra, neppure.»
«Mi prometti però che starai attento?»
«Te l’ho detto. Io non muoio, Gwern. E se proprio lo dovrò fare, mi dimenticherò di dover morire» ripeté Mordraud, ricordandosi della promessa che aveva
fatto a suo fratello la sera in cui si erano salutati prima della partenza.
«Detta così fa un po’ paura…»
«Ma è la verità. Ora torna a riposare, io devo presentarmi in caserma dal cancelliere.»
Mordraud uscì dalla stanza e si chiuse la porta alle spalle, non prima di un ultimo abbraccio e di una robusta strofinata di capelli.
«Passerò prima di ripartire, non preoccuparti! Salutami Larois!» gli disse mentre
era già in fondo alla via. La notte era serena e fredda, un anticipo di inverno in
pieno autunno. Gwern rientrò in casa, nascose le monete dentro un vaso di sale,
e si buttò sul letto. Non voleva più leggere. Tutto quel sangue, quei morti che
suo fratello aveva descritto gli avevano tolto la voglia di fantasticare.
***
«Il soldato Mordraud a rapporto, signore!»
«Fatelo entrare.»
Mordraud si inginocchiò davanti allo scranno storcendo la bocca per il dolore
alla schiena. Quindici giorni a cavallo non avevano fatto un gran bene all’ustione
che la risonanza in forma di luce gli aveva lasciato come ricordo.
«Alzati ragazzo, non c’è bisogno di tutta questa formalità.»
«Ai vostri ordini, signore.»
Eldain si alzò ridacchiando, e invitò Mordraud a prendere posto al tavolo del
consiglio. La sala era vuota e spoglia, come si confaceva allo stile di vita del capo
dei ribelli. Mordraud lo osservò rapito dalla sua imponenza, per nulla intaccata
dall’età e dalle fatiche. Eldain versò del vino in due calici di bronzo e si sedette
davanti a lui, in attesa del tanto agognato resoconto. Mordraud non si fece pregare e ripeté a memoria il discorso che si era preparato durante il viaggio, lo stesso che aveva fatto a Gwern per ripassarlo a dovere.
«Da come lo racconti, sembra che tu sia stato l’eroe della notte dei Fuochi…»
lo interruppe Eldain sorridendo. Mordraud non era di certo un abile oratore.
Non aveva neppure pensato a quanto potesse essere sconveniente raccontare la
sua folle corsa giù dal Terrapieno, o del suo personale duello con la Lancia.
L’aveva fatto lasciandosi trasportare dall’emozione, gesticolando come un pazzo.
«No, ecco signore… scusatemi, mi ero fatto prendere dal discorso…»
259
«Tranquillo, sapevo già tutto. Le voci sono arrivate al feudo prima di te.
Mordraud, la bestia. Mordraud della notte dei Fuochi… hai già molti soprannomi ragazzo, lo sai?»
«Non me li merito…»
«Non credi neanche tu a quello che dici, non è vero?» Eldain rise di gusto. «Mi
ricordi la mia giovinezza. Anch’io avevo un soprannome. Il boia dell’Est, sai? E
per il tuo stesso motivo. Ammazzavo Lance. Ero piuttosto bravo.»
«Non ne dubito, signore.»
Mordraud si sentiva in straordinaria soggezione di fronte a Eldain. Se lo era
immaginato in tanti modi, severo, inflessibile, anche crudele. Era così che un capo doveva essere, aveva sempre creduto. E invece, Eldain si stava dimostrando
assai diverso, addirittura gentile con un soldato semplice come lui.
Ma quegli occhi, chiari come pozze di acqua ghiacciata, erano pronti a mostrare tutto il contrario. Era lo sguardo di un uomo senza pietà.
«Se Adraman ti ha scelto per fare rapporto, vuol dire che ripone in te grande
fiducia. Lo sai questo?»
Mordraud annuì, senza però capire dove Eldain volesse andare a parare. «Ti sei
dimostrato coraggioso e motivato, figliolo. Hai combattuto molto bene, e se
continui così, farai strada. Ma non devi mai perdere di vista gli ordini, hai capito?
Fidati di chi questa guerra, come me e Adraman, la combatte da tanti anni.»
«Posso permettermi di farvi una domanda?» chiese Mordraud improvvisamente.
«Certo. Chiedi pure.»
«Perché non… come posso dire…»
«Dillo con parole tue» disse Eldain «non ti preoccupare.»
«Ecco, mi chiedevo come mai… quale fosse il motivo per cui… insomma,
perché non scendete in campo alla guida del vostro esercito? Gli uomini vi seguirebbero ovunque…»
Mordraud si aspettava un sonoro rimprovero per la sua sfrontatezza, e invece
Eldain non disse nulla. Sospirando, preparò una semplice pipa di legno e una
presa di tabacco nero, molto forte, e cercò per un momento le parole giuste.
«Sai ragazzo perché non ho una moglie, e dei figli?»
«No signore, ma io non volevo insinuare nulla…»
«Lo so, tranquillo. Però voglio spiegartelo. Sei giovane, e certe cose non puoi
saperle, non eri neppure nato quando sono successe.»
«Allora, io mi sono sposato a venticinque anni, poco dopo aver preso in mano
la guerra che mio padre Elder aveva iniziato con Cambria. All’epoca erano poco
più che scaramucce, come del resto sono rimaste per anni prima che Loralon
cambiasse strategia… ma questo è un altro discorso. Dicevo…»
«Stavate parlando di vostra moglie» disse Mordraud.
260
«Bene. Abbiamo avuto un figlio, un bell’ometto moro e con gli occhi di sua
madre, scuri e profondi. Gli diedi il nome di suo nonno… Elder, mio padre…
che era morto poche settimane prima della sua nascita. In quegli anni seguivo
spesso le truppe nei primi confini del fronte, e imparavo il mestiere di generale
da chi aveva servito fedelmente mio padre. Poi, quando arrivava la primavera,
passavo un mese nella tenuta di famiglia sulla costa del mare dell’Est, perché a
Rania piaceva il mare, e l’odore della sabbia calda… ma sto divagando. Vuoi un
altro sorso di vino?»
«No, grazie…» Mordraud voleva conoscere la fine della storia «andate avanti,
vi prego.»
«Un anno, l’impero divenne particolarmente aggressivo. Minacciava il fronte a
Nord in zona Cambrinn e quello a Sud, dove ora stiamo combattendo per tenere
la Lama dell’Hann, ed è proprio in quest’ultimo che Adraman ha mosso i primi
passi come soldato. Anche lui è sempre stato un ottimo guerriero. Ma stavo dicendo: arrivò l’ennesima primavera, e insieme alla mia famiglia me ne andai verso
la costa. Ero giovane e troppo imprudente. Avrei dovuto annusare che era l’anno
sbagliato per fare una mossa simile.»
«E cosa successe?» chiese ansiosamente Mordraud.
«Cambria aveva studiato le mie abitudini. Ci fu un agguato lungo la strada maestra. Erano in tanti, e io avevo solo la mia guardia personale. Cercai di fermarli,
ma non ne fui capace. Mi catturarono per portarmi in ceppi alla capitale, non
prima però di aver ucciso mia moglie e mio figlio davanti ai miei occhi.»
Eldain aveva la stessa identica espressione di uno che raccontava una vecchia
goliardata. La sua voce non tremò un istante, e i suoi occhi restarono piantati in
quelli di Mordraud.
«Prima Rania, poi Elder. Lei con la testa sfracellata contro il terreno mentre la
violentavano. Lui dissanguato, con le budella fuori dalla pancia.»
Mordraud era sbiancato e non era più capace di respirare. Eldain prese una
boccata, sbuffò il fumo in alto sopra le loro teste, e continuò perfettamente a suo
agio.
«La notte dopo ho staccato a morsi la faccia del mio carceriere. Mi sono liberato, e ne ho fatti fuori… mh, non ti so dire quanti, ho perso il conto allora, figurati adesso. Da quel giorno non esco più da Eld, se non per motivi gravi. Non mi
sono mai risposato, e non guido i miei uomini in battaglia. Sono un pericolo per
loro, capisci perché?»
«Direi… per evitare che Cambria si accanisca solo dove voi decidete di piazzarvi per guidare l’esercito» rispose con voce incerta Mordraud. «Se voi foste stato sul Terrapieno, l’impero non avrebbe smesso giorno e notte di attaccare, o di
mandare assassini per farvi fuori.»
«Esatto. Bravo, ragazzo.»
261
«Non so cosa dire…»
«Allora non dire niente. Quello che mi accadde all’epoca fu orribile, così come
fu tremenda la mia vendetta. Tuttora, come vedi, la perseguo… ma non c’è nulla
di eroico, di giusto in una guerra. Si muovono per denaro o per vendetta, nel mio
caso, la seconda… L’unica speranza è che gli ideali non ne escano infangati, corrotti.»
Mordraud stava annuendo con fare spaesato. Eldain sorrise divertito.
«Ti stai chiedendo di quali ideali io stia parlando?»
«Ecco…»
«Immaginavo» continuò Eldain. «Sei giovane, la guerra era già iniziata prima
che tu nascessi. Non puoi sapere quanto le terre dell’Est temano Cambria. Vedi,
questa grande regione che io cerco di proteggere, non è mai stata conquistata da
nessuno. Per quante volte, nei secoli, Cambria abbia tentato, noi siamo sempre
riusciti a mantenere la nostra indipendenza. Non intendiamo cedere ora… sarebbe un’onta insopportabile, sfigurare agli occhi della storia della nostra gente.»
«Temo di non capire veramente…» azzardò Mordraud.
«Non ti preoccupare, invecchiando capirai alla perfezione» rispose il nobile
stringendogli il braccio in una morsa decisa.
«Torniamo a noi, però. Dato che fioccano già le prime leggende su di te, ti
chiedo uno scambio.»
«E cioè?!»
«Se hai bisogno di qualcosa, chiedimelo e vedrò se posso accontentarti. In
cambio, mi devi raccontare di nuovo la carica che tu e Berg avete fatto in mezzo
all’esercito di Cambria. Il vecchio orso e la giovane bestia. Scusa se rido, ma
dev’essere stata una scena alquanto surreale.»
«Posso raccontarvela anche cento volte, se me lo chiedete.»
«No, preferisco una volta sola, ma fatta per bene. E dietro adeguato compenso. Cosa vuoi?»
Mordraud non perse tempo a pensare. Sapeva già cosa chiedere.
«Mio fratello vorrebbe studiare. Sa di questo tizio, Saiden…» per la tensione,
Mordraud riprese a gesticolare mentre parlava in modo sgangherato. «Non è a
Cambria eh! Non è un nemico. Ma per studiare insieme a lui chiede… una lettera
di raccomandazione. Magari, se voi poteste scrivere due righe…»
Mordraud non nominò anche il denaro necessario. A quello voleva pensarci da
solo, sarebbe stato umiliante elemosinare oro destinato alla causa di Eldain.
«Conosco Saiden» disse Eldain annuendo lentamente. «Non bene, ma l’ho incontrato un paio di volte. È un tipo indecifrabile. Viene da una famiglia di cantori di Cambria, anche se lui non ha mai vissuto laggiù. Negli ultimi anni passa
spesso da qui. Viene a comprare scorte di cibo, si ferma anche per chiedere come va la guerra. Sembra non essere particolarmente amico di Cambria, ma
262
nemmeno un nostro diretto sostenitore. Non si schiera mai con nessuno, ma soprattutto… so già di qualche nobile che ha tentato di mandargli un figlio come
allievo. Cosa chiede, molti soldi?»
«Quelli non sono un problema» rispose Mordraud con piglio sicuro. «Mi serve
solo un foglio di accompagnamento.»
«Sei un ragazzo orgoglioso, eh?! Va bene, vada per la lettera. Te la preparo subito. Ma ora tocca a te… raccontami di nuovo tutto, per filo e per segno. E non
tralasciare i particolari, sono la parte più bella delle storie.»
Eldain scelse una pergamena pulita, un calamaio, e iniziò a scrivere. Mordraud
prese un respiro e ricominciò da capo il racconto della battaglia. Ma per quanto
avesse aspettato di poter finalmente raccontare tutti i dettagli, ogni singolo uomo
ucciso con le sue mani, i feriti, i denti saltati, le braccia spezzate… non riusciva a
farlo. Risaltare agli occhi di Eldain era stato fino a quel momento il suo unico
obiettivo. Ma le parole del vecchio nobile avevano mandato in fumo tutte le sue
velleità di grande soldato coraggioso e imbattibile.
***
Non aveva più libri da leggere. I racconti, le storie e le fiabe che aveva consumato a furia di sfogliarle avevano perso tutto il loro fascino. Solo Mordraud era
stato in grado di risvegliarlo, leggendo per lei nei lunghi giorni sempre uguali. E
ora che non era più in casa, sempre pronto a raggiungerla a ogni suo nuovo capriccio, la realtà aveva perso l’essenza. Il pane era più secco. Il vino, più annacquato. L’aria, i libri, i sogni, tutto. Il mondo era diventato opaco. La luce si era
affievolita.
Adraman era stato un buon appiglio, finché era durato. Per riuscire a provare
qualcosa per lui, Deanna conosceva solo un metodo. Litigare con tutta la rabbia
che aveva in corpo. Svuotarsi. E solo allora, lasciarsi andare senza più forze a
quello che la vita aveva imbastito per lei. Doveva sconfiggere il suo orgoglio,
fiaccarlo, sopprimerlo, prima di poter sopportare anche solo una sua carezza.
Fantasticare su Mordraud rendeva le cose un po’ più semplici. Ma non era più
sufficiente.
Era una di quelle notti in cui sapeva che il sonno non sarebbe mai arrivato. Un
raro momento di lucidità in mezzo a una continua sequenza di giorni annebbiati.
Deanna sapeva che gran parte delle sue sofferenze erano create dalla sua mente.
La sua vita era straordinariamente migliore di tutte le donne di Eld. Un marito
gentile e premuroso. Una bella villa. Soldi, più di quelli che desiderava.
Ma.
Tutto il suo atroce problema era condensato in tanti ma.
263
“Ho un buon marito. Ma non è mai a casa, e rischia di morire ogni giorno. Ma
è vecchio. Ma non è l’uomo passionale che ho sempre sognato.”
“Ho una bella casa, ma è vuota, senza nervo. Non è la mia. Non mi appartiene.”
“Ho soldi e comodità, ma non so che farmene. La mia famiglia non mi ha fatto
mancare niente, ma mi ha abbandonata in questo feudo pulcioso.”
Avrebbe potuto continuare per ore, ma quella era una delle rare notti in cui
riusciva finalmente a vedere le cose con un occhio lievemente distaccato, senza
perdere la testa. Mordraud se n’era andato, come era giusto che fosse. Un ragazzino, un trovatello figlio della guerra. Non era nient’altro. Un passatempo a cui si
era aggrappata troppo a lungo. Purtroppo per lei, quel passatempo era cresciuto
fino a diventare pericolosamente attraente. Ma poteva superarlo, una notte dopo
l’altra.
Sprazzi di lucidità alla deriva in un mare inquieto e sfocato.
“Quando Adraman tornerà a casa, la prossima volta, gli dirò tutto. Posso farcela” disse fra sé, sfogliando distrattamente le pagine del libro che un tempo era
stato il suo favorito, I canti lontani dell’orizzonte. Mordraud era bravissimo a recitarlo.
“Gli parlerò, e lo convincerò a restare a casa con me. A non partire più. Devo
recuperare il tempo perduto. Sì… posso farcela.”
“Ho ancora una speranza…”
***
Era una notte troppo lunga per essere persa fra le lenzuola. L’aria era ancora
densa degli odori del campo di battaglia, rievocati e rivissuti insieme a Eldain nella grande sala del comando. Non si era mai sentito tanto stupido, vanaglorioso,
infantile. Erano bastate due parole del vecchio nobile, il suo sguardo, l’esperienza
e la saggezza che trasudavano da ogni ruga del suo volto, per farlo sentire piccolo e gretto. Come aveva potuto eccitarsi all’idea di raccontare con orgoglio come
e quante persone avesse ucciso in un solo giorno? Perché l’aveva trovato divertente? Cosa aveva sbagliato?
Mordraud vagava per il feudo mosso da desideri contrastanti. I suoi piedi spingevano in una sola direzione. La testa, invece, lottava per trascinarlo finalmente a
letto, desiderosa di un meritato riposo. Una fatica inutile. Alla fine, tutte le strade
del feudo lo avrebbero comunque portato lì davanti, a un passo dalla porta che
sapeva già di trovare aperta. Adrina non chiudeva mai l’ingresso delle cucine. E
lui aveva ancora in tasca la chiave del cancello sul retro, l’unica che aveva portato
con sé.
264
La casa era immersa nel silenzio. Non sapeva cosa sperava di trovare a
quell’ora. Non avrebbe avuto il coraggio di varcare la soglia in pieno giorno, ma
di notte tutto era diverso.
Il piatto coperto era ancora sopra la stufa spenta. Si vedevano le briciole di pane sparse intorno, segno che la vecchia tradizione veniva ancora rispettata.
Mordraud entrò nel salone e raggiunse le scale. In cima, al piano di sopra, la luce
tremolante di una candela disegnava il profilo di una porta. La stanza dei libri. Il
salotto di Deanna.
La maniglia si abbassò cigolando lievemente. Era ancora sveglia, china su un
romanzo che lui le aveva letto tante volte. Uno dei loro preferiti. Mordraud si
sentì il peggiore dei ladri.
«Deanna…»
Lei sussultò con un urlo strozzato, e si voltò di scatto. Vide solo una macchia
scura stagliata fra le ombre. Mordraud entrò e si chiuse la porta alle spalle.
«Volevo vederti prima di partire.»
«Tu…»
Era bella. Maledettamente bella. Molto più che nei suoi ricordi, immensamente
meglio che nelle sue fantasie. La candela sprigionava bagliori rossi che le tingevano le guance e gli occhi di piccoli fuochi tremuli. I suoi capelli neri erano
l’essenza del fuoco. Fragile. Come porcellana. Mordraud si chinò su di lei, e prima di qualsiasi altra cosa al mondo, la baciò.
“Rifiutami, ti prego. Cacciami via.”
«Sei un bastardo.»
Deanna allontanò il volto, ma solo per un momento. Giusto il tempo di guardarlo negli occhi. Per vedere il bambino divenuto uomo. Per fargli capire quanto
lui l’avesse fatta stare male. Mordraud accusò il colpo, ma non si fermò.
“Cacciami!” pensò rabbiosamente.
«Mi hai abbandonata» mormorò lei senza smettere di baciarlo. «Sei andato
via…»
Mordraud la strappò dalla sedia. Le sue gambe nude intorno ai fianchi. Il seno
che premeva sul suo petto. Riusciva a tenerla su senza alcuna fatica. Il suo corpo
era cresciuto a una velocità inumana. Ma la testa era la stessa di quando era partito per la guerra.
«Sei ferito… potevi morire. Mi hai lasciato da sola…»
Mordraud la spinse contro il muro, fra la finestra dove si erano seduti a leggere
tante volte e il balconcino che si affacciava sul cortile. La sua mano scivolò sotto
il vestito blu su cui aveva fantasticato troppe notti.
«Sei uno schifoso bastardo, Mordraud.»
265
Lei lo baciò con forza dolorosa. Unghie rapaci affondarono nei tagli che correvano sul suo collo e sulle guance. Voleva riaprirgli le ferite, sentire il sangue fra
le dita, sbranarlo. Voleva distruggerlo. E Mordraud era pronto ad accettarlo.
Aveva combattuto. Rischiato la vita. Ucciso uomini innocenti e colpevoli. Ripensò alla moglie di Eldain, a suo figlio. A come lui aveva perso tutto. Sì, aveva
ragione Deanna. Era un bastardo. Ma quella notte non sarebbe svanita come tutte le altre. Voleva andare fino in fondo. E toccarlo, per poi risalire più forte di
prima.
“Fermami, ti prego…”
Le mani di Deanna cercarono la sua cintura. Le sue gambe lisce lo avvolgevano in un abbraccio rovente. Mordraud la afferrò ai fianchi e spinse, prima titubante, poi sempre più forte. Lei gemeva a un soffio dalla sua bocca. I loro occhi
non si persero un istante. Deanna guidava, muovendosi al suo ritmo. Lui non
sapeva cosa stesse facendo. Lo stava imparando a ogni nuovo affondo. Il piacere
fu una staffilata brutale. Mordraud la schiantò contro la parete quando venne,
aggrappandosi a lei per non affondare. La fiamma della candela vibrò e si spense.
«Non andare via…»
Nel buio si guardarono per un lungo momento. L’odore della pelle di Deanna.
Floreale e dolce, di qualcosa rimasto troppo chiuso dentro una scatola troppo
piccola. “Rimango qui” pensò Mordraud. “Resto con lei, e basta.”
Ma il fondo era stato toccato. L’attimo dopo, lui era già uscito dalla stanza.
Aveva combattuto. Rischiato la vita. Ucciso uomini colpevoli e innocenti.
Aveva ammazzato lo Sconosciuto. Aveva ammazzato suo padre.
E ora, aveva tradito un amico.
***
Il campo era rimasto tale e quale dal giorno della sua partenza. Un mese o poco più, ma sembrava passata una mattina. I feriti lievi si erano ripresi. Quelli gravi erano morti. Nuove leve erano giunte da ogni angolo della regione, spinte dal
moto d’orgoglio e di patriottismo che la battaglia della notte dei Fuochi aveva
risvegliato nella gente comune. Cambria non aveva più attaccato, né lì, né in nessun altro punto del fronte. L’inverno sarebbe arrivato presto, suggellando per
sempre quell’anno, il 1635, come uno dei migliori di sempre per l’alleanza
dell’Est.
Adraman era seduto sul Terrapieno, impegnato a dare ordini ai manovali che
stavano rafforzando la muraglia dove l’attacco dell’impero era stato più duro. Il
cielo era tinto dei colori del tramonto. Mordraud prese posto al suo fianco e distese le gambe giù dal Terrapieno. L’aria era fredda e pungente, senza odori.
«Tutto bene a casa?»
266
«Sì, il popolo ha festeggiato per giorni dopo che è arrivata la notizia della vittoria.»
Adraman estrasse da un astuccio di cuoio due pipe identiche. Semplici e dritte,
senza decori, intagliate in un legno scuro e liscio.
«Vuoi fumare?»
Mordraud non aveva mai provato. Prese la pipa, e imitò goffamente il cavaliere
nella delicata arte di caricare il braciere. «Mio padre mi ha insegnato a pressare il
tabacco, né troppo forte, né troppo piano. Usa l’indice, e se non riesci, il mignolo. Bravo, così…» Adraman lo osservò con la pipa fra le mani. Era allo stesso
tempo un ragazzo e un uomo. Un velo di barba nuova che non si decideva a crescere, la pelle liscia e brunita dal sole.
Poteva essere scambiato per un coetaneo di Deanna, pensò chiedendosi come
fosse possibile.
Con un gesto sicuro, Adraman schioccò l’acciarino e accese i primi fili di tabacco. Mordraud fece lo stesso, ma dovette tentare diverse volte prima di riuscirci. Quando il camino divenne ardente, sbuffarono insieme la prima boccata
di fumo bianco.
«Ha un buon sapore…» sussurrò Mordraud, tradito da un colpo di tosse «ma è
molto forte.»
«Questo è un tabacco da sera. Ti sembra forte perché non ci sei abituato. È
aromatizzato con qualche scaglia d’arancia, e uno spruzzo di liquore al malto.
L’ho preparato io.»
Adraman sembrava sereno, molto più del solito. Mordraud si era chiesto infinite volte se dovesse dirgli la verità, ma non era mai riuscito a convincersi completamente. Il tramonto era piacevole, fumare e guardare i lavori sul Terrapieno era
piacevole. Non se la sentiva di rovinare tutto. Non voleva perdere Adraman
prima ancora di averlo conosciuto.
«Non avevo mai fumato la pipa, prima d’ora.»
«Ti piace?»
«Sì. Mi piace molto.»
Adraman restò in silenzio a lungo, godendosi il sapore pieno del tabacco.
Mordraud invece dovette riaccenderla. Tirava a volte troppo, a volte poco.
«Imparerai. Non è così semplice, anche se può sembrarlo. Non c’è niente di
semplice al mondo. Neppure fumare.»
«Allora devi farmi vedere come si prepara il tabacco.»
«Infatti.»
Il braciere divenne nero, poi lentamente si spense. Mordraud guardò la pipa
senza sapere cosa fare, e la allungò a Adraman, che però scosse la testa e non la
prese. «Te la regalo. Come vedi ne ho due uguali.»
Il cavaliere lo aiutò a pulirla, battendola tre singole volte sul tacco dello stivale.
267
«Posso chiederti un favore?»
«Dimmi pure.»
«Ti ho detto che ho un fratello, vero?»
Mordraud spiegò cosa aveva in mente. Adraman ascoltò l’idea di Mordraud
annuendo, e ogni tanto prendeva una boccata di fumo assaporandolo lentamente.
«Se è come dici, non penso sia un grosso problema» concluse lui. «Hai il mio
appoggio. In fondo, non parliamo di molto denaro. Ah, quasi dimenticavo… volevo già chiedertelo l’altro giorno… ti trovi bene con la spada che ti ho lasciato?»
«Oh sì…» rispose Mordraud.
«Magnificamente.»
268
XVIII
«E così, voi sareste il famoso signor Saiden.»
Larois squadrò l’uomo prima di farlo entrare. Capelli neri tenuti molto corti,
occhi nocciola, un bel fisico. Portava una casacca azzurrina, piuttosto eccentrica.
Nel complesso però, Saiden le fece subito una buona impressione. Un moto involontario di fiducia. Sernio era con lui e stava aspettando che Larois li facesse
entrare. Gwern era seduto al tavolo della cucina e fremeva nervosamente sulla
sedia.
«Prego, venite…»
Saiden si accomodò di fronte a Gwern. Larois portò in tavola qualche fetta di
pane e formaggio, un fiaschetto di vino e un vassoio di sottaceti. Sernio prese
per primo. Gli altri erano troppo impegnati a fissarsi per mangiare. Saiden ruppe
l’imbarazzo chiedendo la cortesia di un bicchier d’acqua.
«Gwern parla di continuo di voi, anche se da quanto mi ha detto, non vi siete
mai conosciuti…»
«Sernio ha parlato molto bene di me, a quanto pare» rispose lui con un cenno
di ringraziamento verso il vecchio libraio.
«Mi ha detto anche che voi siete un… cantore.»
«Diciamo che sono un appassionato di armonia. Ho avuto la fortuna di insegnarne i segreti per tanti anni, e con profitto, a Calhann.»
«Come suo nonno Saite, Larois…» si intromise Sernio. «Un eminente personalità di Cambria, molto rispettato…»
Larois era stata più che informata sulla rispettabilità di Saiden. Gwern non parlava di altro, da quando Sernio gli aveva abbozzato l’idea. Studiare da un impor269
tante ricercatore di armonie. Un’opportunità eccezionale, a detta sua e di Gwern.
Lei non era affatto convinta, almeno non fino a quel giorno. Non gli sembrava
una buona idea. Mandare Gwern da solo con uno sconosciuto, lontano da casa.
Ma ora che aveva l’opportunità di conoscere Saiden, alla fine dovette accettare il
fatto che sembrava proprio un’ottima persona. Un po’ bizzarro, con quella casacca azzurra e i capelli così lucidi. Ma forse era davvero un’occasione d’oro per
Gwern. Non sapeva cosa decidere.
«Ma cosa gli insegnereste?»
«Storia, scienze della natura» rispose pacatamente Saiden. «Ovviamente, anche
armonia e canto. Prevalentemente musica, direi.»
«E cosa dovrebbe farsene nella vita? Con la musica si riesce a mangiare?»
Sernio borbottò sconvolto, Gwern si irrigidì. Saiden scoppiò a ridere e annuì
sghignazzando. «Non avete tutti i torti, signora. Per chi non conosce l’ambiente,
lo studio dell’armonia può sembrare una perdita di tempo. Ma dovete credermi,
quando vi dico che ci sono ottime opportunità per un bravo cantore. Nelle grandi città sono molto richiesti.»
«E quanto starebbe via?»
«Due, forse tre anni.»
«Potrà tornare anche a casa, suppongo…» abbozzò lei, ma Saiden cortesemente negò. «Durante il periodo di studi, è importante che l’impegno rimanga costante, e che le distrazioni siano evitate il più possibile.»
Gwern fece per intervenire, ma Sernio lo fermò con una mano sulla spalla.
«Larois, stiamo parlando di un paio d’anni, è un periodo normalissimo… a Cambria, le accademie durano molto di più e le famiglie delle altre città fanno follie
per iscrivere i propri figli… inoltre, ricordati che Eldain in persona si è impegnato perché Gwern avesse questa opportunità. Ha anche scritto una raccomandazione personale.»
«Molto apprezzata, fra l’altro» disse Saiden.
«Lo so, ma mi sembra tutto così strano… cosa servirà mai imparare a cantare?
Io so solo che l’impero usa i cori in battaglia. Non mi piace molto l’idea che
Gwern possa diventare un soldato.»
«Assolutamente giusto» rispose Saiden. «Vorrei però dire che io non ho mai, e
dico mai, educato un cantore affinché potesse diventare uno strumento di guerra.
Non sono mai tornato a vivere a Cambria anche e soprattutto per questo motivo. A Calhann, dove ho vissuto per tanti anni, i miei ragazzi sono stati assunti
come consiglieri per importanti mercanti, alcuni sono diventati funzionari di governo. Altri guadagnano parecchio esibendosi in teatro. Un bravo cantore avrà
sempre l’imbarazzo della scelta, ve lo assicuro.»
«E poi Larois, può anche essere che Gwern faccia profitto di altro… potrebbe
interessarsi di storia e diventare un tutore privato, oppure potrebbe far parte di
270
una scuola di armonia come l’Arcana» concluse Sernio. Gwern, senza rendersene
conto, stava annuendo silenziosamente a ogni parola. Eccitatissimo, saltellava
sulla sedia come se scottasse.
«Costa decisamente troppo.»
Su quel punto, nessuno dei due ebbe qualcosa da dire. Gwern arrossì travolto
da un fastidioso senso di colpa. Mordraud aveva promesso che avrebbe fatto il
possibile per aiutarlo. Ma rischiava la vita, per farlo. Sernio non aveva nulla. Larois nemmeno. Era un egoista, si disse. Un approfittatore.
Mordraud si sarebbe arrabbiato da morire se lo avesse sentito dire così, pensò.
«Capisco che vi possa stupire, ma considerate che provvederò al suo benessere
per almeno due anni…» rispose Saiden «possiamo anche decidere di suddividere
il pagamento in parti più piccole. Ma soprattutto, signora… Sernio mi ha anche
accennato a una sorta di disagio fisico del piccolo, io potrei aiutarlo. Sono un
esperto di pratiche curative attraverso l’armonia.»
Saiden sorrise, quando vide Larois cambiare repentinamente espressione. Il discorso si era portato su piani che le interessavano ben di più che lo studio del
canto. Gwern riprese ad annuire sconsideratamente. Larois gli accarezzò i capelli
e sospirò preoccupata. «Questa è una magnifica notizia…» disse con una punta
di commozione nella voce.
«L’aspetterò con gioia a casa mia, nel caso prendiate la decisione che mi auguro» mormorò Saiden.
Presi dalla tensione del momento, nessuno si era accorto di quanto spesso lui
fissasse Gwern. E di come gli osservasse il petto, esattamente al centro dello
sterno.
Come se stesse ammirando il pendaglio di un ciondolo.
***
Dunwich era seduto sulla sua poltrona preferita al centro del grande salotto
della sua villa. Stava sorseggiando un denso liquore alle erbe amare. Bianchi anelli
di fumo si alzavano dalla preziosa pipa ricamata d’argento che ritmicamente si
portava alle labbra. La notte era immersa in un silenzio adatto per riflettere, interrotto solo dal crepitio delle braci infuocate. Nessuna luce era accesa nella
stanza. La mente di Dunwich era persa da ore in una lunga riflessione sulla guerra, e i pochi gesti che il suo corpo ancora compiva erano del tutto automatici.
Versare liquore, riempire il braciere con nuovo tabacco, aspirare, bere. Le conclusioni a cui era giunto avevano reso il suo umore tutt’uno con le ombre che lo
avvolgevano.
Amava pensare nel buio. Gli ricordava la sensazione che provava quando si
immergeva all’interno della materia. Il suo corpo iniziava a vibrare in risonanza
271
con l’ambiente, e si fondeva come se la sua carne fosse composta da terra, aria,
acqua, sassi. Aveva studiato anni per ottenere una risonanza tanto efficace e perfetta.
Quel buio lo aiutava a essere più obiettivo, meno irruento. Qualcosa stava
prendendo forma nella sua mente, ma era ancora troppo vaga per avere un nome
e una faccia. Dopo il sesto o settimo bicchiere di liquore, la cicatrice sulla guancia aveva smesso di pulsare. Asaeld aveva insistito a rispedirlo a casa senza ascoltare le sue obiezioni.
«Potrebbe infettarsi. Quaggiù non prevediamo attacchi nei prossimi mesi. La
tua presenza al fronte per ora è inutile, se non dannosa per la tua salute.»
Quella era stata la sua ultima e irrevocabile parola. Dunwich non era molto
bravo a riposare. La pausa forzata stava deteriorando la sua pazienza, e lo spingeva a riflettere un po’ troppo spesso.
A parte una miriade di scaramucce di poco conto, le battaglie che contavano
veramente erano state tutte un mezzo fiasco per Cambria. Rare vittorie, subito
negate da una sconfitta più cocente. Il resto, perse o rimandate. Dunwich ormai
faticava a credere che fosse tutta colpa dell’incompetenza dell’Imperatore.
“Deve esserci qualcuno che rema contro i progetti di Loralon. Errori non casuali. Sviste volute. Ritardi programmati. Una persona piazzata nel posto giusto
può fare danni incalcolabili” pensò riempiendosi di nuovo il bicchiere. La pipa
stava lentamente finendo, per l’ennesima volta. Alcuni compagni lo avevano invitato a una serata di gala promossa da una ricca famiglia della città, dove avrebbe potuto ballare, mangiare ottimi crostacei innaffiati con un bianco frizzante,
conversare amabilmente di politica. Magari recuperare una donna giovane e disponibile a trascorrere una notte con una promettente Lancia Imperiale.
«Quella cicatrice vi dona un aspetto così… guerriero… » gli aveva detto la figlia di un importante consigliere imperiale, a un ricevimento nelle sale del palazzo centrale. Dunwich non ricordava né il suo nome, né la sua faccia, e neppure
se poi le avesse più rivolto la parola.
“Dove sei, Mordraud?”
Da quando aveva sentito quei soldati parlare nella tenda dei feriti, non aveva
mai smesso di chiedersi se suo fratello fosse sopravvissuto alla battaglia. Aveva
dieci anni in meno di lui, quindi doveva per forza essere giovane, fin troppo per
combattere. Qualche volta aveva fantasticato sul ribelle che aveva ingaggiato
duello con lui, e che per poco non l’aveva ucciso. “E se fossi stato tu?” si chiese
angosciato.
Erano passati anni da quando aveva scoperto la fine orrenda di suo padre, la
morte della madre, la fuga dei fratelli, e gran parte dell’astio che aveva covato
all’epoca si era trasformato in qualcosa di più complesso. Un cumulo di emozioni che non gli piaceva per niente.
272
Oscuri sensi di colpa che tentavano di strisciare fuori dal muro che con tanta
fatica aveva eretto.
Dunwich svuotò la pipa con un colpo secco sul bordo del piatto, e scolò il
fondo del bicchiere. Si guardò intorno, non vide altro che tenebre. Con un filo di
voce sussurrò l’inizio di una lieve melodia, e il suo corpo fu risucchiato dalla poltrona.
Uno sbuffo di piume bianche si sollevò come una nuvola dallo schienale imbottito, squarciato dalla punta affilata di un pugnale. Un’ombra sgorgò dal buio e
si portò di fronte alla poltrona ormai vuota. Solo un sibilo di disapprovazione
interruppe il silenzio. L’assassino si appoggiò alla parete schiacciandosi contro di
essa. Le piume danzavano nell’aria intorno al cuscino trafitto, la brace della pipa
morente brillava nel piatto, e il petto delle tenebre si alzava e abbassava al ritmo
del suo respiro.
«Perché sei qui?»
L’ombra trasalì e alzò il pugnale. Dunwich era svanito nel nulla. La sua voce
sembrava provenire da ogni angolo della sala, deformata in un mormorio maligno e senza labbra.
«Sei pietoso.»
L’assassino si strinse alla parete, e con la lama compì un ampio arco di fronte a
sé. L’acciaio sibilò a vuoto. Una risata sommessa vibrò dai muri e dal pavimento,
tintinnò sul bicchiere di cristallo e scivolò sulla sinuosa bottiglia di liquore.
«Non sei venuto qui per uccidermi? Cosa aspetti? È un paio di giorni che sento
qualcosa alle mie spalle. Mi chiedevo quanto ci avresti messo ad agire.»
«Dove sei?! Vieni fuori!»
«Ma caro mio…sono già qui.»
La voce sfiorò l’orecchio dell’assassino, un soffio caldo che giocò fra i suoi capelli. Con un orribile rumore di ossa scheggiate, una spada fuoriuscì dal suo torace, lentamente. La bocca dell’ombra si riempì di sangue. Dunwich comparve
camminando attraverso il muro, spingendo in avanti il corpo infilzato e tremante.
«Chi ti manda?»
L’assassino restò in silenzio. Dunwich ruotò con uno strappo la lama dentro lo
squarcio.
«Posso anche impedire la tua morte, e poi continuare a spaccarti le ossa fino a
quando non mi dirai tutto.»
«Schifosa, lurida Lancia… bastardi…» balbettò l’assassino morente. «Fottiti…
infame…»
Dunwich sgranò gli occhi, strinse il collo dell’uomo con il braccio, e con uno
strattone violento glielo spezzò. Il corpo senza vita si accasciò sul pavimento,
imbrattando di sangue le larghe lastre di marmo bianco.
«Cospiratori? Traditori dell’impero?»
273
Dunwich restò a lungo con gli occhi fissi sulla pozza scura ai suoi piedi, ripassando ogni dettaglio degli ultimi giorni, nella speranza di risalire ai mandanti. Se
veramente si trovava di fronte a un gruppo organizzato, già inserito nel tessuto
cittadino, quella poteva essere la spiegazione di tante strategie sabotate, costate
migliaia di morti inutili. L’assassino era un uomo di mezza età, magro e dai lineamenti nervosi. Lo aveva notato con la coda dell’occhio due giorni prima lungo la strada verso casa, dopo un incontro con le Lance a palazzo.
“Sì, ma quand’è che ho iniziato a notarlo… non da subito… no… l’ho visto
dopo che sono passato davanti a una villa, di chi era…”
La famiglia Firen.
“Probabilmente è uscito da quella villa. Il patriarca è Firanor, un mercante di
prestigio, ben conosciuto in città… suo figlio è tenente di pattuglia, si chiama…
Firacan mi sembra. Ma ha anche un fratello maggiore. Una posizione
nell’esercito… molto denaro… l’impero non appoggia particolarmente i mercanti, se non a quelli di armi. Loralon poi è molto meno brillante di suo padre. Non
aiuta un granché le corporazioni…”
Se la sua memoria non lo ingannava, e di solito Dunwich si fidava ciecamente
della sua memoria, aveva un primo obiettivo. Sorridendo soddisfatto, sprimacciò
il cuscino squarciato e tornò a sedersi sulla poltrona, per concludere la serata con
un ultimo bicchiere.
“Devo disdire alcuni appuntamenti domani… e devo ricordarmi di parlare con
i domestici, per far pulire il salotto. I gendarmi devono essere informati del tentativo di furto che ho subito stanotte, ma non posso farlo io…”
Aveva cose molto più importanti da fare, pensò buttando giù il primo sorso
amaro e denso.
***
I due soldati assonnati chiusero il grande cancello di ferro e si fermarono a metà del cortile, giocando a scommettere chi si sarebbe appartato per primo in un
anfratto del parco per sonnecchiare qualche ora. Firanor, il ricco mercante proprietario della casa, li aveva pagati profumatamente per un incarico di tutto riposo.
«Chi vuoi che venga a ficcare il naso nei suoi affari?!» esclamò ridendo il giovane militare, mentre preparava la moneta che avrebbe deciso i turni di sonno.
«Un ladro che ruba al ladrone, ecco chi potrebbe arrivare!» rispose ridacchiando il compare.
I traffici illeciti, le amicizie altolocate, gli appoggi politici, erano tutte faccende
ben conosciute ma mai troppo discusse. In fin dei conti, chi aveva lo spirito di
274
immischiarsi negli affari di uno dei mercanti più influenti della città? Loro due di
certo non avevano la minima intenzione di farsi i fatti altrui.
«Finché ci regala la pagnotta per non fare niente, che gli Dei l’abbiano in gloria!»
Firanor era un uomo apparentemente pacato, calcolatore e imperturbabile, tanto diverso dai suoi figli da far dubitare che fossero sangue del suo sangue. Il primogenito Firad, suo aiutante negli affari, era un grosso e alto ragazzone arrogante e sanguigno, pieno di sé per la ricchezza del padre, e amante di qualsiasi vizio
reperibile a Cambria. Polvere di fiori provenienti da Syl a Ovest, liquori fortissimi, intrugli allucinogeni. Grande amante delle puttane. Il minore Firacan, invece,
dava sempre l’impressione di essere un incapace, con quel suo sguardo ebete e
poco brillante e la mania di parlare a sproposito, tanto che il padre era costretto a
spendere grandi quantità d’oro per giustificare la sua posizione prestigiosa
all’interno della società. La moglie del mercante era morta da anni per una malattia, e l’enorme casa era quasi sempre vuota. Gli incontri di affari si tenevano nel
magazzino di proprietà della famiglia nella zona dei mercati generali, e le poche
persone che frequentavano la villa erano donne abbigliate da signore ma truccate
da baldracche, sempre diverse, destinate allo svago del padre e dei figli.
«Invece è un paio di giorni che arrivano solo brutti ceffi, o qualche spocchioso
funzionario imperiale che decide di far visita a Firanor nel cuore della notte…
bah… valli a capire questi arricchiti, sempre dietro a fare, e fare… li preferisco
quando pensano soltanto a divertirsi.»
«Come se potessimo partecipare anche noi, e invece… stiamo qua fuori ad
aprire la porta a tutti.» Lo scudo d’oro segnò testa, e il soldato più giovane fischiò soddisfatto. «Tocca a me per primo… ottimo!»
«Speriamo solo che non ricomincino a urlare come matti, ieri sembravano un
branco di maiali!»
«Uh, non voglio nemmeno pensarci… Firacan deve aver fatto una bella idiozia
per beccarsi tutti quegli insulti!» il ragazzo tese l’orecchio e chiese al compagno di
fare silenzio. «Ehi, l’hai sentito?! Mi è sembrato che… no, falso allarme.»
«Stanotte fanno i bravi… e niente baldracche, a quanto pare…»
«Già. Peccato, sarà una noia mortale… ehi…hai sentito?»
«Cosa?! Hanno ricominciato a litigare?»
«Mi sembrava di aver sentito… ma no, sarà stato un gatto nel cortile.»
Il suo compagno tese l’orecchio invano, guardandosi intorno svogliatamente.
«Tu prendi questo lavoro troppo sul serio. Ma chi vuoi che entri qua dentro?»
«Io.»
La guardia si girò verso il collega ma trovò solo il vuoto. Eppure aveva sentito
qualcuno rispondergli, pensò. Il sorriso gli morì in bocca. Un coltello balenò im275
provviso e gli sfondò il cranio. Il suo corpo senza vita si accasciò a terra accanto
al cadavere dell’altro soldato, già morto senza un gemito.
Dunwich si avvicinò alla porta, si inginocchiò di fronte alla serratura e poggiò
un dito sul grosso foro della chiave, canticchiando una nenia brillante e giocosa.
La chiusura scattò senza opporre resistenza. Il corridoio era illuminato da costose lampade a olio appese ai muri, e arredato con pregevoli acquerelli antichi. Sei
ingressi su ogni lato conducevano nelle varie stanze della villa, e da una porta in
fondo si accedeva alle scale. A pochi passi da lui, quattro guardie erano impegnate in una discussione sussurrata. Furono interrotti dal lieve fruscio della porta
che si apriva. Non vedendo nessuno, una di loro si avvicinò all’ingresso chiamando i due soldati nel cortile. Dunwich comparve proprio ai suoi piedi scivolando fuori dal pavimento. Bastò un taglio preciso alla gola. I soldati rimasti ebbero solo il tempo di sguainare la spada. Dunwich usciva ed entrava dalle pareti
colpendoli al petto e alla testa con rapidi fendenti, e sparendo subito dopo. Il
muro era molto spesso, riusciva a ospitare il suo corpo per intero. Ben presto,
altri tre cadaveri arricchirono la collezione abbandonata in cortile.
“Di solito, le stanze private sono di sopra. In questo piano ci saranno solo i
servi e il salotto di ricevimento” pensò chiedendosi da che parte andare.
Dunwich accostò l’orecchio alle porte e non sentì nulla. Raggiunse allora le
scale e salì rapidamente i gradini, fermandosi solo per decidere quale potesse essere la direzione giusta. Le porte davano tutte verso l’interno, due a destra e due
a sinistra della scala.
“Una camera a testa, più lo studio del ricco mercante” pensò esitando sul da
farsi. Dunwich imprecò fra sé. Avrebbe dovuto provarle tutte per trovare il suo
uomo. Improvvisamente, sentì una chiave girare in una serratura e di riflesso si
appoggiò alla parete, scomparendo al suo interno.
Firanor e il figlio maggiore, Firad, uscirono dallo studio e si diressero oltre la
scala verso la camera privata di Firacan.
«Quello stupido di tuo fratello ci vuole morti» sbraitò il vecchio mercante.
«Pensava di nasconderci tutto… cane maledetto…» rispose Firad copiando
esattamente il tono del padre.
«Ed io che ho fatto di tutto per inserirlo in un posto prestigioso, senza rischi…
se non fosse stato per me, quell’idiota ora sarebbe soltanto un lurido venditore
ambulante.»
«Già. Ma non poteva accontentarsi, no!» continuò Firad infervorandosi. «Doveva andare a pestare i piedi proprio a un comandante delle Lance! Se solo avessi
scoperto chi lo sta aiutando in questa pazzia, padre, giuro che non mi sarei mai
permesso di disturbarti… È proprio un codardo maledetto! Viene da me piagnucolando di avere un grosso problema, e pretende pure che io non lo te lo dica. E
ora chi lo ferma, quel mostro di Dunwich!»
276
«Manderò qualcuno a lisciarlo. Mi costerà una fortuna, maledizione. Tutto per
colpa di quel suo amico disgraziato…»
«Chi, Erain? Quello è un cacasotto peggiore di mio fratello! No, il damerino se
l’è portato a casa una sola volta, e per farsi bello gli ha anche offerto una puttana.
Dovevi vedere come strillava, il povero bimbo!»
«No, non Erain, l’altro… se lo trovo gli spezzo il collo con le mie mani, fosse
l’ultima cosa… per gli Dei, hai una vaga idea di quanto mi costerà far stare tranquillo Dunwich?!»
Entrambi si fermarono davanti alla porta di una camera. Firanor allungò la
mano per aprire la serratura.
«Non preoccuparti del prezzo. Voglio solo Firacan.»
Dunwich comparve dietro di loro con la spada in mano. Firad saltò indietro
soffocando un urlo strozzato. Il padre invece non si scompose minimamente.
«Ci possiamo mettere d’accordo, Lancia… non essere avventato.»
Solo le gocce di sudore che gli imperlavano la fronte tradivano la compostezza
del mercante. Suo figlio Firad aveva fatto un passo indietro e si teneva spalle alla
porta.
«E cosa proponete?»
«Io non ho alcuna intenzione di rendermi nemico un capitano delle Lance. Voi
rischiate grosso a esporvi in questo modo. Quindi abbiamo entrambi bisogno di
un accordo.»
Dunwich sghignazzò coprendosi la bocca con il palmo della mano. «Un accordo… parlate, forza! Non ho tempo da perdere con voi. Mi aspettano altre persone stasera.»
Firanor non perse molto tempo a riflettere.
«Mio figlio non arriverà al mattino.»
La faccia di Firad virò dal porpora al terreo.
«Non basta. Devo sapere chi sono i suoi complici.»
«Potrai parlare con lui» disse Firanor «ma sarò io a sbarazzarmene. Nessuno
deve sapere nulla. E non voglio morti in casa mia.»
Dunwich annuì e si inchinò con elegante strafottenza.
«Certo, capisco. Temo allora che dobbiate rivedere il vostro livello di sicurezza,
consiglio di servirsi di nuove guardie. E, lasciatemelo dire… ottimo padre, non
c’è che dire. Il patto si può fare. Ma devo vederlo morto, non posso fidarmi della
vostra parola. Voglio la sua testa, fra due notti, dalle vostre mani. E badate, sono
un cantore e lo sapete. Non provate a ingannarmi con finti cadaveri, altrimenti di
questa casa non resterà neppure un mattone.»
«La mia parola vale come l’oro che possiedo.»
«Bene, perché se fosse valsa come la vita dei vostri figli, sarebbe valsa ben poco.»
277
«Ma, padre…» tentò di dire Firad, ma lui fulminò il figlio con lo sguardo.
Firad fece un passo indietro, mentre suo padre apriva la porta a Dunwich.
La camera era illuminata da un elaborato candeliere a sei teste. Le luci fluttuanti danzavano sulle armi appese al muro e sull’armatura da parata montata in un
angolo. Il letto era sontuosamente addobbato con un baldacchino rosso fuoco,
della stessa tonalità della grande scrivania lucida e ordinata. Firacan teneva la testa poggiata al ripiano dello scrittoio. Sembrava addormentato, ma al rumore della porta che si apriva alzò la testa e fissò Dunwich con sguardo spento.
«Padre? Sei tu?» mormorò con voce impastata. Era di costituzione eccezionalmente robusta, ma allo stesso tempo cascante e poco tonica. I capelli arruffati
color cenere e gli occhi annacquati gli donavano l’aspetto di un bambino troppo
cresciuto.
«No, Firacan» rispose Dunwich.
Il giovane lo fissò senza riconoscerlo, poi vide la porta richiudersi alle sue spalle e, nascosto dietro le spalle di Dunwich, suo padre che lo guardava con gelida
indifferenza. Allora capì tutto, e il tonfo sordo della porta segnò l’inizio di un
lungo pianto.
***
Il salotto era ammobiliato con un gusto vagamente stantio. Una grande finestra
forniva luce e una splendida visuale su un giardino curato da pregevoli artisti del
verde. Dunwich sedeva su una larga poltrona in velluto rosso e sorseggiava il vino invecchiato e profumato che il servo aveva appena versato nel suo calice
d’argento. Due uomini vestiti elegantemente sedevano di fronte a lui, il più anziano stava fumando una pipa intarsiata, mentre il ragazzo fissava assorto il paesaggio. Si somigliavano molto. Alti e magri, con i capelli biondi e leggermente
ondulati, spruzzati di grigio cenere per il padre, lucidi e curati per il figlio.
«E così, voi avete partecipato al massacro del Terrapieno…i racconti che sono
giunti in città sono terribili.»
«Sì, è stato uno scontro molto sanguinoso.»
«Mio figlio purtroppo era gravemente malato, e non è potuto partire con i vostri uomini. Spero che la sua mancanza non sia stata causa di problemi, cavaliere.»
«No, direi proprio di no. Comunque, è stata una fortuna per lui. Abbiamo perso molti uomini laggiù.»
Dunwich bevve dal calice e piantò gli occhi sul ragazzo, che ancora non aveva
detto una parola. Per continuare le sue indagini aveva scelto una tattica meno rischiosa. La lunga chiacchierata con Firacan era stata proficua solo in parte. Di278
stricare le parole dalle lacrime era stata la cosa più difficile. Fargli sputare un paio
di nomi era stata una vera liberazione.
“Il problema è che non mi ha saputo dire niente, quel maledetto grassone.”
Firacan aveva pagato un tagliagole per ordine di qualcun altro, che a sua volta
era stato contattato da uomini senza nome. Quello che aveva fatto non gli piaceva, ma evitava di pensarci troppo. Firacan aveva riportato al sicario il piano, lui
era uscito da casa sua e aveva tentato di pedinarlo. Dunwich se n’era accorto.
Aveva tentato di ucciderlo, e aveva fallito. Firacan doveva morire per
quell’errore. Un concetto tanto semplice quanto consolatorio.
Per quella notte aveva rinunciato a ulteriori agguati, così aveva chiesto un colloquio per la mattina seguente con la famiglia di Erain, il secondo indiziato. Lo
aveva sentito nominare sia dal ciccione che da suo padre. Un ragazzo di buon
livello. La sua posizione sociale lo proteggeva ben più di Firacan, dato che Erid,
suo padre, sedeva nel consiglio della città come rappresentante del popolo. Una
posizione prestigiosa. Dunwich dubitava esistesse un uomo tanto folle da metterla in pericolo sobillando contro l’impero. Ma ormai aveva una pista da seguire,
e l’avrebbe portata fino in fondo.
«Agli ufficiali è giunta voce che a breve ci sarà un nuovo attacco.»
Il vecchio politico si accigliò e fissò basito Erain, che però restò in silenzio.
«Mio figlio non me ne ha parlato.»
«No padre, io non so nulla. Penso che non sia ancora stato deciso.»
Il tono del ragazzo era umile, dimesso e timoroso. Fin troppo timoroso.
«Si parla anche di un avvicendamento ai gradi più alti, e in alcuni casi qualcosa
si è già mosso…hai avuto notizie, Erain?»
«No, neanche di questo mi è giunta notizia.»
«Perché poi cambiare? Per ora mi sembra che tutto stia andando piuttosto bene. I comandanti attuali sanno svolgere il loro lavoro egregiamente» si intromise
il padre.
“Che mi stia sbagliando?” pensò perplesso Dunwich. “Sembrano davvero
tranquilli… con me qui di fronte a loro, dovrebbero mostrarsi a disagio, e invece…”
Erid continuò. «Ma parliamo di voi, comandante. Ho sentito parlare molto bene di voi, e delle vostre incredibili abilità in battaglia…mio figlio segue le vostre
gesta con ammirazione e spirito di emulazione.»
Erain abbassò gli occhi con fare umile. «Suvvia, non mettetemi in imbarazzo di
fronte al nostro illustre ospite, padre.»
Dunwich non riusciva a comprendere l’atteggiamento di Erain. Timido, imbarazzato dalla sua stessa presenza. Ma non per chissà quale segreto. Dunwich sapeva di essere un idolo per le Lance più giovani. Non era una novità. Fino a quel
279
momento, il ragazzo non aveva commesso alcun passo falso. Trasudava innocenza in modo fastidioso.
«Soprattutto ammira la vostra grande capacità di comando, che assieme alla
vostra lealtà vi rende un comandante nato, un uomo del futuro…lui stesso mi
parla così di voi.»
Erain arrossì visibilmente, ed evitò lo sguardo indagatore di Dunwich.
«Come vostro figlio sicuramente sa, la lealtà è la prima dote di un buon soldato…vero, compagno?»
«Sì, comandante. Le vostre parole sono sempre sagge» rispose lui prontamente.
Dunwich lo aveva visto in azione solo un paio di volte, niente che fosse più
impegnativo di una ronda o un turno di notte di guardia alle tende degli ufficiali.
Non gli era sembrato un ragazzo adatto a combattere. Aveva pensato che il padre lo avesse costretto a far carriera nelle Lance, ma da come parlava sembrava
semmai il contrario.
«Come mai hai scelto di diventare una Lancia, Erain?»
Il padre stava per rispondere, ma il ragazzo fu più svelto. «Perché ammiravo le
grandi personalità che difendono l’onore della capitale, comandante.»
«Lodevole, davvero lodevole. Mi dispiace di aver avuto poche opportunità di
averti a fianco in battaglia, alla luce del sole.»
Il politico fissò spiazzato Dunwich. «cosa intendete, comandante?»
«Nulla di malizioso. Avrei semplicemente voluto ammirare il valore di vostro
figlio, ma non vi è mai stata l’occasione…» rispose Dunwich.
Erain arrossì e abbassò di nuovo gli occhi a terra.
«Anch’io sogno da sempre di combattere al vostro fianco, ma il mio stato di
salute è fragile. Mi ammalo facilmente, fin troppo facilmente.»
«Purtroppo è così. Mio figlio ha l’animo guerriero, ma il corpo di un bambino.
Sin da piccolo è sempre stato gracile» confermò il padre annuendo con espressione grave. «Gli ho proposto parecchie volte di affiancarmi in politica, ma lui
non ne ha mai voluto sapere. Preferisce la vita da Lancia Imperiale, anche se solo
a metà.»
«Mi dispiace» rispose Dunwich deluso. Impossibile che quel insulso figlio di
papà gli stesse nascondendo qualcosa. Lui e suo padre gli avevano appena confidato che avevano dovuto pagare per permettergli di superare le selezioni fisiche
delle Lance Imperiali. «Verrà il giorno in cui potrò avere vostro figlio a disposizione, e sono sicuro che potrà essermi di grande aiuto.»
Dunwich si alzò e consegnò il calice al servo che aspettava pazientemente vicino alla parete del salotto.
«Un’ultima cosa, Erain… sto cercando un ragazzo di nome Firacan, mi è stato
consigliato da un amico, pensavo di utilizzarlo per una guardia piuttosto delicata.
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Ho provato a casa sua, ma non l’ho trovato. Mi è sembrato di vedervi qualche
volta parlare insieme, magari potresti aiutarmi…»
Erain rispose con voce carica di disgusto. «L’ho frequentato qualche volta, insieme ad altri della caserma. Siamo andati a bere un bicchiere di vino ogni tanto.
Ma non ho la più pallida idea di dove si sia cacciato.»
«Perché tutto questo astio?»
«Astio?! No capitano, nessun astio. Solo che dopo averlo conosciuto un po’
meglio, ho preferito evitare di vederlo di nuovo. Un laido codardo dalla bocca
troppo larga, e sporca.»
«Ha detto qualcosa di sconveniente?»
«Più di una. Parlava male delle Lance. Le chiamava Mance. Insinuava che fossero corrotte e stessero remando contro la guerra dell’Imperatore. Ho discusso con
lui un paio di volte, e poi, se mi permettete, l’ho mandato a quel paese.»
«Come non detto, chiederò a qualcun altro. Grazie per la piacevole conversazione.»
«Figuriamoci, è stato un piacere tutto nostro» rispose Erid alzandosi in piedi.
«Capitano… l’onore è tutto mio» gli fece eco il figlio.
Dunwich uscì più confuso di quando era entrato. Firacan era stato imbeccato
da qualcuno, ma evidentemente non da Erain.
“Quel ragazzo è così puro che stona in mezzo ai suoi compagni… il grassone
deve aver fatto il suo nome solo per sviarmi. Sono di nuovo punto e a capo. Ora
è il turno di Nidanio.”
L’ultima tappa della sua breve pista. Un provetto cantore in attesa di un posto
da corista all’Arcana, il classico uomo senza infamia e senza lode. Poco appariscente, poco conosciuto e poco affermato. Dunwich non sapeva neppure se
avesse una famiglia di prestigio alle spalle. Era l’unico altro nome uscito dalla
bocca del grassone.
“La persona meno adatta a gestire un complotto… ma non ho altro” pensò infilandosi fra la folla assiepata sulla grande via centrale di Cambria.
***
Dunwich era seduto alla scrivania della sua biblioteca privata, intento nella lettura di un saggio di strategia che aveva comprato quel pomeriggio in una piccola
libreria del centro. Il solito manuale per studenti dell’accademia militare, oltretutto estremamente vecchio. Circa tre secoli, stimò a occhio. Sorrise al pensiero che
Cambria, dopotutto, applicava le stesse e identiche tattiche da decine di generazioni. Ovvio che Eldain risultasse come un genio strategico, pensò scuotendo la
testa.
281
Dopo giorni passati inutilmente a rintracciare informazioni su Nidanio, aveva
avuto la fortuna di incrociarlo casualmente davanti alla libreria. Un doppio colpo
di fortuna, dato che proprio in quel momento un carro carico di balle di fieno
era passato sulla strada impedendo alla sua preda di vederlo. Dunwich aveva
aspettato fuori confondendosi fra la gente di passaggio, ed era entrato solo
quando Nidanio se n’era ormai andato.
Il negoziante, un uomo anziano e cortese, lo riconobbe e lo ricoprì di elogi,
sfregandosi le mani pregustando un lauto acquisto. Dall’unica vetrina del negozio
Dunwich aveva notato Nidanio sfogliare un libro dalla copertina rossa, così chiese al libraio di cosa si trattasse e se fosse in vendita. Naturalmente, erano stati
sufficienti pochi cavalieri d’oro per convincerlo a privarsene.
Senza perdere altro tempo era tornato a casa, si era chiuso nel suo studio e
aveva iniziato a studiare la struttura e la copertina del libro.
“Cosa stava cercando? Non è uscito con altri libri in mano, e questo è l’unico
che ha sfogliato a lungo.”
Sull’ultimo indiziato della sua breve lista non era riuscito a scoprire molto.
Onesto lavoratore, anonimo al punto da diventare naturalmente sospetto, non
aveva amicizie importanti, né frequentava taverne o ritrovi noti. Quel libro era il
suo primo contatto con la vita di Nidanio. E, in linea con il personaggio, era una
pubblicazione banale e di poco valore.
Era giunto ormai alla metà del libro e non aveva ancora notato niente di insolito, a parte una discreta bravura dello scrittore che lo spronava a continuare nella
lettura.
“Perché uno studioso di armonia dovrebbe interessarsi a libri militari?! Certo
che è scritto proprio bene, ma non ci vedo nulla di…” pensò mentre sfogliava la
pagina conclusiva di una lunga disquisizione sull’utilizzo della cavalleria in battaglia.
Proprio all’inizio del nuovo capitolo, Dunwich si rese conto che stava leggendo ad alta voce. Una cosa che non faceva mai, e non aveva mai fatto neppure da
bambino.
Ma quel che era peggio, le sue parole non coincidevano con il libro. Stava intonando qualcosa senza volerlo.
“Una trappola!”
Troppo tardi. Neppure le sue mani volevano saperne di staccarsi dal libro rosso. Le parole presero a condensarsi in un canto. Riconobbe al volo di cosa si
trattasse. Stava ricercando la risonanza del fuoco. E lo stava facendo molto male.
Al primo passaggio sbagliato, il canto si sarebbe rivoltato contro di lui. In preda
al panico tentò l’ultima possibilità pensando disperatamente alla sua risonanza
prediletta, ottenuta in anni di fatica all’Arcana. Il suo corpo scomparve all’interno
della propria ombra sul pavimento nell’istante in cui la sua voce raggiunse
282
l’ultima nota. Il libro divenne improvvisamente nero ed esplose, con una violenza tale da polverizzare l’intero contenuto della stanza. La finestra che dava sul
cortile si frantumò in mille pezzi e i muri si creparono sventrati.
Quando riapparve dal pavimento, Dunwich dovette farsi largo fra le macerie.
La sua villa era stata mozzata di netto dall’esplosione. Incredulo e scosso, si
guardò intorno un istante boccheggiando per la polvere e la paura. Per ottenere
una trappola tanto fine, Nidanio doveva avere modificato il testo in modo sopraffino. Aveva sentito parlare di quella tecnica. Inserire lettere e porzioni di parole che stimolavano una sorta di lettura ritmica, soprattutto nel caso di cantori o
studiosi di armonia. Difficile accorgersene in tempo, un appassionato di risonanze aveva la mente viziata dalla continua ricerca di esse. Gli occhi di Dunwich
avevano riconosciuto prima del suo cervello uno schema preciso nelle modifiche
apportate da Nidanio al testo. E le aveva interpretate come se avesse di fronte lo
spartito di un canto. Che si era ritorto, inevitabilmente, contro il suo stesso artefice.
Un trucco dannatamente efficace, pensò stordito.
Non appena si riprese del tutto, uscì di corsa dalla casa senza rispondere alle
domande terrorizzate dei servitori. Sulla strada che costeggiava il cortile, molti
passanti si erano radunati per osservare il fumo che usciva dalle finestre e si alzava dal rudere devastato. Qualcuno stava chiamando aiuto a gran voce. Molti altri
stavano semplicemente lì in piedi ad ammirare lo sfacelo, bisbigliando fra loro.
Dunwich si ritrovò circondato da chi scappava e chi giungeva richiamato dalle
grida.
Quando sentì cantare, Dunwich pensò solo a buttarsi in terra con la faccia
schiacciata sul selciato.
«Signore?! Cosa succede, signore?» gli chiese uno dei servitori, strattonandolo
per il braccio.
«Sta giù, idiota!»
La lama di fuoco passò a una spanna dalla sua schiena, investendo il servo e
tutti i cittadini che si erano radunati di fronte al luogo del disastro. Le gambe
dell’uomo si arroventarono e la carne incenerì fino a liberare le ossa bianche, appena sopra le ginocchia. Ciò che restava del suo domestico crollò sopra di lui.
Dunwich vide donne cariche con i cesti della verdura rotolarsi inutilmente in
terra per spegnersi le fiamme dal torace. Un vecchio era stato tagliato a metà. Le
gambe riverse da una parte, il torso svuotato dalle viscere dall’altra.
“È come essere in battaglia. È come essere in battaglia. È come essere in battaglia…” si ripeté in testa meccanicamente.
Difficile concentrarsi. Il fetore di carne bruciata era intollerabile. Dunwich si
mosse d’istinto. Scostò il cadavere del servo e si mise a correre a perdifiato verso
un vicoletto dall’altra parte della strada.
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“La voce veniva da lì, ne sono certo!”
Un uomo stava fuggendo verso il fondo del vicolo, scansando i mucchi di rifiuti e le cassette di legno sfondate che ingombravano il terreno. Dunwich alzò le
mani, le congiunse davanti al volto, e sibilò una breve armonia.
Una bordata invisibile di aria sfrecciò fra le pareti delle case. I vetri delle finestre esplosero a raffica al suo passaggio. Nidanio si voltò e allargò le mani cantando esattamente la stessa melodia di Dunwich. L’onda d’urto spazzò via qualsiasi cosa, distruggendo qua e là i mattoni e le lastre di pietra della strada. Nidanio ne era uscito senza un graffio. Era entrato in sincronia con la sua risonanza,
pensò incredulo Dunwich. Con una velocità e precisione rara.
«FERMATI BASTARDO!» urlò Dunwich mentre stava già pensando a un altro canto. Nidanio poggiò le mani alle pareti mormorando a testa bassa.
“Non riesco a sentirlo! Ma che razza di…”
Dai muri spuntò una cascata di aculei che si chiusero a tagliola intorno a lui.
Erano fatti di pietra e cocci, una grottesca fusione di muro plasmato a piacimento dall’armonia di Nidanio. Dunwich scivolò a terra. Uno spuntone per poco
non lo trafisse alla gola. Sdraiato di schiena, la sua voce si alzò rombando di collera, e nell’aria si materializzò una sfera di luce verde intensa come un piccolo
sole, che schizzò a gran velocità contro il suo nemico. Una sua variante personale della classica risonanza del bagliore. In quel modo, il bastardo non avrebbe potuto emularlo e salvarsi, pensò. Tutto ciò che veniva sfiorato dalla luce si anneriva e cadeva in terra, sbriciolato. Dunwich rotolò su un fianco e si gettò di corsa
in avanti, inseguendo la sfera.
Nidanio era bravo, ma non quanto lui. La luce verde lo investì in pieno.
Dunwich allungò la mano sulla cintura per sguainare la spada, e solo in quel
momento si rese conto di non averla con sé. Non era in battaglia. Fino a poco
prima era nel salotto della sua bella e comoda villa.
Il suo piano si ritorse contro di lui. Nidanio era bruciacchiato, con la pelle del
volto grigia e cascante e gli occhi che gocciolavano sangue, ma era ancora vivo.
Con voce rotta innalzò un canto claudicante. Il suo braccio si irrigidì e si appiattì.
Mutò plasticamente in una spada di carne dura. Dunwich tentò di fermarsi per
contrattaccare, ma non fece in tempo. Poté solo schivare i primi due fendenti. La
grottesca lama di pelle affilata gli affettò il braccio profondamente. Nidanio aveva ripreso coraggio, e incalzava con un sogghigno che lasciava scoperti i denti
liberi dalle labbra corrose dalla luce verde. Dunwich cercò di affrontarlo a mani
nude, ma Nidanio continuava a vorticare furiosamente il braccio.
«Crepa, traditore!» grugnì Nidanio.
«Sei tu il traditore, infame!» rispose ansimando Dunwich. Il dolore gli stava offuscando la vista. La punta di carne si piantò sulla sua coscia. Un male cane. E
una sensazione profondamente disgustosa.
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«Muori, Lancia!».
Dunwich non perse l’attimo per rispondergli. Scivolò dentro la guardia del
cantore approfittando del suo slancio scellerato, e gli afferrò in una morsa il
braccio stringendoselo sotto l’ascella. Gli mollò un paio di testate in pieno naso,
e appena sentì la spalla cedere, lo colpì alla clavicola più forte che poteva. L’osso
scricchiolò e si spezzò. Nidanio perse la concentrazione e il braccio tornò di carne molle.
«Perché volete farmi fuori?!»
«Schifoso… porco schifoso…» rispose Nidanio gorgogliando nel sangue. Le
ustioni erano dilagate su tutto il suo corpo. Dunwich lo prese al collo e strinse,
ficcandogli le dita sotto il mento.
«DIMMELO!»
«Lance infami… nemici del popolo…»
«CHI TI HA ORDINATO DI UCCIDERMI!»
Nidanio scoppiò a ridere sguaiatamente. Sotto la sua pelle lampeggiava un bagliore rossastro. Un filo di fumo prese a salirgli dagli occhi. Stava cantando qualcosa. Ma stava sbagliando di proposito. Un suicidio, pensò Dunwich. Stava volutamente portando il suo corpo in disarmonia. Una risonanza errata come quella
poteva avere effetti spaventosi.
«Maledizione!» Dunwich mollò la presa e svanì dentro il terreno. Appena in
tempo.
«LUNGA VITA ALLA FAMIGLIA LOREN!» furono le ultime parole che
riuscì a sentire, prima che tutto il vicolo venisse spazzato via dall’esplosione.
285
XIX
«Il nemico è in fuga!»
Dal fianco della collina era possibile dominare con uno sguardo tutta la pianura circostante. Il fiume scorreva placidamente fra l’erba alta e ingiallita, macchiata
di tanto in tanto da chiazze bianche di prima neve. Le notti erano sempre più gelide, e i giorni più grigi e brevi. Adraman osservava il paesaggio coprendosi gli
occhi con la mano. I soldati di Cambria stavano arretrando in modo caotico e
selvaggio, spinti dalle ondate dei suoi cavalieri che ormai avevano preso il controllo del campo. Mordraud era davanti a tutti e urlava a spada spianata. Adraman aguzzò la vista. Come al solito, stava ridendo con la testa rivolta al cielo.
«Quel ragazzo prima o poi ci resta secco» disse Ghiaccio, che era al suo fianco
sul ciglio del ripido dirupo di ghiaia. Adraman non disse nulla. Era stato lui a
metterlo alla guida di un piccolo reparto di cavalleria, vincendo la ritrosia di tutti
i veterani che si sentivano oltraggiati dalla sua scelta. Dalla battaglia dei Fuochi
erano passati due mesi piuttosto travagliati. Cambria aveva continuato a martellare il fronte senza però azzardarsi a invaderlo di nuovo con il grosso delle truppe.
Con il sopraggiungere dell’inverno, era arrivato il tempo di insegnare a Mordraud
un po’ di responsabilità, aveva pensato. E lui non aveva tradito le sue aspettative.
«Li ha guidati senza mai arretrare dalla prima linea. È pazzesco che sia ancora
vivo» continuò Ghiaccio. «Guarda come lo seguono… sarà anche matto, ma con
i suoi uomini ci sa fare. Cos’è, la terza uscita in dieci giorni? Sembra il loro capitano da dieci anni.»
«Per gli Dei, ne avessimo di pazzi come lui!» tuonò Berg alle loro spalle. «Si fa
rispettare, e rischia la sua pelle prima degli altri… cinque giorni fa l’ho portato
286
con i miei durante un’incursione. L’ho dovuto acciuffare per impedirgli di correre contro il nemico da solo! Adraman, ma tu sai cosa gli ha fatto di male Cambria?! Noi odiamo l’impero, ma lui… beh, lui va oltre l’odio…»
«Non ne ho idea. Io sapevo solo che voleva combattere con noi, tutto qua.
Prima faceva il domestico.»
«Accidenti… e da chi ha imparato a usare la spada?!»
«Non da me» disse Adraman alzando le spalle «penso da solo.»
«Ehi, guardate!» esclamò Ghiaccio. Tutti si voltarono verso il punto che lui
stava indicando. Mordraud si era staccato dal suo plotone a caccia di due cavalieri nemici. Anche da quella distanza riconobbero all’istante le loro armature.
«Lance! Ma è impazzito sul serio?!»
«Devono essere due capitani di plotone. Guarda come se la filano, i codardi…»
ridacchiò Berg.
«Non c’è niente da ridere! Quella è gente che sa cantare…»
Come se lo avessero sentito, le due Lance si voltarono scatenando alle loro
spalle un’ondata di fuoco e fiamme accecanti. Adraman trattenne il respiro, come
se fosse lui al posto di Mordraud. Il fumo e la luce impediva a tutti di vedere cosa stesse succedendo.
«Eccolo lì!»
Mordraud sbucò fuori dalla nube densa e rossastra.
«Ve l’ho detto, è un cane rabbioso… non ha paura di niente! Lasciamogli spezzare le sue Lance, è quello che sa fare meglio…»
Mordraud continuava a galoppare dietro le due Lance in fuga, con il mantello
che scudisciava in preda al fuoco. Alla fine li raggiunse, dopo averli inseguiti lungo tutta la spiaggetta del fiume. Trafisse il primo con la spada, e mentre il secondo stava intonando un nuovo canto, Mordraud gli si scagliò contro gettandolo
giù da cavallo. Adraman lo vide lottare in terra con il cavaliere, sopraffarlo e
strozzarlo in modo brutale. Sulla faccia aveva dipinta la stessa identica espressione di sempre.
Gioia. Piacere. Appagamento.
«Se scopa come ammazza, meglio nascondere le donne…» provò a dire Berg.
Adraman lo fulminò con lo sguardo.
«Questo dovrebbe essere l’ultimo scontro prima dell’inverno. Stanotte dicono
che nevicherà, e non smetterà per giorni» concluse con voce tirata e stanca il generale. «Date ordini di smobilitare i battaglioni. Lasciamo solo il minimo indispensabile.»
«E Mordraud? Torna a casa con noi o…» chiese Ghiaccio.
«Magari qualche giorno, ma dopo se ne torna qua al fresco» disse Berg «dico
bene, Adraman? Mi servono ragazzi come lui. Quest’anno tocca a me il presidio
d’inverno.»
287
«Come vuoi, Berg» rispose Adraman, con una certa punta di sollievo nella voce. «Mi sembra un’ottima idea.»
«Vuoi ben vedere…» sussurrò Ghiaccio.
«Cos’hai detto?!»
«Niente, niente…» rispose il capitano con un mezzo sorriso sulla faccia «penso
che sia proprio la cosa giusta da fare.»
***
Gwern era in taverna come ogni mattina, impegnato a pulire i tavoli e le panche. Il cuore dell’inverno era finalmente arrivato, un po’ in ritardo rispetto al solito, e con lui anche i clienti. Solitamente, dopo la notte dei Fuochi il freddo non
tardava mai molto, ma quell’anno era giunto inaspettatamente tardi. Tutte le sere
la locanda traboccava di soldati, impegnati a spendere fino all’ultimo spicciolo
della loro paga in birra, vino e stinco di maiale. “Il bello e il brutto di essere un
uomo di Eldain… vivi sempre con l’idea che potrebbe essere l’ultimo inverno
della tua vita” pensò sorridendo mentre strisciava con forza su una macchia che
non voleva saperne di venire via. Larois era sempre più debole, e ormai lasciava a
lui tutti i lavori gravosi, impegnandosi solo in cucina. Gli anni erano arrivati su di
lei tutti di colpo. Gwern faceva il possibile per alleggerirle il lavoro, e ormai riusciva a dedicare poco tempo a ciò che gli piaceva fare oltre ogni cosa. Leggere, e
studiare insieme a Sernio. Per prepararsi al giorno in cui sarebbe riuscito ad andare da Saiden. Larois era quasi convinta. Non lo dava a vedere, ma lui sapeva
che ci stava pensando.
Proprio mentre era impegnato a ripetere a memoria un passaggio dell’ultimo
libro che aveva letto, un resoconto della storia antica del mare interno, Gwern
sentì la porta aprirsi alle sue spalle. Passi pesanti guantati di ferro.
«Fratello!»
Gwern si voltò pieno di gioia. Era convinto di avere di fronte Mordraud, ma
l’uomo che lo stava osservando gli somigliava solo per l’armatura che indossava.
«Sei Gwern?»
Il soldato era incredibilmente alto e imponente, un gigante. Il suo cuore si fermò, nell’attesa dolorosa di una notizia che aveva temuto ogni giorno da quando
lui era partito.
«Sono io…» mormorò parandosi la faccia come se temesse di ricevere uno
schiaffo.
«Giungo dal fronte per portarti una cosa, da parte di tuo fratello.»
L’uomo frugò in una piccola sacca appesa alla cintura ed estrasse un pacchetto,
avvolto in un fazzoletto rosso. Con profondo rispetto lo allungò al ragazzo, accennando un inchino.
288
«Devi essere orgoglioso. Mordraud è mio amico, e un grande compagno in
battaglia. Abbiamo combattuto insieme nella battaglia dei Fuochi e sono vivo
solo per merito suo.»
«Come ti chiami?» chiese Gwern.
«Benno. Faccio parte della squadra di tuo fratello. E ne vado fiero.»
Gwern prese il pacco e sciolse il drappo rosso. Dentro trovò un pesante sacchetto di cuoio e una lettera, scritta con una calligrafia energica e spigolosa, inconfondibile. Il soldato restò immobile in attesa di ordini.
«Mi ha chiesto di portarti i suoi saluti. Ha ricevuto l’ordine di presidiare il fronte, e non sa quando riuscirà a tornare.»
Gwern aprì il piccolo sacchetto e ne rovesciò il contenuto.
Una cascata di gemme scintillanti.
Sconvolto, strinse la mano su quel tesoro e aprì la lettera.
Caro Fratello,
Ho raccolto tutti i risparmi che avevo e li ho fatti
cambiare in gemme, perché ti fosse facile trasportarli
e conservarli. Dovrebbero essere sufficienti per iniziare lo studio con quel famoso cantore di cui mi
parli sempre. Benno ti accompagnerà nella tua nuova scuola e farà tutto quello che vuoi. Me lo deve,
quel grosso orso senza cervello. Chiedigli chi gli ha
rotto il naso. Fattelo raccontare, ti divertirai.
Eldain ha dichiarato, dopo la battaglia dei Fuochi,
che per ogni Lancia uccisa avrebbe donato un pugno d’oro. Non l’avesse mai fatto! Se non si affretta
a ritirare l’offerta, entro l’anno prossimo io e i miei
ragazzi gli svuotiamo i forzieri. Parte di questi soldi me li ha anticipati Adraman, ma non ci metterò
molto a ripagarlo.
Diventa forte, perché un giorno, forse, dovrai ricambiarmi il favore.
Non morirò, te l’ho promesso.
Ti voglio bene.
Mordraud
«Ma come ha fatto a…»
289
«Siamo andati a punzecchiare i campi dell’impero quando meno se lo aspettavano. È stata un’idea di Mordraud, colpire anche durante le nevicate più dure…
all’inizio non ci voleva andare nessuno, solo noi della squadra. Ma si sono dovuti
ricredere i signori ai piani alti! Dovevi vedere il casino che abbiamo fatto! E
quante Lance abbiamo raccolto!» disse Benno ridacchiando.
«Cosa… cosa devo fare?!»
«Vai a prepararti, devo scortarti verso Sud»
«Puoi aspettare qui? Ma come faccio… ci sono così tante cose che dovrei fare…»
«Agli ordini, signore. Fate pure con comodo» Benno si inchinò sorridendo.
«Possiamo anche partire domani mattina. Ma non più tardi. Mordraud mi aspetta
al fronte.»
«Faccio più in fretta che posso» disse Gwern correndo verso la porta delle cucine.
Un sogno che si avverava. Gwern era troppo confuso per rendersi conto di
quello che stava succedendo. Fino a pochi mesi prima sembrava qualcosa di impossibile, diventare allievo di Saiden come tante volte Sernio gli aveva auspicato.
Anche dopo che l’avevano presentato a Larois, non credeva possibile che la faccenda potesse andare in porto. Invece, Mordraud ce l’aveva fatta. Gwern era eccitato come non mai, e iniziò a ragionare sul da farsi. Doveva radunare le sue cose, passare a salutare il vecchio libraio, magari portare un saluto anche alle donne
del mercato che erano sempre buone con lui. Per un momento si sentì lievemente in colpa per Larois, e non sapeva come dirle che stava per partire. Lei sapeva
che sarebbe successo. Non aveva ancora detto di non volerlo, ed era come se
avesse silenziosamente dato il suo assenso. Anche se non stava bene, anche se
aveva bisogno di aiuto, glielo avrebbe permesso. Per il suo bene. Era ciò che
aveva sempre sognato. Mordraud rischiava la vita ogni giorno per permetterglielo.
Gwern raccolse tutto il suo coraggio ed entrò in salotto. Sapeva già che avrebbe sentito la sua mancanza, ma cercò in tutti i modi di resistere alla nostalgia che
già spingeva per fargli cambiare idea.
«Larois… devo dirti una cosa…»
«Che c’è figliolo?» chiese lei aprendo gli occhi. Stava sonnecchiando nella sua
poltrona. «Cos’è quella faccia brutta? È successo qualcosa in taverna? Oggi proprio non riesco a darti una mano con le pulizie.»
«No… devo dirti una cosa…» disse Gwern con voce un po’ triste.
«Ti ricordi quel signore, Saiden…»
***
290
«Benvenuti a tutti voi.»
Loralon era seduto sul trono di legno e oro al centro del salone delle cerimonie. Stava cercando di associare nomi e facce di tutti i soldati assiepati di fronte a
lui, in piedi e sull’attenti. L’esercito di Cambria era una gigantesca macchina dai
complessi ingranaggi, infarcita di reparti, responsabili, gradi dal valore spesso
sfumato. Da un lato, i burocrati che gestivano le retrovie, i rifornimenti, le paghe.
Dietro, i tenutari degli allevamenti di cavalli, i capi stalliere, gli addestratori, i falconieri, i maestri arcieri. In mezzo si agitava una marea ribollente di capitani di
squadriglia, tenenti, caporali, incursori, direttori di coro, generali di ogni tipo e
forma.
“Uno per ogni favore che mio nonno ha dovuto corrispondere alle stramaledette famiglie della città…” pensò infastidito dal brusio.
«Gloria eterna all’impero!» rispose la marea di mangiapane a tradimento. «E
gloria alla famiglia Loren!»
«Diamo inizio al concilio del primo dell’anno.»
Gli ospiti si sedettero all’unisono nelle larghe poltrone in seta porpora, e subito
uno squadrone di servitori si sparse nella sala consegnando e riempiendo calici di
vino e bocconcini di cacciagione croccante. Loralon rifiutò tutto fuorché un
semplice bicchiere d’acqua. Il nervosismo, come sempre, gli aveva chiuso lo
stomaco in una morsa acida.
«Prima di iniziare, vorrei ringraziarvi di essere qui presenti. Avete affrontato
viaggi lunghi e travagliati per giungere fin qui, nella capitale del nostro amato impero. E non posso che lodare le Lance Imperiali per essere qui, insieme a tutti
noi.»
Asaeld alzò una mano e gli uomini in nero e oro batterono i tacchi. Le Lance
sembravano un corpo unico, compatto, in mezzo a un mercato caotico. Non bevevano, non fumavano né chiacchieravano sotto voce come tutti gli altri.
“Gli unici che sanno mantenere un minimo di decoro” pensò amaramente Loralon.
«È stato un anno difficile, ricco di spunti ma povero di risultati. Siamo qui riuniti per valutare nuove proposte, cercare soluzioni inaspettate per stroncare una
volta per tutte la resistenza dell’alleanza di Eldain. Vorrei sentire ogni rappresentante, partendo dai gradi minori. Chi vuole iniziare?»
Dunwich sedeva a fianco di Asaeld. Indossava la prestigiosa armatura cerimoniale delle Lance, nera, lucida e intarsiata d’oro come un gioiello, che gli pesava
fastidiosamente sulle spalle e lo faceva sentire un idiota impacciato. Non aveva il
benché minimo interesse per i complicati discorsi che stavano portando avanti,
uno a uno, i sedicenti esperti dell’esercito. Aveva tentato in tutti i modi di parlare
con Asaeld in privato prima del concilio, ma il generale non aveva avuto un attimo di tempo da dedicargli. Eppure, ciò che doveva dirgli era molto più impor291
tante di tutte quelle chiacchiere senza sbocchi. Traditori nascosti nell’esercito.
Una scoperta esplosiva, dalle conseguenze inimmaginabili.
E poi, Mordraud. Finalmente aveva trovato qualcuno di affidabile da mandare
a Eld, dopo le ultime esperienze disastrose. Una vecchia Lancia ormai fuori
dall’esercito e con il vizietto del gioco. Dadi, combattimenti fra galli, pugilato. Un
maniaco delle scommesse. Da quello che sapeva, aveva perso tutti i soldi del vitalizio imperiale, ed era alla disperata ricerca di oro per pagare i debiti. A
Dunwich il denaro non mancava, e la Lancia si era dimostrata subito interessata
alla sua proposta. Con la sua preparazione, entrare nelle terre di Eldain sarebbe
stato semplice. Il bisogno di soldi lo rendeva ricattabile e docile. L’aspetto anziano lo avrebbe aiutato a passare inosservato. Dunwich gli aveva consegnato una
descrizione minuziosa dei suoi fratelli e lo aveva sguinzagliato. Ora doveva solo
aspettare una sua notizia.
“Devo sapere dov’è Mordraud, su che fronte, con quale ruolo… non posso rischiare di incontrarlo sul campo di battaglia. Devo prima capire cosa è successo
a casa” pensò guardandosi intorno “e magari l’unico modo è parlarne con
Gwern… ma di lui non so niente.”
«Hai sentito? Iniziamo bene…»
«Cosa?» chiese Dunwich ritornando con la mente al concilio. Asaeld era chino
verso di lui e sorrideva nascondendosi la bocca con il palmo della mano.
«Vogliono costruire una strada verso l’ansa dell’Hann per muovere le macchine
d’assedio inventate dalla corporazione degli artigiani. Mostri di legno che a loro
dire possono anche sputare fiamme, pieni di rostri, mossi da corde… monumenti allo spreco di denaro.»
«Mh, già.»
«Non sei interessato, Dunwich?»
«Per niente. Ho cose più importanti a cui pensare.»
«Ah sì?» chiese Asaeld con un sorriso ancora più sottile. «Vorresti rendere partecipe anche me?»
«Ci ho provato, ma tu non hai avuto tempo da dedicarmi.»
«Cosa fai, la donna offesa?!»
Dunwich sillabò senza voce un insulto e si avvicinò di più ad Asaeld. «Ho le
prove che esistono traditori all’interno delle forze imperiali. Forse gli stessi che
hanno fatto saltare i piani durante la battaglia dei Fuochi.»
Asaeld divenne improvvisamente serio. Gli afferrò la piastra d’acciaio sulla coscia e strinse.
«E chi sarebbero? Che prove hai? Come li hai trovati?»
«Non so bene chi siano, o almeno, chi ci sia ai vertici» iniziò Dunwich staccandosi di dosso infastidito la mano di Asaeld. «Hanno tentato di uccidermi, due
volte.»
292
Raccontò nei dettagli tutto quello che era successo negli ultimi giorni, senza
più ascoltare neppure una parola di quello che veniva detto in sala. Escluse solo
Erain e la sua famiglia, convinto ormai che non avessero un ruolo in quella storia. Asaeld annuiva lentamente e borbottava qualcosa fra sé, ogni tanto si guardava intorno e poi ritornava a concentrarsi su Dunwich. Quando il resoconto fu
completato, il generale si sedette in modo composto abbozzando un sorriso.
Sembrava che le parole di Dunwich lo avessero tranquillizzato.
«Siamo di fronte a una minaccia terribile. Hai fatto un ottimo lavoro, Dunwich.
Come sempre.»
«Ma non ho fatto ancora niente…»
«Come no?! Sei sopravvissuto, hai trovato i colpevoli, e li hai fatti fuori. Ora,
grazie alle tue scoperte, farò saltare fuori i nomi degli altri congiurati, vedrai. Basterà torchiare le persone giuste…»
«Ma non sappiamo chi sia il mandante di tutto, e se fosse qualcuno… molto in
alto?» provò a dire Dunwich bisbigliando. Asaeld non sembrava della stessa idea.
Con una semplice pacca sulla spalla chiuse l’argomento e tornò a dedicarsi al
consiglio.
«Tutto qui?!»
«Certo, Dunwich. Tutto qui, per ora. Sei stato bravo, ti ringrazio, e ti farò sapere come procedono le indagini. Ti terrò informato su tutto.»
«Ma io…»
«Non ora, ragazzo mio. Fra poco dobbiamo parlare.»
Dunwich sbuffò e ritornò a seguire le inutili diatribe fra i capitani della fanteria,
che si stavano rimbeccando errori riguardo la battaglia della notte dei Fuochi.
Anche l’Imperatore sembrava poco interessato al concilio. Nessuno voleva
prendersi la colpa di niente. I responsabili dei rifornimenti accusavano i raccolti, i
magazzinieri inveivano contro il maltempo, i cavalieri punzecchiavano la scarsa
qualità dei cavalli, i tenenti chiedevano armi migliori e in quantità maggiore.
Dunwich imprecò profusamente a bassa voce, cercando di sgranchirsi le gambe
appesantite dalla disgraziata armatura da parata, senza minimamente riuscirci.
«Ora basta!» tuonò Loralon. «Non c’è nessuno che abbia una stramaledettissima idea nuova?! Voi, strateghi… avete un piano interessante? C’è ancora qualcuno competente nel mio esercito?!»
«I cantori» esclamò improvvisamente Dunwich ad alta voce. Si era stancato di
perdere tempo, e non ne poteva più di stare seduto.
«E cioè?!» chiese l’Imperatore azzittendo con astio un gruppetto di consiglieri
che si stavano accapigliando nelle prime file. «Cosa intendi, Lancia?»
Dunwich aveva parlato senza riflettere, esasperato dal nervosismo e dalla scena
penosa a cui era stato costretto a prendere parte. Non si aspettava di dover mo293
tivare la sua affermazione. Pensò un istante, prese coraggio e si alzò in piedi sotto gli occhi increduli di Asaeld.
«I ribelli non hanno che un paio di maestri di risonanze, mentre noi abbiamo
L’Arcana. L’impero dispone di grandi cantori, di esperti davvero preparati. Mi
chiedo perché non si sia mai lavorato su questo dettaglio.»
«Smettila, Dunwich» sibilò Asaeld stizzito «stai sprecando il fiato.»
«E perché?! È una buona idea.»
«Forse, ma…» tentò di ribattere Asaeld, ma la voce di Loralon coprì quello
stava per dire.
«Continua Lancia, anzi… tu dovresti essere Dunwich, o sbaglio?»
«No signore, non sbagliate.»
«Bene, Dunwich. Cos’hai da dirci?»
«Allora…» Dunwich fece due passi toccandosi il mento con fare meditabondo.
Ovviamente sapeva già cosa dire, ma voleva dare l’idea che fosse qualcosa di sofferto per attrarre l’attenzione di tutti. «Probabilmente è una banalità, una possibilità che voi avete già vagliato, ma io vorrei riproporla lo stesso…»
«Va bene, va’ avanti» disse Loralon sporgendosi dallo scranno.
«Con le armonie si possono fare grandi cose, come voi ben sapete. Scuotere la
terra, incendiare il cielo, rendere impossibile la vita… avvelenare l’acqua, ammorbare le bestie…»
Dunwich camminò a grandi e lente falcate in lungo e in largo nella sala. «Dovremmo studiare qualcosa che fiacchi la resistenza dei ribelli, per poi colpirli in
modo più mirato, senza inutili perdite di tempo lungo tutto il fronte.»
«Hai già in mente qualcosa?!» Loralon non aveva occhi che per lui. La sala intera aspettava la sua idea. La faccenda stava prendendo una piega interessante,
pensò sorridendo.
«Un attacco portato da tutti i nostri cantori, e le Lance a fare da supporto. La
potenza della musica di Cambria, concentrata in un solo punto e tutta in una volta. Si potrebbe studiare un’armonia da far cantare al nostro migliore coro, volto a
sconvolgere il clima in una sola notte, magari una terrificante tempesta con bordate d’acqua dal cielo, fulmini, un vento così forte da spazzare via anche i cavalli.
Il Terrapieno sarebbe un bersaglio perfetto. Dopo il coro, lasciare alle Lance il
compito di sfondare le ultime resistenze di Eldain. I ribelli non hanno strumenti
per difendersi dai nostri cantori.»
«Quindi andrebbe studiato un canto nuovo…» disse Loralon rimuginando attentamente. «Qualcosa che colpisca da molto lontano, e solo in un punto preciso…»
«Non si può fare!» esclamò uno dei rappresentanti dell’Arcana, facendosi largo
fra la folla. «Sarebbero necessari centinaia di cantori, tutti perfettamente
all’unisono, e anche il più piccolo errore potrebbe essere disastroso!»
294
«Non è necessariamente vero» rispose Dunwich senza scomporsi. «Sarebbe
sufficiente raddoppiare, triplicare le voci per ogni linea armonica. Non è infattibile. Sono convinto che l’Arcana, e tutti i suoi grandi maestri, possono trovare
una melodia elegante e ben strutturata che possa fungere allo scopo. Non è necessario che la ricerca di questa risonanza sia rapida. Più i tempi di preparazione
sono lunghi, più è facile.»
Dunwich vide con la coda dell’occhio Asaeld mormorare qualcosa, ma non
riuscì a cogliere cosa stesse dicendo. Il maestro dell’Arcana che si era alzato per
contrastare la sua idea scosse per un istante la testa, si guardò intorno, e quando
ricominciò a parlare sembrava assai più accondiscendente. Fu un cambio repentino che spiazzò Dunwich.
«Certo che, vista sotto questo punto di vista, l’idea non è malvagia… potrebbero volerci giorni di preparazione, e solo con i migliori dei nostri ma… ci potremmo lavorare sopra.»
«Davvero?!» chiese con voce eccitata Loralon. «Si potrebbe scagliare sul Terrapieno una tempesta divina? Qualcosa che spazzi via ogni loro resistenza?»
«Non solo!» continuò il cantore infervorandosi. «Perché fermarci a un unico
evento? Con la forza di cui disponiamo siamo in grado di fare ben altro!»
Dunwich guardò prima il maestro, poi l’Imperatore. Stavano perdendo il filo
della sua proposta. «Non dobbiamo però esagerare, altrimenti i ribelli potrebbero
escogitare qualcosa per…»
«Ho una grande visione!» gridò il maestro con voce altisonante. Dunwich lo riconobbe solo in quel momento. Raelin, il grande rettore dell’Arcana. Teoricamente, lo studioso di armonie più affermato e autorevole dell’impero. «Vedo un
inverno buio e senza fine, vedo i fiumi ghiacciati e la terra spaccata e senza vita
anche in piena estate. Se creassimo un’armonia talmente complessa da mutare il
clima, allora potremmo stringere Eldain e i suoi in una morsa di gelo mortale!
Possiamo vincere la guerra senza rischiare i nostri uomini sul campo!»
«Non ci siamo!» gridò Dunwich costernato. La situazione si era ribaltata in
modo assurdo. Quello non era il suo piano, sebbene ne condividesse qualche
punto. «Io parlavo di qualcosa di mirato, rapido ed efficace! E poi di attaccare
con tutte le nostre forze per raggiungere Eld! Un lungo inverno… non ha senso!»
Loralon passò con lo sguardo da Raelin a Dunwich, ma le parole del maestro
dell’Arcana sembravano più interessanti.
«Sarebbe davvero possibile una cosa simile?!»
«Certo, se ci concentriamo a ricercare la giusta risonanza! Le nostre voci devono interagire con le nuvole e con il vento, i bassi devono sostenere il cielo e i solisti scatenare le tempeste! Stupendo, non credete? Che immagine sontuosa della
nostra potenza! Un lungo inverno… il Lungo Inverno! Ecco come si chiamerà il
295
canto che ci consentirà di vincere! Noi dell’Arcana possiamo svilupparlo, mio
Imperatore. Sono certo che ne sarete soddisfatto!»
«E cosa servirebbe per compiere un simile miracolo?!» chiese ansiosamente
Loralon.
«Prima di tutto, dobbiamo inviare qualcuno dei nostri all’interno del territorio
di Eldain per valutarne i confini… dobbiamo conoscere alla perfezione ogni sasso, ogni corso d’acqua della zona che vogliamo coinvolgere all’interno della mutazione climatica…»
Dunwich crollò sulla sua poltrona sconvolto dalla piega degli eventi. Asaeld
smise di mormorare e si voltò verso di lui annuendo con grande soddisfazione.
«Geniale, come tuo solito! Un inverno eterno… come ti è venuto in mente?»
«Ma io… non è quello…» Dunwich vide che Asaeld già non lo stava più ascoltando, e lasciò perdere. «Bah, fottetevi… un branco di matti, ecco cosa siete…»
«Hai detto qualcosa?» gli chiese Asaeld sorridendo maliziosamente.
«Lunga vita all’impero» mormorò Dunwich.
***
«Sei proprio sicuro che l’ha detto Berg?!»
«Ma sì, l’altra sera…»
«Dai Mordraud… c’eravamo anche noi durante la cena… ha detto dovremmo
punzecchiarli un po’ e farli arretrare dal fiume. Non ha detto voi fateli arretrare
dal fiume!»
«È la stessa cosa.»
«Ma no! Non è la stessa cosa!»
Mordraud stava affilando e lucidando la spada seduto sul Terrapieno, circondato dagli uomini della sua squadra. Trenta ragazzi poco più che alle prime armi,
tutti sopravvissuti alla prova sul campo della battaglia dei Fuochi. Praticamente,
tutti i nuovi che si erano trovati vicino a lui all’inizio della mischia. Adraman lo
aveva premiato con quella responsabilità, e lui non voleva a nessun costo tradire
la sua fiducia.
Durante una perlustrazione, qualche giorno prima, aveva trovato i segni inconfondibili del passaggio di truppe a poche ore a Sud dal Terrapieno. Un battaglione dell’impero si era accampato nei pressi di un torrente che confluiva nell’Hann,
e fin lì era tutto piuttosto normale. Con il freddo, era arrivata anche la tregua. Sarebbe durata fino al disgelo, e mancava ancora un mese alla primavera. Ma
Mordraud non si sentiva tranquillo. Quelle tracce erano troppo vicine al Terrapieno, e soprattutto si spingevano troppo all’interno dei boschi. Cosa stavano
cercando? Mordraud ne aveva parlato con Berg, e lui non aveva ordinato un at296
tacco, ma neppure aveva detto di restare fermi e calmi ai propri posti. Per lui bastava e avanzava.
«Fra qualche giorno si parte per tornare a casa… ci danno un paio di settimane
di cambio, proprio adesso dobbiamo metterci a rischiare…» sbottò uno dei ragazzi, Rosso. Era chiamato così per via delle guance butterate e guastate.
Mordraud gli mollò un ceffone alla nuca che lo sbilanciò per terra.
«Se hai così fretta di tornartene a casa, allora vatti a nascondere da qualche parte. Magari nelle latrine. Credo che potresti trovarti a tuo agio.»
«Ma Mordraud… io dico solo di seguire gli ordini…»
«Perfetto. Il mio ordine è: usciamo in perlustrazione. Avanti, andate a prendere
la vostra roba.»
I boschi intorno al Terrapieno erano carichi di neve e avvolti nel silenzio. I
passi pesanti dei soldati suonavano attutiti e soffusi, come se stessero camminando su una coltre di lana spessa. Mordraud guidò il gruppo per un paio d’ore
verso l’entroterra e percorse il perimetro del Terrapieno alla ricerca di tracce fresche. I suoi uomini parlottavano a bassa voce mentre lui setacciava, passo dopo
passo, la neve compatta. Il freddo era intenso e congelava il fiato. Rosso sbuffava battendosi le mani sui fianchi per scaldarsi, arrancando dietro tutti.
«Ehi capo, cosa farai quando ritorniamo a Eld?» gli chiese Maglio, il bestione
che aveva lavorato come fabbro per suo padre prima di entrare nell’esercito.
«Noi abbiamo un mezzo piano… e magari a te interessa.»
«Di cosa si tratta, Maglio?»
«Mettiamo assieme i nostri soldi e compriamo un casolare a Est del feudo. Poi
ci andiamo ad abitare tutti insieme quando finiamo il servizio. Un po’ di terra,
due filari di vigna, patate e cipolle… insomma, ci teniamo fuori dai casini.»
«Non sembra male… ma sembra un po’ noioso.»
«Noioso?! Perché non hai sentito il resto del piano…» sghignazzò il soldato «la
seconda parte è… apriamo un bordello! Abbiamo già il nome. La dolce campagnola.
Ovviamente, noi ci facciamo pagare… in natura… tanto abbiamo già la vigna, le
patate, e le cipolle… che ne dici?»
«Sarà un successone.»
«Non abbiamo dubbi. Ti stiamo offrendo un grande privilegio, capo» continuò
Maglio. Tutti annuivano estremamente convinti, a parte Pietà. Lui stava soltanto
ghignando appena.
«A voi interessano i miei soldi, o sbaglio?»
«Ecco, no, figuriamoci…»
«Mh… certo… proprio no» borbottò Mordraud.
«Beh, che colpa abbiamo noi?! Tu ti prendi tutte le Lance! Quante ne hai ammazzate finora?»
Mordraud si fermò e iniziò a contarle sulle dita.
297
«Quattordici… no, quindici. Di una non sono sicuro.»
«Ma le annusi per trovarle?! A ogni incursione con Berg riesci sempre a prenderti per te il loro capitano…» esclamò Rosso facendo finta di sniffargli una spalla.
«Sono tutti pesci piccoli, niente di che.»
«Ma sono pur sempre Lance! Sai come ti chiamano tutti?! Lo spezzalance…»
«Eh, non suona malaccio…»
«Dai capo, dì la verità…» disse un altro vicino a Maglio, un piccoletto basso e
tignoso. Tutti avevano un soprannome al campo, il suo era Gigante. «Stai facendo cassa per fare un regalo a una donna… una bella signora tutta fuoco!»
Mordraud mantenne il sorriso ma il discorso già non gli piaceva più. «Non ho
tempo per andare a donne, Gigante. E poi a me piacciono quelle che non vogliono regali.»
«E allora che cosa fai quando torni a casa con tutti quei soldi?! Te li bevi tutti?
Ti posso anche dare una mano se vuoi…»
«Io non torno con voi a Eld. Resto qua.»
Tutti lo guardarono sgranando gli occhi. Mordraud tornò a occuparsi della ricerca di tracce senza dire altro.
«Ma che cosa ci trovi a stare qua, io dico… sei l’unico che non è felice di tornarsene a casa…»
«Preferisco il Terrapieno. Ora dateci un taglio, stiamo lavorando.»
«Bah, sei proprio un tipo strano…» esclamò Maglio.
«SHH! Ascoltate!» sibilò Rosso alle loro spalle. «Avete sentito?»
Mordraud tese l’orecchio e abbozzò un sorriso compiaciuto. Non molto lontano da lì qualcuno stava scavando con vanga e piccone.
«Ma chi è che si mette a lavorare la terra proprio qua…» mormorò Maglio «e
poi in questa stagione!»
«Idiota, non sono contadini…» lo zittì Mordraud. «Aspettate qui. Gigante, vieni con me. Anche tu Pietà, e prendi l’arco.»
«Sì… mi piace.»
Mordraud sbirciò rabbrividendo il sorriso crudele di Pietà. Quel tizio, quando
voleva, sapeva come far gelare il sangue. Per fortuna era dalla sua parte, pensò
sollevato. Mordraud avanzò a passi felpati fra gli alberi, e quando il rumore divenne più definito diede ordine di sdraiarsi e strisciare fra la neve. Nascosti dalla
vegetazione e da un cumulo di terra smossa, quattro uomini in armatura stavano
scavando delle buche, mentre altri sei tenevano d’occhio il bosco.
«Ma quelle armature…» sussurrò Gigante «non sono i colori della cavalleria di
Punta Irinne?»
Mordraud osservò attentamente e annuì in silenzio. Punta Irinne era un’alleata
di Eld nella guerra contro Cambria, un piccolo feudo a Nord della costa che da298
va sul grande mare dell’Est. Mandava poche truppe, e di solito era gente che parlava poco, e stava molto appartata. Erano mesi che non si vedevano uomini di
Irinne al Terrapieno.
«Una copertura perfetta per infiltrarsi. Quelli sono sicari dell’impero.»
«Ne sei sicuro, Mordraud?»
«Più che certo. Smilzo, riesci a prenderne un paio da… diciamo… laggiù?»
Mordraud indicò un gruppo di alberi piuttosto fitti all’opposto della loro posizione. Il tagliagole annuì con fare estremamente grave, e strisciò via.
«Andate a chiamare gli altri. E fate piano, mi raccomando!»
Mordraud attese con impazienza che i suoi fossero schierati. Come sempre,
l’odore dello scontro lo eccitava. La neve, l’aria e il bosco sembravano brillare
come in un sogno a occhi aperti. La paura era una sensazione del tutto secondaria.
«Pronti…»
Una freccia sibilò fra gli alberi piantandosi perfettamente nel collo del primo
soldato.
«VIA!»
Mordraud scattò alzando sbuffi di neve e fiato congelato. Il silenzio era totale,
rotto solo dal suo respiro gonfiato dal freddo. Una delle guardie impugnò l’arco
e tese la corda verso di lui. La freccia di Pietà stroncò ogni sua velleità. Mordraud
piombò addosso al nemico roteando la spada per liberarla dalla brina.
Il primo guerriero tentò di difendersi ma non ne ebbe il tempo. Con la punta
della lama Mordraud scavò sul suo volto un solco profondo all’altezza degli occhi. Aveva fatto male i conti delle distanze. Trascinato dalla sua stessa foga, travolse il soldato e cadde in una delle buche aperte nel terreno, schiacciando sotto
il suo peso l’uomo che era al lavoro. Una delle pale quasi gli si conficcò nella coscia, squarciando la corazza di cuoio imbottito. Il fango rendeva tutto più difficile. Mordraud tentò di manovrare la spada ma lo spazio non era sufficiente, così
sbatté l’elsa in faccia all’uomo tramortito sotto di lui e usò il suo corpo per arrampicarsi fuori dalla buca.
Mentre cercava faticosamente di issarsi, arrancando con le dita intirizzite nella
neve sporca e viscida, Mordraud vide un soldato in armatura di Irinne sguainare
la spada a pochi passi da lui. Stava per mollare la presa, ma esitò quando vide che
non era lui l’obiettivo del guerriero nemico. Stava puntando uno dei suoi. Era
uno dei pochi rimasti in vita, un uomo di mezza età magro e curvo sotto il peso
di una corazza palesemente troppo grande per le sue spalle strette.
«NO! NON FARLO!» gridò l’ometto striminzito. «TI PREGO!»
Era come supplicare il vento. Il soldato che fino a poco prima era stato un suo
compagno, non esitò. Gli piantò la spada nel torace, fino all’elsa.
299
«CATTURATE QUELL’UOMO! NON UCCIDETELO!» gridò Mordraud ai
suoi. Rosso e Gigante si erano liberati in fretta dei loro avversari e saltarono la
buca per bloccare il guerriero traditore, ma lo mancarono di un soffio. Mordraud
lo vide correre via inoltrandosi nella foresta.
«Maledizione, cosa aspettate?! Inseguitelo!» imprecò sollevandosi dalla fossa.
Lui e Pietà scattarono sulle sue tracce arrancando fra i cumuli di neve e le radici
sporgenti.
Quel bosco l’avevano percorso in lungo e in largo mille volte, durante i mesi di
addestramento al campo. Adraman provava un piacere quasi perverso
nell’ordinare la raccolta di legna a qualsiasi ora del giorno e della notte, obbligando le reclute a levatacce e fatiche snervanti. Mordraud lo ringraziò dentro di sé.
Sapeva dove stavano andando, e anche Pietà. Senza dirsi una parola si separarono per spingere la preda in trappola. Gli alberi scorrevano indistinti, gelati e piegati dal freddo allo stesso modo. La terra sembrava granito, e i rami sferzavano
contro le sue braccia rigidi come ossa annerite. Aveva il fiatone, e la gamba ferita
dalla vanga stava diventando via via insensibile sotto il peso dei suoi passi. Ma
l’inconfondibile scroscio del ruscello gli donò nuove energie.
L’esploratore imperiale era andato dritto verso l’unico fiumiciattolo della foresta, scavato fra la roccia viscida. In quel punto, la sponda era alta e scoscesa fra la
pietra tagliata di netto. Il ghiaccio chiudeva quasi del tutto il canale, ma un rigagnolo persisteva, anche se il freddo era intenso. Quando raggiunsero le sue
sponde, il fuggitivo si stava guardando intorno in preda alla disperazione. Per
primo vide Pietà, e tentò di sfuggirgli.
Finendo fra le braccia di Mordraud.
«Preso, idiota!»
Un paio di schiaffi ben assestati placarono i suoi bollenti spiriti. Mordraud gli
legò le mani strette alla schiena con un laccio di cuoio, gli sfilò tutte le armi e non
mancò di rincarare la dose di ceffoni, tanto per fargli capire con chi aveva a che
fare. Gli altri ribelli arrivarono alla spicciolata, ridendo in modo becero e complimentandosi con il loro capo.
«Ehi ragazzi, ve l’avevo detto…» gridò Gigante «Mordraud sente la puzza di
Cambria meglio dei cani!»
«Tutta fortuna, non è vero capo?!»
«Ma che fortuna… faccio solo il mio lavoro. Non come voi.»
Mordraud trascinò per un braccio il soldato recalcitrante, e per ammorbidirlo
gli sganciò un altro paio di pugni nello stomaco. Ma fece male.
Sotto i piedi aveva soltanto le pietre viscide e ghiacciate della sponda a strapiombo del torrente.
Mordraud perse un istante l’equilibrio, e il soldato ne approfittò. Invece di gettarsi in avanti tentando una fuga disperata, si lasciò cadere indietro a peso morto.
300
«NO!»
La sua schiena sbatté con violenza sul ghiaccio azzurro del torrente, e una ragnatela di crepe schizzò tutt’intorno a lui. Mordraud stava per buttarsi di sotto,
ma Pietà lo prese all’ultimo momento strattonandolo al braccio.
«Capo, è una pazzia!»
«Lasciami andare! Dobbiamo farlo parlare… dobbiamo…»
Mordraud incrociò gli occhi del prigioniero nell’istante in cui la lastra di ghiaccio cedette sotto il suo peso. Tutti i soldati lo videro sparire nella corrente, mentre tentava di liberarsi le mani legate. L’acqua lo trascinò sotto il ghiaccio della
riva. Lo videro boccheggiare come un pesce grottesco. Il gelo fece il resto.
«MALEDIZIONE!» urlò Mordraud tirando un pugno sulla pietra congelata.
«Capo, era solo un soldato di Cambria…»
«Ma non avete visto?! Ha ucciso uno dei suoi prima di scappare! Non volevano
che noi scoprissimo qualcosa… e adesso non sappiamo cosa avevano intenzione
di fare!»
«Capo, alle fosse abbiamo trovato queste…»
Maglio poggiò a terra alcuni pezzi di una classica armatura da cavaliere imperiale, con lo stemma della corona affilata sul petto. «Si erano cambiati e avevano
nascosto le loro vecchie armature… volevano entrare dal Terrapieno e… fare
chissà cosa.»
«Torniamo indietro» concluse Mordraud «dobbiamo fare rapporto a Berg.
Adesso si infurierà, maledizione…»
«Perché siamo usciti senza permesso?» disse Rosso.
«No, cretino… perché non abbiamo scoperto cosa volessero fare… e non
possiamo farci più niente!»
301
XX
«E così è andato via, alla fine.»
«Già. Sono andati via tutti.»
«Doveva succedere prima o poi.»
«Può darsi… ma fa male lo stesso.»
Larois finì di preparare il brodo che aveva messo a scaldare sopra la stufa al
centro della stanza scalcinata. Sernio aspettava pazientemente, la coperta sulle
gambe e il cucchiaio di legno pronto in mano. Gwern era partito da dieci giorni.
Sembravano passati anni. Le mancava da morire, il suo piccolo Aelian. Alla fine
aveva preso in simpatia anche quella sua stranezza. Un bambino delle favole,
come lei amava chiamarlo. Un regalo a una donna che aveva perso tutto, senza
mai fiatare.
«Spero tu abbia preso una decisione… posso partire?» le aveva detto quella
mattina, svegliandola dal suo sonnellino. Ormai dormiva poco di notte, e di
giorno era sempre stanca. Come tutti i vecchi, pensò con una punta di amarezza.
«Questa è la mia occasione, e Mordraud sta rischiando la vita per permettermi
di provare» aveva continuato dopo le sue prime pallide critiche. La realtà dei fatti
era che Gwern era libero di andare dove voleva. Non avevano legami di sangue,
né di storia. Solo qualche anno di vita condivisa, una mano reciproca nel momento del bisogno.
«Potrebbe essere pericoloso, e tu sei ancora così piccolo…» aveva tentato di
dire Larois, ma aveva ottenuto l’effetto contrario. «Posso cavarmela da solo. Ce
302
l’ha fatta Mordraud, ce la fanno tanti orfani, posso farcela anch’io» aveva risposto Gwern seccato.
«Saiden sembra un brav’uomo, certo… e tu sei tanto motivato. Ma se non fosse la tua strada?»
«Raggiungerò mio fratello e mi unirò ai ribelli!»
«Non ci credi nemmeno tu. Ti conosco, furbetto. La guerra ti spaventa a morte. E ti terrorizza l’idea di usare le armi.»
«Non è vero» aveva esclamato Gwern senza troppa convinzione «posso abituarmi a tutto.»
«Certo, certo…»
«Comunque non cambio idea! Mordraud ha trovato i soldi, come mi aveva
promesso. Saiden ha accettato. Tu l’hai conosciuto. Ora io devo fare la mia parte. Non avrò mai più un’altra occasione così!»
«Allora vai, che aspetti?»
Larois avrebbe desiderato un commiato più dolce.
«La tua roba è in camera. Sul tavolo troverai l’ultima paga.»
«Ma non sto scappando, Larois. Per questo ti ho fatto conoscere il signor Saiden…»
«Potevi anche non chiedermi il permesso, tanto non vuoi cambiare idea. Avanti, va’ da questo Saiden, e vedi di comportarti bene. Ora lasciami riposare un altro po’.»
«Dopo passo a salutarti…»
«Sì, sì, certo… ora vattene…»
Mentre Gwern preparava le sue poche cose, Larois aveva contato i soldi da lasciargli, aggiungendo una mancia generosa. Tutto il denaro che aveva a portata di
mano. A fianco, lasciò ben avvolte in due pezze di lino una grossa forma di pane
riempita con il formaggio e delle fette di carne secca.
“E un po’ di verza, che ti piace tanto” pensò assorta.
Ovviamente, lei aveva fatto di tutto per non vederlo più. Era stata fuori tutto il
giorno. Gwern se ne era già andato al suo ritorno a casa, ben dopo il tramonto.
«Ci sarà rimasto male» disse Sernio gustandosi il brodo caldo. Larois riempì
una larga tazza fumante e si accomodò su una pila di libri.
«Anch’io ci sono rimasta male.»
«Non fare la bambina, Larois.»
«Non faccio la bambina…»
Era lei ad aver combinato il lavoro per Mordraud da Deanna. E sempre lei
aveva mandato Gwern ad assistere Sernio. Sperava di farlo studiare grazie a lui, e
di aiutarlo così a sentirsi meglio dopo la partenza del fratello. Alla fine, aveva dato a tutti e due la possibilità di andarsene. Proprio l’unica cosa che non avrebbe
mai voluto fare.
303
«Invece magari lo stavi facendo sin dall’inizio…»
«Cosa?»
«Dare a quei due la possibilità di diventare qualcuno. Sembra che tu ce l’abbia
fatta.»
«Non è una gran consolazione…» sbottò lei «Mi chiedo solo cosa abbia spinto
il signor Saiden a prendere proprio Gwern. È stato lui a proporlo, vero?»
«Sì, ha stupito anche me» rispose Sernio. «È tornato un giorno da me e mi ha
detto: vorrei conoscere quel ragazzino. Ha detto di aver visto dentro di lui qualcosa di importante. Che sarebbe certo diventato qualcuno.»
«E non ti sembra strano?»
«No… anch’io credo che Gwern possa fare grandi cose.»
«Non mi convinci, vecchio scemo! Quel Saiden sarà pure un brav’uomo, ma è
un tipo un po’ inquietante» borbottò Larois. «Bah… alla fine, tu e la tua boccaccia mi avete portato via il piccolo Gwern… e ora sono di nuovo sola.»
«Come tutti noi vecchi, amica mia» disse Sernio «come ogni altro abitante di
Eld. Siamo tutti da soli… siamo tutti orfani.»
«Forse hai ragione…» mormorò Larois bevendo lentamente il brodo dalla tazza «però mi mancherà lo stesso.»
«Lo so. Tu sei ancora una ragazzina, è ovvio che abbia ragione io.»
Larois rise asciugandosi gli occhi con le dita. «Va bene, sembra proprio che
d’ora in poi dovrò venire io a darti un’occhiata. Ma solo quando la mia schiena
non farà troppo male.»
«Gwern era molto preciso. Mi raccomando, a noi vecchi piacciono le nostre
abitudini.»
«Va bene, va bene…» disse Larois, sorseggiando mestamente la tisana.
***
«Avete ricevuto notizie dalla prima squadra?»
«No, signore.»
Asaeld finì di firmare una serie di missive dirette al fronte Sud. Richieste di vettovaglie, coperte, armi, tutto in grande quantità. Loralon parlava bene e fantasticava ancora meglio, ma la realtà era ben diversa da come se la immaginava. Il
fronte era lungo, e i soldati erano tanti. Troppi, rispetto alle reali forze in campo.
Cosa che non mancava mai di strappargli un sorriso di rispetto per Eldain e i
suoi.
«Neppure una conferma di arrivo?»
«Niente di niente, signore.»
304
Per attuare il piano dell’Arcana, aveva già provveduto a inviare i primi esperti
perché studiassero il territorio e definissero i confini d’azione del complesso canto corale.
«Se anche soltanto uno di loro non dovesse rientrare e confermare la buona
riuscita del piano, saremo costretti a rimandare.»
«Immagino, signore…»
Il suo messaggero privato non sapeva esattamente di quale piano lui stesse parlando. Conosceva solo alcuni dettagli. Anche Dunwich era stato informato solo
in parte, sebbene l’idea fosse stata partorita da un suo spunto. Lui si era arrabbiato come poche altre volte in vita sua. Aveva sbraitato, imprecato contro
l’Imperatore e la sua cricca, bestemmiato appena fuori dalla sala del trono. In
mezzo a molte persone.
“Il ragazzo ha perso un po’ la testa…” pensò sorridendo. “Ma gli passerà.”
«Vai a dare ordine al portavoce dell’Arcana di sospendere l’attività. Si rinvia
tutto al prossimo inverno.»
«Fra un anno, signore?!» chiese sbigottito il servitore.
«Certo, questo ormai è andato. Non faremmo in tempo a inviare altre squadre
prima del completo disgelo.»
«Presumo che l’Imperatore e Raelin la prenderanno piuttosto male.»
«Lo spero proprio» concluse Asaeld facendogli segno di andare via subito «ma
sono obbligati a seguire i miei ordini.»
Un altro anno concesso, forse inutilmente, ai ribelli.
«Eldain, ti lasciamo stare ancora per un po’. Sei felice?» disse al vuoto della
stanza.
«Dovresti esserlo.»
***
«Ho visto posti più allegri al fronte…»
Benno aiutò Gwern a scendere da cavallo. Erano giunti nei pressi del luogo
che Saiden aveva indicato come sua dimora. Davanti a loro giacevano dimenticati e coperti d’edera i resti di una cittadina. Avevano resistito alle intemperie e agli
anni soltanto le fondamenta, profili quadrati di muraglia che marcavano il territorio in desolanti perimetri vuoti. L’unica struttura ancora in piedi era una torre
molto alta e larga, di forma circolare, circa al centro delle rovine. Incredibile come fosse perfettamente conservata, pensò Gwern fischiando stupito. Non aveva
finestre. Soltanto una piccola porta dall’aspetto tremendamente pesante.
«Mi chiedo perché qualcuno voglia vivere in una città abbandonata. Io non lo
farei mai» esclamò Benno mentre slegava il bagaglio di Gwern dalla sella. Lo ac305
compagnò fino alla torre, guardandosi sospettosamente intorno. «Vuoi che
aspetti qualche giorno qui fuori? Nel caso ci fossero… problemi?»
«No Benno, torna da mio fratello» rispose Gwern facendogli segno che tutto
stava andando alla meraviglia. In realtà era terrorizzato, ma non voleva dare
quell’impressione. Preferiva che a Mordraud giungesse un buon resoconto di
come avesse gestito quell’importante momento della sua vita.
Si stava cagando sotto.
Per sua fortuna, Benno non obiettò e se ne andò dubbioso. Lo lasciò da solo
di fronte alla porta della torre. Lui avrebbe preferito aspettare, ma Gwern voleva
a tutti i costi affrontare la situazione da solo. Non poteva più far conto su di lui,
o su Larois. Era tempo di prendere la sua vita a due mani, e di non fermarsi più.
La piccola porta di metallo massiccio si aprì mentre Gwern stava ancora cercando un battacchio da suonare.
«Benvenuto a casa mia.»
Il signor Saiden lo accolse con un vago sorriso compiaciuto. Indossava una
camicia azzurro slavato, i capelli erano ben pettinati all’indietro e gli occhi nocciola brillavano con notevole intensità. Gli fece segno di entrare. Gwern si guardò gli stivali infangati e ciondolò indeciso. «Non ti preoccupare, non è un problema» lo rassicurò lui.
«D’ora in poi, fa come se fossi a casa tua.»
Gwern aspettò che gli occhi si abituassero al cambio di luce, poi diede
un’occhiata intorno. Si stropicciò il volto, si massaggiò il mento perplesso.
«Ma… come stanno…»
«Oh, curiose vero?» rispose Saiden con un sorriso contento. «Chi ha costruito
questa torre era un genio.»
Gwern annuì sconvolto. Il ventre della torre circolare era uno spaventoso spazio aperto su cui galleggiavano enormi cubi di pietra. Ognuno collegato all’altro da
una pazzesca scala a spirale ellittica, stretta e oblunga. Fra i ponti e la scalinata
sospesa, era come osservare da una prospettiva innovativa un paesaggio del tutto
diverso. Come se la struttura non si sviluppasse in verticale, bensì in piano, come
una piccola, e normalissima, cittadina.
«Non ha senso» riuscì soltanto a dire Gwern.
«Sì, c’è il trucco. Vieni, te lo mostro.»
Saiden lo condusse alle pendici della mostruosa scala. Prese a salire, ma Gwern
non lo seguì. Non c’era il corrimano. Era impossibile anche solo pensare che
qualcuno avesse il coraggio di metterci i piedi sopra. Saliva troppo in alto. La
forma era impossibile.
«Se vuoi imparare il canto, credo che tu debba sviluppare un po’ più di coraggio.»
306
Gwern schizzò sui primi gradini fissando il soffitto con il sudore freddo al collo. Solo in quel momento si rese conto che l’unica luce presente in tutta la torre
cadeva dal tetto. Era composto da una cupola di vetro trasparente, con appena
una sottilissima rete d’acciaio a reggerne il peso. Era uno spettacolo clamorosamente bello. La parete cilindrica della torre creava un gioco di ombre che trasformava la calotta di cielo nella bocca di un pozzo, popolata da cubi di porfido
che fuoriuscivano da tutte le parti con geometrica precisione.
La scala al centro era la spina dorsale, lo scheletro di un essere degli abissi.
«Siamo arrivati. Che te ne pare?»
Gwern batté le palpebre confuso. Erano giunti di fronte al primo cubicolo. Il
ballatoio della scala dava su una porta aperta, da cui brillava la piacevole luce di
una candela. Era una stanza unica, piuttosto piccola ma confortevole. Un bel letto in un angolo, uno scrittoio di ardesia. Il lavello in un angolo.
Il problema era che non si ricordava come fosse giunto fin lì.
«Ti sei lasciato impressionare dalla torre. Tranquillo, succede a tutti quelli che
la vedono per la prima volta. Lo stupore passa subito. Ci si fa l’abitudine…»
«Ma… come è possibile che… insomma, non capisco» balbettò Gwern. Nulla
stava andando come doveva. Si era aspettato di doversi presentare al signor Saiden, magari di dover svolgere una prova. Invece lui si comportava come se si
conoscessero da tempo. Il suo sguardo fisso lo lasciava perplesso e spiazzato.
Sembrava che Saiden fosse ossessionato da qualcosa perfettamente al centro del
suo sterno.
Per quanto fosse un comportamento incomprensibile, Gwern non ebbe il mimino dubbio sulle sue intenzioni. Era una sorta di fiducia indotta. Lui non se ne
rendeva conto, ma era come se Saiden emanasse intorno a sé una sicurezza incrollabile di cui fidarsi ciecamente.
«Questa torre è stata costruita dagli Aelian. Un raro esempio dei loro gusti per
l’architettura. Ed è rimasta tale e quale all’epoca in cui loro la usavano come…
chissà cosa.»
«Aelian?!»
«Esatto» rispose Saiden con noncuranza.
«E come ha fatto a resistere tutto questo tempo?! Nessuno l’ha mai, ecco, depredata?»
«La porta era ben chiusa.»
A quell’affermazione, Gwern si sentì in dovere di non chiedere oltre. Tutta la
sua attenzione si riversò su altro.
«Non pensavo che gli Aelian potessero apprezzare un posto così.»
Saiden sorrise sgranando gli occhi.
«Di solito, il primo pensiero della gente è… chi sono gli Aelian?»
«Mh, ho sentito qualche favola, sono piuttosto conosciute da dove vengo io.»
307
«Ah, capisco…»
Saiden ridacchiò ancora e lo fece entrare nella stanza. Era tutto in ordine e a
posto. C’erano anche abiti più o meno della sua taglia, e un paio di libri sul cuscino. Romanzi. Riconobbe le copertine di pelle, erano libri di Sernio.
Era un posto stupendo in cui vivere.
«Domani ti spiegherò meglio cosa c’è in questa torre. Poi, quando ti sentirai
pronto, inizieremo a lavorare un po’ su di te.»
«Possiamo iniziare anche subito!» esclamò baldanzoso Gwern. Tutte quelle assurdità lo avevano eccitato. Smaniava di fare e di vedere il resto della scalinata.
«Non avrei fretta, se fossi in te…» rispose Saiden con ancora il sorriso bloccato sulle labbra. «Lascia il conto sul tavolo, domani mattina.» Uscì tirandosi dietro
la porta, e Gwern si ritrovò da solo, a chiedersi per l’esattezza cosa lui volesse
intendere.
***
«Signora… posso entrare?»
«No.»
Adrina non mollò la presa, e riprese a bussare con tocco leggero ma determinato.
«Cosa vuoi?! Ho detto che non puoi entrare!»
«C’è Mordraud di sotto che chiede di voi.»
Deanna saltò in piedi come una molla carica, e il libro che stava leggendo
sdraiata sul letto volò sul pavimento.
«Non mi interessa. Ditegli che ora non posso.»
«Ma ha insistito…»
«E allora? Lasciatelo insistere. Ora non posso» disse mentre apriva freneticamente lo scrigno dei trucchi. «Mandatelo a fare la spesa, fategli fare qualcosa. È
pur sempre un nostro domestico.»
«Adesso è un soldato, signora…»
«Ma sì, che differenza fa!»
Aveva finito la polvere rossa per le labbra. Non la comprava da chissà quanti
mesi, e solo in quel momento si pentì di non averlo fatto. «Adrina, ora basta!
Torna di sotto e lasciami in pace!»
Il velo sulle guance era troppo spesso. Quelle borse sotto gli occhi erano insopportabili. Colpa del poco sonno. Deanna lavorava freneticamente a un palmo
dallo specchio provando diverse combinazioni di colori. Ovviamente, nessuna
andava bene.
«Prima il vestito!» mormorò per non farsi sentire nel corridoio. Conoscendo
Adrina, era ancora lì ad ascoltare fuori dalla porta. Ne aveva tanti di abiti, ma tut308
ti orrendi. O almeno, erano orrendi tutti insieme nello stesso momento, quel maledetto giorno.
Mordraud attendeva nervosamente in piedi nella sala da pranzo, giocherellando
con l’elsa della spada. Non aveva trovato alcun abito decente, così aveva comprato i primi che aveva trovato nei banchi del mercato per sostituire la puzzolente corazza di cuoio. Si era lavato e legato i capelli. Dopo che lo avevano costretto
a tosarsi, quando era giunto la prima volta sul Terrapieno, li aveva lasciati ricrescere ritornando alla sua amata chioma selvaggia.
Sembrava un ragazzo qualunque. Un garzone di paese. Ma la spada se l’era
portata dietro lo stesso. Come se da un momento all’altro avesse dovuto affrontare un’imboscata.
Aveva pensato e ripensato a quel giorno, durante il viaggio insieme agli altri
soldati di cambio dal Terrapieno, ma non aveva concluso nulla di buono. Aveva
evitato i turni di riposo con ogni mezzo, fino a dileguarsi nella macchia proprio il
giorno delle convocazioni, ma alla fine lo avevano incastrato. Adraman non voleva separare le squadre, così lui era stato costretto a partire per il bene di Maglio,
Benno, Gigante e degli altri. Non poteva privarli del loro giusto momento di pace. Non se la sentiva proprio.
La primavera era al suo massimo splendore, e gli attacchi erano ripresi lungo
tutto il fronte. A parte qualche incursione in appoggio ai nodi più deboli della
linea difensiva, e sempre insieme a interi battaglioni di soldati, il resto del tempo
l’aveva passato nella disperata ricerca di una cura per la noia. Cambria era particolarmente sottotono. Non si prevedevano attacchi al Terrapieno per mesi, e
sembrava proprio il momento adatto per passare qualche tempo a casa, sotto il
caldo sole primaverile, fra fottuti mazzi di fiori e ottimo vino dolce. Mordraud
non aveva mai smesso di aver male allo stomaco per tutto il tempo del viaggio.
Non voleva vedere Deanna. Non dopo quella notte, quando era fuggito
nell’ombra in quel modo terribilmente romantico e idiota. Era stato uno sciagurato. Un disgraziato. Un imbecille. Uno schifoso traditore.
«Sei un bastardo» aveva detto lei mentre facevano l’amore. E aveva dannatamente ragione.
Se ci fossero state battaglie, anche lontane e inutili, lui ci sarebbe andato di corsa. Ma Cambria aveva deciso proprio quell’anno di prendersela comoda. Una
sfortuna nella sfortuna. Ormai sulla via di casa, aveva dovuto prendere finalmente atto della vastità del suo gesto. Cosa doveva dirle? Come doveva comportarsi?
E con Adraman? E i servitori, la gente di paese, i compagni, suo fratello. La lista
era infinita.
“Dovevano restare soltanto fantasie. Ora sono in trappola…”
Ma, dato che ormai era veramente in trappola, voleva vederla almeno per capire cosa lei pensasse. Non importava quanti insulti avrebbe preso. Anzi, sarebbe
309
stato molto meglio. Così sarebbe potuto partire in pace con se stesso, rifiutato e
felice.
Ma quando Deanna scese dalle scale e varcò l’ingresso della sala, Mordraud capì che anche quelle erano solo fantasie.
Non l’aveva mai vista così bella. Con la malizia di cui forse solo lei era capace,
Deanna aveva scelto un abito informale ma spudoratamente leggero, che lasciava
intravedere la forma del seno, il profilo dei fianchi, la vita stretta. Quando si sedette davanti a lui, il tessuto rosso scuro scivolò fra le sue cosce disegnando alla
perfezione l’incavo delle gambe. I suoi capelli neri erano più mossi e lucidi del
solito, fermati da pinzette di ferro semplici ma assolutamente non casuali. Lo
sguardo era enfatizzato da un velo di trucco scuro.
«Ciao…»
«Ciao.»
Mordraud allungò una mano per prendere una sedia ma sbagliò completamente le proporzioni. Il risultato fu che la sedia gli cadde sui piedi, il tavolo si spostò
e alcuni bicchieri vuoti si rovesciarono sulla tovaglia. Deanna non sorrise neppure un istante. Mordraud avrebbe preferito veder spuntare una selva di spade dalle
pareti, o magari un paio di Lance assetate di sangue. Sarebbe stato molto più rilassante.
«Ti trovo bene» disse lei senza togliergli gli occhi di dosso. Due occhi stupendi,
proprio su di lui. «Ti sei fatto ricrescere i capelli. Meglio così.»
«Grazie» la interruppe lui, imbarazzato a morte. «Anche tu… non stai male…»
«Per niente. Qui a Eld la primavera è bellissima. E al fronte? Fa ancora molto
freddo?»
Fra le sue parole Mordraud lesse un quasi urlato speriamo.
«No, il bel tempo è arrivato anche laggiù.»
«Cosa sei venuto a fare, Mordraud?»
«Volevo solo… ecco…»
«Qualunque cosa tu volessi fare, scordatela.»
Mordraud tirò un invisibile sospiro di sollievo. “Dai, cacciami via! Così la facciamo finita.” Ma l’euforia durò appena un istante. Deanna accavallò le gambe
con fare distaccato, e il vestito rosso scivolò sapientemente quel tanto che bastava per delineare una striscia di pelle nuda che saliva dai piedi fino alla coscia.
Mordraud sentì sopraggiungere l’ormai classica morsa al basso ventre che era
abituato a sentire quando pensava a lei. Solo che non stava pensando. La sua
fantasia era proprio a un soffio dalle sue mani.
«Non sono qui per, hai capito… quello…»
«No, non ho capito. Per cosa?»
310
“Sta giocando con me! Vuole vedermi soffrire come un cane!” pensò strozzato. La cosa non lo stupì particolarmente. La fitta aumentò in maniera esponenziale.
«Per fare quello che abbiamo fatto quella notte…» continuò Mordraud pesando attentamente le parole.
«Mi vorresti rinfrescare la memoria? Non ricordo.»
La morsa aveva raggiunto tutti i suoi organi interni. Di quel passo sarebbe
morto in modo demenziale.
«Quando abbiamo… fatto… l’amore…»
«Quello non era amore» rispose lei con una staffilata precisa e inesorabile «mi
hai presa con la forza. Mi hai sbattuto contro la parete» Mordraud stava perdendo
la concentrazione, appeso come un salame alle sue labbra. Non si era mai accorto di quanto fossero brave a pronunciare la parola sbattuto.
«E hai fatto quello che volevi. Non ti è bastato?»
«Ecco…»
«Fattelo bastare. Non ci sarà una seconda volta.»
«Ma io non volevo…»
«Non sono stata abbastanza chiara? Non ti permetterò più di sbattermi contro la
parete, frugarmi sotto il vestito, baciarmi…»
Mordraud era ormai piombato nella confusione più totale. Deanna invece
sembrava il ritratto della compostezza. Per averla ancora un’altra volta sarebbe
stato pronto a uccidere. Anche a farsi ammazzare.
«Allora è meglio… vado, si è fatto tardi.»
«La tua prima buona idea. Vattene, che è meglio» le sue dita giocherellavano
con i laccetti sciolti sopra il seno. «Voglio finire un libro, e ne avrò fino a tardi.
Molto tardi.»
«Sì, vado…»
Mordraud inciampò sulla sedia rovesciata, tentò di risollevarla ma quella bastarda cadde giù di nuovo, e alla fine abbandonò tutto fuggendo precipitosamente. Deanna si passò le mani fra i capelli lasciandoli cadere a cascata dietro la
schiena, mentre lui varcava la porta con gli occhi rivolti alla stanza. Quasi travolse Adrina, che rientrava proprio in quel momento con in braccio un grosso pacco avvolto in una tovaglia di cotone.
«A dopo Mordraud. Solita ora, mi raccomando» gli disse, ma lui stava già scappando.
«Cos’è successo?! Tutto a posto?» chiese la domestica a Deanna mentre poggiava l’involto sulla tavola.
«Sì, abbiamo fatto due chiacchiere come ai vecchi tempi. Ah, a proposito…
cambio di programma. Mordraud non può venire a cena.»
311
«Ma mi avete mandato a comprare tutto questo pesce, proprio perché c’era anche lui!»
«Mi sono sbagliata, scusami.»
«Ma come mai vi siete truccata? E che bel vestito…» chiese la donna con tono
estremamente malizioso.
«Adraman sarà qui a momenti. Non posso essere bella per mio marito?»
Adrina non ribatté e se ne andò borbottando in cucina per tutti i soldi che aveva speso al mercato. Deanna sorrise di nuovo, e stese le gambe lasciando cadere
ai fianchi il leggero vestito rosso.
***
«Ora me ne vado. Ritorno al fronte» sbraitava Mordraud ad alta voce mentre
correva lungo la via ingombra di carretti. «Anzi, vado ad attaccare Cambria. Da
solo. Li faccio tutti fuori da solo.»
I passanti si scansavano per lasciarlo passare, parlottando divertiti. Doveva
avere una faccia particolarmente comica. Non sapeva dove andare. Gwern era
finalmente partito. Da Larois, neanche morto. La vecchiaccia avrebbe capito tutto al volo. L’unica scelta possibile erano i ragazzi nel dormitorio, che sicuramente avevano già iniziato col vino.
«Voglio uccidere qualcuno!»
La contadina che si trovava di fronte a lui quasi saltò via per la paura.
Mordraud continuò a correre nella speranza di scaricare la tensione che si era accampata nel suo stomaco. Niente da fare.
«Resta solo il vino…» disse imprecando. «Dei maledetti… sarà una notte orrenda.»
***
«Non ti ho mai vista così bella!»
«Tutto per te, tesoro.»
Adraman abbracciò la moglie e la baciò incredulo. Deanna non oppose la solita resistenza, al contrario sembrava più sciolta e disponibile del solito. «Perché
non andiamo un po’ di sopra?» chiese lui titubante.
«La cena può aspettare» fu la sua risposta. Distratto da piacevoli pensieri,
Adraman non colse a fondo ogni piega sottile del volto di Deanna. Era tanto
preso dalla gradita sorpresa che non poté scorgere quanto lei fosse fredda e artificiale, come una stupenda bambola di ceramica, perfetta e fragile allo stesso
tempo.
312
Ma anche se lo avesse notato, rapito da quell’occasione irrinunciabile, probabilmente non gliene sarebbe fregato niente. Per quella sera, almeno per una sola,
avrebbe avuto la sua razione di felicità.
Deanna si concesse senza fare storie. La cosa fu rapida, indolore e a tratti quasi
piacevole. Adraman era spaventosamente eccitato, e Deanna fece in modo che
tutto filasse nel migliore dei modi. Troppo per lui, poco per lei. Non passò
un’ora che lui già dormiva pesantemente al suo fianco, sorridente e rilassato.
Deanna poté così scivolare fuori dal letto, avvisare i domestici che quella sera i
padroni non avrebbero cenato, e andare finalmente nella sua saletta da lettura.
Per finire di leggere quel lungo, lunghissimo libro.
***
«Allora io ho fatto… COSÌ!» Mordraud sollevò il boccale sopra la testa e annaffiò di vino tutti i presenti. Quando lo schiantò contro il tavolo, il manico di
peltro gli restò in mano e la tazza volò via frantumandosi contro il muro della
camera. «E lui… SBAAM. Morto. Stecchito.»
«Grande, capo! Ti ricordi la faccia di Ghiaccio?! Era più o meno… così…»
Benno spalancò la bocca, piegò la testa di lato e sgranò gli occhi come un demente. Pietà e Gigante risero fino a piegarsi sulle sedie. Maglio stava pulendo il
fondo di un salame con un coltellaccio, ridendo sguaiatamente a ogni nuova cagata che i suoi amici si inventavano. Niente taverna per loro, quella sera.
Mordraud li aveva raggiunti in caserma con un grosso barilotto di vino sulle spalle, avevano chiuso la porta della cucina dopo l’ora di cena, e si erano dati ai bagordi.
«Sentì Pietà, dai solo per stasera…»
«Sì, capo?»
«Raccontaci perché ti fai chiamare Pietà!»
Il volto di Pietà divenne improvvisamente ombroso. Il sorriso si spense. Le
mani si irrigidirono sul tavolo. L’atmosfera si raggelò all’istante.
«Perché cercavo un bel soprannome. Di quelli che ti fanno cagare addosso.»
Pietà parlò con estrema serietà e convinzione. Tutti annuirono soddisfatti dalla
spiegazione.
«Nient’altro?»
«No…» rispose lui mellifluo. La mano gli scivolò sull’impugnatura di uno dei
suoi due pugnali. «Cosa te lo fa pensare, capo?»
Mordraud fissò in silenzio Pietà, serio in volto. Poi, contemporaneamente,
scoppiarono a ridere entrambi, sputacchiando vino e briciole di pane.
«Ehi Benno… e quella volta sul Terrapieno?» continuò Mordraud, rapito dai
ricordi. «Ho paura… mi cago sotto… voglio mia madre…»
313
Mordraud finse di piangere in modo teatrale ma il gesto gli costò troppo equilibrio. Per un pelo non volò a terra come un cretino. Gigante, come al solito,
sembrava lucido come dopo una sana bevuta di acqua piovana, e lo raccattò al
volo.
«Capo, sei proprio una schiappa… a bere, intendo!»
«È che tu hai un buco da qualche parte da dove ti esce tutto il vino… sei un
fottuto ometto bucato!» Mordraud gli tastò la faccia e le spalle con aria pensierosa, poi sorrise e batté la mano sul tavolo. «Ci sono! Hai il culo attaccato alla bocca! Ecco perché non ti ubriachi mai!»
Altro sforzo fuori misura. Quella volta Mordraud cadde a terra, e tutti risero
paonazzi in volto.
«Capo, mi sa che è ora che te ne torni in branda! Come i bambini piccoli, a letto dopo cena!» disse Pietà sputacchiando. Anche lui era alla frutta, come tutti gli
altri.
«Bah, andate a farvi fottere. Io non sono ubriaco!»
Mordraud non ottenne il risultato sperato. I suoi amici risero ancora più forte,
e Maglio lo trascinò alla porta senza ascoltare le sue ragioni.
«Domani devi parlare con Eldain. Se dai la colpa a noi ci metti nei guai… vatti
a letto capo, il resto della botte ce lo scoliamo noi brindando in tuo onore!»
«Bastardi…» bofonchiò Mordraud allontanandosi su piedi pericolosamente
malfermi.
La notte era calda e leggermente velata di foschia. La città era più viva del solito, grazie all’inaspettata tregua dell’impero. Mordraud si chiese se davvero non
fosse ora di andare a letto, ma l’idea di dormire ridotto in quello stato non lo
stuzzicava. Sarebbe stato male, e il giorno dopo avrebbe avuto la nausea fino a
pranzo.
«Devo farmela passare un po’…» borbottò puntando verso le mura «magari i
ragazzi di guardia mi fanno salire a prendere un po’ d’aria…»
I soldati di turno lo riconobbero al volo e lo presero in giro per il suo stato, ma
senza cattiveria. Senza essersene reso conto, Mordraud era diventato una piccola
celebrità. Sopravvissuto alla battaglia dei Fuochi, al comando di una squadra, uccisore di Lance. Tutto in meno di un anno. Un successo chiaro a tutti tranne che
a lui.
La vista dalle mura era sempre bella. La campagna era rischiarata dalla luce diffusa della luna nascosta dalle nubi leggere, e il vento era fresco e piacevole. Lentamente la sbronza mollò la presa, e inesorabili riemersero i motivi per cui
l’aveva cercata con tanta dedizione. Con gesti ormai collaudati, Mordraud tirò
fuori la pipa, la caricò con un paio di prese di tabacco e la accese con un tizzone
del braciere alla base delle scale. Era la miscela preferita di Adraman, che non
mancava mai di allungargliene un po’ la sera, quando si incontravano nella tenda
314
della mensa. Da quando lui l’aveva trovato ferito dopo la battaglia, Adraman era
diventato un amico. Si vedevano raramente, ma non perdevano occasione di farsi una fumata insieme per raccontarsi la vita al fronte. Mordraud si sentì male e
vomitò fino a ribaltarsi lo stomaco giù oltre i merli delle mura.
“Sei un bastardo… un vero bastardo.”
Il vino ormai aveva perso ogni potere su di lui. Era bastato pensare un istante a
Adraman, che subito Deanna aveva fatto capolino nella sua testa.
Il vestito rosso. Le dita che giocavano con i laccetti. E sopra ogni cosa, le sue
gambe nude avvinghiate su di lui.
Adraman che gli porgeva la pipa. Adraman che gli insegnava a caricarla, ad accenderla.
Deanna nuda che si dimenava fra le sue braccia. La sua pelle fra le mani. Il seno tondo che gli dondolava sul volto.
Adraman. Deanna. Adraman. Deanna.
Mordraud vomitò quel poco che gli era rimasto nello stomaco, nella speranza
di sputare fuori anche una scheggia d’anima. Ma quella bastarda non si fece vedere.
***
Quando la porta si aprì alle sue spalle, quella volta lei era pronta.
«Non ti avevo detto di andartene via?»
Mordraud non disse una parola. Era fradicio, dalla testa ai piedi, ma i vestiti
erano asciutti.
«Ti sei buttato in un pozzo? Volevi farti fuori?»
«Più o meno.»
Mordraud chiuse a chiave la porta e si avventò su di lei. Deanna alzò le braccia
per allontanarlo, ma lui le afferrò le mani e la scagliò sulla poltrona imbottita.
«Ti ho detto che non ci sarà una seconda volta, bastardo!»
«Dillo ancora!» ringhiò lui.
«Sei un bastardo!» mugolò Deanna.
Mordraud afferrò i lembi del vestito rosso e lo strappò. Sotto, Deanna era
completamente nuda. Ansimava, ma aveva lo stesso sguardo di quel pomeriggio.
Rifiuto. Disprezzo.
«Non voglio!»
«Oh sì che vuoi.»
Mordraud le aprì le gambe, si piazzò in mezzo per impedirle di chiuderle, e si
tolse la camicia facendo saltare via la fila di bottoni, che tintinnarono a terra come pioggia sorda. La spada e la fatica avevano fatto un lavoro egregio sui suoi
muscoli.
315
«Perché anche tu sei una gran bastarda. Come me. Siamo uguali… non lo sapevi?»
Deanna gli piantò le unghie nel petto e scese fino alla cintura. Otto strisce di
sangue, ma nessun dolore. Mordraud le spalancò le cosce e la sollevò in bilico
sulla poltrona.
«Fallo ancora.»
Deanna prese a graffiargli lentamente la schiena, il collo, i fianchi. A volte con
dolcezza, altre con tutta la forza che aveva. Mordraud si avventò su di lei. Doveva solo stare attento a non sbranarla. Niente amore. Erano solo due animali
chiusi in una gabbia.
«Scopami…»
Deanna strinse le gambe su di lui e le incrociò. Mordraud le afferrò la testa e le
prese i capelli fra le dita. La poltrona cigolava e oscillava in procinto di spaccarsi.
Allora lui la sollevò e la buttò sulla scrivania, piantandosi al muro con una mano.
«Sei un bastardo… siamo due…» mormorò Deanna passandosi la lingua sulle
labbra. Mordraud stava per staccargliela via con un morso. Il tavolino scricchiolò
sotto le sue spinte, e una gamba saltò via.
«Non… troppo rumore…»
«STA’ ZITTA!»
Caddero sul pavimento. Deanna gli bloccò le braccia e prese lei a muoversi. Il
mondo era sottosopra. Mordraud sentì la sbornia ritornare con una violenza terrificante. Deanna continuava a graffiarlo, a morderlo sul collo, e intanto si dimenava sbattendolo contro le fredde lastre di pietra.
Per poco Mordraud non svenne, e Deanna dovette chiudergli la bocca per impedirgli di urlare. Alla fine crollò anche lei, accasciandosi su di lui. Si addormentarono così, abbracciati sul pavimento, mischiati nel sangue che colava dal petto
di Mordraud sul suo seno.
***
La corda era tesa e piegava l’asta di legno su cui era legata. Il vento faceva
dondolare i sei corpi appesi sbatacchiandoli come carcasse di pollo lasciate ad
asciugare all’ombra. La folla si stava diradando, appagata dallo spettacolo. I soldati avevano portato via la tribuna, e solo il boia restava a fianco della sua opera,
ammirandola soddisfatto. La giustizia dell’Imperatore aveva fatto il suo corso.
«Una minaccia in meno di cui preoccuparsi» disse Asaeld esortandolo ad andarsene. «Anche se ce ne fossero altri, ci penseranno due volte prima di tentare
qualcos’altro.»
Il comandante delle Lance era stato rapido e solerte. Grazie ai suoi uomini,
sguinzagliati in ogni bettola, dentro ogni bordello, nascosti in tutti i covi noti e
316
meno noti, aveva trovato facilmente i cospiratori, ignari di ciò che stava per accadere. Come li avesse realmente trovati, e dove avesse reperito le prove della
loro colpevolezza, lui non lo sapeva. Ma Asaeld era in una posizione in cui non
poteva permettersi errori o leggerezze. Dunwich era convinto che avesse fatto il
lavoro migliore possibile.
Ma ammazzarli era stato forse troppo. Dal giorno del giudizio a quello del patibolo era passato neanche un chiaro di luna. I sei condannati non erano di certo
degli agnellini. Avevano già avuto a che fare con i gendarmi, chi per omicidio,
altri per furti efferati o condanne per usura. Loschi figuri che tutti volevano vedere appesi alla forca. Anni di guerra contro i ribelli avevano reso la gente sospettosa e paranoica. Dunwich invece non aveva gradito neppure un istante di
quella pubblica esecuzione.
«Abbiamo almeno scoperto qual era il loro piano?» chiese restando fermo a osservare i cadaveri ciondolanti. «Se ci sono dei mandanti, o chi è l’ideatore? C’è
sempre un ideatore…»
«Cambria è una città troppo grande, con un’ombra troppo lunga…» rispose
Asaeld «e dentro la sua ombra si nasconde di tutto. La guerra e l’impero sono
scomodi, pericolosi per gli affari, oltre che esosi in termini di manovalanza. La
delinquenza prospera. Loralon ha stretto i cordoni della borsa, buttando in galera
diversi corrotti. Me ne sono occupato personalmente nemmeno un anno fa.»
«Tutto qui? Solo una questione di denaro?»
«E di potere. Il migliore amico dell’oro.»
«Mah, sono felice che la cosa si sia risolta per il meglio…» Dunwich scosse la
testa e schioccò le labbra «ma non so perché, non mi sento veramente a posto…
c’è qualcosa che non mi piace.»
«Forse è troppo tempo che non ti fai un bel giro al fronte. Tu sei come me, figliolo…»
«E come?»
«La guerra ti piace. E adori comandare.»
Dunwich annuì ma non perse la sua espressione poco convinta. «Adesso che è
fermo anche il progetto del Lungo Inverno… non so se esserne contento o no.»
«Ma non c’è mai niente che ti vada bene?!» esclamò Asaeld costernato. «E dire
che sei stato tu a proporlo.»
«Ti ci metti anche tu?!» Dunwich capì subito che Asaeld lo stava prendendo in
giro. Ne avevano già parlato tante volte, e immancabilmente lui cadeva nelle sue
provocazioni. «Io ho solo detto…»
«… usiamo il canto, esimi colleghi» concluse la Lancia imitando la sua voce «e
spazziamo via Eld come una tempesta su un prato secco!»
«Non è divertente. Io parlavo di dare più spazio alle Lance e all’Arcana in guerra. Lungo Inverno resta un progetto folle, e sarà difficile portarlo a termine…»
317
«È per questo che l’impero ha bisogno di gente come te, Dunwich!» Asaeld gli
mise un braccio sulle spalle e con fermezza lo trascinò via dallo spettacolo del
patibolo. «Giovani intelligenti, e dediti al nostro sacro Imperatore!»
«Mh, sacro… non esageriamo… pazzoide, vorrai dire.»
«Infatti io stavo scherzando…» mormorò Asaeld sorridendo amabilmente.
«Stavo proprio scherzando.»
318
XXI
«Alto, capelli scuri, probabilmente robusto. Occhi
di un verde intenso. Parla senza accento di Eld, di
Cambria o dell’Est.
Immagino abbia una voce baritonale.
Potresti trovarlo insieme a un ragazzino dai capelli castano chiari, occhi cerulei, molto magro e pallido. Mi interessano entrambi. Scopri cosa fanno, voglio i dettagli. Non farti vedere.»
In fondo alla pergamena, una mano più energica e spigolosa, diversa dalla cura
della prima calligrafia, aveva aggiunto una postilla sghemba. Come una veloce
approvazione su un ordine.
«Ammazzali.»
La nota era firmata con una D elegante. Mordraud accartocciò il foglio fra le
mani e lo usò per fermare il sangue che sgorgava copiosamente dalla ferita sulla
spalla. Per poco, pochissimo, la lama non gli aveva perforato i polmoni. Sarebbe
morto lentamente, proprio sui gradini di casa.
«Dunwich… maledetto…»
Il primo pensiero che ebbe quando sentì il pugnale piantarsi nella schiena, fu
che se lo meritava, in fin dei conti. Adraman li aveva scoperti, e aveva preso la
saggia decisione di farlo fuori. Aveva addosso ancora l’odore della pelle di sua
moglie, il suo respiro in gola. La testa gli pesava, schiacciata dal vino e dalla pie319
tra dura su cui si era addormentato. Deanna se n’era già andata quando si era ripreso, e lui era sgattaiolato fuori poco prima dell’alba, terrorizzato all’idea di essere scoperto da Adrina e dagli altri servitori. Mentre varcava la porta stava pensando solo a Deanna, a un bacio che era sicuro di aver sentito mentre dormiva,
una carezza mentre lei si alzava per tornarsene a letto. Probabilmente stava sognando.
L’assassino doveva aver passato la notte fuori ad aspettarlo. Era scivolato alle
sue spalle mentre scendeva dall’ingresso e aveva colpito, ma senza troppa precisione. Forse il sonno, o il suo passo incerto da sbronza finita male. Fatto stava
che Mordraud non era morto al primo colpo, e non aveva neppure urlato. Si era
voltato strappandogli di mano il coltello, e lo aveva guardato con puro e semplice stupore.
«Ah! Ma non sei… tu…» aveva esclamato convinto di trovarsi di fronte Adraman in persona.
L’assassino era un vecchio alto e grasso, coperto da una palandrana grigia. Pareva un pezzente qualunque. Il feudo era pieno di anziani senza una rametta o
una casa, rimasti orfani di tutta la famiglia. La spada che uscì dalle falde della
lunga veste era però troppo bella per essere un cimelio. Mordraud gli fermò il
polso prima che potesse alzare la lama e lo colpì con una testata in bocca. La
spalla gli faceva un male cane, ma in quel momento la sua massima preoccupazione era di non fare rumore. Se l’avessero visto fuori dalla casa di Adraman a
quell’ora, avrebbe perso il lavoro. L’assassino era un problema secondario.
«Chi ti manda?» sibilò a un soffio dalla sua faccia. «Ti manda Dunwich, non è
così?!»
Il vecchio tentò di strappare la spada dalla morsa di Mordraud, ma la sua presa
era d’acciaio. In preda al panico, annuì tentando anche di parlare, ma aveva i
denti e la lingua disfatti dalla testata, e riuscì soltanto a pigolare qualche parola
sconclusionata. Mordraud vide una tenue luce accendersi in una finestra della casa di fronte. Non perse tempo. Prese la testa del vecchio con la mano libera e la
schiantò contro lo spigolo di marmo dell’ingresso. Uno, due colpi secchi.
L’uomo si accasciò come un sacco di patate.
«Mi vuoi morto, allora… non ce la fai proprio ad aspettare un duello sul campo di battaglia!» sbraitò, dopo aver trascinato il cadavere fuori dalla villa, fino a
un vicolo stretto e ingombro di immondizia. Un altro vecchio morto nella notte.
Nessuno avrebbe chiesto o fatto niente.
“Se hai torto anche solo un capello a Gwern… ti vengo a prendere a casa, nella tua bella Cambria.”
Doveva sbrigarsi. Mancava poco all’adunata mattutina in caserma, e non doveva farsi trovare fuori. Sarebbero fioccate domande a cui non sarebbe stato in
grado di dare una risposta, vista la sua scarsissima abilità a mentire. Avrebbe fin320
to di essersi addormentato da qualche parte dopo la sbronza. Dopotutto, cosa
poteva fare un militare in congedo se non sfasciarsi con il vino, si chiese.
“Di certo, non intrufolarsi in casa di un generale e scoparsi sua moglie” pensò
cupo mentre correva verso i dormitori “domani mi faccio spedire al Terrapieno,
a costo di nascondermi in un carretto! Questa deve essere l’ultima volta! Assolutamente!”
Mordraud si rese conto di non saper mentire neanche a se stesso.
***
La parte difficile era non vergognarsi.
Gwern chiuse gli occhi e respirò lentamente. Allargò le braccia, piantò bene i
piedi per terra, e iniziò a cantare a squarciagola un motivetto stupido ma complicato, ricco di salti, note sgraziate, passaggi bruschi. Era in piedi sull’orlo della
scala. Le sue volute correvano verso il pavimento lontano in un nauseante gioco
di curve.
In basso, Saiden stava mormorando qualcosa. Non sembrava nemmeno muovere le labbra. La torre era sul punto di esplodere per la potenza della sua voce.
Era come se la scala, i cubi di porfido in cui erano state scavate le camere, se
ogni cosa stesse vibrando in risonanza con il suo canto.
Il compito di Gwern era sovrastarlo.
Impossibile, pensò terrorizzato.
«Più forte!» urlò Saiden. «Magari anche un po’ meglio!»
Gwern stava praticamente urlando senza più articolare le note. Perse totalmente la concentrazione chiedendosi come avesse fatto Saiden a cantare e contemporaneamente a riprenderlo. Ebbe anche il tempo per rendersi conto quanto facesse schifo a cantare. Non aveva ancora imparato niente. Anche perché Saiden
non gli aveva insegnato assolutamente niente. Senza concludere la melodia programmata, si accasciò a terra ansimando.
«Domani cerca almeno di arrivare alla fine!» gridò ancora Saiden, mentre il suo
canto si spense poco dopo. Un inaspettato effetto dell’eco che causò a Gwern
una fitta dolorosa di mal di testa.
Saiden scoppiò a ridere.
Incredibile come all’inizio gli fosse parso simpatico, pensò lugubre Gwern.
Erano otto lunghi giorni che provava, ma sembrava non servire a niente. A
parte le prime scarne indicazioni, Saiden non si era fatto vedere se non per umiliarlo. Mangiava sempre da solo. Una volta al giorno, dopo il tramonto. Due bicchieri d’acqua al mattino, uno alla sera. Una galletta rinsecchita. E nient’altro.
“Vuole prendermi per fame!” pensò Gwern mentre ritornava imbarazzato in
camera. “E ci sta riuscendo…”
321
Nessuno poteva sopravvivere molto a lungo mangiando così poco. O almeno,
sopravvivere e contemporaneamente cantare tutto il giorno. Aveva la gola sempre secca, la lingua pesante e ruvida, e i denti gli facevano male. Stava iniziando a
odiare qualsiasi cosa gli ricordasse la musica, ed erano passati solo quindici giorni.
«Come faccio?!» piagnucolò Gwern gettandosi sulla panca di legno ammorbidita solo da una sottile coperta di lana. «Non so niente di canto, non so niente di
come funziona un’armonia… morirò di sete prima di aver capito come cantare
quella dannata canzoncina! Sempre che non mi venga voglia di buttarmi di sotto
per la vergogna…»
Si sentiva troppo debole per esercitarsi. In cosa poi, pensò depresso. Gwern
chiuse gli occhi e si addormentò come un sasso.
La sveglia mattutina era sempre la stessa. Un paio di lievi bussate alla porta di
metallo, e due bicchieri d’acqua poggiati sull’esile ponte che collegava la stanza
alla scala ellittica. Gwern bevve come se fosse sul punto di morire, ma la gola era
troppo secca per trovare un qualsiasi conforto. Stava per intaccare tutta la riserva
giornaliera, ma si trattenne a metà del secondo bicchiere, altrimenti quel pomeriggio non avrebbe avuto più un goccio di saliva, neanche per bisbigliare.
Saiden, come ormai aveva capito, non si fece vedere. Gwern ricominciò controvoglia ad allenarsi, sempre con la stessa sensazione fastidiosa sulla pelle, quella
di essere un idiota che cantava in una cella. Di progressi, neanche a parlarne. Per
sua fortuna aveva provato qualche volta a esercitarsi con Sernio, e anche se lui
non sapeva bene come fare, era almeno intonato. Gli aveva spiegato qualcosa,
anche se lui non sapeva come mettere in pratica le sue osservazioni. Il problema
di Gwern erano le note basse, irraggiungibili per la sua voce ancora infantile.
Non che i registri alti gli riuscissero meglio, pensò sarcastico. Sapeva a malapena
cosa fosse davvero un registro, usava quella parola solo perché gli piaceva come
suonasse. Rendeva bene l’idea. Gwern diede un’occhiata al bicchiere mezzo vuoto, sentì la pancia brontolare atrocemente, e provò la sgradevolissima sensazione
di non avere il tempo di arrivare a sera. Doveva darsi una mossa, tirare fuori la
voce anche dove non ne aveva. Con la paura che gli mordeva le budella ebbe la
prima idea sensata dopo giorni di sfiducia incrollabile.
Non doveva cantare a squarciagola.
«Saiden muove appena le labbra» sussurrò sconvolto dalla sua stessa idiozia.
«Come fa?!»
Prima di tutto, doveva capire cosa stesse sbagliando. Gwern si guardò intorno
e frugò nella stanza. Non ci volle tanto. Non sembrava una camera da letto,
mentre era perfetta come cella di una galera. All’inizio non gli aveva dato
quell’impressione. Dopo così poco tempo, già l’odiava a sangue.
“Non c’è altro… farò con questa.”
322
Prese il bicchiere di vetro vuoto, e pregando di non fare una cosa troppo stupida lo spaccò contro il muro. Scelse il frammento più grande e affilato, incise
due righe sbilenche sul legno morbido della panca, e disegnò una linea che saliva
e scendeva intorno alle parallele, come un ricamo. Ne aveva vista una simile in
un libro di Sernio, l’aveva osservata per giorni chiedendosi cosa rappresentasse,
cosa si nascondesse dietro quell’elegante curva sinuosa. Cercò di ricordare la voce di Saiden. La scompose. Era perfetta allo scopo. Saiden cantava con grande
precisione, scandendo alla perfezione ogni nota.
Poteva ottenere qualcosa di buono da una linea, se la modellava in base ai toni
della voce. Con le due righe parallele a contenere il territorio in cui Gwern sentiva di cantare con più naturalezza.
Sopra, era il registro acuto, dove era piuttosto scarso. Sotto, il registro grave.
Dove era parecchio scarso. La zona fra le due linee era il registro medio, l’unica sua
debole sicurezza.
“Se proprio devo morire di fame, voglio almeno che Saiden noti un miglioramento. Iniziamo dall’alto.”
Gwern passò tutta la giornata a lavorare solo sui passaggi acuti. Non aveva la
minima idea di come fare, lo fece e basta. Ragionandoci sopra divenne meno difficile del previsto, come se ci fosse particolarmente portato. I primi tentativi furono rantoli sconnessi e aspri, senza grazia. Aveva soltanto due righe storte su
cui poggiarsi, sostegni traballanti come pali piantati nella polvere.
“No, così non va bene… ho bisogno di un esempio… se solo Saiden mi avesse insegnato una maledetta canzone!”
Non riusciva a replicare la melodia che Saiden lo aveva costretto a eseguire, era
troppo articolata. Troppo tecnica. Per allenarsi con profitto avrebbe avuto bisogno di esempi più alla sua portata. Doveva almeno imparare a copiare qualcos’altro prima. Gwern si tirò uno schiaffo sulla fronte. Di canzoni su cui esercitarsi in realtà ne conosceva tantissime.
I mitici cori della taverna di Larois.
Gwern chiuse gli occhi, e intonò in falsetto la sua canzone preferita.
«Dritto correva il sentier… fra i platani in schiera a guardar… la Lancia lanciata a caval, le mani sulla pancia a pensar… che faaamee, che faaamee… un cinghial! Un cinghial! Ecco cosa ci vuol!»
L’aveva cantata decine di volte, ma non l’aveva mai fatto da solo. Non era particolarmente complicata. Il falsetto era sciolto, piacevole. Doveva soltanto immaginare di essere una donna seduta al bancone con un boccale di birra in mano.
«Cinghial! Cinghial! Non farti acciuffare non farti beccar!»
Se restava nell’acuto, Gwern notò con determinazione crescente che la sua voce infantile era perfetta. Bastava non spingere troppo, e prestare attenzione alla
melodia. Quando era fastidiosa all’orecchio, allora stava sbagliando qualcosa. Si
323
affidò al gusto, non potendo contare sulla teoria. E si rese definitivamente conto
che il suo problema era la pressione di dovercela fare a tutti i costi. Era intonato,
l’aveva sempre saputo. Che non sapesse fare era un problema risolvibile.
Doveva soltanto imparare.
Venne infine l’ora della temuta esibizione serale. Dall’immensa vetrata del tetto
baluginavano sbiadite stelle offuscate. Sotto di lui, a distanze siderali, Saiden
aspettava con le mani dietro la schiena.
«Avanti, vediamo di farla finita.»
Gwern respirò affannosamente un paio di volte. Tutta la sicurezza che aveva
accumulato durante il duro giorno di studio, si crepò all’istante di fronte a Saiden. La sua presenza lo intimoriva in modo disumano.
Il suo maestro prese a cantare con voce terrificante. Muoveva appena la bocca.
La scala gli stava tremando sotto i piedi. Gwern si sforzò di non ascoltarlo. Aveva trovato il volume giusto, dove la sua voce riusciva a muoversi con più leggerezza, e a costo di farsi cacciare quella sera stessa, avrebbe portato avanti la sua
idea. A malapena sentiva se stesso, tale era il boato di Saiden.
«Devi cantare più forte!» urlò lui, cavalcando la sua stessa voce colossale.
Non ascoltarlo, Gwern. Non ascoltarlo. Concentrati solo su questa fottuta canzoncina. Fa
schifo, è demente, ma è la tua vita. Morirai se non la impari.
«Se non sai cantare più forte, VATTENE SUBITO!»
Non ascoltarlo, Gwern.
Era sua quella voce?
Gwern riaprì gli occhi, e senza neppure essersene accorto aveva già finito. Non
aveva ascoltato nulla di quello che aveva cantato. Senza dire una parola se ne
tornò filato in camera. Senza nemmeno dare un’occhiata all’espressione di Saiden.
“Posso anche preparare la mia roba” pensò.
Non aveva fame, e anche la sete lo stava miracolosamente risparmiando. Ma
una sensazione di assai peggiore aveva preso il posto del dolore fisico.
L’umiliazione di aver fatto qualcosa di buono, ma che nessuno aveva capito.
“Se non mi viene a chiamare prima, domani mattina me ne vado. C’è un ruscello poco lontano, dentro il bosco verso Nord. Forse riesco ad arrivarci prima
di crepare.”
Gwern si addormentò sulla panca incisa dal suo affresco di linee e punti, con
addosso una strana tranquillità venata da un pizzico di malsana euforia.
“Almeno questo tormento è finito, e io ho provato fino alla fine… non avertene a male, fratello.”
Mentre sprofondava in un sonno schiacciante, Gwern risentì i suoi pensieri riverberargli in testa, come se stesse parlando da solo con se stesso. Avevano lo
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stesso timbro neutro e senza vita della voce che gli era parso di sentire prima,
mentre cantava.
Nessuno venne a prenderlo nel cuore della notte, e come ogni mattina Gwern
sentì le due lievi bussate che segnavano l’inizio del tormento. Aprì la porta pronto a dire che ne aveva abbastanza, che non poteva imparare a cantare perché non
ne era capace, ma quello che vide ai suoi piedi gli tolse le parole di bocca.
Non trovò soltanto i due soliti bicchieri d’acqua. Al loro fianco, anche due gallette di pane imburrato con il miele, disposte a formare una linea verticale.
«L’acuto ora va bene…» mormorò con un sorriso vagamente isterico «bisogna
lavorare di più sul grave.»
***
Svelate le trappole, raggiunto il primo traguardo, Gwern lavorò con un impegno ai confini della fissazione. Il tono medio era il suo forte, ma mentre lo aggiustava si rese conto che l’acuto poteva essere migliorato, e anche molto. Non voleva esibire soltanto frammenti di miglioramento, così ogni sera cantava come la
prima volta, facendo di testa sua. Senza ascoltare il suo maestro. Solo quando
sentiva di poter aggiungere qualcosa di importante, si esponeva a Saiden e tentava il colpo. Ma il suo maestro era un muro armonico invalicabile. Spesso Gwern
perdeva la concentrazione e sbagliava tutto, così doveva tornarsene in camera
senza aver potuto dar prova delle sue fatiche.
La seconda razione di gallette al miele giunse improvvisamente. Gwern non se
l’aspettava. Il suo maestro doveva aver colto qualcosa di buono nel duro lavoro
che lui stava ostinatamente portando avanti. Si concentrò su quello che aveva
mostrato, cosa potesse essere piaciuto a Saiden. Sapendo di non poter cantare
grave perché non aveva assolutamente la voce, si ingegnò. Prese a modificare
parzialmente l’ipnotica canzoncina con cui, nei piani di Saiden, lui doveva riuscire a coprirgli la voce, in una sorta di gara di volume. Gwern perse il conto dei
giorni che passava chiuso nella sua cella. Il buio della torre, il ritaglio tondo di
notte al posto del cielo, le prove. L’esecuzione. Era un ritmo in cui Gwern si
perse. Ogni suo tentativo era la perfetta ripetizione di mille altri passati. La panca
accumulava appunti su appunti, linee, segni che solo lui capiva. Un linguaggio
che stava inventando per spiegarsi capacità che già aveva, da qualche parte dentro di lui.
In certi momenti, Gwern si sentiva travolto dall’ansia di non riuscire, di essere
incapace di migliorare. Altre volte veniva catturato dall’euforia, dalla sensazione
di avere in mano tutta la sua abilità, e di poterla plasmare a piacimento. Ma il registro grave era il suo scoglio mortale. Tante volte si era sentito sul punto di voler mollare. La sete non era più un problema. La fame era svanita. Anche la sua
325
voce era ormai ridotta a un sibilo senza toni, ma ciò che contava era come suonava nella sua mente. Gwern stava lentamente sparendo dentro se stesso.
Finché, un giorno qualunque, riuscì a completare la canzone senza errori. Da
solo, nella sua stanza ridotta a un nido caotico.
«Ce l’ho fatta! Ce l’ho fatta!» gridò saltellando intorno. «Tutte le note! Anche le
più basse! Ho capito, ho capito!»
Quando quella sera si presentò di fronte a Saiden, Gwern si sentiva diverso. La
paura era sparita insieme alla fame e alla sete. Si sentiva in forma, pieno di energie. Carico come una molla schiacciata da secoli.
«Non ce la farai!» gridò il maestro. Era partito subito alla carica. Con ancora
più ferocia del solito.
Gwern sorrise, e iniziò.
Il primo passaggio venne a meraviglia. La sua voce scivolava con grazia lungo
ogni salto, giocava intorno agli abbellimenti, precipitava come un piombo nel
mare a pescare le note più profonde. Aveva voglia di ballare, e forse lo fece senza rendersene conto. La canzoncina non sembrava più così stupida, anzi. Gwern
la stava trasformando in un canto di guerra, nel passo dei soldati in marcia, nelle
trombe che squillavano prima della carica. La melodia corse fino a evolversi in
un mormorio cupo come la notte più nera. Quella era la sua nemesi, e lui la affrontò senza indietreggiare. Il canto di Saiden era ancora sopra il suo, ma di poco. Lui gli stava volteggiando intorno, poggiandosi quando ne aveva bisogno,
spiccando il volo quando trovava il passaggio armonico che poteva esaltarlo.
Il finale fu il suo atto di grazia. Con voce sempre più potente e coraggiosa sfidò la velocità, i salti furiosi, il ridicolo passo di marcetta. Saiden passò sotto.
Concluse afferrando al volo il nulla con un pugno chiuso.
Fu solo in quel momento che prestò attenzione all’eco della sua voce. Voleva
sentirne il riverbero sulla parete.
Ma dalla sua gola non era uscita neppure una nota. Il ventre buio della torre
era dominato solo dal canto di Saiden, che stava velocemente scemando nel silenzio. Gwern fu travolto da un orribile sensazione.
Aveva sognato di cantare.
Stordito, stanco e in preda alla confusione più totale, Gwern ciondolò verso la
sua stanza e crollò sulla panca. Non pensò nemmeno a Saiden, a quello che forse
avrebbe dovuto dirgli. Che stava impazzendo. Stava uscendo di testa. Era uno
sforzo inutile e assurdo. Si era convinto di fare chissà cosa, invece non aveva capito niente. La sua memoria lo stava prendendo in giro. Si addormentò mentre
ancora cercava di trovare un filo logico a quello che era successo là fuori.
«Sinceramente non credevo che tu potessi migliorare così tanto, da solo.»
Era la voce di Saiden. Gwern aprì gli occhi, e un dolore atroce gli aggredì tutte
le ossa del corpo, i muscoli, ogni nervo. Sembrava il solito attacco della sua vec326
chia malattia, ma era più forte, più doloroso. Gli sembrò di riviverli tutti nello
stesso momento. Era la prima volta che ne aveva uno da quando era entrato nella torre, e Gwern si ritrovò a chiedersi il perché. Dopotutto, aveva costretto il
suo corpo a ritmi impressionanti, quando di solito era sufficiente una botta di
freddo, o una fatica improvvisa a farlo cadere in terra in preda ai tremori.
«Ti sei tenuto in vita da solo. Un’altra curiosità da aggiungere al tuo segreto.
Cosa nascondi, Gwern?»
«Do… dove sono?! Ho cantato? Quanti giorni sono passati?» biascicò rischiando di mozzarsi la lingua in bocca. Se quella non era la morte, non doveva
comunque mancare molto. Il dolore era insopportabile. I fremiti lo stavano dilaniando dall’interno. Saiden si sedette sulla panca vicino a lui, poggiò una mano
sul suo petto, e i tremori svanirono in un istante.
«Volevo vedere se possedevi qualche dote nascosta. Non ho visto quello che
più mi interessava, ma sei comunque stato notevole.»
«A fare… cosa?!»
«A improvvisare. Hai una grande capacità di entrare in risonanza con te stesso,
davvero degna di nota.»
«Ma io ho… ho veramente…»
«Cantato? Più o meno» lo interruppe Saiden. «Tu l’hai creduto, è questo che
conta. L’atto fisico del cantare è secondario.»
«Non capisco, maestro…»
«Oh, per ora non importa. Ci torneremo su» rispose lui. Per quanto si stesse
comportando gentilmente, Gwern sentì una vaga freddezza nella sua voce. Come
se fosse ancora intento a studiarlo.
Come se vedesse qualcosa nel suo petto che lui non sapeva come vedere.
«Mi sento meglio…» esclamò stupito Gwern sollevandosi a sedere «ma come…»
«Bene, mi fa piacere. A tempo debito dovremo anche lavorare su questo tuo…
problema. Ma a tempo debito. Per ora…» Saiden sorrise e si alzò per andarsene.
«Ti sei meritato una cena decente.»
***
«Spostate il gruppo di Rago più a valle. Mantenete la copertura degli arcieri sulla loro fanteria.»
«Subito signore!»
Dunwich era a fianco di Asaeld nelle retrovie dell’esercito insieme alla sua
guardia personale, intento a osservare gli spostamenti delle truppe nemiche. Il
comandante delle Lance non aveva schierato il suo battaglione, così non era stato necessario partecipare allo scontro vero e proprio. Dunwich l’aveva presa
327
piuttosto male. Sentiva la mancanza della carica, l’eccitazione della battaglia. Era
stanco di aspettare senza fare niente. Erano mesi che non scendeva in campo.
«La cavalleria di Eldain si sta spostando lungo l’argine» fece notare Dunwich
ad Asaeld «sfruttano il terreno per penetrare nella nostra zona. Manda un paio di
squadre a intercettarli, e magari orienta gli arcieri verso di loro.»
«Ottima idea. AVETE SENTITO COSA HA DETTO DUNWICH? MUOVETEVI!» gridò lui agitando le braccia «VOGLIAMO PIÙ ARCIERI!»
«Hai saputo niente sui progressi di Lungo Inverno?»
«Ci siamo quasi» rispose Asaeld «qualche intoppo non previsto con i primi
esploratori, dopo che uno di loro si è fatto scoprire a un passo dal Terrapieno…
ma quando arriveranno i primi freddi saremo pronti. Dobbiamo avere una mappa assolutamente perfetta del territorio. Ne va della qualità dell’attacco.»
Dunwich annuì pensando ad altro. Intoppi. Anche la sua spia doveva essere
incappata in qualche problema non previsto, dato che stava tardando oltre ogni
previsione.
«Cos’è che ti distrae, Dunwich?» chiese Asaeld fissandolo perplesso. «Non devi
mai perdere la concentrazione, altrimenti potrebbero sfuggirti i movimenti del
nemico… ricordati, niente e nessuno deve distrarti!»
«Tranquillo Asaeld, stavo solo pensando all’ostinazione dei nostri nemici. Certo che i ribelli non mollano un palmo di terra… nemmeno quaggiù, nella periferia del fronte. Siamo a Sud di Ansa dell’Hann, quasi a ridosso di Hannrinn. Sanno che non scenderemmo oltre, per non correre il rischio di trovarci con la
schiena scoperta.»
«Eldain non dà mai nulla per scontato» rispose Asaeld «sa che basta poco per
perdere il controllo. Qui vicino c’è un fiumiciattolo all’apparenza innocuo. Ma
dato che confluisce nell’Hann, potrebbe essere usato in svariati modi. Ad esempio, se riuscissimo a prenderlo e tenerlo per almeno un anno, potrebbe essere
un’ottima via d’acqua per raggiungere l’entroterra di Eld. E loro non hanno neppure una nave nel loro arsenale.»
«Non ci avevo pensato…» ammise Dunwich.
«Non sei onnipotente, ragazzo mio!» Asaeld rise di gusto. «Altrimenti io a cosa
servirei?»
«Hai decisamente ragione! Se dovessimo lasciare tutte le scelte a… tu sai chi,
non oso immaginare il disastro…»
«Ben detto, signore!» esclamò una Lancia alle loro spalle. «Avessimo più generali come voi, e meno incapaci al governo…»
Era poco più che un ragazzo, e Dunwich non l’aveva mai notato prima. In
realtà, le file delle Lance si erano molto arricchite negli ultimi anni. Giovani
promettenti, che avevano completato gli studi in modo eccellente e in tempi assai rapidi. Da quando Asaeld era stato eletto rettore, il corso dell’accademia mili328
tare era cambiato notevolmente. Meno anni e molta più pratica. Anche gli insegnanti erano cambiati quasi tutti. Quelli che se ne erano andati per vecchiaia,
erano stati sostituiti da uomini scelti da Asaeld in persona.
«Dobbiamo rinforzarci, e con i metodi classici non andiamo da nessuna parte.
Abbiamo bisogno di nuova linfa!» era stata la motivazione che aveva portato di
fronte all’Imperatore. «Io so come fare!»
Loralon ovviamente non aveva osato aprire bocca, come sempre quando lui
parlava.
«Soldato, quello che dici è inaccettabile!» sbraitò Asaeld rosso in volto. «Devi
avere il massimo rispetto per il governo!»
«Non esagerare, Asaeld… alla fine ho iniziato io. È solo un novizio, non vedi?
Gli bolle il sangue come a tutti i ragazzi…»
«Meriterebbe qualche frustata, invece! Per capire chi comanda!»
La povera Lancia si era fatta piccola al suo cospetto, e guardava a terra nella
terribile attesa di una punizione esemplare.
«Lascia stare la frusta, non serve a niente se non a incattivire le persone. Soldato, vero che terrai a freno la lingua, d’ora in poi?» Dunwich fece un passo verso il
giovane, che annuì deciso. «Queste cose pensale e basta» gli sussurrò coprendosi
la bocca con fare malizioso. La Lancia chinò il capo e se ne andò prima che
qualcuno potesse cambiare idea riguardo alla sua punizione. Asaeld sorrise senza
farsi vedere da Dunwich. Ogni traccia di rabbia era svanita dal suo volto, come
se non fosse mai esistita.
«Signore!»
Dunwich si voltò verso la giovane Lancia, che si era fermata improvvisamente
a fissare l’orizzonte. Stava indicando il cielo a bocca aperta. Un’espressione di
ridicolo stupore in faccia. Dunwich ebbe solo il tempo di guardare in alto.
Una scarica di frecce stava piombando su tutti loro.
Provò a intonare qualcosa, ma non ne aveva il tempo. Asaeld sembrava non
essersi accorto ancora di nulla.
«ASAELD! GIÙ!» gridò disperatamente, mentre il panico si diffondeva fra le
Lance assiepate nelle retrovie. Poi, qualcosa lo schiacciò a terra e gli oscurò la
vista. Con l’orecchio strizzato al suolo sentì la pioggia d’acciaio cadere su tutti
loro. In tanti urlarono di dolore. Anche l’uomo che lo aveva protetto con il proprio corpo.
Il ragazzo di prima aveva fatto da scudo.
«No! Asaeld!» bofonchiò Dunwich con la bocca infilata nel fango. «Coprite lui!
Dovete coprire lui!»
La sua supplica non venne ascoltata. La Lancia era già morta.
329
Quando la pioggia terminò, a terra giacevano otto soldati. Tutte Lance fresche
di accademia. Asaeld era rimasto miracolosamente illeso, a parte un lungo e profondo graffio sulla fronte.
«Ma… chi è stato?!»
Il battaglione di arcieri si era spostato dopo il suo ordine. Uno dei sopravvissuti vicino a lui disse di aver visto un gruppetto più piccolo di arcieri voltarsi verso
il comando, calibrare il lancio e scoccare. Difficile capire chi fossero e dove si
fossero spostati. Impossibile individuarli durante una manovra complessa come
quella di avvicinamento al letto del fiume. Asaeld urlava selvaggiamente, le Lance
ferite gemevano riverse a terra con frecce piantate ovunque. Il caos regnava nelle
retrovie.
«Asaeld! Richiama subito quei maledetti arcieri, dobbiamo isolarli subito, prima
che si disperdano!»
Il comandante era sbiancato e sembrava incapace di muoversi. Intorno a lui,
cinque frecce disegnavano un anello perfetto che solo per un soffio non aveva
trovato il bersaglio. Una risonanza, pensò Dunwich. Asaeld era riuscito a proteggersi con una barriera armonica.
«Non servirebbe a niente. Ormai saranno già sfilati negli altri reparti, laggiù
stanno combattendo, è impossibile tenerli d’occhio!»
«E allora cosa vuoi fare?!»
Dunwich guardò il ragazzo che era morto per proteggerlo. Pochi istanti prima
se ne stava andando per paura della frusta. Una fine tristemente ingiusta.
«Ha preferito proteggere te, hai visto?»
«Solo perché tu l’avevi appena minacciato di chissà quale orribile punizione…»
mormorò Dunwich sconsolato. Non si era mai sentito così perso. Vuoto. Si
chiese quanto la sua vita potesse valere. Se fosse veramente più preziosa di quella
di un altro soldato.
«Non è questo il motivo. Hanno protetto te perché sei un idolo fra le truppe.
Iniziano a riconoscerti come un vero capo, una guida! Hai carisma, e dici sempre
le cose come stanno. Tu piaci ai tuoi soldati» disse Asaeld. Sembrava ancora
scosso, ma allo stesso tempo soddisfatto dalla piega degli eventi. Dunwich invece
era sconvolto, e non rispose. Per quei dettagli da politicante non provava il minimo interesse.
«Qui si tratta di un compagno morto al posto mio! Non in mezzo alla mischia,
alla confusione della battaglia… lui si è preso queste frecce volontariamente… e
non so neppure come si chiamava…»
«Adesso non importa.»
«NON IMPORTA?! Avevi detto che i cospiratori erano stati tutti sistemati! È
un disastro… per gli Dei, è un vero disastro…»
330
«Dobbiamo allontanarci da qui, e continuare a gestire le truppe. Rischiamo di
perdere la battaglia se continuiamo a indugiare!»
«Abbiamo già perso, Asaeld» ringhiò Dunwich.
«Abbiamo già perso tutto.»
***
«Sembri stanco, Adraman. Sei sicuro di voler continuare?»
«Ci mancherebbe! Dormo più del solito, tutto qua. Non sono abituato a starmene a casa a non far niente.»
Eldain aveva invitato l’amico a cena nelle sue stanze private. Erano vuote come piccole celle di una galera. Piatti frugali, pane al farro e affettati, qualche fetta
di formaggio, e una caraffa di vino leggero. Adraman era l’unico con cui passava
volentieri qualche ora a parlare. Non di guerra, che era l’argomento principe non
solo di ogni sua giornata, ma di tutta la sua vita.
«A casa…»
«Tutto a posto, grazie» lo interruppe Adraman. «Deanna sembra stare meglio.»
«Non mi sembri molto felice.»
«Ti sbagli, mi fa un gran piacere…»
«… ma?»
Adraman pressò il braciere della pipa con il fondo di un coltello e distese le
gambe sotto il tavolo. Per quanto sembrasse sereno, Eldain poteva leggergli dentro un malessere inestirpabile.
«Ma non so perché stia meglio. Io non ho fatto, né detto nulla di diverso dal
solito. I domestici non sanno nulla. Semplicemente… a volte sembra più felice.»
«Pensi che…»
«Non lo so» tagliò corto Adraman.
«Ne abbiamo già parlato una volta… ricordi?»
«Sì, e ci ho riflettuto parecchio.»
Eldain poggiò i piedi su una sedia vuota e inarcò la schiena per liberarla dal
torpore. Stare seduto sullo scranno di legno nella sala dei colloqui era una tortura
per le sue ossa. Ne avrebbe fatto volentieri a meno, ma non poteva. Lo stesso
valeva per molte altre cose.
«E cos’hai concluso?»
«Che sei un vecchio idiota a consigliarmi di assecondare un tradimento. Come
potrei tornarmene a casa, dormire con mia moglie, sapendo che magari qualche
ora prima si è scopata un altro?»
«Sei troppo drammatico… ed è un tuo problema da sempre» rispose Eldain
senza il minimo sarcasmo. «Sei mai andato a puttane, Adraman?»
331
«Mi prendi in giro?! Una volta eravamo anche insieme, a Calhann… ti ricordi?
Saranno passati dieci anni ormai. Quando abbiamo tentato di portarli dalla nostra parte…»
«E dopo? Mai più?»
«Ecco… forse una o due volte…» disse Adraman con un lieve imbarazzo «un
paio o poco più, penso… non sono stato lì a segnarmelo…»
«E magari eri già sposato con Deanna.»
«Ma che c’entra?! Guarda che a volte sono stato lontano da casa per quattro,
cinque mesi di fila! Tutti i giorni a risolvere problemi, a tentare di sopravvivere
all’ennesima battaglia… qualche volta ho cercato un po’ di… calore umano, tutto qui.»
Eldain sorrise e si dedicò all’accensione della sua pipa. Adraman lo fissava
aspettando una risposta, che però tardava ad arrivare.
«Quindi? Cosa volevi dirmi?»
«Non ci arrivi da solo?»
«Ma non puoi paragonare questo a un tradimento!» esclamò Adraman scandalizzato. «Te l’ho già detto, ero al fronte, rischiavo la vita… capita di sentirsi soli,
capita… di…»
Non riuscì a finire la frase. Eldain continuava a fissarlo con un morbido sorriso sulle labbra. «Ce l’hai fatta a farmelo capire, eh vecchiaccio di merda?!»
«A volte sei un po’ troppo cocciuto, ma quando ti ci metti impari in fretta» disse Eldain ridacchiando.
«Non prendermi in giro, stiamo parlando di cose serie…»
«Non mi permetterei mai. Piuttosto… lo so che hai dei sospetti. Dimmeli.»
«No che non te li dico!» rispose Adraman costernato. «E non ho nessun sospetto! Mia moglie non mi sta tradendo!»
«Si tratta di quel ragazzo… Mordraud, non è così? Mi dicono che andate
d’accordo… che ti piace, o sbaglio?»
Adraman arrossì e per non darlo a vedere si alzò per prendere qualcos’altro da
bere. Che non c’era. Le bottiglie erano tutte sul tavolo.
«Mordraud mi ricorda un po’ la mia adolescenza. Ed è anche un bravo soldato»
sbottò Adraman.
«Giovane, pieno di energia… combattivo… pervaso da ideali… dico bene?»
«Più o meno.»
«Ed è anche amico di Deanna, la conosce, e le vuole un gran bene… e magari
si somigliano un po’.»
«Dacci un taglio. Quasi non ti riconosco, sembri una zitella.»
«Ho detto qualcosa di sbagliato?» chiese Eldain raddrizzandosi sulla sedia.
«Non ti sto facendo un processo, Adraman. Si fa così per dire.»
332
Adraman sospirò e scosse la testa lentamente. «Bah… non ti si può nascondere nulla. Sei sempre il solito. E dato che ci tieni tanto a saperlo… sì, penso che
Deanna si veda con Mordraud.»
«E la cosa non ti disturba come ti aspettavi.»
«Esatto. Ma non so il perché.»
«Non è così difficile immaginarlo.»
Eldain poggiò la pipa per prendere un boccone di pane.
«Pensi che con Mordraud, Deanna potrebbe essere felice… e tu le vuoi troppo
bene per negarle questa gioia.»
«Per gli Dei, se i tuoi uomini ti sentissero parlare in un modo così sdolcinato…» disse Adraman con un sorriso tirato.
All’improvviso Eldain batté le mani e si alzò di scatto.
«Che ne dici di fare una partita alla Torre di Spade?»
«Mh? La Torre di Spade? Proprio a quel gioco?!» chiese Adraman in preda alla
confusione. Non si aspettava affatto un’idea simile, ed era già molto tardi. «Ma
alla Torre sei scarso, non mi batti mai!»
«Quasi mai! E stasera sento di poter vincere facilmente… allora?»
«E sia» rispose Adraman. «Prendi le pedine, ma non barare. Non provare a togliermi un sette dalla squadra!»
«Non so barare, lo sai.»
Eldain preparò il campo di battaglia fischiettando. La Torre di Spade era un
gioco molto antico, praticato in ogni angolo del continente. Le pedine numerate,
semplici tesserine rettangolari di legno, dovevano essere disposte a formare le
linee di un battaglione, e venivano mosse come a simulare una battaglia in miniatura. Ogni regione aveva le sue varianti, ma la struttura di base del gioco era rimasta immutata nei secoli. Dato che era necessario anche contare e sommare il
valore di ogni tessera, la Torre di Spade veniva solitamente usata per insegnare ai
bambini l’uso dei numeri.
Eldain e Adraman erano appassionati di quel gioco da quando erano giovani,
ed entrambi avevano affinato le loro tecniche nelle lunghe notti inquiete al Terrapieno. Come tutti gli altri ragazzi con cui avevano combattuto, anche loro si
erano fabbricati personalmente le tessere numerate, intagliandole fra un addestramento e l’altro. Era una delle tante regole non scritte del Terrapieno. Non si
era ancora uomini, se non si possedeva il proprio esercito di legno.
Giocare era proprio quello che serviva al suo amico, pensò Eldain. Qualcosa
che potesse distrarre Adraman per qualche ora.
Per non dargli modo di riflettere troppo su quello che gli aveva appena confidato.
***
333
«Ancora non ci siamo, sei troppo concentrato sul canto.»
«Ma le risonanze…»
«Te lo ripeto, una risonanza non nasce veramente dal canto, ma dalla tua concentrazione. È come un desiderio inespresso. Il canto è solo un veicolo. Un
mezzo per raggiungerlo.»
Gwern e Saiden erano seduti a terra, alla base della scalinata. Stavano discutendo sui suoi progressi. Erano passati molti giorni da quando Gwern aveva iniziato
a lavorare insieme a lui. Ne aveva perso il conto. Dentro quella torre, il tempo
scorreva in modo sfuggente.
«Ti ho spiegato la logica delle armonie» continuò Saiden «non perché tu ti buttassi subito alla ricerca delle risonanze. Non devi pretendere di ottenere qualcosa
che tante persone più preparate di te faticano anni a trovare. Ti ho ripetuto troppe volte che una risonanza non è soltanto figlia del canto. Sembra che tu stia dimenticando, invece di imparare.»
«Non è facile!» esclamò Gwern sfiancato dalla frustrazione. «Prima mi avete insegnato a cantare, ora mi dite di fare l’opposto!»
«Usare la voce per pigolare qualche stupida fiammella è una cosa che chiunque
può imparare!» tuonò Saiden alzandosi e camminando intorno alla scalinata ellittica. «Se si trattasse soltanto di questo, chiunque potrebbe diventare un cantore,
un cercatore di risonanze. E non sto esagerando. Proprio chiunque. Io voglio di
più! Pretendo di più da te!»
«Ma non so fare nulla di buono!»
«Allora impegnati di più. Ora, ricomincia con gli arpeggi. Ma non devi pensare
che la musica ti possa svelare chissà quale segreto. Non immaginare il fuoco, o il
freddo. Non devi traslare la tua fantasia nel canto, devi solo cantare.»
Gwern ricominciò. La sua voce era migliorata parecchio, per quanto fosse ancora infantile e acerba. Saiden lo faceva lavorare molto su particolari scale che a
lui parevano fastidiosamente stonate. Andavano contro la normale esperienza
musicale di Gwern. Non potevano essere abbellite con un testo, non conducevano mai a niente. Resistette al supplizio di ripetere tutto per l’ennesima volta,
senza ottenere nulla se non uno stanco fiatone. Saiden non gli aveva tolto gli occhi di dosso, come al solito.
«Vedi Gwern, credimi se ti dico di saper tutto sul canto di Cambria. Tu saresti
stato perfetto, come allievo dell’Arcana.»
«Lo dite davvero?!»
«Certamente. Il solito ragazzo che perde dieci anni della sua vita per ammaestrare qualche lucina colorata.»
Gwern si morse la lingua e attese che il maestro finisse di insultarlo. All’inizio,
Saiden gli era parso un uomo simpatico. Alla mano. Invece, quando aveva inizia334
to a studiare con lui, aveva dovuto cambiare opinione. Sapeva essere un vero bastardo, quando voleva.
«Ti stai agitando per niente.»
«Continuate a prendermi in giro, non riesco a concentrarmi.»
«Chiaro che non ci riesci, non sai nemmeno come tenere a bada le tue emozioni.»
«Non è facile, con voi che continuate a ripetere che quello che sto facendo in
realtà non serve a niente.»
«A niente?! Allora non hai proprio capito nulla! Pensi davvero che per entrare
in risonanza con te stesso, tu debba per forza perdere del gran tempo a canticchiare?! Devi farcela in modo più naturale!»
Saiden non urlava, ma era come se lo stesse facendo. La sua voce era in grado
di affilarsi come un coltello, e ammorbidirsi l’istante dopo. «Sintetizza! Astrai!
Devi vibrare al suono della perfezione, e farla tua! Non devi aspettare che una
maledetta scala o un arpeggio azzeccato sfocino in una tempesta di fuoco! Trova
la risonanza con te stesso prima che con il mondo, e devi farlo velocemente! Fino al
punto che il canto nemmeno ti servirà più… perché scoprirai da dove esso attinge.»
«Esiste qualcosa di preciso che scatena le risonanze?!»
«Lavora, e forse lo scoprirai» rispose seccamente Saiden, gli occhi fissi in mezzo al suo petto. Cosa stava guardando, pensò turbato Gwern. Cosa stava contemplando, mentre lui si esibiva in quelle ridicole scale senza fine. Voleva chiederglielo, come voleva spiegazioni per tante altre cose che lui aveva solo accennato senza mai approfondire. Ma Gwern si rimangiò tutto quello che stava per
dire, aggrappandosi all’ultima forza che gli era rimasta. L’orgoglio di non dargliela vinta. Saiden doveva convincersi che lui avrebbe imparato a cercare quelle
stramaledette risonanze. La fatica, la rabbia, il senso di inutilità che provava continuamente erano una pena da sopportare a testa bassa. «Se sapessi almeno cosa
sto cercando…»
Saiden, al contrario di tante altre volte, non inveì contro di lui cacciandolo per
la sua indolenza. Gli si piantò davanti e gli tamburellò il dito sullo sterno. Come
se stesse attirando l’attenzione di un pesce intrappolato in un piccolo acquario.
Una mossa inquietante che lo fece rabbrividire.
Accadde qualcosa. Fu istantaneo e silenzioso. Saiden non aveva cantato, non
aveva nemmeno mosso le labbra per farlo. Eppure, il suo corpo sembrava essersi
trasformato in una sorta di liquido denso. La sua forma, i suoi abiti, erano in
continuo e fluttuante mutamento. Un attimo prima era lui. Tempo di un battito
di ciglia, e sembrava essere diventato una donna. Poi un vecchio molto simile a
lui, come se fosse un suo lontano parente. La sua carne liquida cambiava con335
formazione a tale velocità, che Gwern non riusciva mai ad afferrare chi stesse
emulando.
«Prova a immaginare che il tuo corpo sia in continua risonanza con l’ambiente
che ti circonda. E che questa risonanza sia dovuta al fatto che i confini del tuo
corpo non si fermano alla tua esperienza, ma che siano molto più… ampi.»
«Non capisco, per gli Dei!» esclamò disperato Gwern.
Saiden sbuffò e alzò una mano. Sembrava davvero a corto di pazienza, e forse
aveva ritenuto fosse giunto il momento di dare una spinta al suo unico allievo.
Come se anche lui fosse ansioso di scoprire qualcosa.
«Alzala anche tu.»
Gwern piazzò la mano di fronte alla sua. Fece per toccargliela ma Saiden si fece indietro.
«Ora, io e te siamo in contatto o no? Rispondi.»
La risposta ovvia era no. Quella che lui voleva sentire era chiaramente il contrario. Gwern preferì restare nell’ovvio. Non voleva essere infamato ancora, prima che fosse ora di cena. Inutile assecondarlo se poi non aveva argomentazioni a
riguardo.
«No, non ci stiamo toccando.»
«Questa è una tua convinzione, viziata dall’esperienza che hai della realtà che ti
circonda» rispose Saiden, la mano alta e tesa, gli occhi piantati in mezzo al petto
di Gwern. Come se fosse totalmente strabico.
«Le nostre mani sono in contatto. E questo è dovuto a una… forza… che tutti
noi abbiamo. Il nostro corpo è un orizzonte molto limitato, Gwern. Esistono
tante cose che non possiamo vedere. E tutte derivano dalla stessa energia. Proprio da essa i cantori traggono ispirazione per ottenere le risonanze. Ma il canto è
solo un passaggio ridondante. Devi imparare a liberare…» lo sguardo di Saiden
sul suo sterno divenne rapace. «Devi sguinzagliare questa forza.»
Il corpo del suo maestro continuava a rimodellarsi incessantemente, e Gwern
dovette distogliere lo sguardo per non vomitare. Un breve tremolio alle spalle fu
l’avvisaglia che una crisi era vicina. Da quando studiava con Saiden, gli attacchi si
erano fatti più rari, ma estremamente più pericolosi. Senza di lui sarebbe già
morto dopo i primi giorni di studio.
«Ti faccio un altro esempio. Ci sei?»
«Insomma…» biascicò Gwern trattenendo un conato.
«Bene» rispose Saiden come se non avesse nemmeno ascoltato la sua risposta.
«Sei dentro casa tua, apri la porta. Vedi il tuo giardino, o la strada, non importa.
Sta piovendo. Cosa pensi?»
«Ma che domanda è?!»
«Non ti preoccupare della domanda. Preoccupati solo della risposta.»
Gwern deglutì a secco e oscillò debole sui piedi. «Penso che sta piovendo.»
336
«Ottimo. Immagina ora che un gruppo di cantori stia intonando troppo lontano perché tu possa sentirli. Stanno modulando armonie che hanno imparato pedissequamente da altri cantori, e che possono causare la pioggia in una determinata zona. Sfortuna vuole che casa tua sia al centro di questo temporale. Cosa
pensi?»
«Che ecco…» balbettò perplesso Gwern «penso che le loro voci siano entrate
in risonanza con il cielo e…»
«NO! Maledetti gli Dei, NO!»
Gwern bofonchiò una scusa disarticolata e si coprì la bocca con una mano.
Stava per rivoltarsi nel vomito. La forma liquida di Saiden era un pugno continuo alla bocca dello stomaco.
«Penserai lo stesso che stia semplicemente piovendo, no? Non ti chiederai se la
pioggia sia o meno il frutto di un canto, altrimenti qualsiasi fenomeno che ti circonda potrebbe essere ricondotto soltanto a una serie infinita di risonanze create
da qualcun altro. Invece potresti pensare che sia opera degli Dei. È quello che
insegnano di solito, no? Per cui, dato che devi spiegare in qualche modo quella
pioggia, e non sai che è solo frutto di un branco di cantori nascosti chissà dove,
ti appelli a una volontà divina. Altrimenti, chi potrebbe portare in risonanza il
mondo intero plasmando le piogge, i venti e la siccità? Tu credi agli Dei,
Gwern?»
Per un momento, Gwern ebbe la netta sensazione che quelle domande fossero
soltanto tranelli che Saiden gli stava tendendo per studiare le sue reazioni. In effetti, qualcosa si smosse dentro di lui. E non era solo il vomito.
Era un dubbio strano.
«Gli Dei? Ecco, non so… insomma, loro hanno creato il mondo, per cui possono anche essere la fonte delle risonanze…»
«Dici che hanno creato il mondo?»
«Beh, è opinione comune…»
«E come hanno fatto?»
«Mh, ecco…» bofonchiò perplesso Gwern. Gli morì la voce in gola. Un altro
piccolo dubbio improvviso. Gwern però non riuscì a sviscerarlo. Non riuscì
neppure a concentrarsi su di esso.
«Allora i cantori non dovrebbero cantare, ma innalzare preghiere. Oppure pensi che il canto sia solo una forma di adorazione rivolta agli Dei?»
«No, non credo che un essere divino apprezzerebbe che una sua creatura abbia
il potere di modificare il mondo da lui creato…»
Saiden sorrise e gli batté di nuovo lo sterno con il dito.
«Bene. Quindi, se tu aprendo la porta vedi che sta piovendo, cosa pensi?»
Gwern cercò di darsi un contegno e distolse gli occhi dal corpo liquido di Saiden. «Non posso pensare che sia il frutto di una risonanza, perché non la sto
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sentendo… posso però credere che sia opera degli Dei. Quando ho un dubbio
su qualcosa, gli Dei sono una buona spiegazione.»
«Però, arriva il momento che senti gli uomini cantare…» continuò Saiden avvicinandosi pericolosamente. Il senso di nausea crebbe alle stelle.
«E allora dovrei pensare che gli uomini posseggano poteri divini…»
La sua affermazione cadde in un silenzio pesante, senza riverberi. Come se
non ci fosse una stilla d’aria nella stanza.
«Tu credi che gli uomini siano Dei?»
Gwern negò imbarazzato da una tale assurdità.
«Quindi, da dove derivano le risonanze? Dagli uomini, o dagli Dei? Mi sai dire
come sono nati gli Dei?»
Gwern aveva esaurito ogni resistenza. Una crisi era alle porte. Si stava indebolendo a vista d’occhio. Saiden lo assillava con domande che continuavano a ritorcersi su se stesse.
«Maestro, non mi sento… bene…»
«Non mi interessa» rispose lui. Finalmente il suo corpo smise di mutare. «Oggi
devi imparare una lezione, una lezione importante! Vediamo se un po’ d’aria fresca aiuterà a schiarirti le idee.»
Saiden prese a salire la scala a spirale, seguito a rilento da Gwern.
«Dove andiamo?»
«Fuori.»
«Di sopra?!»
«Sì. È un po’ troppo che non guardi fuori dalla porta, non credi?»
Raggiunsero i ballatoi che conducevano alle stanze protese nel vuoto della torre, e proseguirono fino all’enorme cupola di vetro. Una delle grandi placche incorniciate era incardinata con la struttura di metallo che reggeva il tetto.
«Apri quella botola ed esci, forza!»
Gwern spinse la pesante lastra di cristallo e subito una zaffata di aria gelida lo
colpì in faccia accecandolo. Il clima era orrido, una sorta di tempesta di acqua,
ghiaccio e neve mischiate insieme. Tutto era bianco, i boschi, i prati, le montagne. Gwern si strinse nella casacca grigia che Saiden gli aveva dato per cambiarsi,
e si guardò intorno nella speranza di trovare un boccone d’aria commestibile.
Era talmente freddo che sarebbe potuto morire semplicemente respirando.
«Che brutto inverno, è spaventoso! Mai vista una cosa simile a Eld… sembra
di essere in una landa del profondo Nord!»
«Guarda bene» disse Saiden senza battere ciglio per il freddo. Indossava una
camicia azzurrina. Doveva essere un colore a cui era molto affezionato, glielo
vedeva spesso addosso. I suoi capelli neri sciabordavano furiosamente travolti
dal vento. Sembravano troppo pesanti. Schioccavano come se fossero fatti di
piombo. Gwern invece stava rattrappendo dentro la tunica, alla ricerca di un te338
pore inesistente. Era un freddo assolutamente innaturale. Come se qualcosa di
invisibile gli stesse succhiando via tutto il calore dal corpo.
Senza saperne il motivo, Gwern si chiese se fosse colpa di Saiden.
«Cosa?»
«Laggiù.»
Saiden puntò il dito verso il basso, verso quello che doveva essere il teatro delle rovine su cui sorgeva la torre, ma che era deformato da enormi cumuli di neve.
Cumuli che somigliavano a case soffocate, tanto erano alti.
«Ma dove siamo?»
«Un paesino poco fuori Eld. Verso Nord, a un paio di giorni di distanza dal
feudo.»
«Ma… prima eravamo…»
«Non siamo veramente qui» rispose Saiden vagamente stizzito. «Falla finita con
le domande, e guardati intorno.»
Gwern scrutò le strade invisibili, si immaginò i quartieri e le case, ma la neve
rendeva tutto indistinto. Nessun uomo, nessun albero. Un deserto bianco e puro. Era davvero un paesaggio diverso da quello che doveva in realtà essere. Eppure, sotto i suoi piedi svettava la torre. Non aveva alcun senso.
«Non è possibile.»
«Ti sto donando la mia vista, in questo momento» esclamò Saiden vagamente
stizzito. «Ora smettila e concentrati.»
«Dove sono tutti?» chiese smarrito Gwern.
«Morti di freddo. I più furbi hanno raggiunto Eld nella speranza di trovare
qualcosa da mangiare o da bruciare.»
«Che inverno terrificante…»
«Mh… forse non hai ancora capito.»
Saiden puntò di nuovo il dito verso la landa ghiacciata. «Guarda meglio.»
Gwern si concentrò sul punto che il suo maestro stava indicando, ma non vide
niente. Solo aguzzando gli occhi notò una macchia scura vibrare sullo sfondo
bianco.
«Ma è un orso?! Con un freddo così non dovrebbe neppure svegliarsi, cosa ci
fa un orso fuori dal letargo? E così vicino a Eld?!»
Gwern strinse gli occhi per spezzare la patina di ghiaccio, e trattenne un secondo brivido che gli squassò le budella. «Sembra molto magro, forse non è un
orso… magari è un grosso cane randagio…»
«Non è un cane, è proprio un orso. E non si è svegliato per fare uno spuntino.
Per lui il letargo doveva essere già finito.»
«Eh?!»
«Sai che giorno è oggi?» chiese Saiden senza rispondergli.
339
«No, ho perso il conto… non so quanto tempo sia passato. Direi poco dopo il
rito d’inverno, quando di solito la guerra si ferma… anche se non pensavo fosse
già passato un anno da quando sono qui.»
«Infatti non è un anno che vivi qui. Un po’ di più.»
«Davvero?!» esclamò sbalordito Gwern. «Eppure sembra passato così poco…
ma… aspettate, maestro… era autunno inoltrato quando sono arrivato alla vostra torre…»
«Infatti.»
«Quindi… come può essere…»
«Te lo chiedo di nuovo: secondo te, che giorno è oggi?»
Saiden sorrideva come se trovasse quel freddo assassino un gran spasso.
«Non lo so… non lo so proprio…» rispose Gwern.
«La festa dei ciliegi ti dice niente?»
«Ma è a primavera inoltrata!» Gwern faticò a trovare fiato e parole. «È impossibile!»
«Oh, sì che ce l’ha un senso. Allora… sei fuori dalla porta di casa, vedi questa
tempesta di neve… non dovrebbe essere ancora inverno, bensì primavera inoltrata. Qualcuno, da qualche parte lontano da qui, sta cantando. E lo sta facendo
molto bene. Però tu ancora non lo sai. Non puoi fare altro che appellarti a una
maledizione divina, no?»
Gwern si guardò intorno in preda alla confusione più totale.
«Ma allora, se è solo un canto a scatenare un simile inverno, significa che gli
uomini possono surclassare il potere di un Dio?!»
«Quindi?»
«Non ci capisco niente…»
«Su, sforzati.»
«Ma non so nemmeno come facciamo a esserci spostati qui!»
«Troppo complicato» tagliò corto Saiden. I suoi occhi brillavano curiosamente,
una miscela omogenea di bianco neve e di azzurro pastello.
«E poi come può essere già primavera, con tutta questa neve?! Dev’esserci un
errore!» ribadì Gwern.
«Rispondi alla mia domanda.»
Gwern si rattrappì sul cristallo del tetto e prese a tremare incontrollabilmente.
Era troppo freddo. Lo scenario era depressivo in modo allucinante. Era tutto
morto e congelato. Il mondo intero sotterrato da una immane calotta di neve
candida.
Diede un’occhiata a Saiden, nella speranza che lui gli tendesse una mano in
soccorso. Ma lui stava contemplando il suo dolore senza il minimo senso di pietà. L’aria gli vorticava intorno tagliata bizzarramente in bave di brina. Come se il
suo corpo fosse circondato da fili di energia invisibile.
340
Sembrava quasi che il suo maestro fosse scisso dalla realtà, intoccato dalla bufera.
«Se attraverso il canto tu puoi essere più potente di un Dio» sussurrò malignamente Saiden «ora, davanti a questa bufera impossibile che ricopre ogni cosa, tu
puoi dire con certezza chi sia l’uomo, e cosa lo separi da un Dio? Basta un semplice canto? Qualche linea vocale perfettamente intrecciata, una melodia sostenuta da un coro mirabilmente in sintonia… può davvero sconvolgere tanto a fondo
la realtà? Oppure deve esserci una forza a cui attingere, che travalica qualsiasi
forma divina e mortale?»
Un fremito tolse il fiato a Gwern. La crisi tanto attesa finalmente arrivò con la
violenza di un pugno in bocca, accompagnata da un pianto nervoso e isterico.
«Come possono esistere gli Dei, anche uno soltanto, amico mio… quando noi
possiamo essere molto più potenti di lui?»
Saiden lo raccolse da terra e lo portò di nuovo dentro la torre. Gwern era svenuto a metà del suo discorso.
«Dev’essere un Dio piuttosto banale, non credi?» concluse ridacchiando sommessamente.
341
XXII
«Il signor Adraman sta partendo.»
«Lo so, Adrina. Cosa vuoi?»
«Non volete scendere a salutarlo?»
«L’ho già salutato abbastanza stanotte.»
Deanna sentì i passi della domestica che si allontanavano, e poté così tornare a
dedicarsi all’ago e al filo. Uno dei suoi abiti più belli, un lungo vestito avvolgente
di lana porpora bordato di pelliccia, aveva perso tre bottoni. Deanna sentì un
brivido attraversarle le gambe, risalire le cosce e diffondersi mollemente nella
schiena al pensiero di come fossero saltati via.
“Non posso darlo alla sarta… sarebbe il terzo che le porto nel giro di una settimana.”
Era piuttosto brava a cucire. Sua madre le aveva insegnato diversi punti quando era ancora una bambina, e non li aveva mai dimenticati. Ma era troppo distratta per manovrare con cura l’ago. Si era già punta diverse volte, e doveva succhiarsi il dito spesso per pulirsi dal sangue. Sapeva di ferro liquido.
Lei e Mordraud erano diventati piuttosto abili ad appartarsi senza farsi notare.
Di notte nella legnaia, o nello stanzino degli attrezzi accanto alle stalle, quando il
freddo condensava il loro fiato in nuvole bianche e dense, e nel buio potevano
dar fondo a tutte le loro fantasie. Oppure nel suo salotto di lettura, o addirittura
in cucina, quando tutta la casa dormiva e dovevano fare piano, in silenzio. Si
erano esposti a rischi incredibili in pieno giorno, nascosti in qualche piccolo cortile abbandonato che Mordraud aveva scovato nelle sue passeggiate solitarie. La
brutale violenza dei loro primi incontri si era ammorbidita e sfaccettata. A volte
342
Mordraud era dolce, altre aggressivo. Dominava, ma capitava che volesse farsi
dominare da lei, che era in assoluto la cosa che più le piaceva. Erano due amanti
alle prime armi, e si studiavano come in un duello. Parlavano poco, ma non ne
sentivano il bisogno.
“Prima o poi ci mangeremo come bestie” pensò mentre finiva il secondo bottone. “Perché è quello che siamo… bestie affamate.”
Adraman non sospettava nulla. Essere un marito tradito aveva i suoi inconsapevoli vantaggi. Poteva prendersi sua moglie quando voleva, senza litigi, senza
urla. Deanna non lo scacciava più dal letto come aveva fatto tante altre volte. Il
suo era molto simile a un lavoro, ma evitava di pensarci troppo spesso. I sensi di
colpa erano sempre dietro l’angolo, pronti a saltarle alla gola. Qualche volta,
mentre aspettava di udire il respiro di Adraman appesantirsi nel sonno, si era
sentita una puttana. Altre volte una brava moglie, quando lo vedeva sorridere a
occhi chiusi, soddisfatto sotto le coperte, al sicuro nella sua casa.
Una goccia di sangue le era sfuggita dalle labbra e si stava allargando sul tessuto porpora del suo vestito. Deanna osservò rapita il disegno rosso che si evolveva sotto i suoi occhi, una macchia che un tempo avrebbe trovato orrenda, ma
che in quel momento invece le sembrava bella, a suo modo affascinante. I gangli
di sangue si allargavano conquistando le nervature della lana, e la perfezione del
cerchio si stava sgretolando sotto la spinta del caos. Somigliava alla corolla di un
fiore fantastico.
“Sembra un fiocco di neve.”
Forse stava sbagliando tutto.
Non si era mai sentita così viva.
***
«DIETRO DI TE!»
«DOVE?!»
Mordraud vide la lancia spuntare dalla nebbia congelata, prendere in pieno la
schiena del compagno e trascinarlo sul ghiaccio come un giocattolo spezzato. La
terra era marmo ruvido. Non si vedeva niente, non si sentiva niente. Solo il suono degli zoccoli, qualche spada che cozzava sul ferro, e ogni tanto un urlo di dolore. Era mattina, ma era come se il sole si fosse dimenticato di sorgere.
«Mordraud!»
«ADRAMAN?!»
Nemici tutt’intorno. Cadaveri e feriti accatastati sulla neve fradicia di sangue.
«Adraman? DOVE SEI?!»
«Qui…»
343
Mordraud sentì nelle budella il sibilo di una lancia abbassata verso il petto. La
foschia si scostò come un drappo, e apparve un cavaliere. Provò a scansarsi, ma
aveva le gambe congelate. Una patina bianca e scintillante lo ricopriva dalla testa
ai piedi, e gli impediva di tenere bene aperti gli occhi. Mordraud attese. La lancia
era a un soffio dalla sua faccia ma lui ne afferrò la punta. Con uno strattone fece
crollare a terra il cavaliere, che sbatté duramente sulla neve compatta. Non voleva saperne di mollare la presa sulla sua cara lancia, così Mordraud gli spaccò i
denti con il manico. Pochi movimenti controllati. Era come combattere dentro
un lago ghiacciato.
«Mordraud…»
«Adraman!» gridò, ma la voce sembrava cristallizzarsi poco oltre la sua bocca,
piovendo a terra ridotta in frattaglie di ghiaccio. «Continua a parlare! Parlami!»
«Il mio cavallo… gli è scoppiato il cuore…»
Mordraud non sapeva come stesse andando la battaglia. Impossibile vedere,
impossibile capire. Era il ventesimo giorno consecutivo che Cambria attaccava.
Incursioni mirate, con molta fanteria pesante e gente sempre fresca. In tempi
normali, l’impero non avrebbe mai potuto nemmeno sognare di prendere il Terrapieno con quei pizzicotti. In tempi normali.
«Adraman, mi senti?!»
«Sì…»
«Dimmi qualcosa!»
«Maledetti Dei bastardi…»
«Così va bene, Adraman.»
Mordraud scivolò con un piede sopra il petto congelato di un cadavere che la
neve aveva parzialmente nascosto. Un ragazzo che aveva visto qualche volta,
forse era passato anche nella sua compagnia. Aveva la faccia nera e avvizzita come un pezzo di carbone.
«Continua!»
Era Rosso. Si ricordò di lui mentre bevevano insieme. Mentre giocavano a dadi. L’ultima volta che l’aveva visto era stato quattro, cinque giorni prima, al suo
fianco mentre avanzavano oltre il Terrapieno.
Non si era neppure accorto che non era tornato a casa quella notte. Da quanto
tempo non dormiva, si chiese angosciato.
«Da quanto dura, Mordraud?»
Nebbia densa come latte. La voce di Adraman era sempre più vicina. Una luce
bianca e morbida avvolgeva ogni cosa, riflessa dal cielo metallico e dalla terra ricoperta di ghiaccio.
«Dieci mesi, più o meno.»
«Dieci… mesi…»
344
Tre soldati apparvero come spettri a un passo da lui. Difficile capire se fossero
amici o nemici. Il mondo era bianco. I lineamenti, i capelli, gli occhi. Le armature
sembravano tutte uguali. Mordraud strinse l’elsa della spada, ma dovette guardarsi la mano per essere sicuro di avercela ancora. Le dita erano diventate insensibili. Il naso era un sasso piantato negli zigomi pesti.
«Cambria?» gracchiò ai tre sconosciuti. In tutta risposta, le loro spade si alzarono minacciose. Sembravano riposati, appena una buffa spolverata di neve fresca
sulle spalle e sugli elmi. Mordraud schivò il primo affondo e le sue ossa scricchiolarono di brina. Aveva ormai imparato a combattere immerso nell’acqua
ghiacciata.
Pochi.
Movimenti.
Controllati.
La punta della spada fra le due placche sul petto, alla ricerca della carne scoperta. Parare sarebbe equivalso a farsi staccare un braccio. I suoi nervi non potevano reggere alla vibrazione dell’acciaio, all’urto di due lame che si scontravano.
Non aveva mai notato quanti varchi potesse offrire un’armatura. Sotto l’ascella,
oppure nell’incavo delle gambe. Mordraud li usava tutti meticolosamente.
L’ultimo fu il più ostico. Prima di crepare, il fante di Cambria gli assestò un pugno in piena faccia. I denti gli ballarono in bocca, e la pelle della sua guancia si
spezzò come carta bagnata.
«Adraman!»
Aveva la bocca piena di sangue, ma almeno era caldo. Caldissimo. Se non
avesse fatto un male cane, sarebbe stata persino una sensazione piacevole.
«Quanti sono?! Non riesco… a liberarmi…»
«Ho fatto, non ti preoccupare. La battaglia dev’essere finita. Non se ne vedono
più tanti in giro.»
«Non sento più le gambe…»
Mordraud arrancò su un cumulo di neve e scivolò dall’altra parte. Una lastra di
ghiaccio costellata di corpi. Molti nemici, molti amici. Gli uomini di Eldain non
mollavano, ma le forze erano ormai finite. Si combatteva con i nervi, i tendini, le
ossa.
«Eccomi Adraman.»
Dalla nebbia Mordraud vide spuntare il corpo di un cavallo accasciato, quattro
o cinque soldati riversi a terra nelle pozze del loro sangue ancora fumante, e
Adraman. La maledetta neve non accennava a smettere di cadere. Il suo amico
era ormai quasi sepolto sotto la bestia morta e i fiocchi grossi come noci.
«Aiutami, tirami fuori!»
345
Adraman era messo male. Un graffio profondo sulla fronte, una spalla malridotta, ma respirava ancora. Non aveva il torace schiacciato, e il freddo non
l’aveva ancora ucciso.
Mordraud puntò una gamba sotto la schiena del cavallo, si piegò e iniziò a
spingere. Adraman cercò di tirarsi fuori ma gli mancavano le forze.
«Dai Adraman, datti una mossa! Questa bestia pesa!»
«Non riesco a muoverle…» il volto di Adraman si contrasse nel panico più assoluto. «Le mie gambe… ATTENTO!»
Mordraud diede un’occhiata alle sue spalle e lo vide. Un’armatura nera e d’oro.
Il cavallo bardato con gli stessi colori. Una Lancia Imperiale.
Non poteva mollare la presa sulla carcassa. Avrebbe rischiato di spezzare le
gambe di Adraman, sempre che non lo fossero già. La sua spada era a terra, irraggiungibile. La Lancia non lo caricò, ma fece di peggio. Li aggirò, si fermò di
fronte a loro e prese a cantare sommessamente. La sua voce giocava con la neve,
un fiocco nero in un mare di fiocchi bianchi.
«Vai Mordraud, scappa! Vattene!»
«Non ci penso nemmeno!»
Mordraud affondò i piedi nella neve e si spinse più a fondo che poté sotto il
corpo del cavallo. Con la schiena e un braccio riuscì a puntellare la bestia e a tenere libere le gambe di Adraman. La Lancia alzò le mani verso di lui e una luce
prese a danzare fra le sue dita, una luce verde che aveva già visto tante altre volte.
«MORDRAUD!» gridò disperatamente Adraman, ma lui rispose solo con un
mezzo sorriso. Tre lampi balenarono nella nebbia e si schiantarono uno dopo
l’altro sul suo petto. Tre schiaffi di una potenza allucinante. Mordraud sentì il
suo corpo spaccarsi in mille pezzi sotto il peso di un dolore insopportabile. Sentì
il puzzo dei suoi capelli, della sua carne bruciata. Fili di fumo si alzavano
dall’armatura di cuoio carbonizzato.
Ma la sua mano aveva già raggiunto il pugnale che teneva legato alla coscia.
L’unica mano libera.
Uno scatto del polso. La mira presa al volo, con gli occhi totalmente annebbiati. Il tiro.
Il pugnale si conficcò nel collo scoperto della Lancia, che crollò a terra senza
un gemito.
«Grazie Pietà…» biascicò mentre riprendeva a spingere via la carcassa. Era stato lui a insegnargli a lanciare i coltelli da cucina. Finalmente le gambe di Adraman erano fuori dal cavallo, così Mordraud poté accasciarsi a terra. Aveva tutto il
petto bruciacchiato. L’aria non voleva saperne di entrargli nei polmoni. I lampi
gli avevano lasciato un fastidioso riverbero verde stampato negli occhi.
«Sei un idiota, un fottuto idiota!»
346
Adraman si era trascinato con le braccia al suo fianco, e dopo avergli mollato
un paio di deboli pugni sulla spalla crollò su di lui senza forze.
«Ti avevo detto di andartene, perché non mi hai dato retta?! Guarda come ti
hanno ridotto…»
“Ehi, non sono ancora morto!” tentò di dire Mordraud, ma la sua voce non
uscì come avrebbe dovuto. Era più un rantolo, un raschio disarticolato.
“Non mi ha ammazzato, sono ancora vivo!”
«Figliolo, perché l’hai fatto?!»
Adraman stava piangendo. Le lacrime si congelavano fra i peli ispidi della sua
barba. Mordraud trovò la cosa stranamente buffa.
«Perché ti sei fatto ammazzare?»
“Ma non sono morto!” avrebbe voluto urlare, ma non poteva farlo. Forse era il
freddo, o la stanchezza. Oppure i tre lampi che si era preso in pieno petto. Non
lo sapeva. Il suo corpo aveva smesso di prendere ordini da lui. Adraman singhiozzava in modo vergognoso. Se i suoi amici lo avessero visto in quel momento, l’avrebbero sfottuto a sangue.
“Non… sono… morto!”
Un dubbio iniziò a farsi largo.
“È così che si muore? È questo ciò che si vede?”
«Mordraud…»
***
Il vento freddo faceva prudere la cicatrice che gli attraversava frastagliata la
guancia. La neve era così densa che impediva di vedere qualsiasi cosa. Un altro
attacco senza successo. L’ennesimo.
«Non credevo che i cantori sarebbero riusciti a fare tanto» commentò Asaeld al
suo fianco, coperto da un pesante mantello nero bordato di pelliccia bianca e
soffice.
«Anche troppo. È un modo vile per vincere.»
«Ma stiamo vincendo, non ti pare?»
Un branco di barellieri stava portando i cadaveri e i feriti via dal campo, anche
se fra le due categorie non si riusciva a notare una gran differenza. A decine avevano gli arti congelati, amputati, maciullati. Un clima così perverso era controproducente anche per loro. Non si vedeva niente oltre quella maledetta nebbia
gelata e perenne.
«No, non mi pare. Vedo solo i nostri ragazzi morire. Non abbiamo ancora valicato il Terrapieno, e sono passati mesi dall’inizio di Lungo Inverno.»
«Dai tempo al tempo, Dunwich» disse Asaeld con la solita pacatezza. «Vedrai
che ne usciremo vincitori, non manca molto. Eldain non ha quasi più uomini.»
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«A me non sembra.»
«Sai chi devi ringraziare, vero?» chiese maliziosamente il comandante.
«Non è stata un’idea mia» rispose disgustato Dunwich «sono stati quei dementi
dei consiglieri. Il mio piano era tutt’altro.»
«E cosa proponi di fare ora?! Sentiamo!»
«Cambiare punto, maledizione! Che senso ha attaccare qui?! Anche l’Hann è
ormai una striscia di ghiaccio! Attraversiamolo, puntiamo a Nord, e siamo dentro!»
«Non siamo noi a decidere» rispose lapidario Asaeld.
«E invece dovremmo.» Dunwich si diede un’occhiata intorno. Molte Lance erano
dietro di loro, fastidiosamente concentrate sulle sue parole. Abbassò il tono per
non farsi sentire da nessuno. «Se continua così, Loralon farà fallire anche questo
piano!»
«Mi ricorderò di farglielo presente la prossima volta che lo incontrerò.»
«Mi stai prendendo in giro?!» ringhiò Dunwich.
«Direi proprio di no. È che non possiamo farci niente.»
«Bah… torniamo nelle tende. Per oggi qui abbiamo finito.» Dunwich strattonò
il cavallo e puntò versò l’accampamento. Quella sera avrebbe dovuto presenziare
ad almeno due diverse riunioni, e bastò quel pensiero per fargli venire voglia di
mollare tutto e tutti per dedicarsi a un paio di bottiglie, da solo. Era un freddo
assassino, e nessuna coperta sembrava in grado di tenerlo lontano.
«Dovresti andare dall’erborista del campo» disse improvvisamente Asaeld
mentre tornavano indietro insieme. «La cicatrice ti si arrossa con tutta questa neve. Non vorrai certo che ti si rovini il profilo? Dicono che sia molto ambito a
Cambria.»
«Con tutto il rispetto… fatti fottere, Asaeld.»
«Vedrò cosa riesco a fare.»
***
«Signore, il nemico si sta ritirando.»
Eldain uscì dalla tenda avviluppato in una coperta di lana rattoppata e usurata.
Non gli piacquero per niente le facce che vide aleggiare fra gli scarni fuochi del
campo.
“Spettri affamati…” pensò scuotendo la testa. “Morti che camminano.”
«Quanti soldati abbiamo perso?»
«Non lo sappiamo ancora con certezza… dicono un centinaio, forse qualcuno
di più» rispose il suo scudiero, un ragazzo che aveva una certa esperienza di
guerra. Era stato costretto a mandare molte delle nuove reclute su fronti meno
roventi. Non reggevano alla pressione della prima linea. E al gelo. La maggior
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parte tentava di fuggire da quell’incubo, oppure cadeva nella paranoia e nella depressione più nera. I suicidi erano aumentati in modo impressionante. Nessuno
era pronto a quella che sembrava la maledizione di un Dio vendicativo.
Un inverno eterno.
Doveva ormai essere passata la primavera e quasi tutta l’estate, ma la neve continuava a cadere imperturbabile. Il ghiaccio non si scioglieva. Le piante tentavano
di nascere e appassivano senza frutti, ma più spesso non germogliavano nemmeno. Gli animali morivano come mosche nelle stalle. Di cuccioli, neanche l’ombra.
Era più frequente trovare un soldato morto di freddo nella sua tenda che vivo
vicino ai fuochi. Anche la legna era ormai agli sgoccioli.
Ma il vero problema era il morale. Omicidi, pestaggi, risse furiose erano
all’ordine del giorno, ovunque. Al feudo come al fronte. Senza la calda luce del
sole gli uomini stavano perdendo la testa. E con essa, la guerra.
«Signore, c’è Adraman nella tenda dei feriti…» disse timidamente lo scudiero.
«Cosa?!» gridò Eldain. «Come sta?»
«Non male, così almeno dicono…» il ragazzo deglutì nervosamente e incespicò
sulle parole. Eldain al fronte era una novità assoluta, e parlare con lui non era affatto facile. Il grande capo, la leggenda vivente, che si aggirava nella nebbia
ghiacciata per portare un po’ di coraggio ai suoi uomini.
«Ehm… anche Mordraud è stato ferito e… non sta proprio… bene…»
«Andiamo, SUBITO!»
Eldain afferrò il braccio del soldato e se lo trascinò dietro borbottando imprecazioni a profusione, intervallate da ordini perentori ai suoi uomini, che ciondolavano in catalessi con le mani tese sulle fiamme dei fuochi.
«C’è da fare altra legna! I cavalli hanno bisogno di qualche coperta! Spaccate i
carretti inutili e bruciateli!»
I nervi di tutti erano sfibrati, finiti. Ma i suoi ancora reggevano. Eldain era
l’ultimo a potersi permettere il lusso di abbandonare ogni speranza.
Arrivarono di gran lena alla tenda dei feriti. Mentre armeggiava con i lacci delle
pellicce che erano state accatastate all’ingresso per fermare, senza grandi risultati,
il vento ghiacciato, lo scudiero vide il volto di Eldain diventare terreo, gli occhi
spalancarsi, e una mano cercare il petto, e stringere forte. Ma fu solo un breve
momento. Prima ancora di aver finito con i nodi, il vecchio comandante sembrava tornato alla severa compostezza di sempre. A grandi falcate Eldain attraversò le lunghe file di giacigli, fermandosi di tanto in tanto a salutare i soldati
svegli. Non erano tanti. Adraman era sdraiato su uno dei pochi letti imbottiti della sala. Aveva una gamba fasciata e l’altra steccata con un manico di badile. Alla
vista dei potenti mezzi dell’alleanza, Eldain bestemmiò ferocemente.
«Vecchio mio, ti hanno conciato proprio male eh?»
349
«Nah… mi è successo di peggio» rispose il cavaliere sorridendo faticosamente.
Era bianco come un morto, con gli occhi lividi e pesti, i capelli scarmigliati e devastato da graffi più o meno profondi, ma sembrava fuori pericolo. «Una gamba
rotta, l’altra quasi… il guaritore dice che riuscirò a camminare di nuovo, ne ha
l’assoluta certezza.»
«Lo dicono spesso, sai? Per non far preoccupare i feriti importanti come te»
disse Eldain con voce ansiosa.
«Vorrà dire che cavalcherò soltanto…» Adraman fece l’occhiolino e si portò le
braccia dietro la testa «non ho di certo finito di fare il mio lavoro.»
«Com’è successo?! Perché eri in prima linea?» Eldain si sedette al suo fianco e
gli mollò un leggero ceffone in testa. Pensava che i suoi ordini fossero stati chiari. Niente capitani nella mischia.
«Infatti Ghiaccio e Berg non mi hanno seguito, ligi al dovere. Ma io l’ho fatto
lo stesso.»
«E perché, per gli Dei?!»
«Il gruppo di Mordraud era rimasto tagliato fuori dal resto della truppa. Non si
vedeva niente là fuori, amico mio…» Adraman sogghignò amaramente «almeno,
noi non potevamo vedere, ma anche quei figli di puttana hanno avuto i loro
problemi…»
«Allora sei andato a salvarlo?!»
Eldain non riuscì a trattenere un’espressione divertita. Adraman scrollò la testa
e lo guardò in cagnesco.
«Cosa ti aspetti? Sono i miei ragazzi, se non ci penso io… e poi, in realtà, è stato lui a salvare me.»
«E come?»
«I miei cavalieri hanno spezzato l’accerchiamento, ma il mio cavallo è morto
per il freddo. Gli è esploso il cuore, e dire che ne avevamo fatte di battaglie insieme… povera bestia.»
«E Mordraud?!»
«Mi ha trovato in mezzo alla bufera e ha sollevato la carcassa per liberarmi
ma…» Adraman si toccò le cosce frustrato «ma non potevo muovermi. Gli ho
detto di andare via, ma lui non ha voluto ascoltarmi. Non c’è una volta in cui
faccia quello che gli si dice di fare!»
«Perché, cos’è successo?»
«Una Lancia… e tre dardi in pieno petto.»
Eldain fischiò senza volerlo. Di solito, un solo lampo bastava e avanzava per
ammazzare un uomo. Due potevano stroncare un cavallo, tre non erano nemmeno contemplati.
«Mordraud è…»
350
«No, è vivo. Ha una pellaccia quel ragazzo… ma è messo male. Là in fondo»
Adraman indicò una delle brande, l’unica coperta da un baldacchino di tela.
«Non sanno però se riuscirà a passare la notte.»
Adraman strinse i denti fin quasi a spaccarseli. Eldain lo consolò con una pacca sulla spalla, ma non disse nulla. Tre lampi. Non doveva esserci rimasto molto
di integro dentro il suo corpo. I polmoni liquefatti. Lo stomaco bollito. Se il canto era entrato in risonanza con i suoi organi interni, Mordraud non era altro che
una giara di confettura.
«E il bello è che ha ammazzato quella dannata Lancia, ha spostato il cavallo e
mi ha liberato! Ed era già praticamente morto!»
«Non è colpa tua, Adraman… lui ha fatto quello che sentiva di dover fare…»
«Doveva andarsene, quell’idiota.»
Adraman deglutì rumorosamente, e aveva gli occhi umidi. Eldain si alzò e si allontanò in fretta per non farlo sentire in imbarazzo. Uno dei guaritori
dell’accampamento stava proprio armeggiando dentro il baldacchino chiuso.
Eldain si avvicinò e scostò il lembo di tela bianco.
Lo richiuse subito dopo. Con la mano destra si cercò disperatamente il petto, e
strinse forte.
«Avresti dovuto ascoltare Adraman, ragazzo mio» mormorò alla tenda bianca
pietosamente richiusa.
***
Gwern era chiuso nella sua stanza ad esercitarsi. Una candela solitaria brillava
sullo scrittoio di pietra. Saiden era fuori a caccia di qualcosa da mangiare. La torre era immersa nel riverbero del suo canto. Smise e si versò un bicchiere d’acqua.
Sorseggiandolo pensieroso, Gwern aprì la porta e aspettò che gli occhi si abituassero al buio. La vetrata del tetto era sommersa da spanne di neve fresca. Avevano smesso di pulirla da un po’. Non serviva a nulla, continuava incessantemente
a riempirsi.
“Da quanto tempo sono qui?”
Se lo chiese, ma non si stupì di non conoscere la risposta. Ormai si era abituato
a quella stranezza, una delle tante con cui aveva a che fare da quando viveva con
Saiden. Il tempo scorreva in modo imprevisto, standogli vicino. Come se la sua
presenza attraesse al punto la sua attenzione, da fargli perdere completamente il
filo della sua vita. Probabilmente passava giorni interi a cantare senza nemmeno
rendersene conto.
“Chissà come sta Larois.”
351
Fuori era il delirio. L’inverno non finiva mai. Impensabile uscire da soli e tentare il viaggio verso Eld. Saiden non lo avrebbe mai accompagnato. Doveva restare lì, e aspettare che il freddo passasse.
Un’attesa che sembrava sempre più vana.
Gwern tornò nella sua stanza e si sedette allo scrittoio. Prese la penna e il calamaio e disegnò tre linee perfette su una pergamena. Mettere per iscritto gli
esercizi che faceva lo aiutava a pensare. Era ancora fermo a una discussione che
aveva avuto con Saiden, riguardo agli Dei. Mentre segnava le note sulla pergamena, Gwern continuò a interrogarsi su di essi.
Era stato Saiden a dargli l’imbeccata. Se gli uomini attraverso il canto assurgevano a divinità, cosa restava agli Dei di speciale, di particolare? Cosa rappresentavano?
“Sono molto ignorante. Papà e mamma non sono mai stati credenti di nulla.”
Era un fatto davvero incomprensibile. Per spiegare ogni mistero, chiunque era
pronto a additare gli Dei come i soli responsabili. Ma in pochi credevano davvero in loro. La fede sembrava più una scelta di comodo. La gente si permetteva di
bestemmiare perché, in fondo, nessuno temeva forze divine che spesso non avevano nemmeno un nome. Forse qualche sporadico disperato si appassionava a
quella possibilità e rivolgeva il proprio cuore al cielo, ma lui non ne aveva mai
conosciuto uno.
Gwern si chiese cosa sapesse dell’inizio del mondo. Nulla, si rispose. Com’era
giusto che fosse. Gli Dei avevano creato tutto, non era necessario spingersi più
oltre nel tentativo di comprendere quale fosse stata la causa scatenante della vita.
Eppure, lui non sapeva nulla di Dei. Non conosceva quanti ne esistessero, che
caratteristiche avessero e come fossero schierati. Esisteva il concetto di bene e
male fra le divinità, era un’opinione risaputa. Ma come si applicasse alle logiche
divine, Gwern non ne aveva la minima idea.
“Sembra quasi che l’unico motivo dell’esistenza degli Dei, sia quello di essere
Dei per noi. Per darci la possibilità di concepirli come tali.”
Gwern si strinse la tempia e smise di disegnare note e scale. Spesso le persone
bestemmiavano, pochi ci facevano davvero caso. Quando ancora viveva a Eld,
non ricordava di aver mai conosciuto qualcuno che temesse l’ira divina, che si
aspettasse qualche loro concreta manifestazione nel dipanarsi della storia mortale. Però, a ogni quesito irrisolvibile come quel mostruoso inverno eterno, ecco
che gli Dei riprendevano le vesti dell’onnipotenza. Chi fossero, cosa volessero.
Come fossero fatti. Domande che non avevano alcuna importanza.
Semplicemente, nessuno se le poneva mai. Gli Dei erano dati per scontati.
Come concetto in sé, e non come esempi o modelli da seguire.
Lui non aveva alcuna cultura alle spalle. Non aveva mai studiato altro che le
poche cose che Eglade e Mordraud avevano avuto il tempo di insegnargli. Ma se
352
gli avessero chiesto improvvisamente chi avesse creato tutto, il tempo, gli uomini
e il mondo, Gwern avrebbe risposto d’istinto gli Dei. Era una scorciatoia mentale.
Una soluzione veloce per le persone svogliate. Ma lui era diverso, si disse. Non
era obbligato a seguire la via più breve, per trovare le risposte che cercava. Gli
Dei certo esistevano, pensò imbarazzato dalla piega che stavano prendendo i
suoi ragionamenti. Ma non potevano essere loro la spiegazione a tutto.
“Gli Aelian cosa pensano? Hanno idee differenti da noi?” si chiese incuriosito
da quell’aspetto. Non ci aveva mai pensato.
“Ma chi sono veramente gli Dei?”
Gwern restò un momento immobile a soppesare quella domanda, poi riprese a
scrivere note sulla pergamena. Inutile girare troppo intorno a quei pensieri, si
disse. Tanto non avrebbe mai ottenuto alcuna risposta utile.
Era più interessante chiedersi chi fosse Saiden.
Grazie a lui, stava sviluppando un’abilità notevole nel canto, ma di risonanze
ancora neanche l’ombra. Non aveva ottenuto nulla di quello che si era immaginato prima di partire. Si era aspettato di studiare tante cose che ancora non avevano approcciato. La storia, ad esempio. Passava il tempo ad allenarsi sulle melodie che Saiden preparava per lui. Gwern non riusciva a dedicarsi ad altro, era
troppo assorbito dal canto.
Qualche volta aveva l’impressione che il suo maestro fosse più interessato a
osservare le sue reazioni quando cantava, piuttosto che a insegnargli davvero
come cercare risonanze. Lo fissava di continuo in mezzo al petto, come se si
aspettasse che il suo sterno si schiudesse da un momento all’altro per mostrargli
cosa nascondesse di tanto prezioso. Insisteva con l’idea che lui dovesse cercare
solo di entrare in risonanza con se stesso, non con l’ambiente che lo circondava.
Ma quell’approccio non produceva assolutamente nulla di arcano. Sembrava non
servire proprio a niente.
Chi era Saiden, si chiese di nuovo. Un’altra domanda senza risposta, come tutte quelle sugli Dei e sul loro operato insondabile.
Un accostamento di dubbi che lo fece rabbrividire.
***
«Come procede l’assedio al Terrapieno?»
«Ottimamente, signori miei.»
Asaeld poggiò il fodero della sua spada al pilone che reggeva la struttura
dell’enorme tenda da campo. Era il centro nevralgico di tutto l’accampamento, il
luogo da cui tutti i capitani, i corrieri, gli strateghi passavano diverse volte al
giorno. Sul lungo tavolo di legno lucido e scuro erano stese decine di mappe, righe di legno, miniature di cavalli e soldati, bicchieri ancora sporchi dall’ultima
353
riunione. Una gigantesca stufa di ghisa pompava fiamme e aria rovente in una
lotta impari contro il gelo.
“I soliti burocrati…”
Non aveva mai un momento per stare in pace, per chiudersi nei suoi pensieri e
ragionare. E ne avrebbe avuto un gran bisogno. I nodi si stavano stringendo inesorabilmente, e lui non poteva permettersi di restarne intrappolato.
«L’Imperatore chiede con insistenza i risultati che gli sono stati promessi.»
Asaeld annuì distrattamente mentre preparava una tazza di vino caldo arricchito da una manciata di spezie piccanti. I consiglieri di Loralon sembravano tutti
uguali. Alti e magri, con capelli scuri tagliati corti. Eleganti livree grigie della stessa tonalità di una pelliccia di topo. Ma non quella dei topolini di campagna. Il ratto di fogna aveva proprio il pelo giusto.
«Stiamo continuando con le incursioni, e i nostri esploratori hanno già notato i
primi segni di cedimento. Eld è stretta sotto la morsa della carestia. L’alleanza
cigola ogni giorno di più. Gli altri nobili, sfiorati soltanto da Lungo Inverno, si
rifiutano di aiutare Eldain e rimpinguano le loro riserve. Non lo sapevate? La
paura è più utile della neve.»
«L’Imperatore vuole che il Terrapieno sia caduto prima della fine dell’anno»
continuò imperterrito uno dei tre. O dei quattro. Asaeld non li aveva ancora degnati di uno sguardo, ma sapeva che i burocrati imperiali non si muovevano mai
da soli. E avevano tutti la stessa voce.
«Stolido bue, hai sentito cosa ho appena detto?! STANNO MORENDO DI
FAME!» avrebbe voluto urlare. Ma non poteva. Loralon non avrebbe colto il
messaggio. Per lui contavano solo i morti lasciati sul campo di battaglia, e i palmi
di terra conquistati. «Mancano ancora due mesi alla tregua. Vedremo cosa possiamo fare.»
«Loralon non vuole che quest’anno venga rispettata la tregua.»
Asaeld buttò giù la prima sorsata e la trovò saporita al punto giusto. Né troppo
forte, né troppo calda. Assaporò quel breve momento di piacere, si gustò il senso
di tepore che gli scioglieva i muscoli intirizziti. Per i ribelli era dura, certo. Ma gli
uomini di Cambria non se la passavano molto meglio. Combattere in quel delirio
di ghiaccio era difficile, molto più pericoloso che in qualunque altra condizione.
Gli stessi soldati non potevano affrontare molti giorni di fila al fronte, così lui
era costretto a programmare difficili rotazioni dei reparti, che però non sapevano
nulla di come si erano evoluti gli scontri. Morale: caos in terra, caos nelle teste.
«La tregua è essenziale. Non per i ribelli, ma per noi. Non possiamo restare
tanto a lungo al fronte, non abbiamo le risorse. Dite all’Imperatore che saremo
di ritorno per i riti di fine autunno, come al solito.»
Ai primi freddi, pensò sarcastico.
«L’Imperatore insiste…»
354
«L’Imperatore riceverà le mie motivazioni a breve. Partirò oggi stesso per parlare con lui» tagliò corto Asaeld. La sua pazienza stava finendo molto rapidamente. Quasi quanto l’agognato bicchiere di vino.
«Gli strateghi di corte chiedono anche una vostra relazione sugli ultimi avvenimenti. Devono aggiornare i piani d’attacco.»
«Mh… un lavoro che ora non posso proprio fare. Usciamo un momento?
Chiedo a un mio sottoposto se può prendersi lui quest’incarico.»
Asaeld scolò il vino e varcò la tenda. Fuori, il clima era orrendo. Nevicava a
violente secchiate, il cielo era nero come la pece. Niente sole. Intorno a un vasto
fuoco si stavano scaldando le mani le Lance Imperiali, in attesa di ordini.
Dunwich era con loro, impegnato in un’accesa discussione con un paio di compagni. Quando Asaeld riuscì a sentire qualche parola dispersa nel ruggito della
bufera, sorrise e si fermò. Non era una discussione. Era più un’arringa avvincente.
«Dico che non dovremmo vomitare gente sul Terrapieno e basta! Lungo Inverno è solo controproducente! Siamo finiti dalla padella alla brace. Noi più di
tutti conosciamo il pericolo di perdere il controllo di un canto, no?! Abbiamo
tutti studiato per diventare Lance. Io dico di smettere questa pagliacciata e attaccare! Ma non come vogliono i nostri strateghi, no… un colpo mirato. Solo i nostri migliori, tutti verso Eld. Prendiamo il feudo, vinciamo la guerra!»
Le Lance annuivano senza rispondere, mentre quelle più lontane parlottavano
a testa china. Dunwich stava iniziando a riscuotere una grande popolarità.
«Ragazzo, ho bisogno di te» lo chiamò Asaeld. Dunwich si scusò con i compagni e si avvicinò al gruppetto di burocrati che tremavano di freddo dentro i loro
mantelli foderati di pelliccia.
«Dimmi Asaeld, cosa ti serve?»
«I nostri illustri strateghi di corte» esclamò a voce alta, tanto da attrarre
l’attenzione di tutti i presenti, Lance e soldati semplici, cavalieri e manovali compresi, «chiedono una relazione ben scritta sugli ultimi scontri. Vogliono sapere
com’è andata, cosa abbiamo conquistato, quanti morti, e così via. Puoi occupartene tu?»
«Una… relazione?!» rispose Dunwich indignato. «Devo mettermi a contare tutti i nostri ragazzi morti, cosa hanno fatto, e quanti passi di terra ghiacciata abbiamo conquistato?»
«Esatto. Proprio così.»
«È una vergogna!» sbottò Dunwich, e il brusio alle sue spalle crebbe a tono
con le sue parole. «Lo faccio perché sei tu a chiedermelo, ma altrimenti… per gli
Dei, venite qua a chiedere numeri e cifre, quando anche oggi abbiamo perso più
di cento soldati, e ben otto Lance! Altre otto, Asaeld. Lo sapevi? Me l’hanno detto
poco fa!»
355
«Dunwich, capisco che la cosa ti abbia infastidito, ma abbiamo dei compiti
precisi da svolgere…» disse Asaeld tentando di tranquillizzarlo con una tiepida
pacca sulla spalla. Proprio il gesto che sapeva sarebbe servito a farlo infuriare ancora di più.
«Infastidito?! Ragazzi!» urlò Dunwich ai suoi compagni radunati intorno al
fuoco «siamo infastiditi, per caso? O siamo INFEROCITI?!»
Un boato fu la risposta. I burocrati si erano fatti piccoli, a malapena visibili in
mezzo alla neve battente. Asaeld non disse nulla, né rimproverò nessuno. Fu
Dunwich stesso a stemperare gli animi richiamando tutti alla calma.
«Lo farò, ma aggiungerò anche qualche riga di critica per le scelte dei nostri
amati strateghi. Va bene, Asaeld?»
«Come vuoi, Dunwich.»
«Avrete tutto entro sera» concluse lui ritornando vicino al fuoco. Lo accolsero
con strette di mano e complimenti a profusione. Dunwich annuiva e parlava con
tutti, cavalcando la protesta. Asaeld riaccompagnò in tenda i messaggeri impauriti e li fece accomodare. «Come avete sentito, avrete tutto quello che volete entro
sera… ma la prossima volta vi consiglio di non parlare così apertamente di fronte ai miei uomini. Sapete, combattono tutto il giorno… sono sensibili.»
«Ma noi… avete detto tutto voi…» tentò di rispondere uno di loro. Ad Asaeld
non interessava affatto chi fosse di preciso. I burocrati erano tutti uguali ai suoi
occhi.
«Non vi preoccupate, questa volta è andata così… l’importante è che Loralon
riceva tutto ciò che ha richiesto» concluse sorridendo. «Volete un bicchiere di
vino? Ne ho di ottimo da fare caldo con le spezie… vi aiuterà a scaldarvi.»
«Dev’essere così dura, per voi… che non siete abituati al nostro Lungo Inverno…» concluse Asaeld con un sorriso piacione.
***
«Avete sentito capitano? Ne hanno appesi altri due.»
«Come?» chiese distrattamente Dunwich. Era sera, la sua compagnia stava cenando nella tenda comune. Il cibo era scadente, il vino annacquato e tutto sapeva
di neve insipida. La stufa era troppo lontana e non arrivava a scaldare ogni angolo del salone. Per tutto il pomeriggio aveva bevuto e discusso con i compagni,
infervorato dalla notizia che tutti ormai si aspettavano da un momento all’altro.
L’Imperatore pretendeva un attacco massiccio, senza se e senza ma. Le Lance
erano costernate, sia per quella richiesta, ma soprattutto per gli ennesimi caduti
di quel tremendo Lungo Inverno. Tre ragazzi morti di febbri atroci, quattro avevano perso un braccio o una gamba per il gelo, e ben otto caduti nell’ultima sortita. Una situazione intollerabile.
356
Fra le fila dei soldati regolari andava molto peggio. Gli ammalati, i feriti ormai
spacciati, le defezioni non si contavano più. Ogni mattina era necessario setacciare i reparti e controllare quanti soldati avevano abbandonato il campo dandosi
alla macchia. Quelli che venivano ripresi non subivano alcun trattamento di favore.
Impiccati.
Senza processo, senza giudizio. Un monito per quelli che restavano e fantasticavano di rivedere i prati verdi e i campi rigogliosi.
«Hanno trovato due disertori nascosti in un carro che stava tornando a Cambria. Li hanno appesi alla forca seduta stante, nudi. Ormai sono due statue di
ghiaccio.»
«Chi ha dato l’ordine di far fuori così la nostra gente?!» sbottò inferocita una
Lancia poco lontana. «Asaeld!» rispose un altro.
«Ti sbagli» lo corresse Dunwich «è stato Loralon a imporlo ad Asaeld, non è
una sua idea. Me l’ha confidato l’altra sera, il nostro comandante ha le mani legate.»
«Loralon di qua… Loralon di là… è sempre colpa sua!» esclamò qualcun altro
seduto al tavolo. Dunwich non conosceva quasi nessuna delle nuove Lance, tutti
ragazzi appena usciti dall’accademia. La vecchia guardia era stata piazzata a
Cambria, sotto veemente richiesta di Loralon. E per l’ennesima volta, Asaeld
aveva dovuto sottostare ai suoi capricci. In quel modo, il fronte era coperto soltanto da novellini.
«Dicono che non ci sarà la tregua, quest’anno.»
“Le voci corrono” pensò Dunwich. Aveva finito di stilare la relazione per i
messaggeri solo un paio d’ore prima, e chissà come, già tutti conoscevano in dettaglio le informazioni che Asaeld gli aveva riferito. Il malumore si tagliava con
l’accetta. Quella che per gli strateghi di corte era una tattica di indebolimento del fronte, per chi doveva attuarla era più un andate al macello. Punzecchiare una bestia ferita era un passatempo pericoloso. Con il freddo, i ribelli si erano incattiviti, erano diventati più duri e spietati del solito. Quando gli scontri terminavano, era
ormai tristemente abituale cogliere le grida disperate di chi era rimasto ferito e
veniva soppresso dagli uomini di Eldain. Urla che spuntavano dalla nebbia
ghiacciata come moniti dell’idiozia imperiale.
«Impossibile. Asaeld riuscirà a convincere il Consiglio, vedrete. Ci serve una
pausa, non abbiamo abbastanza uomini per dare il cambio alle prime linee!» rispose Dunwich con sicurezza tracimante.
Tre giorni prima era uscito con gli altri in un’incursione. Di solito seguiva soltanto le truppe e comandava gli spostamenti, ma in quell’occasione mancava una
guida per il reparto di cavalleria, così si era fatto avanti. Era stanco di mandare
uomini a morire. Voleva dare un segno forte ai soldati, dimostrare che anche gli
357
ufficiali erano dalla loro parte, che si sporcavano le mani come tutti. Avrebbe fatto meglio a starsene nella sua tenda.
Non aveva mai visto una carneficina simile.
Era sopravvissuto a battaglie campali, mattatoi indicibili, addirittura alla notte
dei Fuochi che era costata la vita a migliaia di suoi compagni. Ma dentro quella
nebbia irrespirabile, quel gelo vaporoso che si insinuava nei polmoni e li spaccava, penetrava nella pelle, macerava i muscoli e i nervi, si era sentito veramente in
pericolo per la prima volta.
Il nemico non si vedeva. Appariva. Come spettri da una nuvola. La terra era
così dura che era quasi impossibile non scivolare. Pezzi di armatura, spade, corpi
rigidi ovunque. I cavalli impazzivano, quasi quanto gli uomini. Aveva visto due
Lance vomitare un canto corale contro un gruppo di fanti, per poi scoprire solo
alla fine che erano uomini di Cambria. La neve rendeva tutti uguali. Alleati e nemici insieme.
«Tutta la regione è allo sbando. Dicono che alcuni alleati storici di Eldain abbiano mollato. I civili non hanno più cibo, e per bere possono solo sciogliere il
ghiaccio. La legna inizia a scarseggiare perché è tutta marcia» disse sghignazzando una delle Lance senza nome.
«Cosa ci trovi di tanto divertente?»
«Beh, capitano…» rispose il ragazzo tentennando «sono i nostri nemici, ogni
loro cedimento è un nostro vantaggio…»
«Non è questo il modo con cui una città come Cambria deve vincere una guerra!» ringhiò Dunwich. «Annientare il popolo serve solo a farlo diventare più dedito alla causa. È una vergogna vincere così.»
«E non abbiamo ancora vinto…» mormorò un altro compagno.
La discussione venne interrotta da uno dei servitori delle cucine. Giovanissimo, con le guance arrossate dai brufoli e le braccia troppo magre. Sicuramente
uno scartato dalle selezioni, pensò Dunwich. Portava a fatica un grande vassoio
colmo di boccali di peltro.
«Questi sono per voi, signori» disse lui timidamente. «L’ultimo barile di birra
dell’Ovest. La migliore.»
«Non mi sembra corretto» tentò di dire Dunwich «ce n’è anche per gli ufficiali
regolari?»
«No, era un barile piccolo. I cuochi mi hanno detto di portarla solo a voi Lance.»
«Almeno abbiamo qualcosa di decente per pulirci la bocca da questo schifo!»
esultò uno dei soldati. Non si fecero di certo pregare. In un attimo il vassoio fu
svuotato, e rimase soltanto il boccale più grosso, chiuso da un coperchio
d’argento.
«Capitano, quello dev’essere il vostro!»
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Dunwich lo prese controvoglia e rispose al brindisi chiamato dagli altri.
«All’impero! Alle Lance!»
Decisamente ottima, constatò Dunwich con piacere. La migliore che avesse
bevuto negli ultimi mesi. Invece di scolarla, come tutti, la sorseggiò lentamente,
ripensando alle primavere di Cambria, ai viali alberati, ai colossali cancelli d’oro
della cerchia interna. Al sole caldo sulla pelle. Poteva quasi sentire il tepore dei
suoi raggi, il senso di placido torpore dell’aria profumata.
Finché non si accorse che la sua pelle scottava veramente. Non era una sua
fantasia.
«Ma cosa…» provò a dire, ma aveva la bocca secca e amara. Come se avesse
bevuto ruggine fusa. Il servitore lo stava fissando con aria sbigottita. Dunwich si
guardò intorno. Le Lance si stavano dimenando sul tavolo, boccheggiavano, si
contorcevano stringendosi la pancia. Non riusciva a sentire alcun suono.
«Maledetto!» balbettò mentre il mondo vorticava intorno a lui.
Veleno.
Il corpo lo stava abbandonando. La sua schiena si inarcò fin quasi a spezzarsi,
le braccia erano sempre più rigide e insensibili, anche le gambe erano fuori controllo. Le dita si contrassero accavallandosi fra loro, e Dunwich sentì nitido lo
schiocco delle ossa che si spezzavano. Si stava accartocciando.
Dunwich provò a cantare, ma non aveva più la voce. La sua bocca non voleva
aprirsi. I denti gli facevano un gran male. Sull’orlo della disperazione, si ricordò
di un canto che aveva letto nei primi anni di studi, una risonanza usata anche dai
guaritori per spurgare ferite infette. Trovare la voce giusta era praticamente impossibile. Lo intonò solo nella sua mente.
Dunwich sentì la gola dilatarsi e si buttò a terra. Un fiotto di vomito lo squassò
dalla testa ai piedi, un rigurgito anomalo, rosso e brillante come le fiamme di un
incendio. Tutto il veleno che aveva in corpo sgorgò fuori, ma non senza dolore.
Dunwich non aveva mai provato nulla di simile. Era come se tutto il sangue che
aveva in corpo avesse deciso nello stesso momento di sprizzargli fuori dalle vene. La sua pelle trasudava sangue luminoso. E così gli occhi, la bocca e il naso.
Finché anche la più piccola stilla di veleno non fu purgata dal suo corpo in risonanza.
Il mondo smise di piroettare. I suoni ritornarono come un’onda di marea, e lo
travolsero. Stavano urlando tutti. Qualcuno piangeva, altri inveivano, molti stavano scappando. Regnava il panico più totale. Le ombre proiettate dalle fiamme
della stufa contro il telone danzavano in modo grottesco.
Sul tavolo, a terra, riverse sulle panche, dieci Lance erano morte stecchite. Il
loro collo tirato indietro in pose innaturali, le schiene spezzettate in più punti
come bastoncini di legna secca, le bocche spalancate e zuppe di sangue. Una fine
orrenda.
359
Il servitore era in piedi con ancora il vassoio vuoto in mano. Stava fissando i
corpi tremando come una foglia.
«Fermi…» provò a dire Dunwich, ma non aveva abbastanza voce per sovrastare il boato della folla «non è stato lui… dobbiamo scoprire chi…»
Troppo tardi.
Un branco di belve terrorizzate si avventò sul ragazzo, lacerandolo, sbranandolo.
«Traditore! TRADITORE!»
Dunwich arrancò fino a raggiungere il bordo del tavolo. Non si reggeva in piedi. Due dita della mano destra si erano attorcigliate e spezzate in modo stupido,
come se fossero state usate per comporre un nodo fatto ad arte. Tentò ancora di
urlare, ma era tutto inutile.
Dunwich vide la testa del giovane schiantarsi a un soffio dalla sua faccia. Lesse
nei suoi occhi tutta la sua innocenza. Il suo terrore.
Finché un coltello da cucina non gli staccò il collo di netto.
***
«Inammissibile! Voglio i colpevoli, SUBITO!»
Asaeld tirò un pugno contro il palo di legno della tenda, rischiando di far crollare tutto. Dunwich era accasciato su una barella. Si era addormentato dopo essere stato visitato da un guaritore.
«Per un pelo. Se non avesse fermato il veleno con quel canto, sarebbe morto
come tutti gli altri» aveva commentato il vecchio erborista. «Non ho molto da
dargli, se non qualcosa per farlo riposare profondamente. E mi permetto di consigliare… tenete qualcuno a guardia della tenda. Non si sa mai.»
Asaeld aveva radunato seduta stante tutti i responsabili di reparto dell’esercito.
Nessuno sapeva cosa dire o cosa fare. Dopo l’ultima, colossale serie di impiccagioni a Cambria, i fantomatici traditori dell’impero non si erano più fatti vivi. Fino a quel giorno.
«Dieci Lance morte sotto gli occhi di tutti! E uno dei miei migliori uomini per
poco non faceva la stessa fine! ORA DITEMI COSA DOVREI FARE!»
Parlare con Asaeld era difficile. Seguire i suoi ragionamenti a volte era impossibile, e le conclusioni spesso inaspettate. Anche se in quella tenda erano radunate le figure più influenti di tutto l’esercito imperiale, nessuno azzardò la benché
minima idea. I cuochi erano stati tutti passati a fil di spada, compresi i servitori
che erano di turno quella sera. Erano state messe sotto sopra le cucine, i sospetti
torchiati fino ad ammazzarli, torturati, picchiati, incarcerati e poi torturati di
nuovo, ma nessuno aveva visto niente. Sentito niente. Fatto niente. Si stava insi360
nuando il dubbio fra gli uomini che se esistevano davvero dei traditori, dovevano
per forza essere dei refoli di vento.
«Cercate ancora! Ci sarà pure un colpevole! Siete stati abbastanza duri con i
cuochi? Avete tentato di farli parlare?!»
«Certo, ma loro non sapevano nulla… e quello che gli abbiamo fatto avrebbe
fatto cantare un muto!» disse preoccupato il responsabile degli approvvigionamenti. Cioè il più esposto di tutti. Sudava freddo, sembrava appena uscito da un
bagno. Asaeld aveva la faccia paonazza, sputacchiava a ogni urlo, agitava le braccia come un ossesso. Uno spettacolo sconvolgente, rispetto al solito distacco
composto del grande comandante.
«Tornate nelle cucine, chiamate tutti gli esperti del continente per far studiare
quel veleno, resuscitate il servo che ha servito da bere e interrogatelo! POI AMMAZZATELO DI NUOVO!»
«Ma non si può resuscitare un morto…»
«Sono circondato da un branco di idioti! DECEREBRATI! Fate qualcosa, e
non provate a tornare da me senza un colpevole altrimenti… prendo il primo di
voi che mi capita a tiro!»
La tenda si svuotò in un istante. Asaeld ansimò ancora a lungo, con gli occhi
fissi sulla tenda che oscillava al vento freddo che penetrava dall’apertura. Il rossore sulle sue guance si spense, i fremiti calarono, e finalmente ritrovò la calma
dopo un grande sforzo di nervi. Il primo nodo si era stretto prima del previsto.
Ecco perché desiderava tanto un po’ di pace. Per poter ragionare, e prevenire,
fatti come quelli.
«Questa volta, ragazzo mio, mi hai fatto prendere un colpo.»
Asaeld si sedette a fianco di Dunwich sulla branda e lo fissò intensamente.
Non aveva la solita voglia di sorridere, non quella sera.
«Stavi per mandare a monte tutto. E ora devo trovare un modo per sistemare
questo casino.»
Lance morte mentre cenavano tranquillamente. Sobillatori, traditori nascosti
fra gli uomini che più avrebbero dovuto rappresentare la magnificenza
dell’impero. Il suo esercito. Il braccio armato dell’Imperatore. E nessun colpevole.
Un evento che sfiorava la punizione divina. Ma uno, e solo uno, era sopravvissuto. Proprio Dunwich. Un segno. Una premonizione di grandezza.
Alla fine, Asaeld ebbe l’idea giusta. Poteva sfruttare la cosa. Tutto filava liscio
quando poteva permettersi il lusso di pensare in silenzio.
E il sorriso ritornò, come sempre.
361
XXIII
«Le Punte dell’Est, Tre Torri, Hannrinn e Cambrinn hanno deciso di ritirare i
loro uomini dal fronte.»
Ghiaccio aveva atteso in silenzio per tutta la riunione, ascoltando le proposte
dei vari capitani, annuendo a quelle più sensate, borbottando qualcosa ai suoi
sottoposti per le idee più stupide. Si era tenuto il colpo di scena per il finale. I
feudi che lui rappresentava avevano già comunicato da giorni la loro decisione,
ma il momento buono non si era ancora presentato. Fino a quella sera. Con
Adraman fuori dal consiglio, Eldain non aveva più spalle su cui appoggiarsi. Non
avrebbe avuto la forza necessaria per opporsi. E infatti, il vecchio nobile sembrò
essere preso in pieno da un pugno in faccia. Barcollò un momento, si strinse al
tavolo, sbiancò. Non che per Ghiaccio fosse esaltante, tirargli una simile pugnalata. Dopo anni di guerra insieme aveva imparato a rispettarlo, e per certi versi a
stimarlo. Ma quello era il suo lavoro, e ci teneva a farlo bene.
Lui doveva rappresentare i territori che proprio quella sera si stavano ritirando
dalla guerra.
«Vada per le Punte, e Tre Torri… ma i due Rinn non possiamo permetterci di
perderli!» grugnì Eldain. «Gli antichi avamposti di Cambria a Nord-est e Sud-est
sono vitali per il fronte! Se si ritirano…»
«La decisione ormai è stata presa, Eldain. La capitale sta addosso ai suoi due
vecchi protettorati, spinge molto in quelle zone. Li rivuole, e non è detto che
possano resistere ancora a lungo.»
362
«E la causa?! Conosco la famiglia Rinn da una vita, erano amici di mio nonno,
e chissà da quanto prima! È stato un mio antenato a guidare l’esercito di Eld per
appoggiare i due fratelli contro la capitale!»
Hannrinn sorgeva a Sud su uno dei punti più stretti dell’alveo del fiume Hann,
una vecchia fortezza a difesa dell’unico ponte transitabile a distanza di settimane.
Per decenni, Cambria l’aveva usata come base per il controllo del traffico fluviale. Da quel punto, il fiume diventava facilmente navigabile, ed estremamente utile per raggiungere velocemente il mare interno. Ma per ottenerne il controllo
aveva dovuto deporre la storica famiglia che aveva amministrato quelle terre per
generazioni, i Rinn appunto, la stirpe più antica e ramificata dell’intero Est. Parenti e cugini dei Rinn erano sparsi in tutto il continente, ma i loro possedimenti
storici erano Hannrinn e Cambrinn, chiamata anche la montagna murata. Un bastione arroccato su uno dei primi monti della cinta a Nord-est della capitale, che
anticamente era stata assegnata alla famiglia Rinn da Cambria stessa. Ovviamente, molti anni prima che scoppiasse la guerra contro l’alleanza. La famiglia di
Eldain aveva aiutato gli ultimi discendenti Rinn a riprendersi i loro possedimenti.
Era credenza diffusa che fosse stata quella vecchia rappresaglia contro Cambria a
dare il via al progetto imperiale, e con esso, alla guerra. Ma erano solo supposizioni. Quel che contava era che, senza l’appoggio dei Rinn, continuare a combattere sarebbe stato impossibile.
«Non sono stato io a decidere, Eldain. Lo sai che sono solo un portavoce.»
«Sembra che tu non aspettassi altro, vero?»
«Osi mettere in dubbio la mia lealtà?!»
Eldain ringhiò ma non disse nulla. Ghiaccio aveva avuto l’idea giusta. Senza
Adraman a stemperare la situazione, il vecchio nobile era più vulnerabile.
«Si può sapere come mai hanno deciso di rompere l’alleanza?»
«Per colpa di questo inverno. Sono stanchi di mandare uomini al fronte, e temono che prima o poi il freddo possa raggiungere anche le loro terre. Sai, le voci
che girano su Eld non aiutano.»
Un altro colpo basso, ma quella sera Ghiaccio doveva a tutti i costi uscire vincitore. Ne andava della sua credibilità. Eldain sembrò piegarsi solo a sentire nominare il suo castello. La gente di Eld era ridotta al lumicino, dilaniata dalla fame
e dagli stenti. La furia dell’inverno era tutta sulle loro spalle, e in quelle della loro
guida. Eldain artigliò il tavolo e fissò malevolo Ghiaccio.
«Dev’essere un fottuto sortilegio di Cambria, lo sappiamo tutti! Ci sarà pure un
modo per spezzarlo!» esclamò Berg, che incredibilmente non aveva ancora attaccato al palo Ghiaccio e tutti i suoi sottoposti. Fino a quel momento non aveva
neanche detto una parola. La notizia era stata troppo brutta anche per lui, che di
solito perdeva ben poco tempo a ragionare.
363
«C’è chi dice che non sia opera dei cantori imperiali, bensì degli Dei… una punizione contro di noi, per aver macchiato di sangue tutto l’Est con la nostra causa» esclamò Ghiaccio.
«Ti sembra per caso normale che in estate nevichi senza mai smettere?! E soltanto qui?! Io con gli Dei mi ci pulisco il culo. Non hanno mai fatto niente, non
c’entrano neanche stavolta. È un maledetto canto, ve lo dico io. Dobbiamo solo
scoprire come ha fatto Cambria!»
«E dici poco, Berg?! Cosa ne sai tu di Canto Arcano? Cosa ne sappiamo tutti
noi?!»
Ghiaccio ormai aveva l’attenzione dell’intero concilio. Eldain si teneva la mano
sul petto e guardava fisso la parete di pelliccia. Sembrava aver perso dieci anni in
un istante. Sentì di essere un bastardo, ma lo aveva sempre saputo. Non era una
novità di quella notte.
«Con un inverno eterno che fa marcire le nostre terre, quanto potremo ancora
durare?! Cambria ha deciso di giocare pesante, e noi non possiamo stare al gioco.
Io dico che i Rinn hanno ragione!» esclamò Ghiaccio esibendo un sorriso sornione. «Senza la bella stagione e i campi coltivati, siamo tutti spacciati! Dobbiamo pensare a una strategia d’uscita…»
«E se l’inverno invece potesse finire?»
Tutti si voltarono verso l’ingresso della tenda, e il primo fu proprio Ghiaccio.
Il suo sorriso si tramutò in un ghigno frustrato.
Era stato Mordraud a parlare. Ed era insieme a Adraman, che si appoggiava a
lui per camminare.
«Non abbiamo la minima idea di come fermarlo. E anche se fosse possibile,
non abbiamo i mezzi.»
«Invece li abbiamo, vi do la mia parola.»
Mordraud parlava lentamente e con grande sicurezza. Era cinereo, curvo e malandato, ma i suoi occhi non avevano perso lucidità. Al suo fianco Adraman si
ergeva su una gamba e fissava tutti i presenti con aria di sfida. Due rottami che
gli stavano rovinando il suo momento d’oro. Ghiaccio ingoiò la bile che farfugliava nel suo stomaco e mantenne un sorriso distaccato.
«E quali sarebbero questi mezzi?! Dov’erano fino a oggi?»
«Conosco un cantore che ci può aiutare. Si chiama Saiden.»
Un brusio scosse l’assemblea. Qualcuno ne aveva sentito parlare, gli altri non
sapevano assolutamente chi fosse. Mordraud non era uno che si inventava storie,
se conosceva davvero un cantore, gli altri capitani erano tentati di credergli.
«Mio fratello studia con lui. Saiden è un cantore molto rinomato a Cambria e
Calhann. Se non credete a me, chiedete a uno qualunque dei prigionieri che teniamo a Eld. Ci sarà sicuramente un cantore, vi confermerà tutto quello che dico» concluse Mordraud.
364
«Anche se fosse» sibilò oltraggiato Ghiaccio «cosa potrebbe mai fare un solo
cantore contro questo inverno?! E se fosse davvero opera degli Dei, cosa potrebbe fare?»
«Se è una maledizione divina, siamo comunque spacciati» rispose Mordraud
con noncuranza. «Se invece c’entrano i cantori, Saiden potrebbe dirci come trovarli. E io li ucciderò, con l’aiuto di mio fratello.»
«E tuo fratello sarebbe…» accennò Ghiaccio, ma Mordraud tagliò corto agitando la mano con fare arrogante.
«Un cantore. Si sta perfezionando con uno dei migliori del continente. Pensate
che esista qualcuno di più qualificato? Oppure preferite star qui a massacrarci fra
noi, facendo il gioco di Cambria?»
Il concilio si strinse intorno al tavolo. Mordraud era noto fra le truppe, era appena sopravvissuto a morte certa, era forse il più giovane soldato di tutto
l’esercito di Eldain. I rappresentanti dei feudi che si stavano ritirando erano sfilati alle spalle di Ghiaccio. La situazione stava volgendo a suo sfavore.
«Spunti sempre al momento del bisogno, non è vero?» mormorò Eldain.
«Ringrazia Mordraud, è sua l’idea» rispose Adraman.
«Comunque non cambia nulla. La famiglia Rinn ha deciso, e con lei altri
dell’alleanza. Non si torna indietro» disse Ghiaccio agitando un braccio. «Non si
torna più indietro!»
«Penso invece che qualcosa si possa ancora salvare» disse Eldain «andrò di persona a Hannrinn per incontrare il suo protettore. Chiederò una proroga alla loro
decisione, anche solo di pochi mesi.»
«Sono io il portavoce!» sbraitò Ghiaccio.
«Ma io posso trattenere le truppe dei Rinn per un po’. Le strade sono impraticabili per la neve, e non abbiamo carri da lasciarvi per trasportare l’occorrente
per un ritiro.»
«Questo è… scorretto!»
«Dici? È opinabile» rispose Eldain sghignazzando.
«Bah, vedremo cosa vi risponderanno i Rinn! Ma non aspettatevi che siano felici delle vostre scelte!» Ghiaccio uscì dalla tenda rosso in volto e stravolto dalla
rabbia. Eldain tirò un sospiro di sollievo, e come lui molti altri dell’assemblea. La
tragedia era stata rimandata di qualche giorno.
«Sei arrivato al momento giusto, ragazzo!» esclamò Berg ridendo sguaiatamente. Mordraud stava perdendo quel poco di colore che aveva ancora in volto.
Quando il soldato si avvicinò per stringergli la mano, si trovò a doverlo afferrare
al volo. Mordraud svenne di colpo, e solo grazie a Berg non colpì il tavolo con la
fronte.
«Come faceva a stare in piedi?!» esclamò Berg sbalordito. «Guardate com’è
conciato…»
365
***
Il letto era grande e comodo, bagnato dalla luce del mattino che filtrava dalle
tende di lino. Un carretto sferragliava sul selciato, un gruppo di serve stava
chiacchierando del più e del meno, un cane abbaiava in lontananza. Tutto era attutito, soffuso. Una nenia perfetta per riposare, come la pioggia del mattino sul
tetto.
La coperta si mosse lievemente, disegnando il profilo di un fianco. Una cascata
di capelli scuri sparsi sul cuscino di piume. Occhi dolci che lo fissavano sorridendo. Il profumo della sua pelle. Il suono della sua voce roca per il sonno.
«Buongiorno amore.»
Mordraud si voltò per baciarla, come faceva ogni mattina, da sempre. Il sogno
che lo aveva tormentato per tutta la notte era svanito non appena l’aveva vista al
suo fianco, accoccolata sotto le lenzuola. Immagini sconclusionate di guerra, di
freddo e di stenti. Di morti amiche e nemiche. Ma quali nemici poteva mai avere,
si chiese rilassato. Aveva già tutto quello che desiderava.
O no?
Aveva sognato ancora lo Sconosciuto. L’uomo senza un braccio che lo perseguitava da quando era bambino. L’aveva visto picchiare sua madre, inseguirlo nel
cortile polveroso. Accanirsi contro suo fratello. Gwern piangeva sempre in quei
lunghi sogni. Non faceva altro che piangere. Ma anche lui era cresciuto. Era diventato un grande cantore, temuto e rispettato da tutti.
E poi, aveva visto Dunwich.
Lo Sconosciuto ormai non gli faceva più paura. Aveva sognato così tante volte
quelle scene sempre uguali, che aveva trovato il modo di farci l’abitudine. Ma
con Dunwich era diverso. Lui non li aveva mai aiutati. Lui non aveva mai dovuto
sopportare anche un solo briciolo di quel peso. Se n’era andato. E non era mai
tornato per difenderli dallo Sconosciuto.
«Cos’hai, Mordraud? Hai fatto ancora quel brutto sogno?»
«Sì…»
«Ora sei sveglio, non devi aver paura…»
Deanna era più bella ogni giorno che passava. La sua rabbia, la sua voglia di distruggere e distruggersi era svanita come neve al sole da quando vivevano insieme. Una casa piccola, per carità. Mordraud non aspirava a possedere. Desiderava
molto di più vivere. E quella era la vita che voleva, in pace.
Senza guerra.
Senza lo Sconosciuto.
Senza Dunwich.
«Vieni qui amore…»
366
Mordraud strisciò sotto le coperte e l’abbracciò sprofondando nel morbido
materasso, immergendosi con il volto fra i suoi capelli. Fuori, lo stesso cigolare
di un carretto. Le stesse chiacchiere. Lo stesso cane che abbaiava.
Come tutte le mattine.
«Perché sei triste?»
Mordraud non lo sapeva. Qualcosa non andava bene. Aveva la sensazione fastidiosa di aver già visto tutto da qualche altra parte. Pensieri già formulati. Suoni
già sentiti.
Cercò di guardare fuori dalla finestra, ma la luce del mattino era troppo forte e
densa. Le tende si muovevano sospinte da una brezza inesistente. Avrebbe voluto affacciarsi, ma per farlo doveva alzarsi dal letto, sfilarsi dalle braccia di Deanna.
E sapeva già che se lo avesse fatto, nulla gli avrebbe più restituito quella pace.
«Stringimi più forte.»
Mordraud abbassò gli occhi verso di lei.
Deanna era avvolta dal fuoco.
«Perché mi guardi così?»
Le fiamme le stavano divorando la carne, i bei capelli scuri, e uscivano come
lingue roventi dal vuoto dei suoi occhi sciolti. Anche il suo corpo stava bruciando. Mordraud cercò di divincolarsi, tentò in tutti i modi di liberarsi dalla sua
morsa, ma non aveva abbastanza forza. Deanna lo stava lentamente tirando verso di sé. Quel poco che restava della sua faccia stava sorridendo. Quando con il
seno si appoggiò al suo petto, Mordraud riuscì finalmente a urlare.
«DEANNA! DEANNA!»
Mordraud agitò le braccia e si trovò avviluppato da pesanti coperte ruvide e
puzzolenti. La luce era svanita, i suoni dolci erano svaniti, il grande letto comodo
era svanito.
Al loro posto, solo gemiti e rantoli di dolore, il grigio onnipresente
dell’inverno, e una branda scomoda e spigolosa.
«Do… dove sono?!»
Nessuno rispose. La grande tenda era avvolta nel silenzio, rotto soltanto dal
mugolio dei feriti e degli ammalati. Il ricovero. Era difficile per lui separare la
realtà dal sogno. Poteva ancora sentire il profumo di Deanna, la sua pelle. Le
fiamme.
Con una mano si tastò il petto. Sentì solo un gran dolore, e la pelle avvizzita e
purulenta.
«I lampi… la Lancia… Adraman!» Mordraud ricordò tutto, finalmente.
«Adraman?! Dove sei?»
Non aveva urlato, per paura di svegliare tutti gli altri soldati addormentati.
Qualcuno, dall’altra parte del tendone, rispose con un sussurro.
367
«Mordraud?! Ti sei svegliato! Stai bene?»
Era la voce di Adraman. Mordraud si chiese per un momento se lo avesse sentito mentre chiamava disperatamente Deanna, e sperò ardentemente di no. Oppure sperava di sì, non ne era molto sicuro.
«Aspetta… ora vengo là.»
«Sei matto?! Resta dove sei, devi riposare! Ti hanno conciato male, ragazzo
mio. È un miracolo che tu sia ancora vivo.»
Ovviamente Mordraud non l’ascoltò. Di restare sdraiati in attesa di chissà cosa,
non se ne parlava neanche. A passi malfermi, attraversò lo stretto corridoio che
si apriva fra le brande e raggiunse Adraman. Aveva una gamba rotta ma era vivo
e in salute. Si ritrovò ancora assediato dai dubbi. Era felice, oppure avrebbe preferito qualcos’altro?
Deanna al suo fianco, nel grande letto morbido. Mordraud scacciò via
quell’immagine tentatrice e sedette al fianco di Adraman. Non sarebbe mai arrivato così in basso. Non con lui.
«Non ascolti mai, vero? Devi riposare, ti hanno portato in risonanza gli organi
interni, e te ne vai in giro a passeggiare… sei proprio incredibile.»
Adraman gli raccontò tutto quello che era successo dopo la battaglia. Per quattro giorni aveva lottato fra la vita e la morte, e i guaritori ormai lo avevano dato
per perso.
«Anche se si svegliasse, sarebbe ridotto a un morto ambulante» aveva sentenziato il più esperto di loro. Ma lui aveva beffato tutti. Respirava a malapena, non
si reggeva quasi in piedi, faceva fatica a tenere gli occhi aperti per il dolore al petto, ma era vivo.
«Tu come ti senti?» chiese a Adraman. Il cavaliere era un po’ stropicciato, ma
stava infinitamente meglio dell’ultima volta che lo aveva visto. Sotto un cavallo,
immerso nella neve, mezzo morto per il freddo.
«Sto bene, ma questa maledetta gamba mi dà un fastidio tremendo. Mi prude
sotto la steccatura, e ho un raffreddore terribile.»
«Quindi non stai piangendo per me?!» disse sghignazzando Mordraud. Adraman aveva gli occhi umidi e gonfi.
«Ma per chi mi hai preso? Non sono una puttanella. Tornatene a letto se ti
aspettavi un po’ di carezze, idiota!»
«Non mi permetterei mai…» rispose Mordraud «ma torniamo alle cose serie…
come proseguono gli scontri? Novità?»
Adraman si rabbuiò sprofondando nel largo cuscino. «Male. Girano voci che
alcuni alleati vogliano mollare. Hanno tutti paura di questo fottuto inverno, che
gli Dei siano maledetti! Eldain non sa più che fare… e lo vedo stanco, preoccupato… non è da lui. Non l’ho mai visto così in difficoltà.»
368
Mordraud annuì senza rispondere. Quello scherzo della natura stava disintegrando anni e anni di sacrifici, di battaglie, di ideali. Se anche Adraman era
preoccupato per Eldain, allora la situazione era ormai così grave da essere quasi
irreparabile.
Quasi.
Mordraud si rese conto di avere un’idea a cui non aveva mai fatto caso. Forse
aveva riflettuto inconsciamente mentre era svenuto sulla sua branda schifosa.
Come se il canto della Lancia avesse messo in risonanza qualcosa dentro di lui,
un collegamento che non era ancora stato in grado di fare. Non sapeva come
fosse possibile.
Ma aveva un’idea.
«Tutto questo è una maledizione di Cambria, non credi? Sono i loro cantori a
crearla.»
«E allora? Tanto non abbiamo cantori abbastanza bravi per contrastarla, anche
se fosse.»
Era proprio quello il punto. Non l’aveva mai preso in considerazione prima
perché non lo riteneva utile. Perché era troppo giovane, e studiava da troppo poco tempo. E soprattutto, perché era suo fratello, e non voleva coinvolgerlo nella
guerra.
Gwern. L’unica speranza che ai suoi occhi avesse un senso.
«Dov’è Eldain?»
Adraman scosse la testa e borbottò nervosamente. «Stasera doveva parlare con
i capitani dell’esercito. E scommetto uno sputo contro un diamante che Ghiaccio ne approfitterà per annunciare il ritiro degli alleati.»
«Allora dobbiamo sbrigarci. Vieni!» Mordraud prese Adraman alle spalle e lo
sollevò di peso dal letto. «Ti spiegherò tutto strada facendo.»
«Ma dove vuoi andare?! Mettimi giù! Non ti reggi in piedi, e neppure io mi reggo in piedi! Siamo patetici!»
«Già, già… ne parliamo dopo. Ora andiamo, forza!»
Mordraud si incamminò portandosi dietro Adraman, che per stargli appresso
dovette saltellare sull’unica gamba ancora sana.
«Sei un pazzo, ragazzo mio» disse Adraman sdegnato. «Sei un maledetto, stupido pazzo.»
«Lo so, non ti preoccupare» rispose Mordraud aprendo il lembo del tendone
che conduceva all’aperto. Il freddo era terrificante. Il suo corpo tremò, in procinto di abbandonarlo, ma con un disperato sforzo di volontà Mordraud riuscì a resistere. Non aveva tempo da perdere.
Aveva un inverno da sopprimere.
***
369
Deanna prese la pergamena chiusa dal sigillo di Eld, lo spezzò, e si avvicinò alla finestra del suo salotto privato. Avevano finito le candele da un pezzo, e le bastò un’occhiata al cortile completamente sepolto dalla neve a ricordarle che
avrebbero dovuto rinunciare ad averne di nuove per chissà quanto ancora. E lo
stesso valeva per tutto, ormai.
Il cibo era agli sgoccioli, e solo grazie alle intelligenti riserve che Adrina aveva
accumulato nelle cantine, lei poteva ancora concedersi il lusso di cenare dignitosamente.
«Perché hai tenuto da parte tutta questa roba?» le aveva chiesto Deanna quando vide a tavola ogni genere di conserve, sottoli, sottaceti, salumi. «Eppure mio
marito non ha mai detto nulla al riguardo.»
«Il padrone sa che io tenevo delle scorte, e mi ha lasciato sempre piena scelta
su come e cosa fare delle cantine» aveva risposto la vecchia domestica. «Voi ragazzine non avete la pasta delle donne dei miei tempi. Sapevate che quando ero
bambina le terre di Eld caddero in una carestia che durò anni? Mangiavamo anche i topi, i gatti e i cani… quei pochi che erano rimasti. Non si può mai essere
sicuri di nulla, signora… bisogna essere sempre previdenti.»
Nel resto della città le cose andavano molto peggio. Interi quartieri erano isolati dalla neve, e per quanto gli anziani e le donne si adoperassero di badile per liberare le strade, gli orti e le porte, non potevano fare nulla contro l’arrivo
dell’ennesima tempesta di ghiaccio. Giravano voci, brutte voci su quello che stava succedendo al Terrapieno. E altre ancora più brutte su come erano ridotti i
villaggi verso Est. Vecchi e bambini lasciati a morire di fame per tentare di salvare almeno quelli più forti e utili. Gente che bolliva e masticava corteccia per
riempirsi in qualche modo la pancia. Rivolte per il pane, per un pugno di grano
ammuffito. Ville di ricchi mercanti depredate e ripulite dai propri occupanti. Persone che sparivano e non tornavano più a casa al sorgere del sole.
Sole che per altro non sorgeva quasi mai.
Era piena mattina, ma sembrava di essere al tramonto. Il cielo era velato, come
sempre, dalle nubi grigie e nere cariche di freddo. Una nebbia densa e tagliente
stazionava al suolo come i fumi della decomposizione sui tumuli. Il camino era
acceso ma scaldava e illuminava troppo poco. Le gambe cerate dei tavoli non
bruciavano affatto bene. Deanna strinse gli occhi e si sforzò di decifrare la calligrafia minuta e precisa che scorreva sulla pergamena ingiallita. Lo scialle di lana
che aveva sulle spalle non bastava a tener lontano gli spifferi, così prese una coperta della poltrona. Puzzava di umido e di chiuso, ma era comunque piacevole.
Era come sentirsi abbracciati a qualcuno, cosa che a Deanna mancava da morire.
Mordraud e Adraman erano passati da casa solo una volta negli ultimi mesi,
qualche settimana prima, e avevano cenato insieme. Non si era certo fatta sfuggi370
re l’occasione, e si era appartata con Mordraud solo per pochi minuti, prima di
ritornare mestamente in camera da suo marito. Era stata una serata indubbiamente molto impegnativa. Erano ripartiti la mattina dopo, insieme, per tornare al
fronte, anche se nevicava e soffiava un vento freddo come la morte. La tregua,
quell’anno, non era mai arrivata.
Nessuno si sarebbe mai aspettato che l’inverno avrebbe deciso di non lasciare
alla primavera il posto che le spettava di diritto. Era inconcepibile, impossibile
anche solo da immaginare. Un meccanismo antico che chiunque avrebbe dato
per scontato. Al feudo furono organizzate le festività per l’arrivo della bella stagione, i contadini attendevano il momento per tornare ai loro campi, i bambini
fremevano all’idea di poter giocare di nuovo all’aria aperta fino a tardi. Ma la neve semplicemente non smise di cadere. Adraman partì verso il fronte insieme alle
nuove leve fra le perplessità generali. E da quel giorno, tutto divenne grottesco.
Le piante non germogliavano. Gli animali non generavano nuovi cuccioli. I
campi marcivano sotto il peso del ghiaccio duro come il marmo. Gli alberi avvizzivano e morivano. Il popolo aveva già l’acquolina in bocca per la frutta, la
verdura, l’aria profumata, il sole fino a sera. Dovettero ingoiarla a malincuore.
Quel gelo prendeva sempre di più i connotati di una maledizione divina, una punizione per ciò che Eldain e i suoi stavano portando avanti da decenni. Cambria
aveva l’appoggio degli Dei, a quanto sembrava. La fortuna dell’alleanza era che la
religione, in quelle terre, non aveva un gran peso. Altrimenti, le cose sarebbero
già naufragate da un pezzo.
Deanna riuscì a leggere qualche parola alla tenue luce della finestra, ma non ne
colse subito il significato. Era già abbastanza difficile vivere in quelle condizioni,
non avrebbe sopportato altre cattive notizie.
«Sono rimasto ferito in combattimento. Ho una
gamba spezzata, ma non sono in pericolo di vita.
Ti scrivo per non farti stare troppo in pensiero,
dato che non torno a casa da molto tempo, e ancora per molto altro non tornerò. Anche
Mordraud è rimasto ferito, non è conciato molto
bene, ma è giovane e confido che si riprenderà.
Mi manchi.
Ti amo»
Deanna finì di leggere e restò un momento immobile. Forse non aveva capito
bene. Rilesse ancora, e ancora. Lesse fino a farsi venire il mal di testa. La luce era
sempre più debole e grigia.
371
Anche Mordraud è rimasto ferito.
Non è conciato molto bene.
Confido che…
Deanna appallottolò la lettera fra le mani, la sfregò, la ridusse in mille pezzi.
Non era infuriata, né preoccupata. Non era sicura di come dovesse sentirsi.
Sollevata per suo marito? In ansia per il suo amante?
Troppo, per poter decidere. Scelse di non provare nulla, mentre faceva cadere
a terra come nevischio i pezzettini sporchi d’inchiostro. Mentre li scagliava in giro per la stanza e li faceva danzare nell’aria guardandoli agitarsi come piccole ballerine.
Solo quando la sua opera di distruzione fu completata, Deanna capì che il cuore aveva preso una decisione al posto suo.
E pianse fino a sentire gli occhi scoppiare.
***
“Perché lo fai?”
Mordraud aprì la saccoccia di cuoio irrigidita dalla brina e spezzò un boccone
di pane secco come un sasso. Masticò lentamente, schivando il dolore che cercava di affacciarsi ogni volta che compiva il gesto più semplice. Sul petto restavano
poche tracce dei lampi armonici che per poco non l’avevano ucciso, ma lui sapeva perfettamente che la lotta si era solo spostata dentro il suo corpo. Quella non
era una ferita che si poteva rimarginare con il riposo. Per un attacco simile, di solito si moriva. Senza lottare, senza resistere. Ma lui non era morto, e stranamente
trovava la cosa curiosa, più che stupefacente.
I primi giorni lui non aveva potuto vedersi, ma Adraman gli aveva raccontato
cosa avevano trovato i guaritori spogliandolo dentro la tenda dei feriti. La faccia
color cenere. La pelle del petto nera come il carbone, spaccata e pulsante. Le vene del collo gonfie in modo disgustoso. Il sangue che non smetteva mai di uscirgli dalla bocca. Non avevano creduto un istante che sarebbe riuscito a superare la
notte. Men che meno, la notte successiva. Quando a tutti fu chiaro che lui non
aveva la minima intenzione di mollare, qualcuno iniziò a mormorare la parola
miracolo insieme al suo nome. Ma Mordraud non si sentiva miracolato. Il dolore
era tutto fuorché sparito. Si era inabissato dentro la sua carne, e nessuna erba curativa poteva alleviarlo. Poteva solo stringere i denti e tirare avanti, come aveva
sempre fatto.
“Perché lo fai?”
Non aveva voluto con sé una scorta. Non per eccesso di arroganza, ma per puro buon senso. Il mondo era diventato completamente bianco. Neve nei campi,
372
sui prati, sopra e sotto gli alberi secchi. Neve in cielo. Neve sulle case. Lui stesso
era un faro acceso nella notte, un puntino nero su una tela completamente bianca. Se fossero stati in tanti sarebbe stato impossibile non farsi notare. Così, da
solo e vestito da pezzente, poteva almeno sperare di essere scambiato per un
mendicante, e poteva nascondersi ovunque, anche in un buco nella terra. Con sé
aveva solo la spada, ben nascosta in un involto di coperte. Nient’altro. Di cavalli
non se n’era neanche parlato. Quei pochi che ancora resistevano, servivano
all’esercito. E Mordraud temeva anche che qualcuno particolarmente affamato
potesse avere la malsana idea di ammazzarlo solo per prendersi la sua cavalcatura. Così viaggiava da solo e a piedi, sopportando il dolore un passo dopo l’altro,
l’unico uomo in un paesaggio che aveva perso ogni colore, oltre che l’essenza.
«Perché lo fai?»
«Cosa?»
«Continuare a combattere. Continuare a buttare la tua vita oltre il Terrapieno.
Perché lo fai? Cosa ti lega alla causa di Eldain? Perché l’hai fatta diventare una
tua causa?»
La domanda delle domande. Mordraud masticò lentamente il frammento di
pane insapore e grigio fissando le fiamme misere del suo piccolo fuoco. Si era
accampato sul limitare del bosco, ai piedi di un albero morto sotto il peso del
ghiaccio. Adraman lo aveva salutato con quella domanda, e lui non era riuscito a
rispondergli.
Non avrebbe saputo cosa dire neppure dopo giorni e giorni di cammino solitario.
“Perché ho un conto in sospeso da chiudere” avrebbe potuto dire. “Perché
Cambria deve pagare per quello che ha fatto alla mia famiglia” era un’altra ottima
risposta. “Perché odio mio fratello, e so che è una Lancia Imperiale. Quindi ogni
Lancia Imperiale deve morire” sarebbe stato un po’ fuori dalle righe, ma avrebbe
avuto un senso.
“Perché mi scopo tua moglie, anche se tu sei un mio amico. Merito di espiare
le mie colpe sul campo di battaglia”, era quasi vero.
Ma quelle risposte non sarebbero bastate a dare pieno valore a quello che provava.
“Perché Eld è casa mia, e la gente che combatte per lei è la mia famiglia. Perché voglio bene ai ragazzi che aspettano la loro fine dietro il Terrapieno.”
Quella era forse la risposta giusta. E gli venne in mente solo mentre guardava il
fuoco, e mangiava il suo pezzo di pane ammuffito. Gli mancavano Pietà, Gigante, Maglio. Gli parve di sentire la voce di Berg abbaiare ferocemente un comando. Quel vecchio bastardo, pensò commosso. Stava male al pensiero che Rosso
fosse morto e che lui non fosse stato lì con lui quando era successo.
373
Dormire la notte era impossibile con quel freddo, così Mordraud riprese il
cammino quando la luce svanì all’orizzonte. Muoversi era il solo modo decente
che avesse per scaldarsi, anche se ogni passo era una sofferenza. Eldain aveva
accolto la sua proposta a braccia aperte, ma si era infuriato quando si era ostinato
a voler partire di persona, e da solo.
«Sei uno straccio, ragazzo» gli aveva detto ammonendolo furiosamente. «Non
se ne parla.»
«Gwern è mio fratello, ci aiuterà se sarò io a chiederglielo» aveva risposto lui,
mentendo in parte. Gwern avrebbe aiutato chiunque, per quanto era buono e disponibile. Ma Mordraud voleva prendersi di persona la responsabilità di immischiare suo fratello in quella storia. Era compito suo, non di Eldain, Adraman o
tutti gli altri capitani. Era solo suo.
«Allora chiediamo direttamente a Saiden! Lui saprà come fare, mentre tuo fratello è ancora troppo giovane! E magari non è in grado di…»
«Gwern sa sicuramente cosa fare. Ne sono certo» aveva chiuso Mordraud. Tutta quella sicurezza, in realtà, era solo una supposizione, ma Mordraud preferiva
di gran lunga tentare con Gwern piuttosto che con un rinomato esperto di canto
che però si era sempre disinteressato dei ribelli, dell’alleanza e di tutto il resto.
Non si fidava del potere delle armonie, nella maniera più assoluta. Ma di suo fratello, sì.
Forse aveva esagerato, millantando un aiuto da Saiden senza nemmeno sapere
da che parte lui stesse in quella guerra. E forse nemmeno Gwern era abbastanza
bravo per aiutarlo.
A far cosa, si disse con un sorriso amaro. Era ridotto a un rottame. Probabilmente, era proprio lui l’anello debole del suo magro piano. “Almeno avrò guadagnato qualche giorno, per dare una mano a Eldain…” pensò affranto.
La notte scivolò via un passo dopo l’altro, nel buio senza luna e senza stelle. I
suoni erano soffocati dalla neve, pesanti come macigni dentro l’acqua. Mordraud
non vedeva un animale da giorni, e l’ultimo se l’era mangiato quasi crudo, dalla
voglia che aveva di sentire il sapore di un po’ di carne fresca. Una lince, poco
sveglia e intontita dal freddo. Per stenderla erano bastati un coltello e un buon
lancio da distanza ravvicinata. Mordraud era ancora immerso nel ricordo di quella gustosa cena improvvisata quando vide spuntare dalla nebbia un’alba malata, e
il profilo di una torre massiccia, un pilastro solitario in mezzo a un bianco prato
sconfinato.
“Ci siamo!”
Accelerò il passo, ma le gambe sprofondavano nella neve rendendo tutto più
difficile. In alcuni punti quasi dovette strisciare per non trovarsi immerso fino al
collo nella neve gelida. Cadeva con frequenza così serrata che i fiocchi non facevano in tempo a indurirsi, trasformandosi in sabbie vaporose e inconsistenti.
374
Mordraud raggiunse i piedi della torre. Qualcuno aveva scavato una voragine per
raggiungere la porta. Perse il passo e cadde giù, impattando di schiena contro la
lastra di ferro. Il rimbombo richiamò dei passi affrettati. Mordraud rotolò dentro
la torre fra le gambe di suo fratello.
«Mo… mo… mo…»
«Anch’io sono felice di vederti, Gwern» esclamò stordito Mordraud.
«Ma cosa ci fai qui?!» strillò Gwern aiutandolo a rialzarsi. Gli spazzò la neve
dalle spalle e dai capelli, gli girò intorno camminando in punta di piedi
dall’eccitazione. Gli prese il mantello e gli passò una coperta più pesante. Si incamminarono insieme verso il centro della torre, la scala ellittica. Mordraud si
guardò intorno e cercò di fischiare, ma aveva le labbra congelate.
«Ma che posto è?!»
«Apparteneva agli Aelian» rispose Gwern allargando le braccia. «Mamma non ti
ha mai raccontato niente su un posto come questo?»
«No… direi proprio di no. È tutto così vuoto e freddo.»
«Essenziale, direi» esclamò Gwern. «Mi sarebbe piaciuto sapere di più della
mamma e dei suoi parenti…»
Gwern si azzittì. Saiden era uscito dalla sua stanza. Li stava guardando da un
ballatoio sospeso e senza corrimano, paurosamente più in alto rispetto a loro.
«Chi è, Gwern?»
«Mio fratello, maestro!» gridò lui. Mordraud chinò il capo incerto sul da farsi.
Saiden corse giù velocemente. Quando li raggiunse, passò gli occhi da uno
all’altro, e si paralizzò sul posto. Sembrava che anche lo sterno di suo fratello
fosse molto interessante per lui, pensò colpito Gwern.
«Scusa, chi hai detto…»
«Mio fratello Mordraud, maestro. L’ho accolto dentro, non vi ho chiesto il
permesso…»
«Hai fatto benissimo…» rispose sconcertato Saiden. Era incredulo per qualcosa
che soltanto lui vedeva. Mordraud si guardava intorno confuso, spiazzato. «Io
non voglio disturbare» tentò di dire, ma Saiden si fiondò verso di lui e gli afferrò
le braccia. Gliele tastò sbalordito. Gli toccò anche il collo e il mento. Gwern era
incapace di dire nulla. Mordraud restò fermo, sconvolto.
«Impressionante. Non può che essere tuo fratello, Gwern…»
Saiden ritrovò all’istante la sua compostezza. Si allontanò da Mordraud e gli
chiese scusa. «Ero ansioso di conoscere l’uomo che Gwern mi ha decantato in
tante occasioni…»
«Il piacere è mio» rispose Mordraud accarezzandosi pensosamente il volto.
***
375
Saiden lasciò cenare i due fratelli da soli. Carne di cervo e cipolle. Mordraud
divorò le ossa e le cartilagini, leccò il piatto e spazzolò con le dita le briciole di un
tozzo di pane, che Gwern teneva per spezzare la fame durante gli esercizi.
Gwern contemplò attonito la voracità di suo fratello. E gli passò anche il suo
pezzo di carne.
Mordraud, in via del tutto straordinaria, lo accettò senza fare storie.
«Come sta Larois?»
«Mh… credo bene…» bofonchiò Mordraud strozzandosi con un sorso di vino
rosso. «Io sono di stanza al Terrapieno da mesi. L’ultima volta che sono stato a
Eld…»
Si interruppe. Non poteva dire a suo fratello che era tornato a casa solo per
scoparsi la donna di Adraman. Anche se avesse cercato parole migliori, lui non
avrebbe mai capito.
E avrebbe fatto più che bene.
«Hai passato tutto il tempo in caserma, immagino…»
«Beh, sì… esatto.»
«Ma come sta andando a casa?»
Come voleva che stesse andando, pensò frustrato Mordraud. Malissimo. Si
chiese per l’ennesima volta se aveva preso la decisione giusta, a interpellare suo
fratello. Era ancora troppo giovane. Mordraud non se la sentiva di dirgli esattamente quello che stava succedendo fuori da quella fantastica torre, dove si poteva ancora mangiare carne fresca e il vino non era soltanto un triste ricordo bagnato. Forse avrebbe fatto meglio a tentare da solo.
«Il feudo è allo stremo… dobbiamo fare qualcosa.»
«Cos’hai in mente?»
«Mi sono chiesto…» sussurrò Mordraud «se questo inverno è causato da un
canto… un cantore potrebbe sentirlo anche a grande distanza?»
«Mh, penso di sì» rispose sicuro Gwern. Mordraud lo squadrò stupito.
«Pensavo che sarebbe stato più difficile spiegarmi.»
«No, è abbastanza chiaro» continuò Gwern. Quando parlava di armonia e di
canto, aveva un piglio decisamente diverso dal solito. Molto più deciso.
«Se fosse un’immensa risonanza, dovremmo sentirla anche da qui, probabilmente.»
«E tu sapresti cosa fare?!»
Gwern prese un respiro importante.
«No.»
«Allora come fai a esserne così sicuro?!» esclamò costernato Mordraud. Aveva
sperato fino all’osso che lui sapesse cosa fare. Erano fottuti, pensò in preda al
panico.
376
«Ho bisogno di parlarne con il maestro. Penso che lui possa darmi qualche
consiglio.»
«Ma tu sai già cantare?»
«Sì, sono piuttosto bravo. Ma ancora non ho trovato le giuste risonanze. Mi
manca poco, fratello. Pochissimo.»
Mordraud annuì convinto. Gwern era una maschera di convinzione pazzesca.
Stringeva i pugni come a volerseli stritolare.
«Sono certo di poterti dare una mano.»
«E pensi che Saiden ti aiuterà?»
«Mi farò dire quello che posso.»
Mordraud gli diede una pacca sulla spalla e gli sorrise. Gwern accennò a un
ghigno sghembo. Era tesissimo. Ma era anche euforico in modo vergognoso.
Aspettava da tempo l’opportunità di ripagare tutti. Mordraud soprattutto. Doveva soltanto convincere il maestro a spiegargli come mettere in pratica la sua idea.
Tutti i discorsi di Saiden sugli Dei e sull’interpretazione dei fenomeni lo avevano
spinto parecchio a riflettere. Se quell’inverno incredibile era causato da qualcosa
o qualcuno, escludendo appunto gli Dei, allora la causa doveva risiedere nel misterioso potere delle armonie. La specialità di Cambria.
Forse un inverno armonico emetteva un suono particolare, pensò Gwern. Era
quella la sua teoria.
Voleva sentire la risonanza dell’inverno.
Gwern si alzò di scatto e fece per andare alla porta. «Meglio iniziare subito»
esclamò tentennando un momento. Era di fronte a un grosso problema, pensò.
Saiden non lo avrebbe mai aiutato. Non lo aveva fatto per tutto quel tempo. Perché avrebbe dovuto iniziare ora?
Se sapeva come trovare il canto di Lungo Inverno, avrebbe già potuto fare
qualcosa. Se gli fosse interessato. Da come il suo maestro parlava del freddo e di
ciò che stava succedendo fuori dalla torre, Gwern dedusse che era l’ultimo dei
suoi pensieri. Sembrava più interessato a perdere tempo con lui, fissandolo di
continuo, rivolgendogli intricate domande e oscuri indovinelli senza risposta.
«Vado. Prima gli chiedo una mano, e meglio è» concluse deciso.
La porta della stanza si aprì da fuori.
«Maestro…»
Saiden entrò e si sedette sul letto. Passò lo sguardo sui due fratelli con cadenza
meccanica. «Gwern, spiegami cos’avete intenzione di fare.»
Mordraud era rigido sulla sedia dello scrittoio. Gwern era fermo davanti alla
porta aperta. Si guardarono interdetti. Quella coincidenza era decisamente anomala.
«Avanti, voglio tornare alla mia cena.»
377
«Stavamo pensando…» iniziò lui, ma Mordraud lo interruppe. «È stata un’idea
mia. Speravo di trovare un aiuto su come individuare la fonte dell’inverno.
Dev’essere per forza da qualche parte. Solo che noi non possiamo vederla.»
«Io credo che sia possibile percepire la risonanza di un canto tanto vasto.»
«Vi sbagliate, è impossibile.»
La risposta di Saiden fu lapidaria. Feroce. Gwern fece un passo avanti rosso in
faccia. Mordraud stringeva la schiena della sedia come se dovesse strapparla via.
Saiden sorrise sbalordito fissando qualcosa che sembrava muoversi fra i due fratelli. «Avevo ragione…» mormorò in un sibilo. «È qualcosa di mai visto prima…»
Gwern non riuscì a sentirlo. Si fece avanti ancora, con un fare velatamente minaccioso ma allo stesso tempo terrorizzato. Come un topo in trappola. Era la sua
occasione di fare qualcosa. Non poteva perderla. Mordraud era disperato. Come
se l’inverno gli fosse ripiombato addosso con il peso di un’incudine nella schiena.
Intanto, lo sguardo di Saiden continuava a saltare da un petto all’altro dei due
fratelli.
«Non si può fare. È fuori discussione. Non come dite voi, almeno…»
«Cosa… cosa intendete?» esclamò Gwern indietreggiando istantaneamente.
«C’è un altro modo per individuare la fonte, come l’ha chiamata tuo fratello. Tu
lo chiameresti coro, ma è molto più corretto il suo…»
«E come dovrei fare?»
«È possibile?!» si intromise Mordraud. Non stava capendo molto dai loro discorsi. Aveva solo afferrato che ci fossero risvolti positivi.
«Sì, ma Gwern non sa come fare.»
«Posso imparare…» rispose lui, ma a Saiden scappò un abbozzo di risata. «No,
non credo.»
«Allora mi stai prendendo in giro?!»
Era talmente confuso che aveva perso le buone maniere. Non capiva perché il
maestro pensasse che lui fosse un totale incapace.
«Posso farlo, ne sono certo.»
«No» tagliò corto Saiden. «Ma posso farlo io.»
Si alzò di scatto dal letto e passò fra i due fratelli. Si fermò in mezzo a loro un
istante, allargando le braccia come se si stesse gustando un attimo di vento. Il
suo comportamento era assolutamente incomprensibile. Gwern fissò Mordraud
interdetto.
«Ci aiutereste?!»
«Sì. Non vedo perché non farlo» rispose tranquillamente Saiden.
«Ma non avrei mai pensato che…» mormorò Gwern.
«Ora che vi ho visto vicini… non sarebbe un dispiacere aiutare.»
378
«Allora perché non ha fatto qualcosa prima? Là fuori è un incubo orrendo!»
sbottò Mordraud sdegnato. «Cambria sta uccidendo Eld!»
«Perché ora potrebbe essere più interessante. Voglio venire con voi, e vi aiuterò a trovare la tua fonte, Mordraud. Non vi preoccupate.»
«Di cosa?» chiese perplesso Gwern.
«Di me… fate come se non ci fossi.»
***
Saiden aveva lasciato la stanza per dare il tempo ai fratelli di prepararsi. Voleva
partire subito. Quando Gwern aveva chiesto almeno una notte di riposo per
Mordraud, lui li aveva fissati come se fossero impazziti. Non sembrava ansioso
di trovare un modo per fermare Lungo Inverno. Era solo eccitato all’idea di
viaggiare insieme a loro. Un comportamento assurdo che lasciò su Gwern uno
strascico di strani pensieri.
«Ti giuro che di solito non sembra così…»
«Ma hai visto come ci fissa? Proprio qui…» Mordraud si indicò perplesso il
petto «penso non mi abbia mai guardato in faccia da quando sono entrato.»
«Questo lo fa sempre. Non so perché» rispose Gwern allargando le braccia.
«Però mi ha trattato molto bene finora, è severo sì, ma è giusto. Sono il suo allievo. Mi deve trattare così.»
«Ma cos’hai imparato finora?!»
Gwern scosse nervosamente la testa.
«Solo a cantare. Non chiedermi di esibirmi, non apprezzeresti. Sono melodie
piuttosto particolari. Diverse da quelle che mi aspettavo.»
«Credi che ti stia nascondendo qualcosa?» gli chiese Mordraud.
«No, penso solo che lui abbia un modo tutto suo di intendere le risonanze…»
rispose Gwern soppesando le parole. Aveva paura che lui li stesse ascoltando.
Una sensazione che, sinceramente, non aveva mai avuto da quando abitava lì.
«Cosa significa?!»
Gwern fece segno a Mordraud di aspettare un momento. Prese dallo scrittoio
un calice di vetro. Lo usava per intonarsi. Strinse un pennino di bronzo e lo percosse delicatamente. Si generò una nota perfetta, limpida. «Vedi, quando due
corpi entrano in contatto, questi vibrano… ed emettono un suono. Anche se tu
non puoi sentirlo, quando tocchi qualcosa con le mani, o sbatti contro qualcuno,
il tuo corpo vibra.»
«Stai cercando di spiegarmi le armonie?!» esclamò titubante Mordraud. «Sai che
non le amo particolarmente…»
«Potrebbe servirti, se mai dovrai scontrarti contro un cantore. Seguimi…»
379
Gwern appoggiò il bicchiere, e lo indicò quando il fondo bussò sordo sulla pietra. «Esistono vibrazioni che possono entrare in risonanza. E cosa succede?
Quando due corpi entrano in risonanza, condividono per un istante lo stesso
suono. Questo può succedere quando si è innamorati, o quando si prova qualcosa di forte per un amico fidato.»
«Stai dicendo che anche quella è un’armonia?!»
«Sì» rispose imbarazzato Gwern. Per lui, quella era pura teoria. Gli piaceva fantasticare sulle conseguenze dell’esistenza delle armonie. Poteva passare giorni a
pensarci.
«Un cantore cerca con la propria voce di entrare in risonanza con il mondo.
Con il vento, la terra o la luce. Con qualsiasi cosa. Anche con gli altri uomini,
possibile… ma difficile. Quando la sua armonia riesce a trovare il punto esatto
della risonanza, la concentrazione del cantore può scatenarsi plasmando la realtà,
o addirittura crearla, anche solo per pochi istanti.»
«Come quei maledetti dardi…» sibilò Mordraud ghignando al ricordo.
«Può anche essere semplice luce concentrata, tutto dipende dall’esperienza del
cantore. E dalla perfezione della sua risonanza.»
«Come hai fatto a imparare tutte queste cose?!» disse Mordraud sbalordito dalla
sicurezza con cui suo fratello parlava. Stava crescendo rapidamente, e soprattutto
bene. Mordraud tirò un sospiro di sollievo.
«Il maestro sta cercando di insegnarmi come sublimare il canto.»
«Non so cosa vuol dire…»
«Significa renderlo superfluo. Lui sa come entrare direttamente in risonanza con il
mondo. È come se lo fosse perennemente.»
«Pazzesco!»
«Non puoi nemmeno immaginare quanto sia meraviglioso.»
«Ancora non capisco perché abbia scelto di aiutarci. Non te ne aveva mai parlato prima?»
Gwern negò perplesso. «No, mai successo. Non parlava mai dell’inverno. Io
l’ho scoperto dopo mesi. Sembrava non interessargli minimamente.»
«E allora perché ora vuole seguirci? A me inquieta…»
«Vedila così: senza di lui, sarebbe stato impossibile.»
Mordraud diede un’occhiata a Gwern. Era ancora un ragazzino. Ammalato,
per giunta. Lui era ridotto a una poltiglia di nervi, probabilmente non era nemmeno in grado di combattere decentemente. Aveva tentato quella strada per disperazione, spinto dagli atroci incubi che lui e i suoi ragazzi vivevano costantemente sul Terrapieno.
Saiden che decideva inaspettatamente di aiutarli era una mostruosa botta di
fortuna.
380
«Cos’avrei potuto fare, fratello?» mormorò Gwern. «Se fossimo partiti io e te
da soli, non avremmo avuto alcuna speranza.»
***
Eldain prese il tampone, asciugò con cura la pergamena e la inclinò vicino alla
candela per guardarla meglio. Non sembravano esserci sbavature, e la calligrafia
era pulita e regolare. Non ci vedeva più molto bene da vicino, ma per sua fortuna
era ancora in grado di scrivere decentemente. Appose la sua firma esaltandone le
volute e le grazie, come a rimarcare quanto credesse in quello che aveva appena
finito di scrivere. Aveva cercato le parole più belle, le frasi più sontuose, ben conoscendo chi le avrebbe lette. Il reggente di Hannrinn, un uomo così avaro di
mano e di cuore da essere entrato nella leggenda. Rinnion, l’uomo più influente
delle terre attraversate dal lungo fiume Hann.
“Sarà una bella gatta da pelare per te, vecchio mio” pensò sorridendo cinicamente. Adraman aveva insistito fino alla nausea per occuparsi di persona della
faccenda.
“Proprio come ha fatto Mordraud… è vero che un po’ si somigliano.”
Adraman sarebbe partito la mattina dopo con una piccola delegazione di cavalieri di Eld, tutti quelli che avevano anche solo una stilla di sangue nobile nelle
vene. Retaggi annacquati da generazioni, portatori di stemmi e antiche amicizie
che forse potevano avere ancora un peso. Molto leggero, ma pur sempre meglio
di niente.
“Almeno sono riuscito a convincerlo a non usare il cavallo… sarà divertente
vederlo partire in carrozza, uno spettacolo ridicolo!”
Con quella gamba malridotta, Adraman non poteva seguire i suoi uomini nel
modo che più gli si confaceva, cavalcando in testa alla delegazione. Avrebbe dovuto seguirli trascinato su un cigolante carretto coperto, ed Eldain a fatica non
rideva al pensiero di quante bestemmie il suo amico avrebbe lanciato, comodamente seduto su una pila di cuscini.
Era tutto molto divertente, ma l’amarezza restava. Eldain sarebbe voluto andare di persona a Hannrinn, ma tutti, nessuno escluso, gli avevano fatto capire che
non era una buona idea. Solo Berg aveva però osato dire le cose come stavano,
senza cercare di girarci intorno.
«Noi siamo sacrificabili, voi no. Se i Rinn catturano Adraman, noi possiamo
anche lasciarlo là e continuare. Ma se mettono le mani sul capo dell’alleanza…
cosa che quelle rane di fiume non vedono l’ora di fare, dico io!»
Che potesse diventare una trappola, Eldain non aveva dubbi. Proprio per quel
motivo, mal sopportava l’idea di mandare Adraman al posto suo. Giocare con la
vita delle persone era sempre stata la cosa più difficile, da quando si era accollato
381
il peso di tutti i nobili ribelli contro Cambria. L’aveva dovuto fare così tante volte
che ormai ne aveva veramente abbastanza.
«Non mi prenderanno, guarda come sono ridotto!» gli aveva detto Adraman
aprendo le braccia. Aveva la faccia tutta graffiata e tumefatta, una gamba steccata
dall’anca al piede, ed era dimagrito vistosamente. Sembrava un pezzente, più che
un cavaliere.
«Sanno bene che non ti fermeresti a trattare solo per me, per tutti sei un uomo
duro come l’acciaio.»
Tanto duro non si sentiva, a leggere quella dannata pergamena. Era uno sproloquio di complimenti, di rassicurazioni, di promesse. Se la famiglia Rinn avesse
ritirato l’appoggio al fronte, la guerra si sarebbe potuta già dire persa. L’inverno
maledetto stava costando assai caro alla causa dei ribelli. I soldati erano allo
stremo, ma almeno qualcosa ancora mangiavano. Per la maggior parte dei civili
non si poteva fare più niente, ormai. La legna era agli sgoccioli, il cibo finito da
un pezzo, e le strade non riuscivano a restare pulite per più di un giorno. I paesi
erano diventati cimiteri abitati da vivi. Ancora per poco.
«Chiedete pure, tanto non vi daranno ascolto» aveva detto Ghiaccio l’ultima
volta che si erano visti, al consiglio. «Hanno troppa paura del vostro freddo, e
soprattutto Hannrinn è già sotto pressione, con i confini dell’Hann presi di mira
sempre più spesso da Cambria.»
Eldain sperava solo che Ghiaccio non stesse facendo qualche sporco doppio
gioco. I Rinn non erano propriamente dei campioni, in fatto di lealtà. Ma arrivare
a immaginare qualche legame con l’impero… no, se si fosse messo a scervellarsi
su quelle congetture, sapeva che non ne sarebbe mai venuto a capo. Poteva solo
sperare che Adraman riuscisse almeno a ritardare il ritiro delle truppe. E se
Mordraud dimostrava di aver ragione, allora le cose si sarebbero potute sistemare.
Eldain piegò la pergamena, sciolse la cera per apporre il suo sigillo, una torre
circondata da spighe di grano, e prese il timbro. La mano gli tremava leggermente, come al solito. Ma quella sera anche il braccio fremeva, incapace di dare forza
alla presa. Eldain digrignò i denti dal fastidio e completò l’opera. La luce era
scarsa, e i suoi occhi così deboli, che fece fatica a vedere il servo all’angolo della
porta. Quando lo notò, gli consegnò la missiva e lo allontanò con un gesto. Sentiva il petto sobbalzare, e se avesse parlato in quel momento, il domestico se ne
sarebbe potuto accorgere. La sua voce sarebbe stata tremolante e interrotta, la
voce di un vecchio malandato e stanco. Eldain non poteva mai abbandonare i
panni dell’uomo dal pugno di ferro. Tutto il suo corpo chiedeva disperatamente
il contrario. Aveva bisogno di un po’ di riposo, di restare a letto qualche giorno,
di rilassarsi. Tutte cose che non faceva da anni. Da decenni.
E forse, non le avrebbe mai più fatte.
382
«Adraman, vedi di stare attento» borbottò tossendo dopo che il servo era già
andato via «e anche tu, Mordraud… datti una mossa, per gli Dei!»
383
XXIV
Una pioggia pesante e puzzolente schiacciava le chiome degli alberi e gonfiava
la terra fradicia. La fila di soldati si muoveva composta, con gli archi alzati e la
freccia incoccata. L’umore era tetro, in netto contrasto con il verde saturo delle
foglie, tanto che sembravano dipinte. A chiunque avesse avuto la disgrazia di
passare qualche mese al fronte, i colori del mondo senza inverno sembravano del
tutto innaturali.
«Quaggiù!» urlò un ragazzo ai confini della linea perfetta che i soldati tracciavano lungo il bosco. Dunwich sentì lo schiocco di decine di frecce e il tonfo sordo di un paio di prede abbattute. Le gocce d’acqua erano così grosse che sembrava di essere immersi in un lago, piuttosto che di camminare fra gli alberi. Il
cielo era livido e basso all’orizzonte.
“A loro il gelo, a noi la pioggia. È come vivere dentro una favola…” pensò
asciugandosi la faccia con un lembo del mantello. Le armature cigolavano per la
ruggine in un concerto irritante e stonato.
«Dietro i cespugli!» gridò un altro soldato. Dunwich aveva smesso di impegnarsi a ricordare nomi e facce, e storie di vita vissuta. Tanto, ogni due o tre turni avrebbe comunque dovuto azzerare tutto ciò che sapeva di loro, e lasciare
spazio a quelli nuovi.
Meglio dentro un fuoco che intorno alle Lance! era un detto popolare tornato alla ribalta in quel periodo.
I cantori, i consiglieri, i capitani dell’esercito. Tutti, nessuno escluso, avevano
pesantemente sottovalutato il nuovo gingillo nato per schiantare definitivamente
384
Eldain e la sua combriccola di irriducibili. Lungo Inverno si stava dimostrando
per quello che realmente era, cioè quello che lui aveva sempre detto che fosse.
Una grande, grandissima idiozia.
I problemi erano iniziati pochi mesi dopo l’avvio del canto. Frotte di bestie
selvatiche avevano abbandonato i boschi di Eld per raggiungere le terre intoccate
dal gelo. Animali spaventati, confusi e rabbiosi. Fossero stati scoiattoli o lepri, a
Cambria non sarebbe minimamente interessato. Il problema era che per la stragrande maggioranza si trattava di lupi, orsi, volpi, faine, e migliaia, centinaia di
migliaia di topi. Le strade e le foreste dell’impero erano diventate tutto a un tratto il luogo più pericoloso del continente. Interi villaggi vennero presi di mira da
folti branchi di lupi affamati. Tranquille comunità di collina, gente che quasi non
sapeva che la propria regione fosse in guerra, si ritrovarono assediati dall’esercito
delle bestie.
Loralon, come al solito, minimizzò la cosa e lasciò gestire il problema ai suoi
governatori. Loro demandarono l’incombenza alle guardie cittadine, che senza
pensarci due volte si voltarono e scaricarono la palla avvelenata ai soldati. I capitani dei battaglioni di stanza nelle regioni invase chiesero cosa fare a Loralon, che
ricominciò tranquillamente la girandola. Quando finalmente si resero tutti conto
di essere di fronte a un grosso problema, ne arrivò subito un altro, ancora più
infame.
La pioggia.
Il cielo verso Est era costantemente coperto dal primo giorno di Lungo Inverno. Nubi nere e gravide di neve, vaste come oceani volanti di ghiaccio. Dai territori dei ribelli prese a spirare un vento frizzante, giorno e notte. L’alba praticamente non nasceva mai, soffocata dalle tempeste all’orizzonte verso Est. Finché
quelle nubi spaventose non iniziarono a sconfinare pericolosamente su Cambria.
Non che facesse freddo come al fronte. Anzi, il problema semmai era il contrario. L’aria era calda, caldissima, ma costantemente inzuppata di pioggia. I
campi si allagarono e marcirono, nelle fattorie gli animali vivevano una vita da
carcerati per nascondersi dalle bestie selvatiche, e presero a figliare meno. A produrre meno latte. A smettere di ingrassare.
“Abbiamo esagerato… e se ne rendono conto solo adesso!” pensò Dunwich
mentre seguiva con gli occhi una pattuglia staccarsi dalla fila per circondare una
preda.
“Ai ribelli il Lungo Inverno… a noi il Fradicio Autunno… è tutto così ridicolo.”
Qualsiasi mossa per arginare i problemi arrivava sempre tardi ed era sempre
mal impostata. Così, per risolvere l’emergenza dei lupi, l’impero organizzò e armò comuni cittadini affidando loro il compito di vigilare sulle campagne e sui
boschi. Per convincerli, promise una paga allettante. Anche troppo allettante.
385
Moltissimi contadini annusarono l’affare e abbandonarono i campi, di cui non
possedevano nulla se non l’usufrutto. Più pioveva, più i campi si spopolavano. E
gli animali selvatici, ovviamente, diminuirono ma non sparirono affatto. I pochi
sopravvissuti erano anche i più aggressivi. E il problema delle comunità isolate
non svanì.
Mancava all’appello l’ultimo anello di una sfortunata catena di eventi. I fuggiaschi. Prima da soli, poi riuniti in piccoli gruppi, centinaia di uomini, donne e
bambini scappavano dal freddo mortale nella speranza di trovare qualcosa da
mangiare, o un lembo di foresta in cui nascondersi. Già indeboliti dall’inverno,
molti si ammalarono con l’umidità e la maledetta pioggia senza fine. I lupi di tanto in tanto facevano piazza pulita, ma mai abbastanza. I profughi iniziarono a
radunarsi per sopravvivere, incattiviti dalle malattie, dalla fame e dalle notti insonni.
Le ronde di cacciatori improvvisati si spinsero sempre più nel profondo delle
foreste. Non sapevano che stavano per finire in bocca a una preda che in realtà,
ammassata in grande numero, diveniva predatore.
Il quadro era completo.
Gli uomini di Cambria trattavano i fuggiaschi allo stesso modo dei lupi. Li facevano fuori seduta stante. Troppe bocche da sfamare con una torta troppo piccola. Ma qualcuno di loro moriva, ogni tanto. E le armi regalate dall’Imperatore
iniziarono a confluire nelle mani sbagliate. Loralon stava ancora festeggiando la
sua sfolgorante idea delle ronde, quando arrivarono le prime notizie di attacchi ai
villaggi. Non più bestie selvatiche, bensì uomini affamati. La padella ormai era un
ricordo. La brace invece era sempre nuova, e sembrava non finire mai.
«Voglio tornare al fronte» mugolò Dunwich sconsolato. Un gruppo di soldati
stava urlando e gesticolando intorno a un grosso albero, una quercia grande
quanto un palazzo. Gli arcieri alzarono le loro frecce, presero la mira e lanciarono.
Sei corpi caddero pesantemente nel fango come frutti troppo maturi.
Due bambini, una donna e tre uomini. Uno di loro aveva un braccio nero per
un congelamento non curato.
«Voglio tornare al fronte… voglio tornare al fronte…» mormorò Dunwich distogliendo lo sguardo.
La donna era miseramente giovane. E dal colore dei loro capelli ricci e chiari,
quei due non potevano che essere i suoi figli.
***
Hannrinn accolse la delegazione di Eldain a braccia serrate e guardando da
un’altra parte. Il fiume che dava il nome alla città scorreva impetuoso sotto
386
l’immenso ponte di pietra da cui si accedeva alle terre del Sud-est, così ricche e
fertili da meritarsi l’appellativo di granaio di Cambria. Ma la pioggia che Adraman
aveva avuto modo di provare sulla sua pelle negli ultimi giorni, rischiava di mettere a repentaglio quella fama. Un altro punto a sfavore dell’alleanza, pensò turbato.
Dopo essersi presentati all’ingresso della città ed essere stati perquisiti minuziosamente, Adraman e i suoi avevano dovuto sopportare il primo di una lunga
serie di rifiuti. Rinnion non voleva incontrarli, e neppure smaniava di accoglierli.
Le taverne non accettarono i loro soldi, le bettole li lasciarono fuori dalla porta.
Erano come degli appestati a una festa. Adraman dovette dare fondo a tutta la
sua storica pazienza per reggere l’umiliazione di dormire all’angolo di una piazza
come un comune straccione. I suoi cavalieri tentarono la carta delle vecchie amicizie familiari, ma fallirono miseramente. Hannrinn li desiderava fuori dal suo
ventre, e al più presto.
Tutte le mattine, Adraman si recava alle porte del palazzo dei Rinn, da solo e
aggrappato a una stampella. Tutte le volte chiedeva udienza, e se ne andava dopo
aver ascoltato l’ennesimo rifiuto. Si prese anche una brutta influenza, per colpa
di quella pioggia battente che ricordava molto da vicino l’eterna tempesta di neve
che flagellava i territori del Terrapieno. Ma Adraman sapeva aspettare, e così fece
fino al momento giusto. Cioè all’unico giorno di sole dopo settimane di acqua
asfissiante.
«Dopo cena, il signor Rinnion vi concederà qualche istante» disse finalmente la
guardia all’ingresso, meno aggressiva del solito grazie alla bella giornata. Adraman tornò dai suoi uomini raggiante e si preparò meglio che poté, si lavò e mangiò qualcosa per riprendere un po’ di forze. Un pezzo di pane farcito con la carne di maiale gli costò una fortuna, soprattutto perché dovette convincere un oste
ad accettarlo dentro il suo locale. Tutti sapevano chi fossero quegli uccelli del
malaugurio, portatori delle peggiori disgrazie. Gli uomini di Eldain, il capo di
un’alleanza che si era già rotta fra il popolo prima ancora che la frattura fosse
formalizzata dai suoi capitani.
Rinnion era un vecchio altezzoso e terribilmente petulante, sempre pronto a
sputare sentenze dalla sua bocca grinzosa e sottile. I bei tempi dei gloriosi fratelli
Rinn, gli artefici della fortuna di tutta la loro lunga e complessa famiglia, erano
più che passati. Adraman evitò accuratamente di usare le antiche alleanze come
leva per farselo amico, perché sapeva già che a Rinnion interessava ben altro. Fra
tutti i membri dei ribelli, lui era forse l’unico che sin da subito aveva partecipato
solo perché sognava di prendere possesso di Cambria, e di tutte le sue terre.
Come se fosse una cosa plausibile, invece che una stolida follia da ciechi di mente. Ora che il peso della guerra si stava spostando sulla sua città, e non sui suoi
uomini, che fra l’altro erano per la maggior parte mercenari del Sud, il caro vec387
chio Rinnion voleva tirare i remi in barca. Cosa che Adraman doveva impedire a
tutti i costi.
«Vi ringrazio di avermi accolto, signore. Sono qui per consegnarvi una lettera
da parte di Eldain.» Adraman evitò di presentare con più magniloquenza il suo
comandante. Rinnion era facilmente portato a offendersi per la minima stupidaggine.
«Potevate lasciarla al servo che vi ha fatti entrare!» berciò il vecchio nobile.
Magro, incanutito e compatto. Rattrappito intorno al petto come se stesse proteggendo una borsa d’oro.
«Vi chiedo la grande cortesia di leggerla in mia presenza, così che io possa
chiarire ogni vostro dubbio.»
Adraman non riusciva a inginocchiarsi, quindi si era dovuto accasciare scomodamente puntellandosi con la stampella di legno. Non poteva restare in quella
posa a lungo, e il dolore lo costrinse a stringere impercettibilmente i denti.
«Non ho voglia di perdere tempo a leggere una lettera!» continuò Rinnion con
il suo solito tono, fastidioso come un graffio sotto le unghie. «Ho già assolto a
tutti gli impegni possibili con Eldain, gli ho dato per anni i miei migliori soldati, è
giunto il tempo di pensare anche alla mia gente!»
“Che vomito di falsità” avrebbe voluto dire Adraman, e invece dovette annuire
senza rispondere, deciso a perseguire la tecnica più semplice ed efficace che
avesse escogitato durante il viaggio. L’ostinazione a oltranza.
«L’alleanza intera vi è riconoscente, signore. Altrimenti, non sarei qui a pregarvi di prendere almeno in considerazione un’alternativa.»
«Cosa intendete?! Eldain ha qualcosa da propormi?» chiese Rinnion sporgendosi dal suo alto scranno di ferro e legno. La sala delle udienze era immensa, soffocata di tappeti e arazzi pregiati. A Adraman, quell’aria calda e chiusa dava alla
testa, abituato com’era al clima orribile del Terrapieno. Scosse la testa lentamente
e allungò la lettera che aveva in mano, in attesa che uno dei servitori la prendesse.
«Non saprei, è scritto tutto qui.»
«Consegnatemela!»
Un ragazzo in livrea grigia prese il rotolo sigillato e lo porse al vecchio reggente, che si avventò su di essa raggomitolandosi sullo scranno. Rinnion staccò la
ceralacca con un dito ossuto e strinse gli occhi per riuscire a leggere la calligrafia
pulita di Eldain. Doveva essere ormai quasi cieco, pensò confortato Adraman.
Così, per capirci qualcosa, sarebbe stato obbligato ad ascoltare le sue parole.
«Penso che Eldain voglia proporvi un favorevole scambio.»
«Questo l’ho capito, zoppo!» esclamò Rinnion. «Ma cosa, di preciso?»
Se Eldain era stato al gioco, nella lettera non era indicato proprio nulla, di preciso. Doveva essere lui a scoprire cosa Rinnion voleva. Una volta conquistato il
388
vecchio, il passo per far retrocedere entrambi i Rinn, Hannrinn e Cambrinn, sarebbe stato alla portata.
«Influenza, controllo… possedimenti…»
«PUAH! L’unica influenza che conosco è la febbre, controllo già tutto il Sudest… e di terra ne ho finché voglio!»
«C’è terra e terra, signore… e ci sono strade, vie di commercio da aprire…»
«Pensate di ingabbiarmi con le vostre belle parole?!» Rinnion sputò sonoramente a terra. «Siamo già d’accordo con Cambrinn. L’alleanza non ha più frutti
per la nostra famiglia. Non vogliamo quel maledetto inverno su di noi!»
«L’inverno finirà. Abbiamo trovato il modo per fermarlo, ed è solo questione
di giorni» disse Adraman grondando sicurezza da tutti i pori.
«Badate, la pazienza è finita! La verità è che Eldain non ha un bel niente da
proporre, perché ormai gli si sarà congelato anche il culo! È stata Cambria a scagliarvi addosso una maledizione, e solo lei ve la potrà togliere… in un modo che
tutti sappiamo! E io preferisco cavarmi di mezzo prima che accada.»
Impressionante l’ignoranza di quel bastardo, pensò disgustato Adraman.
«Esiste un metodo» continuò lui imperterrito «ci stiamo già lavorando con i
nostri uomini migliori…»
«E come?! Bah, solo io a perdere il mio prezioso tempo con voi… ne abbiamo
già perso abbastanza! Andate a chiedere l’elemosina a quel bastardo di Calhir, se
proprio non potete reggervi sulle vostre gambe…» Rinnion ridacchiò per la sua
squallida battuta.
Adraman credette quasi di vederla, la sua piccola preda mettere il muso fuori
dalla tana. Aveva intravisto l’esca. Ora doveva solo farla abboccare.
«Ho sentito dire che Calhann ha vietato a qualsiasi flotta l’utilizzo del ramo
dell’Hann che porta al mare interno…»
Ed ecco la freccia nella sua faretra. Adraman stava iniziando a temere seriamente che Rinnion non avesse problemi con nessuno. Si era informato bene durante il viaggio. Calhir, il reggente di Calhann sullo stretto del mare interno, stava
mettendo i bastoni fra le ruote a un gigantesco movimento di merci da cui mangiavano in tanti. In troppi.
«Cani gravidi di sterco, teste di melma che non sono altro! Pensano che il fiume sia solo loro, e anche se NOI siamo sempre stati loro ottimi amici, ora si sono messi a fare i bastardi!» Rinnion gesticolò infuriato sputacchiando a destra e a
manca. «Gli vendevamo il grano a DUE scudi al carro! Robe da matti! Prezzi da
straccioni, e guarda come ci ripagano, questi…»
«Ora che ci penso…» Adraman soppesò bene le parole, con la mano sotto il
mento e gli occhi persi nel vuoto. La gamba si lamentava furiosamente di quella
posa innaturale, ma lui non diede a vedere nulla. «Eldain mi aveva accennato di
avere in corso un dialogo con Calhir, proprio riguardo a questo problema…»
389
«Un problema?! È una CATASTROFE!» gridò costernato Rinnion. «Ora siamo costretti a far passare in strada le carovane dirette all’Ovest, e ci costa un occhio della testa! Tutto per colpa di questa dannata, dannatissima guerra!»
«Non è accennato nulla nella lettera? Pensavo che fosse proprio questo ciò che
Eldain voleva proporvi…»
«Sì, certo…» brontolò Rinnion sventolando la pergamena «lo stavo leggendo
proprio ora…»
«Eldain ovviamente si impegna a convincere Calhir a riaprire le rotte sul fiume,
ma chiede che l’aiuto della potente famiglia Rinn non venga meno.»
«NON ESAGERIAMO!» rispose il reggente agitando un dito in aria. «Se proprio la faccenda sta su questo piano, possiamo eventualmente ritardare il ritiro…
in attesa che Eldain riesca a convincere Calhir…»
«Di sicuro, con la fine dell’inverno, queste tensioni passeggere fra Calhann e la
vostra famiglia svaniranno…»
«Ma siamo proprio sicuri che Eldain abbia la possibilità di convincere Calhir?
E cos’è quella storia sull’inverno, su quello che avete scoperto…» chiese Rinnion
sporgendosi come un merlo dallo scranno. Adraman sorrise e si prostrò ancora
più a fondo.
«Abbiamo trovato il modo per sconfiggere la maledizione dell’inverno» rispose
trattenendosi dal gioire per la vittoria. «Un modo infallibile.»
Rinnion aveva mostrato il suo fianco più debole. La sua carne molle.
L’ingordigia.
***
«Siete riusciti a passare oltre il bosco?»
«No, signore.»
Proprio quello che non voleva sentire. Dunwich imprecò a denti stretti, mentre
Asaeld accolse la notizia con la solita compostezza.
«Non riesco proprio a capirti!» sibilò Dunwich non appena il messaggero si allontanò. «Non facciamo altro che fallire, e tu non provi nemmeno a preoccuparti!»
«Non c’è niente di cui preoccuparsi» rispose il generale con fare disinteressato
«queste sono solo scaramucce. Non serve spingere di più. Vedrai che è solo questione di tempo.»
«Tempo, tempo! È quasi un anno che Eld vive dentro Lungo Inverno, quanto
tempo serve ancora?!»
«Per quanto tu sia bravo…» disse Asaeld inarcando i baffi in un sorriso sardonico «si vede che sei giovane. Forse troppo, per le responsabilità che hai. Non
siamo noi a decidere, te ne rendi conto?! Noi eseguiamo. Punto e basta.»
390
Dunwich si morse il labbro per la frustrazione e tornò a concentrarsi sugli uomini che si stavano spostando lungo una linea frontale. Il Terrapieno era velato
dalla consueta nebbia di ghiaccio. I suoni dello scontro rimbombavano cupi fuori da un muro denso e lattiginoso. Uno scontro che sembrava destinato a finire
come tutti gli altri.
Avevano tentato ogni mossa pur di riuscire ad aggirare gli uomini di Eldain.
Avevano provato a prenderli per sfinimento, attaccando senza sosta ogni giorno.
Ma l’inverno era devastante anche per le truppe di Cambria, che a dispetto dei
ribelli mancavano totalmente di dedizione. Dunwich aveva visto con i suoi occhi
un paio di Lance indietreggiare e accampare qualunque scusa pur di non doversi
tuffare dentro quella bruma omicida. E per certi versi, li aveva capiti. Avevano
spedito gruppi di incursori nei boschi che ammantavano la valle su cui sorgeva il
Terrapieno, ma Eldain aveva tappezzato ogni palmo di terra fra gli alberi di trappole per orsi, buche infide, arcieri ben nascosti in alto sui rami. I cavalli impazzivano all’odore delle carcasse putride dei loro simili, smembrati e sparsi come
concime dagli uomini di Eldain. Oltrepassare il fronte centrale sembrava impossibile.
«Dovremmo tentare in altri punti! Non possono certo mantenere tutta la linea
con la stessa attenzione!» esclamò Dunwich.
«Cosa credi, che non abbiamo tentato?! Eldain ha studiato bene dove piazzare
il Terrapieno. A Nord ci sono i monti di Cambrinn, e lì sappiamo già di non poter sfondare con un esercito massiccio. Mancano i sentieri adatti, non ci sono infrastrutture. E a Sud del Terrapieno, i rami confluenti dell’Hann formano un acquitrino profondo e vasto quanto un lago… che adesso è diventato una trappola
di ghiaccio. Ho perso decine di esploratori nella speranza di trovare una via percorribile, e ne sono tornati soltanto due!»
«Uccisi? Affogati? Morti congelati?»
«Tutti e tre.»
«E ancora più a Sud?» deglutì Dunwich. «Oppure a Cambrinn, siamo sicuri di
aver provato nel modo giusto?»
«Secondo te?! Quei maledetti dei Rinn godono a vedere Cambria indebolirsi
contro Eld. Sono nell’alleanza, ma solo perché sanno che l’impero ha dei conti in
sospeso con loro. Hanno rubato le loro terre a Cambria, e hanno una paura fottuta di passare dalla nostra parte!»
«Basterebbe promettergli che potranno tenere i loro possedimenti! Dov’è il
problema?»
«Sai già qual è il problema» concluse lapidario Asaeld. Sì, Dunwich sapeva quale fosse il problema. Loralon e i suoi consiglieri. L’Imperatore non avrebbe mai
accettato l’idea di piegarsi a un simile patto con il nemico. Tutto o niente.
391
Un’idiozia resa più incredibile dal fatto che, per quanto ne sapeva lui, Asaeld
aveva tentato spesso di convincerlo del contrario.
«Così non possiamo andare avanti!»
Dunwich aveva raggiunto la sua personale soglia di sopportazione. Sballottato
lungo il fronte come un burattino, obbligato a ordinare sempre i medesimi attacchi inutili, costretto a spostarsi avanti e indietro da Cambria al fronte a ogni capriccio di Loralon. Le Lance erano stanche, depresse, con i nervi molto tesi. Gli
attentati alla loro vita non erano finiti con quel mezzo massacro durante la cena,
qualche mese prima. Stavano aumentando. Ogni tanto spariva una Lancia in servizio, oppure veniva trovata morta nella sua tenda. Bravi ragazzi, tutti appartenenti alla scorta di prestigio di Asaeld. Non faceva in tempo a conoscerli, a parlare con loro, che si trovava a doverli seppellire.
«Ieri mi hanno comunicato di aver appeso alla forca un paio di traditori» disse
Asaeld. Dunwich scosse la testa trattenendo una risata gonfia di sarcasmo. «Presunti traditori, vorrai dire.»
«Inizio a essere stanco di questo tuo comportamento!»
«Anch’io sono stanco» rispose Dunwich mentre incitava il cavallo a partire.
Asaeld non fece in tempo a dire nulla, che lui era già partito al galoppo verso un
gruppo di cavalieri che stavano aspettando il comando per avanzare.
«DOVE STAI ANDANDO?!» gridò Asaeld terrorizzato. Dunwich si voltò un
momento colpito dal tono di voce del suo comandante. Si aspettava rabbia, di
certo non paura. Ma decise di continuare comunque.
Non ne poteva veramente più di essere solo lo spettatore di quell’epico fallimento.
«Avanti! Seguitemi!»
Il gruppo esitò, indeciso se seguirlo o ascoltare le urla che giungevano dal posto di comando, ma alla fine prevalse la fama che Dunwich riscuoteva fra le
truppe. La squadra si mosse alle sue spalle e lo seguì all’interno della nebbia
bianca.
Il primo impatto fu orrendo. Il freddo era intenso ovunque, ma lì dentro era
qualcosa di indescrivibile. Dunwich ebbe solo il tempo di chiedersi come facessero i ribelli a sopportarlo, quando si trovò di fronte a uno spettacolo surreale. I
cadaveri dei caduti erano stati sepolti dalla neve e battuti dagli zoccoli dei cavalli,
così il terreno sembrava ricoperto di bubboni rossastri e scomposti. Ferraglia,
scudi divelti, lame rotte erano sparse ovunque. Grappoli di ombre vagavano in
quel deserto bianco e cremisi combattendo lentamente, sistematicamente, contro
i vivi. Coperti di pellicce, avvolti in coperte lacere e cadenti, soffocati dentro
barbe lunghe e congelate, gli uomini di Eldain resistevano a oltranza, incapaci di
smettere.
392
«Perché non stiamo cercando di sfondare?!» biascicò Dunwich sputando le
schegge di ghiaccio che gli piovevano in faccia. Tutto l’esercito di Cambria era
frammentato, disperso in un campo troppo vasto, senza coesione né ordine. Era
come mandare una mandria di pecore al macello, spinte solo dall’abbaiare rabbioso dei cani.
«Compatti! A cuneo!» gridò. «Dietro di me!»
La sua voce suonò attutita come sotto uno strato di feltro.
Dunwich prese a canticchiare sommessamente, mentre con la spada spaccava
la prima testa che gli era capitata a tiro. La melodia si inarcò improvvisamente e
in un passaggio geniale virò a una carica ritmata e intensa. Un coro intero si unì
alla sua invocazione. Un manipolo di Lance l’aveva seguito all’interno della nebbia.
L’armonia raggiunse la risonanza, scivolò lungo le sue braccia e si condensò sui
palmi aperti delle mani. La potenza di molti si raddensò intorno a lui. Quando la
sfera di fuoco apparve, era di dimensioni clamorose. La potenza di un coro in
sincronia, pensò raggiante. Concluse il canto spingendo le mani in avanti e ruotandole di colpo. Il globo lucente schizzò via e compì un arco fulmineo sopra le
teste dei ribelli, finendo per schiantarsi nelle loro retrovie a ridosso del Terrapieno.
L’urto fu spaventoso. Molti caddero a terra, tanti altri presero a rotolare ululando come pazzi per spegnersi le fiamme di dosso. Di un’intera squadra di fanti,
non erano rimaste che poche ceneri e qualche brandello fumante.
«Non rallentate!»
Voleva il Terrapieno. Lo desiderava, lo sognava di notte. Doveva vedere cosa
ci fosse oltre, a qualunque costo. La corsa dei suoi uomini travolse le linee frantumate della fanteria di Eldain. Ma senza passerelle, saltare quel muro di terra era
praticamente impossibile.
Dunwich decise di provare una cosa che non aveva mai tentato prima.
«Immagina… immagina…» sussurrò cercando nel poco tempo che aveva la
forma adatta, la melodia più efficace. E cominciò a cantare di nuovo.
La neve alla base del Terrapieno vibrò come la pelle di un tamburo, e si condensò lungo un’invisibile costola del muro. Il suo cavallo era lanciato, non poteva più fermarlo. Se non avesse funzionato, si sarebbe schiantato di faccia contro
una barriera insormontabile di terra e carcasse d’acciaio.
La sua voce crebbe e modulò convulsamente, quasi sul filo della disperazione.
Troppo lento, troppo debole. Dunwich spinse di più, azzardò passaggi inusuali,
sentì le braccia tremargli per sopportare le dissonanze che rischiavano di spaccarlo in due. Vide gli zoccoli del suo cavallo poggiare i piedi sul primo lembo di neve smossa. Chiuse gli occhi, e si rannicchiò dentro se stesso.
Il Terrapieno venne sovrastato da un ponte di ghiaccio.
393
I cavalieri urlarono di terrore e di euforia, resi folli dalla fiducia per Dunwich.
Scesero oltre la barriera cavalcando su un arco spesso quanto una lingua di neve.
«Restate compatti! Non fermatevi! AD ARCO!»
La squadra affondò in una marea di soldati paralizzati dallo stupore. Era come
galoppare fra le onde, colpendo con un bastoncino il pelo dell’acqua. Dunwich
abbassava e alzava la spada selvaggiamente, senza schema. I cavalieri si erano
spostati a fianco delle Lance, che potevano così continuare a tempestare la folla,
le tende, le rimesse, qualsiasi cosa, con il loro selvaggio coro di fuoco. Il campo
dei ribelli si incendiò come un mucchio di paglia secca.
Dunwich curvò seguendo una linea che aveva disegnato nella sua mente e che
non permetteva scarti. Non esisteva un oltre, non potevano sfondare verso Est. I
suoi uomini lo seguirono continuando a farsi largo fra i nemici. Diversi caddero
trafitti dalle alabarde. Altri furono tempestati di frecce. Non poteva fermarsi a
prestare soccorso ai caduti. Li sentì urlare mentre venivano trascinati giù dai loro
cavalli e inghiottiti dai flutti. Ancora poco, e avrebbe ritrovato la traiettoria per il
ponte. Decine di roghi erano sparsi ovunque, brillanti come fari nella bruma.
Un gruppo di fanti nemici si piazzò sul loro cammino. Davanti a tutti, un guerriero corpulento e massiccio sbraitava come una bestia comandi intrisi di bestemmie. Non stavano cercando di scansarsi come tutti gli altri.
Volevano ostacolarli con i loro stessi corpi.
«AGGIRATELI!» gridò, ma lui era troppo vicino per evitare l’impatto. La fanteria sgranò un rostro di lance acuminate. Dunwich vide una lama piantarsi a un
pollice dalla sua gamba trafiggendo il cavallo. Un’altra stridette sul suo elmo fino
a farlo saltare via. Il loro capitano spezzò la faccia del cavaliere al suo fianco con
la punta della spada.
«VIA! VIA!» urlò in preda al panico, impreparato a una difesa così suicida. A
secchiate, i soldati si avvinghiavano alle zampe dei cavalli, afferravano le loro teste cercando di stenderli, finivano schiacciati sotto di essi. I suoi uomini si sparpagliarono, incapaci di varcare quel muro di carne umana. Le Lance smisero di
cantare e dovettero difendersi disperatamente dalle spade che piovevano da ogni
parte. Dunwich urlò fino a sgolarsi di indietreggiare, ma non poté più guardarsi
indietro per vedere se fosse riuscito nel suo intento. Il capitano aveva finito di
tirare giù da solo un cavaliere strattonandogli la gamba. Stava puntando a lui.
«INDIETRO!» fu l’ultima cosa che riuscì a dire. Dunwich spostò la spada su
un fianco intercettando il primo fendente, ma le dita intirizzite ingannarono la
presa. Il cavallo oscillò e nitrì sfiancato dalle ferite e dal terrore. Il clangore dello
scontro si stava allontanando, segno che i suoi uomini avevano trovato un modo
per proseguire verso il ponte fuggendo indietro. Doveva andarsene, e in fretta.
Ma il capitano dei ribelli picchiava duro, più duro di chiunque avesse mai incontrato. E non la smetteva di imprecare come un animale.
394
«MERDE DI CAMBRIA! VI SCHIACCIO TUTTI! SIETE TUTTI MORTI!»
Dunwich sentì la lama sfondargli la corazza all’altezza del braccio. Vide schegge di acciaio nero saltare via. Era in uno svantaggio imbarazzante. Il cavallo stava
per abbandonarlo del tutto. Accecato dal ghiaccio e dal frastuono, riuscì a scorgere solo all’ultimo momento la spada che gli stava piombando sul petto. Ruotò
il torace, strinse i denti e pregò. La punta di ferro stridette sulla sua armatura, si
piantò a fondo scoperchiando le lastre nere e d’oro, strappò la cotta di maglia.
Non sentì alcun dolore. Ma non era assolutamente sicuro di avere ancora un
braccio.
Intravide l’unico varco possibile. Con un gesto fulmineo, Dunwich affondò la
spada nella spalla scoperta dallo scudo del guerriero. La piantò a fondo, ma non
abbastanza. Aveva preso tempo.
Senza più pensare a fare l’eroe, senza più il brivido eccitante della follia,
Dunwich volse il cavallo e scappò. Si strinse sul dorso della bestia per evitare le
punte di alabarda e si affidò a lui ciecamente. Finché non sentì staccarsi da terra
il frastuono, come se avesse spiccato il volo. Guardò sotto. Stava passando sul
suo ponte bianco, che intanto si stava sciogliendo sotto gli zoccoli.
Atterrò per un soffio, scivolando sul fianco e reggendosi disperatamente alla
criniera croccante di gelo del cavallo.
La linea imperiale si materializzò oltre la nebbia dopo un tempo che gli sembrò
interminabile. Qualcuno era già arrivato, alla spicciolata. Altri, semplicemente,
non sarebbero tornati. Alle loro spalle si alzavano le urla dei ribelli che tentavano
di sedare gli incendi.
«SEI IMPAZZITO? Volevi farti ammazzare?!»
Qualcuno lo stava scuotendo come una bambola di pezza, ma il ghiaccio sugli
occhi gli impediva di vedere bene. Il quartier generale era precipitato nel caos. I
cavalieri sopravvissuti urlavano ferocemente. Le Lance inneggiavano il suo nome
colpendo il terreno con la punta della spada. I loro comandanti sbraitavano ordini, punizioni, processi per insubordinazione. Dunwich non stava capendo niente.
Erano riusciti a fare dei danni veri, a oltrepassare il Terrapieno in pochi, e senza
premeditazione. Quello era un successo. Non poteva avere un altro nome.
«Questi colpi di testa io NON… LI… TOLLERO!» gridò ancora il suo torturatore. Se almeno avesse smesso di sbatacchiarlo qua e là. Sentiva il bisogno di
vomitare.
«Dobbiamo continuare… con questa strategia…» provò a dire «le Lance possono creare i varchi… dobbiamo attaccare tutti nello stesso punto…»
«Non attaccheremo un bel niente!»
Era Asaeld che stava urlando. Aveva la faccia paonazza e gli occhi sbarrati.
Sembrava un altro, un pazzo. Poi la sua voce piombò in un sussurro preoccupa395
to, e Dunwich sentì una mano rovistargli nello squarcio dell’armatura, all’altezza
della spalla.
«Fammi vedere… Dei benedetti, per un soffio non ti piantavano da parte a
parte…» Asaeld lo stava reggendo in piedi. Del suo cavallo, nessuna traccia. Si
chiese dove fosse finito.
Raggiungere la risonanza del ponte lo aveva devastato.
«Non sono ferito!» disse incespicando sulle parole. Era successo tutto troppo
in fretta, e l’aria respirabile fuori dalla nebbia gli stava dando alla testa.
Poi arrivò il dolore lancinante, dove le dita di Asaeld stavano frugando.
Dunwich sentì la pelle lacerarsi, e un fiotto di sangue rovente colargli lungo il
fianco. Non sembrava neppure la ferita di una lama. Era più simile a un artiglio
piantato in un muscolo.
Una ferita che non credeva di avere.
«Dobbiamo trovare un guaritore! Subito! Potrebbe infettarsi, e allora per te sarebbe la fine!»
«Ma sto bene, ti dico!»
Asaeld non lo ascoltò minimamente. Dunwich si sentì sollevare da terra.
Asaeld lo stava portando in spalle verso le tende dei feriti. Il sangue non smetteva di zampillare dai rottami della corazza. Sangue fresco e nuovo.
«Te ne torni a casa per un po’… quando è troppo, è troppo» sentì Dunwich
poco prima di ritrovarsi sbattuto su una branda in mezzo a una schiera di rantoli
disperati.
«Mi dai troppi pensieri, figliolo. E poi… » Asaeld se ne andò lasciandolo in
mano a due guaritori, che presero a smontargli con cura l’armatura per liberare la
ferita.
«… sei ridotto un po’ maluccio. Qualche mese di riposo non potrà che farti
bene… e ti servirà per schiarirti le idee.»
Dunwich si era guadagnato un ritorno a casa. Proprio quando non ne sentiva
minimamente il bisogno.
«Dobbiamo attaccarli così…» disse mentre i primi impasti officinali passati sotto il naso iniziavano a fare effetto. Il sonno morbido e pesante dei fumi piccanti
lo travolse senza scampo.
«Dobbiamo attaccarli così…»
396
XXV
Saiden camminava dietro ai due fratelli, arrancando come loro lungo un invisibile sentiero sommerso dalla neve. Mordraud e Gwern stavano parlottando fra
loro, mentre lui restava in silenzio a guardarli. Stava osservando qualcosa di importante. Una reazione a cui lui aveva sperato di assistere quando aveva avuto
l’idea di seguirli in quel viaggio. Lungo Inverno non gli interessava minimamente.
Fermare la morte bianca e aiutare i ribelli di Eldain non era mai stata una sua
priorità.
Il suo vero obiettivo era svelare il segreto che Gwern custodiva inconsciamente.
“Il suo Flusso… è concentrato soltanto nel petto” pensò mentre gli fissava la
schiena. Ai suoi occhi, il corpo di Gwern era come un involucro di vetro trasparente. E dentro il petto, sotto lo sterno, vedeva covare un bozzolo di Flusso.
Impressionante, si disse. Per la sua esperienza, quel ragazzino non sarebbe dovuto essere nemmeno vivo. Suo fratello, sorprendentemente, era ancora più bizzarro.
Dentro Mordraud, non scorgeva una stilla di Flusso.
Se Saiden osservava un albero, era in grado di vedere sia la sua forma e il suo
solito colore, ma anche la sua struttura. Maglie di fili di luce che componevano i
corpi, i fusti, i sassi. Qualunque cosa, essere o costruzione del mondo era interamente composta dal Flusso. Le spire che definivano gli arti o i rami erano
strette e perfette. Le venature dei legni erano letteralmente disegnate da dettagli
di luce, impressi come segni bianchi sulla struttura reticolare del tronco. Allo
397
stesso modo, un uomo ai suoi occhi appariva come una statua di fili di luce, descritta alla perfezione in ogni sua parte. Gli occhi, la bocca, le dita.
Quello era il Flusso, pensò. L’intelaiatura della realtà, composta da pura energia
di luce.
Gwern invece ne era quasi privo. Quel poco che aveva, era raggomitolato e
scomposto dentro il suo petto. Assurdo, si disse. Se il Flusso non definiva le sue
braccia, come potevano esistere? Quando le aveva toccate per la prima volta, era
rimasto basito da quanto fossero realistiche. Eppure, senza che fossero composte di Flusso, quelle braccia non potevano essere vere. Allo stesso modo le gambe, persino la testa. Il cervello. Gwern era un grumo levitante di Flusso, un essere senza una vera forma. Mentre suo fratello addirittura ne era del tutto privo. Il
suo corpo era definito solo dal vuoto che creava nella trama di luce del paesaggio, una sagoma di buio ritagliata nel tessuto della realtà stessa. Inconcepibile,
pensò Saiden.
Quando li aveva visti vicini, qualcosa si era mosso dentro di Gwern. Il suo
Flusso si era aperto impercettibilmente, si era gonfiato. Come se ci fosse un particolare legame con suo fratello che, in maniera del tutto incomprensibile, lo attivava. Saiden era lì con loro soltanto per continuare a osservare la relazione fra
Gwern e Mordraud, per cercare di capire cosa avessero di tanto misterioso quei
due fratelli.
Quando aveva notato quella peculiarità su Gwern, si era subito dato da fare
per avere la possibilità di studiarlo. Aveva avvicinato prima Sernio, poi lui e la
donna che lo aveva accolto a lavorare in taverna. Aveva sfruttato la fama che si
era costruito addosso quando lavorava come cantore a Cambria. All’epoca si faceva chiamare Saite. Erano già passati una cinquantina d’anni, pensò. Era soddisfatto di come fosse riuscito ad abbandonare la vita di Saite ed a vestire i panni di
suo nipote Saiden. Era sempre lui, all’epoca come ora. La storia del figlio che era
andato a vivere a Calhann, il nipote nato fuori da Cambria e che nessuno aveva
mai visto. Una menzogna ben architettata, che lui aveva portato avanti per tutti
quegli anni con il solo scopo di non destare sospetti. Non poteva invecchiare
come tutti gli altri uomini. Su di lui, il tempo aveva un’influenza rallentata, addolcita.
Saiden era un Aelian.
Erano tre secoli che viveva fra i Khartian. In tutti quegli anni, aveva dovuto
cambiare storia, nome e passato molte volte. Appariva in una regione, ci abitava
per qualche decennio, poi spariva. Cambiava nome e retaggio, si insinuava nelle
vicende degli uomini e ne usciva prima che qualcuno si ponesse troppe domande
su di lui. A quel giro aveva usato il suo vero nome, ma ne aveva avuti tanti. Saiden amava avere quella possibilità. Cambiare e rinascere erano concetti che il suo
398
popolo non sapeva amministrare a dovere. Ed era un peccato, pensò mentre fissava la schiena di Gwern. Gli Aelian avevano perso del tutto la voglia di scoprire.
Mordraud e Gwern erano il mistero più grande che gli fosse mai capitato di
dover affrontare. E dire che all’inizio aveva puntato anche ai soldi che chiedeva,
si disse incredulo. Finché non aveva compreso la reale portata del mistero che lui
custodiva dentro di sé. Gwern valeva molto più del denaro che lui aveva dovuto
racimolare per studiare.
Gli Aelian possedevano una conoscenza più approfondita della realtà. Si era
perso molto nei secoli, le nuove generazioni avevano dimenticato tantissimo della raffinata cultura dei loro padri, all’epoca del dominio sul continente di Cambria. Ma la vera differenza che correva fra gli Aelian e i Khartian, stava tutta nella
consapevolezza dell’esistenza del Flusso. Gli uomini comprendevano solo ciò
che vedevano, gli Aelian riuscivano a scorgere più a fondo. E di conseguenza,
sapevano come manipolare e plasmare il mondo che li circondava interagendo
con la struttura di luce che lo componeva. I Khartian, per riuscire a compiere lo
stesso prodigio, avevano inventato il canto. Ma il risultato era banalmente simile.
Saiden poteva mutare l’architettura di Flusso di un albero o di un uomo, distruggendola, modificandola o ripristinandola. Un uomo, cantando, metteva in risonanza il suo Flusso con quello dell’ambiente che lo circondava. Lo stesso risultato, pensò nuovamente Saiden. Ma partendo da una concezione della realtà radicalmente diversa.
Il metodo del canto lo affascinava. Prima di conoscere i Khartian, Saiden non
sapeva che potesse esistere un modo alternativo per interagire con il Flusso.
Quando lo aveva scoperto, si era gettato a capofitto nello studio delle armonie.
Voleva comprendere a livelli superiori la vera essenza del Flusso, un segreto che
nessuno, Khartian o Aelian che fosse, aveva mai risolto. Da dove derivasse, di
quale energia fosse composto. Perché fosse possibile modificare la realtà partendo da una semplice volontà di creare. Un potere superiore a qualsiasi Dio, nelle
mani di chiunque fosse disposto a guardarsi intorno con occhi curiosi.
Esistevano però delle sottili differenze fra il canto, e l’uso puro del Flusso. I
cantori Khartian erano anche in grado di far apparire dal nulla fuoco, ghiaccio e
terra che prima non esisteva. Mentre gli Aelian come lui avevano sempre plasmato il Flusso esistente, senza mai crearne di nuovo. Infatti, quando Saiden contemplava una qualsiasi risonanza, non vedeva mai apparire materia che prima
non esisteva. Una fiamma sgorgata dal nulla non conteneva Flusso. Era quello
l’aspetto più grottesco e misterioso. Se un cantore credeva, attraverso le armonie
e la sua profonda concentrazione, che davanti a lui potesse esistere il fuoco, esso
appariva. Ed era composto da parti dei Flussi di chi, intorno a lui, entrava in risonanza con la sua armonia. In pratica, gli effetti del canto erano più che altro
una suggestione di massa. Dagli occhi degli spettatori si dipanavano lunghe trecce di
399
luce sinuosa, che mischiandosi con i Flussi del cantore e degli altri intorno a lui,
davano forma e calore a una fiamma mai esistita prima.
In effetti, almeno sotto quell’aspetto, i Khartian erano più raffinati degli Aelian. Molto più complessi. Saiden ricordava suoi simili che sapevano come utilizzare il Flusso in combattimento. Potevano richiamare nelle mani lunghe fruste di
luce, e usarle in maniera letale contro i loro nemici. Il Flusso poteva essere anche
drammaticamente tangibile. E doloroso. Ma era comunque un modo piuttosto
grezzo di usarlo. A lui piaceva il canto, anche se da tanti anni stava cercando di
astrarlo. Di unire la capacità immaginifica dei Khartian, con il pragmatismo degli
Aelian. Per farlo, aveva studiato dappertutto. Si era finto uomo comune, inventando storie di nipoti lontani e di viaggi che finivano in tragedia. Era morto e rinato molte volte, in vita sua. Tutto, solo per appagare il suo desiderio di sapere e
capire. Saiden viveva, al massimo delle possibilità, solo per se stesso.
«Non ti sembra strano?» sentì dire da Gwern a suo fratello, sottovoce. Saiden
sorrise. “Oh sì…” pensò. “Mi sembra così strano…”
«Cosa avremmo mai potuto fare, noi soltanto?» continuò il ragazzo.
Saiden rivide quel fenomeno che lo aveva tanto sconvolto la prima volta che
aveva visto insieme Gwern e Mordraud. Dal più giovane, quando lui si rivolgeva
al fratello, partiva un filo sottilissimo di Flusso, una bava di luce che galleggiava
nell’aria e cercava di entrare dentro la sagoma vuota di Mordraud. Come se lo
volesse riempire.
O, più probabilmente, invadere.
“C’è qualcosa che lega quei due… ma non è il sangue. È molto di più. Quello
non è un legame tra fratelli.”
Saiden aveva la netta sensazione che quel sottile filo di luce non fosse affatto
amichevole.
«… molti addirittura credono che questo inverno sia opera degli Dei» sentì dire, in parte, da Mordraud. Il piccolo gomitolo di Flusso di Gwern si ingrossò
improvvisamente, in risposta inconscia a quelle parole.
«Cosa che tu scarti…»
«Ovvio» rispose di getto Mordraud.
Una treccia grossa quanto un dito si dipanò dalla massa di luce e partì a scheggia verso Mordraud. Saiden la vide volare attraversando lo sterno di Gwern, e
impattare contro la pancia di suo fratello. La treccia si sciolse in una ragnatela di
luce. Ma invece che disperdersi senza ottenere nulla, i fili penetrarono inaspettatamente dentro l’involucro di Mordraud. Si arrotolarono dentro di lui, e presero
a lampeggiare debolmente.
Tante piccole luci bianche, sospese dentro il petto vuoto di Mordraud. Saiden
per un attimo riconobbe un certo ritmo sinuoso, in quei deboli lampi.
400
Improvvisamente, la treccia venne risucchiata di nuovo dentro Gwern. Con
una velocità, e una brutalità tale che Saiden si chiese se fosse stato Gwern stesso,
senza rendersene conto, ad accorgersi di quello che stava facendo il suo Flusso
dentro suo fratello.
Stava tentando di mangiarlo.
Il Flusso di Gwern divorava il mondo per tenerlo in vita.
Saiden incespicò e rovinò sconvolto in terra.
***
«Non ti sembra strano?»
Mordraud alzò le spalle.
«Cosa avremmo mai potuto fare, noi soltanto?» continuò Gwern.
«Mi sarei inventato qualcosa…» rispose Mordraud.
«Sì, ma non avremmo saputo che fare. Io non ti potevo aiutare, fratello. Mi dispiace… ma il tuo piano era impossibile. Invece, eccoci qui insieme al maestro.»
«Non capisco dove tu voglia arrivare.»
Gwern fece un cenno alle sue spalle.
«Sembra quasi che dovesse andare così… che fosse l’unica possibilità che si
dovesse avverare.»
«No, è una cagata» rispose seccamente Mordraud. Gwern lo guardò ridacchiando. A volte parlava come se fosse al fronte insieme ai suoi compagni.
«In tutto Eld, nessuno sa come funzionano i canti. Molti addirittura credono
che questo inverno sia opera degli Dei.»
«Cosa che tu scarti…»
«Ovvio.»
Saiden, dietro di loro incespicò sulla neve e scivolò in terra. Quando Gwern si
avvicinò per aiutarlo, lui rotolò sul manto bianco e si girò di schiena, gli occhi
sgranati e un mezzo sorriso tirato in faccia.
«Tutto a posto?»
«Sì… ero sovrappensiero» balbettò spiazzato Saiden.
Lo aiutarono a rialzarsi e ripresero a camminare. Mordraud avanzò di qualche
passo per tenersi più lontano da lui. Gwern gli corse dietro.
«Ma tu credi davvero che lui ci possa aiutare?»
«Se non lui, chi? Io e te non sappiamo nemmeno cosa cercare.»
Mordraud sospirò nervosamente. Saiden tornò dietro di loro. «Alla prima occasione, cerchiamo di puntare più verso Nord. Stiamo leggermente deviando dalla giusta traiettoria.»
401
«Quindi dobbiamo dirigerci più in là?» chiese Mordraud alzando un braccio per
indicare Nord-ovest. Non vedeva altro che alberi, un colle poco distante e
l’onnipresente neve. L’orizzonte era nero e depressivo.
«Esatto.»
«Ma cosa sentite?» gli chiese Gwern. «Ho provato a percepire qualche risonanza, ma non ce l’ho ancora fatta…»
«Mh, forse devi solo concentrarti un po’ di più…»
Saiden socchiuse un istante gli occhi. Stava assistendo a un altro evento inaspettato. Dal gomitolo di luce che galleggiava nel petto di Gwern erano partiti
altri due fili. Stavano salendo lentamente verso la sua testa, da dentro il collo. Era
il suo desiderio di vedere il Flusso del mondo. Lui, consciamente, non ne era ancora capace.
Saiden volse lo sguardo a Nord-ovest. Ai suoi occhi, il paesaggio era definito a
cavallo fra i colori della realtà e una trama mostruosamente fitta di Flusso. Piantato come una colonna che congiungeva la terra e il cielo, svettava il canale di
Flusso che i cantori di Cambria stavano concentrando attraverso il canto.
Un’impressionante treccia di luce a spirale che invadeva le nubi, e piegava a loro
piacimento le condizioni climatiche dell’intera regione. Ed era frutto soltanto di
un semplice coro di Khartian, pensò colpito.
Un connubio di Flusso e armonia da lasciare senza fiato.
Impossibile per lui non vederlo. Ci sarebbe arrivato anche a occhi chiusi.
Era quasi un peccato interromperlo, pensò. Ma era disposto a fare di tutto, per
continuare a indagare sul mistero pazzesco che rappresentavano quei due fratelli.
Anche a fermare una notevole dimostrazione di potenza com’era Lungo Inverno.
«Mi piacerebbe sapere come facciate a esserne tanto sicuro» esclamò
Mordraud. Saiden sorrise. «Forse è il caso allora che vi fidiate un po’ di più.»
***
Un burocrate. Nient’altro che un burocrate. Dunwich non riusciva a credere di
essere caduto tanto in basso. Il salotto era intasato dal fumo della pipa, e sul
marmo bianco del pavimento gocciolava il fondo di vino rimasto nella bottiglia
che si era appena scolato. Non era la prima. Dunwich era completamente ubriaco sin dal pomeriggio, dopo che aveva finito di sfilare insieme alle altre Lance di
stanza a Cambria nella consueta parata celebrativa. Un evento così vuoto e odioso da fargli venire sempre una gran voglia di bere. La sua sfortuna era che, di parate, l’impero ne organizzava a dozzine.
Da quando era stato rispedito a casa dopo l’attacco che aveva portato al Terrapieno di sua iniziativa, i suoi impegni si erano ridotti a curarsi le ferite, e a vaglia402
re carte su carte. Richieste di cibo dal fronte, richieste di cavalli, richieste di uomini, richieste di qualsiasi cosa. La risposta solita che lui doveva inviare, dopo
aver apposto il sigillo imperiale su ceralacca era: faremo il possibile. La disorganizzazione assurta a sistema. Vedere il mostro burocratico da vicino era devastante
per il suo umore. Le parate completavano degnamente il quadro.
«Perché non mi ascolta mai nessuno?!» borbottò bevendo direttamente dal collo della bottiglia un generoso sorso di vino. Sapeva di acqua sporca e acida, ma a
lui, in quel momento, andava più che bene. «Mi hanno cacciato via perché so cosa devo fare! Se mi lasciassero guidare l’esercito… invece perdono tempo e non
fanno niente…»
Non sapeva se fosse per colpa dello stordimento o dello sconforto, quella sera
Dunwich si sentiva in vena di credere a un fantomatico complotto imperiale.
Qualcuno voleva perdere tempo, tentava di proteggere i ribelli, o chissà cosa.
L’esercito di Cambria contava decine e decine di capitani che potevano muovere
trame molto sensibili. Anche fra le Lance. Asaeld si trovava a dover gestire sempre ragazzi nuovi, mentre i veterani venivano spediti ai quattro angoli dell’impero
a risolvere ogni sorta di problema. Oppure venivano abbandonati a organizzare
parate. Facile individuare il colpevole di tutto quel disastro.
Loralon.
Da incompetente a sordido sobillatore. Un passaggio neanche troppo improbabile. Dunwich aveva sentito qualche Lancia parlottare fuori dalle sale del consiglio. Voci che fosse stato proprio l’Imperatore a richiamarlo in città, richiesta a
cui Asaeld aveva tentato di opporsi fino a quando era stato costretto
all’inevitabile resa. Asaeld lo aveva rimproverato duramente, ma cos’altro avrebbe potuto fare? Lui eseguiva degli ordini superiori, inoltre si era spaventato a
morte quando lo aveva visto partire alla carica selvaggia. Non ricordava molto
bene cosa fosse successo dopo l’incursione. Ma i fatti erano più che chiari. Aveva portato a termine un ottimo attacco, con risultati sorprendenti, ed era stato
allontanato. Il progetto era completo. Loralon aveva un piano superiore, oltre la
guerra. Un piano maligno di dominio che prevedeva la soppressione delle Lance.
O forse era il vino a parlare al posto suo?
Dunwich picchiò la pipa sul tavolino per liberarla dalla cenere, ma lo fece con
così poca grazia che il manico di radica si spaccò fra le dita. Aveva bevuto veramente troppo. Non riusciva neppure a stare in piedi.
Una mano spuntò davanti a lui per aiutarlo.
«Devi stare un po’ più attento, ragazzo mio. Come sono entrato io, anche altri
potrebbero farlo. E tu ora saresti già morto.»
«Asaeld?!» chiese Dunwich stringendo gli occhi. Il mondo vorticava troppo velocemente intorno a lui.
403
«Sì, e chi sennò? Sono passato per vedere come stavi. La spalla ti fa ancora male?»
Dunwich scostò la camicia e guardò con occhi beoti la cicatrice, come per controllare che fosse ancora lì. La spalla era malconcia ma stava guarendo. L’altra
ferita, quella sul fianco, era più in ritardo. Una strana ferita, quella. Non aveva
l’aria di un taglio di spada, semmai di un’artigliata profonda. Il guaritore gli aveva
detto che erano stati gli anelli della corazza a spezzarsi e a mordergli la carne.
Anche se non c’era traccia di infezione.
«Non mi fa più male. Ora sono pronto a tornare con te al fronte!»
«Mi dispiace, ma ho parlato proprio oggi con Loralon. Vuole che tu resti qui…
ci tiene molto.»
«Non me ne frega niente di cosa vuole lui!» sbottò Dunwich. Si era messo in
piedi, ma il mondo vorticava ancora più velocemente. Dovette reggersi ad
Asaeld per non cascare a terra come un patetico ubriaco.
«Resta sempre il nostro Imperatore, ragazzo…»
«Beh, che vada a farsi fottere! Io non resto qua in città mentre al fronte si
combatte merdosamente una guerra! Per gli Dei, Asaeld…» Dunwich scosse la
testa disperato «perché glielo hai fatto fare?»
«Cosa? Costringerti a restare qui? Te l’ho detto… è un ordine…»
«No, no! Parlavo di Lungo Inverno! Quel canto maledetto ci ammazzerà tutti!»
Asaeld sospirò profondamente e afferrò le spalle di Dunwich per guardarlo
dritto negli occhi. «Non dire fesserie. Il bersaglio sono Eldain e i suoi. Vedrai che
cederanno, prima o poi. Anzi, forse non manca molto.»
«Tu credi?! Pensi veramente che molleranno per questo?» Dunwich rise sguaiatamente, ma dovette smetterla subito. Rischiava di vomitare da un momento
all’altro.
«I ribelli non sono immortali» rispose lapidario Asaeld.
«Tanto c’è il complotto, hanno qualcuno che li aiuta!»
Asaeld si irrigidì, ma Dunwich nemmeno se ne accorse. «Non c’è nessun complotto, ragazzo mio.»
«Invece sì, fidati! C’è qualcuno…» Dunwich si portò una mano alla bocca e
parlò con un sussurro «c’è qualcuno che ci impedisce di vincere con le sue scelte.
Qualcuno di potente.»
«E chi?» chiese Asaeld, anche lui sussurrando nervosamente.
Dunwich annuì convinto.
«Loralon.»
«L’Imperatore?!»
«Esatto… e dovremmo fare qualcosa… per fermare questo complotto…»
«Cioè? Cosa dovremmo fare?»
«Ecco… tu saresti perfetto… sopra quel maledetto… scranno…»
404
Dunwich non finì neppure la frase. Aveva veramente esagerato con il vino.
Senza più un briciolo di forze, crollò di nuovo sulla poltrona, svenuto. Asaeld
raccolse le bottiglie da terra, gli sistemò le gambe e le braccia in una posizione
più comoda, e dopo avergli strigliato i capelli con la mano, se ne andò a passo
leggero.
***
«Fermiamoci qui.»
Mordraud indicò a Gwern e Saiden lo spettro di una baracca mezza sommersa
dalla neve. Stava arrivando sera e stava per scatenarsi una tempesta. Il vento tagliava le gambe e piegava gli alberi che digradavano lentamente lungo la vallata.
Erano a pochi giorni di distanza dai confini con l’impero, in una zona di combattimenti. Il fronte Sud del Terrapieno.
«Entriamo, almeno ci proteggiamo dal vento…» propose Saiden. Mordraud
scavò intorno alla porta della baracca e la sfondò con una spallata.
Dentro, una famiglia era morta congelata in un angolo, sopra un pagliericcio di
sterpaglie. Il resto della mobilia era stato bruciato nel camino, che poi si era
riempito di neve. Il pavimento era macchiato di radi escrementi, ma l’odore era
impercettibile. L’aria era rarefatta, irrespirabile.
Gwern era impietrito sull’uscio, con Mordraud davanti che si stava già sbrigando a liberare un po’ di posto per sedersi.
«Andiamo da un’altra parte…» mormorò con un filo di voce. Mordraud lo
guardò perplesso. Quella baracca li poteva proteggere dalla tempesta, era un
buon posto. Non si rese subito conto che Gwern non aveva alcuna dimestichezza con Lungo Inverno. I cadaveri in un angolo, la miseria di quella casa. Per
Mordraud era diventata una triste abitudine. Mentre era al fronte, aveva già dovuto confrontarsi con scene come quella. Interi villaggi annichiliti da una bufera,
morti ammassati nei fienili e fossi disseminati di corpi congelati. Lui e i suoi ragazzi avevano più volte dovuto scavare nella terra di marmo e riempirla di morti
per sgombrare il campo di battaglia. Non faceva più tanto caso all’orrore. Era
diventata una forma di disgrazia come tutte le altre.
Saiden spinse da dietro Gwern per entrare, ma passò da solo. Lui non riusciva
a varcare la soglia. Continuava a fissare i corpi, la merda in terra, il marciume negli angoli delle pareti. Tremava dentro il mantello di pelliccia e tirava indietro il
collo, come se non volesse nemmeno condividere l’aria con quel posto.
Mordraud smise di spazzare il pavimento con gli stivali, si avvicinò al fratello e
lo prese per mano. Lentamente, lo fece entrare. Poi chiuse subito la porta, e lo
condusse in una zona vagamente più pulita, fra vecchi abiti tarlati e resti di legna
tagliata con una mannaia arrugginita, abbandonata fra la polvere.
405
«Quando perlustriamo intorno al Terrapieno, troviamo spesso posti come questo» gli disse riprendendo a fare ordine. «L’inverno è implacabile.»
«È colpa della guerra, l’inverno è solo una conseguenza» rispose sconvolto
Gwern, incapace di distogliere gli occhi dalle bocche grigie dei cadaveri congelati.
Lì dentro era un freddo assassino, forse più che fuori, anche se non c’era il vento. Era peggio di una ghiacciaia. Penetrava nelle ossa e ammorbava i pensieri.
«Eldain dovrebbe smetterla di opporsi a Cambria. Questa gente avrebbe preferito cambiare padrone, piuttosto che morire.»
«Non è una questione di padrone, Gwern» esclamò Mordraud sedendosi pesantemente in terra usando una vecchia camicia come straccio. «Cambria vuole
invadere terre che sono da sempre di qualcun altro. Non può averla vinta tanto
facilmente.»
A Saiden, che non aveva ancora detto niente, scappò un sorriso. Lasciò continuare Mordraud, senza togliere gli occhi di dosso dalle reazioni invisibili di
Gwern alle parole del fratello.
«Non mi sembra un gran motivo per dover sopportare una sofferenza tale» ribadì Gwern indicando i tre poveri mentecatti congelati. Una donna, un uomo e
una vecchia. La ragazza aveva il ventre sformato. Forse era incinta, quando era
morta. Gwern rabbrividì e si portò una mano alla bocca, come se avesse sentito
improvvisamente il bisogno di vomitare.
«Eldain la pensa diversamente. E così anche i suoi alleati.»
«A farne le spese però sono tutti gli altri» rispose Gwern. Mordraud stava per
ribattere costernato, ma lui lo anticipò. «Sappiamo entrambi perché volevi partecipare alla guerra, fratello. Non per la causa. Ma per Dunwich.»
Saiden, che si era seduto in un angolo distante e stava sbocconcellando una
crosta di formaggio, aguzzò gli occhi. La luce del magro giorno era agli sgoccioli
e l’unica finestra era incrostata di ghiaccio. I due fratelli parlavano da soli, nel
buio.
«Lo faccio anche per altri motivi ora. Ho amici al Terrapieno. Ho Adraman.»
Scese un silenzio imbarazzato. Come se entrambi avessero da dire qualcosa di
più, ma non volessero farlo. Deanna. Gwern non sapeva tutto, poteva però intuire. Mordraud non voleva ammettere ad alta voce ciò che stava realmente facendo al suo amico. Il tradimento che portava avanti ogni volta che tornava a
casa, da sua moglie.
Saiden vedeva tutto anche se la luce era svanita. Scorgeva il Flusso che componeva il legno della baracca e l’immondizia in terra. E vedeva il corpo vuoto di
Mordraud, come una macchia nera a forma umana impressa sullo sfondo di trame di Flusso. Scorgeva alla perfezione anche il bolo di luce nel petto di Gwern.
Gli scambi di Flusso fra i due erano continui, ora. Saiden cambiò posizione a sedere, troppo eccitato per stare fermo. Ciò che avveniva perennemente fra i due
406
fratelli, non aveva alcun precedente. Non era spiegabile con nessuna conoscenza
a cui avesse attinto, fra gli Aelian o i Khartian, in tutti i secoli in cui aveva vagabondato per il mondo. La luce di Gwern, sotto forma di bave di Flusso, tentava
continuamente di entrare in contatto con Mordraud. A volte ci riusciva, altre doveva ritirarsi ricomponendosi dentro di lui. Saiden stava cercando di capire se ciò
che dicessero avesse una qualche importanza. E si chiese ancora, sorridendo per
il nervosismo di non avere una risposta, come fosse possibile che quei due fossero così anomali, fuori dalle regole che costituivano l’intelaiatura di Flusso della
realtà.
«Ora siamo qui. Dobbiamo fermare l’inverno, non ha senso rimuginare troppo
su queste cose.»
L’appello di Mordraud suonò perentorio nel buio stantio della baracca. Gwern
mugolò qualcosa di incomprensibile. Saiden vide tutti i fili di Flusso che si erano
sparsi intorno a lui, rattrappirsi e ritornargli dentro.
«Saiden, tu sai cosa fare?»
Saiden ridacchiò. Per lui, individuare dove si nascondessero i cantori era facile.
Potenzialmente, lo era anche sterminarli. Se avesse dato fondo al suo Flusso, a
tutto il suo potere distruttivo, i cantori Khartian presi alla sprovvista si sarebbero
lasciati massacrare senza fare troppe storie.
«Sì. Li ho già individuati. Dobbiamo solo arrivare lì… e se sarà necessario,
combattere. Tu, invece… te la senti di affrontarli?»
Mordraud grugnì e stese le gambe nella polvere.
«Non vedo l’ora.»
Saiden applaudì una volta sola.
«Allora possiamo farcela.»
«Anche se a te non interessa, vero?» continuò Mordraud. Saiden fu colto alla
sprovvista. «Anch’io subisco questo inverno orrendo, non ti pare?» provò a dire.
«Allora perché non sei mai intervenuto prima?»
«Sono un maestro di armonia, non un guerriero» rispose Saiden. «Da solo, non
avrei mai tentato di attaccare i cantori di Cambria.»
«Ti saresti potuto proporre all’esercito di Eldain. Qualcuno ti avrebbe di certo
ascoltato.»
«Basta, Mordraud» lo interruppe Gwern. «Ha dato la sua parola che ci aiuterà.
Non pretendiamo di più, ti pare?»
«Voglio solo sapere perché il tuo maestro ha deciso di intervenire solo quando
ho chiesto un aiuto a te.»
Saiden avvertì di dover prestare attenzione. La macchia nera che rappresentava
Mordraud gli parve improvvisamente minacciosa.
«L’ho fatto per aiutare Gwern a crescere. Per imparare sul campo qualcosa di
nuovo.»
407
«E cosa?! Io non vi ho nemmeno sentiti cantare una volta.»
Gwern, in quell’occasione, non intervenne. Non fermò suo fratello. Anche lui
condivideva parte dei suoi dubbi. Anche a lui pareva inafferrabile il comportamento e le decisioni del maestro.
Fino a quel momento, non avevano fatto altro che camminare nella direzione
che Saiden aveva loro imposto.
«Da domani dovremmo essere in vista della fonte di tutte le risonanze. Lui non
è ancora abbastanza preparato per percepirle da così distante…» disse con fare
pacato e comprensivo. «A quel punto, potremo iniziare a esercitarci di nuovo.»
Gwern tirò un sospiro di sollievo. Finalmente vedeva uno scopo diretto in quel
viaggio. Non solo l’incognita di non avere la minima idea di cosa fare. Mordraud
si rassegnò, scivolando con la schiena in terra per riposare qualche ora. Il suo involucro vuoto pareva ancora vagamente minaccioso, ma sembrava aver mollato
un po’ la presa.
Saiden li lasciò confabulare in privato, perdendosi nelle sue congetture.
Non sapeva assolutamente cosa fare per soddisfare la loro richiesta. Non voleva insegnare davvero le armonie a Gwern. Le loro lezioni erano in realtà dei continui esperimenti che lui faceva sul suo nucleo di Flusso. Il fatto che stesse imparando qualcosa del mondo delle risonanze, era un effetto secondario e in parte
anche sgradito. Non voleva rischiare di consegnare più potere in mano di un essere di cui ancora non aveva compreso l’essenza profonda. Gwern era ancora un
mistero troppo grande. Se lo teneva appresso con la scusa di insegnargli le armonie, non per farlo davvero.
Doveva trovare un modo per spingere il Flusso di Gwern a reagire con ancora
più veemenza. Doveva scoprire cosa ci fosse dietro la relazione particolare fra i
due fratelli.
E per farlo, doveva prendere decisioni drastiche.
Aveva già una mezza idea di come fare.
408
XXVI
«Berg è messo male.»
Adraman sentì la terra sparirgli sotto i piedi. Aveva viaggiato giorno e notte per
colmare le settimane di distanza da Hannrinn il più in fretta possibile, solo per
portare a Eldain la notizia del suo successo. Un capolavoro diplomatico insperato, soprattutto da parte sua. Non era mai stato molto abile a seguire i complicati
meccanismi della diplomazia, ma l’emergenza lo aveva reso più scaltro di quanto
si aspettasse da se stesso. Per quanto la situazione sembrasse disperata, aveva
guadagnato qualche mese prezioso.
Ma non si sarebbe mai aspettato di ritrovare Eldain ridotto in quello stato.
Berg era steso sul letto, madido di sudore e tormentato da dolori insopportabili. Fuori dal tendone era un freddo impressionante, ma dentro non se la passavano di certo meglio. Sembrava in preda a un fuoco che stava consumando la sua
carne dall’interno. La ferita alla spalla era nerastra e gonfia, e Adraman aveva abbastanza esperienza da capire che la sua condizione era appesa a un filo. Ma era
preoccupato soprattutto per Eldain.
Sembrava un morto che si ostinava a stare in piedi.
Il volto aveva perso ogni accenno di colore, grigio come la cenere dei suoi capelli e degli occhi un tempo azzurri. Le guance sembravano scavate da un cucchiaio. Curvo sul letto di Berg, con le mani strette nelle sue, avrebbe potuto
tranquillamente essere scambiato per un malato grave, come tutti gli altri. Respirava con affanno, e faticava a tener dritta la schiena. L’inverno lo stava uccidendo, come un albero dalle radici sempre più ghiacciate.
409
«Devi tornare a Eld» disse Adraman afferrando le spalle dell’amico «hai bisogno di un po’ di riposo.»
«Ah sì?!» rispose annuendo mestamente «e tu, invece?»
«Io sto bene, ora.»
Adraman mosse la gamba ancora fasciata e alzò il bastone con cui si aiutava a
camminare. L’osso era quasi del tutto a posto, e sebbene non potesse permettersi
ancora di correre o saltare, il peggio sembrava passato.
«Forse perché non ti sei guardato bene in faccia.»
Eldain prese un piccolo specchio che era appeso a una trave della tenda e glielo sbatté di fronte. «Neanche tu sei il massimo della bellezza.»
Adraman guardò sconcertato la pelle del suo volto raggrinzita e biancastra, solcata di rughe e di segni rossi dovuti al freddo. Non si osservava da un mucchio
di tempo. D’altronde, aveva avuto ben altro a cui pensare.
«Dev’essere colpa della mancanza del sole. È una vita che non lo vedo spuntare fuori dalle nubi.»
«Non solo… anche tu sei stanco, come me… come tutti.»
Eldain aveva ragione solo in parte. Adraman non era in gran forma, ma lui era
di gran lunga messo peggio. Il suo respiro era un raschio ruvido, gli occhi di cenere iniettati di un brutto giallo spento. Ma sapeva già quanto fosse inutile tentare di convincerlo.
«Com’è successo?» chiese Adraman indicando il povero Berg.
«Durante un attacco. Sono riusciti a superare il Terrapieno.»
«Ma… come…» balbettò incredulo. Era ormai abituato alla strategia di Cambria. Punzecchiarli, prenderli per sfinimento, era quella la solita tattica
dell’impero. Il Terrapieno era rimasto inviolato per anni, all’apparenza inespugnabile.
«Una Lancia ha guidato un’incursione, e hanno usato il canto. Risonanze terribili. Hanno fatto molti danni, oh se ne hanno fatti…»
Eldain prese di nuovo le mani di Berg, che sussultò su un letto di sudore. «Se
non fosse stato per lui, ne avrebbero potuti fare molti di più.»
«Le Lance non hanno mai osato tanto! Cambria ha troppa paura di perdere i
suoi uomini migliori!»
«È stata una sorpresa per tutti, credimi. Siamo ancora impegnati a rattoppare
tutto quello che hanno incendiato con i loro fottuti canti…»
«Quando è successo?! Hanno tentato di nuovo?»
«No, per fortuna. Il primo e ultimo attacco diretto al Terrapieno è stato due
settimane fa.»
Adraman rifletté un momento su quella novità incredibile. Non ricordava un
azzardo simile da parte di Cambria da anni, tanti da non riuscire neppure a contarli. L’impero aveva sempre portato avanti una strategia lenta e logorante, a trat410
ti anche sconclusionata, ma sempre perlopiù attendista. Gli attacchi brutali al
fronte si contavano sulle dita di una mano in dieci anni, e sempre in grande massa, senza fini strategie. Faceva eccezione la notte dei Fuochi, ma anche in
quell’occasione, l’impero aveva usato i propri uomini come arieti di carne umana,
compatti e fiduciosi solo della loro debordante superiorità numerica.
Non era il solo punto oscuro di quella situazione. Non avevano mai scoperto
chi e perché avesse deciso di avvisarli dell’imminente attacco di quella notte.
Adraman ne era venuto a conoscenza grazie a una soffiata di un fante, un soldato semplice che era fuggito dal grosso delle truppe e li aveva raggiunti nel campo
a Sud. Senza di lui, il Terrapieno non avrebbe mai potuto reggere.
Era un segreto che conoscevano soltanto lui ed Eldain. E il motivo era semplice. Non avevano mai compreso il reale scopo dietro quell’insperato aiuto. Se
fosse stato qualcuno dall’interno di Cambria, o magari una frangia dell’esercito
che aveva intenzione di provocare un cambio al vertice. Non lo sapevano, per
cui preferivano non divulgare la notizia.
L’impero si stava comportando in modo assolutamente imprevedibile.
Quell’improvvisa fiammata sembrava qualcos’altro. «Un colpo di testa di uno dei
capitani delle Lance. Qualcuno che si è stancato di perdere tempo» concluse
Eldain.
«Il messaggio è chiaro» continuò «loro possono sfondare le nostre linee quando vogliono. Devono solo mettersi d’impegno e fare la cosa giusta. Hanno il
canto dalla loro, sono più riposati di noi, e hanno tre o quattro volte i nostri uomini. Forse anche di più.»
«Perché allora non lo fanno?»
«Se lo sapessi, non sarei così in ansia.»
«Speriamo che sia stato soltanto un loro errore… e che continuino a considerarlo come tale» mormorò Adraman «se venissero a sapere quanto male sono
stati in grado di farci con un pugno di uomini, per noi sarebbe la fine.»
«A proposito di fine…» Eldain lo guardò con occhi insolitamente rassegnati,
sconfitti «cosa hanno detto i Rinn? Ci hanno venduto?»
«No!» Adraman sorrise, solo per cercare di tenergli alto il morale. «Ho guadagnato qualche mese… più o meno fino alla prossima primavera.»
«Quale primavera?! Esiste ancora la primavera?» sibilò sarcasticamente Eldain.
«Mordraud ce la farà, vedrai!»
Adraman avrebbe voluto essere convinto di quello che diceva, ma in realtà non
lo era affatto. Tutti i loro piani, le loro speranze, poggiavano su una sottile lastra
di argilla. Mordraud e suo fratello. Aveva acconsentito a quella buffonata solo
per prendere tempo, per dare speranza a chi era tanto disperato da crederlo possibile. Due, contro il piano imperiale di Lungo Inverno.
411
«Ti ricordi come è fatto il sole?» chiese Eldain tornando a sedersi vicino a
Berg, che lottava contro il dolore dimenandosi inutilmente. Adraman non riuscì
a rispondere.
«Io non me lo ricordo più.»
***
Deanna stava aspettando che Adrina tornasse dalla perlustrazione. Osservò
dalla finestra del suo salotto il cortile sul retro della villa, nella speranza di vederla
apparire oltre il cancello semiaperto. I domestici avevano scavato un passaggio
nella neve per raggiungere la strada, ma si erano arresi quando si erano trovati di
fronte a un impressionante muro bianco fra il cortile e le pareti delle case. Nessuno aveva più spalato quel tratto da settimane. Adrina si era dovuta arrampicare
sulla neve fino a raggiungere le falde dei tetti.
Deanna strinse la coperta sulle spalle e prese la tazza fra le mani. Si era già raffreddata. Aveva rinunciato al camino in camera per conservare la legna. Veniva
usata solo nella stufa di ghisa in cucina. Non dormiva più da sola, aveva accettato
di passare la notte insieme alla servitù, per terra, a fianco del tavolo dove Adrina
preparava la cena. Il resto della casa era una ghiacciaia allucinante. Fuori, il vento
slabbrava la pelle. Il colore del cielo era di una tristezza infinita. Le veniva voglia
di piangere ogni volta che metteva il naso fuori dalla finestra.
Non si vedevano alberi da nessuna parte. I campi erano un mare bianco. Le
mura sembravano ridicole strisce di pietra in cima ai cumuli, ammassati quando
ancora la gente di Eld si era data da fare per tenere pulite le strade. Quella voglia
di reagire era finita da un pezzo. Come anche la cordialità e la speranza.
Due servi non erano tornati a casa, il giorno prima.
Erano usciti per cercare un po’ di legna. Ma l’unico modo per trovarla era intrufolarsi nelle dimore dei morti, sperando che non fosse stata già tutta consumata. Gambe di tavoli, sedie, travi del camino, assi delle pareti. Molte famiglie
morivano di freddo prima di avere il tempo di spolpare del tutto le loro poche
cose. I suoi domestici avevano già fatto razzia un paio di volte. Senza correre rischi, imbattendosi soltanto in cadaveri mummificati dal gelo, stretti insieme in un
pietoso abbraccio sui letti padronali. Ma la terza uscita doveva essere stata fatale.
Deanna distolse gli occhi dal cortile per non immaginarsi la scena.
Gli altri due ragazzi erano malati. Una febbre che lasciava poche speranze. Il
resto della servitù erano due vecchi che un tempo avevano il compito di curare
un fazzoletto di terra fuori dalle mura di sua proprietà. Adrina, sebbene fosse anziana quanto loro, era l’unica in casa ad essere ancora sufficientemente in forze
per uscire. Avevano ancora qualche conserva in cantina, ma lei sperava di trovare
della carne. Soprattutto per i due ragazzi febbricitanti. Deanna mangiava pochis412
simo, e non pretendeva nemmeno di farlo. Si era spenta, raffreddata come la
pancia vuota di una stufa in disuso. Non sapeva più nulla di Adraman. Meno ancora di Mordraud. Era da sola. Aveva scoperto quanto odiasse profondamente
esserlo, al punto di rimpiangere sinceramente suo marito. La sicurezza involontaria che lui era in grado di trasmetterle.
Mordraud invece apparteneva ai rari momenti in cui ancora sognava.
Dormire in cucina non era tanto male. All’inizio si era sentita depredata della
sua autorità in casa. Ma sentire i respiri degli altri, i fruscii delle loro coperte, la
aiutava a non farsi prendere dal panico. Non riusciva più a dormire da sola. Era
troppo freddo, dentro di lei. L’inverno riusciva a scacciarlo con le coperte. Ma la
solitudine era insopprimibile, un male morboso che la stava uccidendo. Era dimagrita, non si truccava più. Adraman, con i suoi stoici e stupidi tentativi di riconquistarla, l’aveva sempre fatta sentire desiderata. Il modo in cui Mordraud la
guardava, le dava il senso di se stessa. Le permetteva di considerarsi ancora viva.
Aveva il terrore folle di addormentarsi una notte, con il rombo della bufera oltre il tetto, e di non svegliarsi più. Di morire e di accartocciarsi in terra, come i
cadaveri che aveva visto apparire fra i badili di chi scavava per liberare le strade.
Non voleva essere trovata in quel modo da Mordraud.
O da Adraman. Si sentiva confusa quando non aveva Adrina vicino, che le parlava incessantemente di quello che andava fatto per sopravvivere. Battere i piedi.
Tenersi puliti per non doversi lavare. I capelli bagnati potevano essere letali.
Dormire poco e spesso.
Lei, senza qualcuno che la guidasse, si sentiva naturalmente persa.
Uscì dal salotto e scese le scale lentamente. Altro consiglio, quello di non fare
mai mosse azzardate. Il freddo indeboliva le ossa. Rompersi una caviglia equivaleva a tentare il suicidio. Ma a metà della discesa, sentì la porta aprirsi
nell’androne e si fermò di colpo. Adrina era passata dal retro. Davanti, gli ultimi
a uscire erano stati i due poveri ragazzi morti il giorno prima. Deanna si acquattò
sui gradini e sbirciò di sotto, fra la ringhiera della scala.
Per un attimo, quando vide i due uomini, ebbe la tentazione di scagliarsi di sotto per abbracciarli. Erano tornati a casa, finalmente. Le gambe sommerse dalla
neve che era ruzzolata dall’uscio aperto.
Ma fu solo un momento di inutile speranza. Quei due erano sconosciuti del
paese. Uno più alto, l’altro magro e basso. Facce scavate e occhi appesi alle palpebre. Si scrollarono meccanicamente la neve dai capelli e presero a guardarsi
intorno.
Deanna si sentì schiacciare dal terrore sul gradino gelido.
Non dissero una parola. Si guardavano soltanto intorno. Aggrottavano la fronte come se non vedessero bene dove fossero. Erano spaventosamente luridi.
Quello alto si avventò ciondolando su una sedia, all’angolo della scalinata che sa413
liva da Deanna. Alzò il cuscino e lo strinse fra le dita. Lo annusò. Come se si
stesse chiedendo se si potesse mangiare. Tentò di sollevare la sedia con una mano. Era d’ottone, non si mosse di un’unghia. L’uomo basso andò dalla parte opposta, Deanna lo perse di vista. Lo sentì toccare la tovaglia bianca di un tavolino
che teneva all’ingresso per le chiavi e i fiori. Un crepitio di piccole ossa. Erano
proprio i fiori secchi dentro il vaso di vetro.
Li stava masticando.
Deanna si agitò sul gradino. L’uomo alto si voltò subito. La vide a pochi passi,
in alto sulla scala. Si avventò verso di lei lasciando cadere il cuscino. Fra le sbarre
del corrimano apparve anche la faccia grigia dell’altro. Deanna tentò di tirarsi indietro ma raspò con il tacco sul marmo. L’uomo sulla scala si gettò sui gradini.
Le sue mani la mancarono di una luce. Altre dita si intrufolarono fra le barre e le
arpionarono la vestaglia imbottita. Deanna cacciò un urlo stridulo. Cercò di rialzarsi ma non ci riusciva. Vide l’uomo alto strisciare verso di lei, arrancando con il
mento sulla pietra. Lei alzò il piede e lo abbatté sulle mani di lui. Le nocche erano sul bordo dei gradini.
Si spezzarono seguendo il disegno della scarpa.
Fragili. Come carta rinsecchita. L’intera mano si sbriciolò. L’uomo non la tirò
indietro. La fissò e basta. Come se non avesse sentito nulla. Le dita dell’altro
svanirono. L’uomo basso raggiunse il suo compagno e gli tirò una gamba. Squadrò Deanna tenendosi chino indietro, contro la parete.
Le gambe ripresero vita. Deanna salì stando seduta, senza dare le spalle ai due
relitti. Vide l’uomo alto tentare ancora di alzare un braccio, le dita che penzolavano miseramente sul polso. Aveva lividi neri che salivano sotto le maniche lacere della giubba. Le guance cascanti. Stava morendo di fame.
Il suo amico lo afferrò ai piedi e prese a tirare debolmente verso la porta.
Deanna era già arrivata alla curva della scala, quando sentì la testa di quello alto
sbatacchiare sui gradini. Le venne da vomitare. L’uomo che lo stava tirando lentamente sorrise maligno.
Deanna scappò urlando verso il fondo della casa e si rifugiò nel salotto. Chiuse
la porta e ci addossò davanti la poltrona. Sentì arrivare i vecchi domestici dalle
cantine.
Scacciarono i due mentecatti senza gridare, spingendoli fuori con amara determinazione.
***
«Avevi detto che non sembrava tanto distante.»
«Probabilmente mi sbagliavo…» rispose Saiden. Mordraud sibilò contrariato.
Camminavano da settimane nella neve alta fino alla cinta. Avanzavano poco alla
414
volta, in una straziante fatica continua. Gwern ciondolava a fianco del fratello,
spesso aveva bisogno di una mano per superare un’onda bianca accumulata dal
vento sulla piana. Il cielo era nerastro, il resto del mondo specchiava la pallida
luce grigia in una bruma privata di ogni colore. Mordraud si portava di continuo
la mano al petto. L’ustione dei dardi verdi gli pulsava sotto pelle, come una malattia che lo stava consumando dentro.
«Ce la fai a continuare, Gwern?»
«Io sì…» ansimò lui mentre si faceva largo fra la neve navigando con le braccia. Sotto era dura come pietra, sopra invece era soffice e spumosa. Avevano tutti gli abiti umidi, e il freddo era qualcosa di mostruoso. La pianura era sempre
uguale, quando si imbattevano in una macchia di alberi quasi non riuscivano a
notarla. La legna era marcita e sbriciolata dal gelo. Non incontravano un animale
errante da molti giorni. Stavano consumando ancora gli ultimi bocconi di carne
che Mordraud aveva ricavato da una lince. Dura, insipida, stopposa. Cotta solo
per evitare il rischio che marcisse. «Non è stata una buona idea» esclamò contrariato a Gwern.
«Cosa?»
«La carne… con il freddo che fa, potevamo anche tenerla cruda.»
«Non sarebbe cambiato niente» concluse tetro Gwern. «Tanto non credo di
sentire più i sapori di nulla da un pezzo.»
«Larois fa ancora il solito stufato?»
La domanda di Mordraud spiazzò Gwern. Avevano parlato tantissimo durante
la lunga camminata, ma lui tendeva meticolosamente a evitare di chiedere qualche novità da casa. Gwern sorrise. Per quanto Mordraud avesse desiderato partire per il Terrapieno, in fondo gli mancava un po’ la vita del feudo.
E di qualcuno di speciale che ci abitava.
Gwern si morse la lingua per non chiedergli di Deanna. Voleva credere che
non fosse successo nulla, tradire Adraman sarebbe stata una mossa disgraziatamente folle da parte sua. Ma sospettava che la sua fosse soltanto una vana speranza. Sentiva che suo fratello chiedeva di casa solo perché non poteva invece
parlare di qualcosa di più importante per lui. Qualcosa di proibito.
«Non lo so, dovresti dirmelo tu» rispose Gwern. «Sono lontano da Eld come
te. Non so come stia Larois…»
Mordraud si rabbuiò e imprecò spazzando la neve con le falcate dei suoi passi.
«Starà benissimo. Se la cava sempre, la vecchiaccia…»
«Non chiamarla così, è bruttissimo» rispose infastidito Gwern.
«Sono sicuro che a Eld c’è qualcuno che si prende cura anche di lei. L’ultima
volta che sono passato, la gente del paese era unita più che mai» continuò
Mordraud addolcendo il tono. In fondo, Larois non gli aveva mai fatto nulla di
male. Anzi, tutto quello che aveva ottenuto dalla vita, era merito suo. Li aveva
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accolti in casa sua e aveva dato loro un lavoro. Grazie a lei aveva conosciuto
Adraman.
E Deanna.
Quella era l’unica sua colpa, pensò tristemente.
«Hai già un piano?» gli chiese Gwern aggrappandosi alla sua mano per tirarsi
avanti fra la neve. Non sentiva più i piedi. Rischiava continuamente di cadere.
“Perché ho accettato di dargli una mano?!” pensò Gwern allibito dalla propria
idiozia. Uno come lui in quel viaggio non aveva alcuna utilità. Era soltanto un
peso. Eppure, prima ancora di sapere che Saiden avrebbe dato loro un aiuto prezioso, si era già offerto con slancio di aiutare suo fratello.
Avevano bisogno assolutamente di un piano.
«Più o meno…» borbottò perplesso Mordraud. Si era fatto spiegare dal fratello
un esempio di come potesse funzionare tutta la faccenda del canto, delle armonie
e delle risonanze, ma in realtà aveva capito poco e male. Sapeva solo che dovevano imbattersi in una sorta di coro nascosto da qualche parte. E che per fermare gli effetti dei loro canti, doveva trovare un modo per ucciderne i membri. Non
sapeva se tutti o anche uno soltanto. A differenza del solito, Mordraud sperò che
fosse sufficiente eliminarne un paio. I cantori lo terrorizzavano. Non li capiva.
Erano mortalmente pericolosi perché lui non sapeva come affrontarli.
«Forse dovremmo confrontarci con Saiden. Se lui ha accettato di venire con
noi, magari ha già in mente cosa fare.»
«Non ora» rispose Mordraud. Non sapeva ancora quanto poteva fidarsi di
quell’uomo. Ma era prontissimo a cambiare idea se avesse visto con i suoi occhi
Saiden attaccare un uomo dell’impero. Scommise con se stesso di potercela fare
da solo. Il maestro di suo fratello non parlava quasi mai con loro, e passava tutto
il tempo a fissarli con occhi indecifrabili.
Mordraud si tastò di nuovo il petto. Faceva un male insopportabile. Si chiese
quante persone sarebbe stato in grado di eliminare, in quelle condizioni. Poche,
pensò frustrato. Quella maledetta ferita lo rendeva lento e debole. Se avessero
incontrato delle guardie armate, cosa che temeva sin da quando erano partiti, sarebbero state compito suo. Si chiese se fosse in grado di farcela.
«Aspetto solo che il tuo maestro si dia una mossa» bisbigliò Mordraud. «Ma
non vuole dirci già adesso dove si stanno nascondendo i cantori. Sarebbe molto
più semplice.»
«Ce la faremo, vedrai» esclamò Gwern tirandogli il braccio. Mordraud si voltò
verso di lui. Era piccolo e grande allo stesso tempo. L’aspetto di un ragazzino, lo
sguardo che nascondeva pensieri di una profondità che lo colpirono. Non parlava con lui da tanti mesi. Erano successe molte cose da quando vivevano insieme
in casa di Larois. La vita di Mordraud era totalmente cambiata. Ma anche la sua.
Aveva uno scopo, ora. Sviscerare la magnifica complessità delle armonie.
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Mordraud invidiò suo fratello, libero dalle catene della vendetta che invece imbrigliavano lui, in una folle strada di violenza e di cadaveri sbudellati sul crinale
del Terrapieno.
Tutto, per inseguire la speranza di confrontarsi almeno una volta con
Dunwich.
Gwern non ricordava quasi nulla del loro fratello maggiore. Mordraud tossì affannosamente. Era contento che quel peso fosse solo suo.
Era felice che Gwern stesse trovando una strada tutta sua.
«Saiden, continuiamo fino a notte o ci fermiamo?» chiese al maestro davanti a
loro. Lui non rispose, né accennò a rallentare.
«Mi sentite? Saiden?»
Lui si fermò e si voltò per fissarlo interdetto. Sembrava che fosse appena riemerso da un lungo pensiero angoscioso.
«No, procediamo. Non conviene perdere altro tempo.»
Saiden squadrò Gwern, poi Mordraud. Sorrise nervosamente, più freddo e cinico del solito. C’era qualcosa che non andava, pensò mentre osservava i due fratelli parlarsi sottovoce. Non riusciva a capire cosa stesse succedendo.
I contatti di Flusso fra i due fratelli non progredivano in qualcosa di più comprensibile.
“Non credo che otterrò molto di più, per ora…” pensò Saiden.
Riprese a camminare indispettito. Il fenomeno che aveva osservato durante i
primi giorni di viaggio non era mutato in qualcos’altro. Saiden lo aveva sperato,
senza successo. I fili di luce continuavano a uscire da Gwern per entrare in contatto con Mordraud. Non aveva notato conseguenze particolari. Gwern tentava
di impossessarsi di parte della vitalità di suo fratello, ma a quanto pareva, senza
riuscirci. Saiden era giunto alla conclusione che lui non ne fosse nemmeno cosciente, e che fosse il Flusso stesso ad agire di sua iniziativa. Incomprensibile,
pensò. Individuò all’orizzonte l’immensa colonna di luce che scaturiva dal punto
in cui i cantori di Cambria stavano imbastendo Lungo Inverno. Per lui, era impossibile non vederla. Per i Khartian come loro invece, il canto impressionante
dell’impero sarebbe stato assolutamente impossibile da individuare. Era fattibile
entrare in risonanza con esso, ma i ribelli non disponevano di alcun maestro
d’armonia in grado di farcela.
“Sto facendo a loro un grosso favore. Se solo sapessero che si tratta solo di un
effetto collaterale…” pensò sorridendo fra sé.
Lui voleva capire cos’avesse di tanto speciale il Flusso di Gwern, e il motivo
per cui Mordraud invece sembrava esserne apparentemente privo. Che era qualcosa di inconcepibile, si disse scuotendo debolmente la testa. Ogni essere o cosa
al mondo era composta, costruita dal Flusso. Era la struttura portante della realtà. Non poteva non esistere.
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“Deve pur esserci una spiegazione. Mordraud ha un corpo e vive, deve avere
dentro di sé un telaio di Flusso. Qualcosa, almeno… cos’hanno di tanto strano
questi due Khartian?”
Saiden voleva saperne di più. Sarebbe stato semplice da parte sua considerare
quel fenomeno assurdo con una causa romantica, sentimentale. Erano fratelli,
quello era il loro legame. “Puttanate” pensò stizzito. “Non c’entra niente
l’affetto. Il Flusso è sempre Flusso, non prova emozioni… vuole soltanto mangiare, per mantenere in vita il suo involucro… mai visto o sentito nulla di simile.”
Molti Aelian mantenevano ancora una discreta conoscenza dei meccanismi del
Flusso. Lui forse era uno dei migliori in vita, insieme a Cambiryon, l’Aelian più
influente di tutte le comunità sparse nel continente. Avrebbe dovuto chiedere a
lui, ma non era semplice rintracciarlo. Passava molto tempo fra i Khartian, e lui
non aveva modo di aspettarlo chissà dove per anni finché non si fosse fatto vivo
fra la sua gente. Un peccato, si disse. Lui avrebbe potuto aiutarlo a risolvere quel
mistero.
“Inoltre, anche volendo, con un tempo così infame sarebbe pericoloso anche
per me viaggiare troppo lontano… in fondo, è un bene che quest’inverno finisca.
Per quanto sia ammirevole… una raffinata dimostrazione di potenza.”
Ormai erano vicini. Avevano perso molti giorni per colpa della neve, in linea
d’aria non erano andati tanto lontani. Mordraud e Gwern non potevano rendersene conto, ma Saiden sapeva che la colonna di luce che identificava il covo dei
cantori era quasi alla portata. Lui riusciva anche a vedere il punto in cui Lungo
Inverno interrompeva la risonanza con il mondo, un paio di notti e sarebbero
giunti in territorio imperiale. Doveva escogitare qualcosa che desse una svolta al
suo studio del Flusso di Gwern. Voleva scoprire cosa legasse quei due, era ormai
una faccenda prioritaria. Era un’occasione unica per scendere ancora più in profondità nella comprensione del Flusso, della sua origine, del sottile legame che lo
univa alla vita e alle decisioni di ogni essere vivente.
Aveva bisogno del giusto stimolo.
“Fermare i cantori non è un problema… per me” pensò, mentre distrattamente continuava ad ascoltare le confessioni che i due fratelli si scambiavano a bassa
voce. “Però non posso dire lo stesso per Mordraud.”
Doveva dare una spintarella a Gwern. Per scoprire di cosa potesse essere capace il suo Flusso. Avrebbe palesato la sua vera forza, se suo fratello si fosse trovato in pericolo?
“O magari… in punto di morte…” si chiese sfilando dietro i due ragazzi, per
continuare a fissarli indisturbato alle loro spalle.
***
418
«Non ne posso più di questa pioggia.»
Dunwich era seduto fuori dalla porta di casa sua, sui gradini. Aveva perso le
chiavi dell’ingresso e il domestico aveva già chiuso con il chiavistello la porta sul
retro. Stava aspettando che succedesse qualcosa. Non sapeva cosa. Che sorgesse
il sole malato, dietro nubi che vomitavano acqua da quando era tornato dal fronte. Che ci fosse un altro accoltellamento all’angolo dall’altra parte della strada. Il
terzo, o il quarto. L’ultimo non era sicuro che si fosse trattato di una rapina. Forse uno stupro. Non aveva perso molto tempo a informarsi.
Cambria era in uno stato pietoso. Come se la pioggia avesse fatto ammuffire le
persone.
«Prima o poi, qualcuno mi aprirà.»
Non aveva fretta di entrare in casa. Tanto, dentro non aveva niente di meglio
da fare. Stava solo aspettando che lo riconvocassero. La ferita stava cicatrizzando
bene, si sentiva piuttosto in forma. Non vedeva l’ora di muoversi. Il guaritore
aveva detto che il taglio era davvero netto, senza traccia di infezione. Non aveva
mai visto una ferita del genere prima, quando curava i soldati di ritorno dalle battaglie.
«Che fortuna…»
Parlava da solo. Era ridicolo che lo facesse, ma a volte non riusciva a smetterla.
Si annoiava incredibilmente a vivere in città. Il tempo infame aveva completamente annichilito i mercati rionali, i teatri all’aperto, i musici e le passeggiate al
parco. L’erba era zuppa come lana cardata. I tetti tracimavano di rivoli d’acqua
grigia. Se quelli erano solo effetti secondari di Lungo Inverno, Dunwich si chiese
come fosse viverci dentro. Un incubo orrendo che lui aveva contribuito a creare,
anche se partendo da un’idea completamente diversa.
«Non che sarebbe stata tanto meglio per Eldain… se avessero fatto come dicevo io, a quest’ora avremmo già vinto.»
Invece, quei maledetti dell’Arcana si erano imboscati ai confini di Cambria e
avevano imbastito il canto. Era stato più semplice del previsto, Dunwich se ne
stupì. Aveva confidato che perdessero più tempo per svilupparlo, invece erano
stati molto efficienti. Pochi mesi di clausura, mentre gli uomini dell’impero tracciavano i confini sulle mappe che loro avrebbero usato per definire lo spazio da
portare in risonanza. Lui sapeva dove fossero, era una proprietà dell’Arcana a
Est della capitale, sulla direttiva per il Terrapieno. L’aveva anche visitata un paio
di volte quando era un ragazzo, con Seneo. Una tenuta agricola molto raffinata,
con vigneti antichi e una produzione di olio di qualità superiore. In tempi migliori era usata dai maestri per rilassarsi in vacanza. Era stata abbandonata qualche
anno prima. Il fronte era troppo vicino, nessuno osava recarsi fin laggiù senza
419
scorte molto costose. Avevano chiuso lì i migliori cantori della capitale, che avevano lavorato insieme agli esperti di armonie e si erano esercitati.
Un risultato meravigliosamente distruttivo.
Un coro era un’entità con una voce del tutto particolare. Era composta da
molte risonanze, tese ognuna verso la propria perfezione. Dall’insieme che si
creava, nasceva un’armonia totalmente nuova, capace di entrare a sua volta in
risonanza con una forza incommensurabilmente maggiore. Se ogni risonanza
con il mondo era tesa verso il freddo, verso la forma spumosa di una nube covata e plasmata dalla concentrazione del cantore, allora il risultato finale era che il
cielo stesso si copriva, i venti mutavano, il caldo si dissolveva in un gelo innaturale.
Un coro che sarebbe di certo passato alla storia, pensò Dunwich borbottando
al buio del cortile. Lui non era stato invitato a parteciparvi, in parte ne era sollevato. Anche se non capiva come mai non l’avessero fatto. Dopotutto, era stato
lui a suggerirne l’ipotesi. Probabilmente Asaeld si era messo di traverso, si disse.
Per non perdere il suo uomo migliore. Un gesto che non sapeva se apprezzare o
meno.
«Tutto bene?»
Dunwich alzò di scatto la testa. Era buio e silenzioso in strada. Si stiracchiò le
braccia e raggiunse il cancello. C’era un uomo fuori, oltre le inferriate. Indossava
una corazza delle Lance. Un ragazzo muscoloso e bonario. Non lo riconobbe al
volo. Si chiese però che ci facesse una Lancia fuori da casa sua, a quell’ora, da
sola.
«Dunwich, non mi saluti nemmeno?!»
La voce gli ricordava qualcuno. Denor, pensò stupito. Quel ragazzo che stava
studiando all’epoca in cui lui viveva con Seneo. Girava con Lisea e un ragazzo di
cui gli sfuggiva il nome.
Lasciò perdere il dubbio iniziale e aprì il cancello.
«Denor, è molto che non ti vedo.»
«Certo, siamo in due mondi diversi ormai» rispose lui sorridendogli e stringendogli la mano. «Hai fatto carriera… so tutto di te. Sei una celebrità!»
«Sto avendo le mie soddisfazioni, niente da dire.»
«Non sembrerebbe, da come parli.»
Dunwich indicò il fianco dove era stato ferito. «Sono lontano dal Terrapieno,
mi hanno ferito in battaglia. Non mi piace particolarmente stare qui.»
«C’è chi farebbe all’istante il cambio, credo tu lo sappia… anch’io lo farei volentieri» rispose Denor mollando la poderosa stretta di mano.
«Sei di stanza al Terrapieno?» esclamò stupito Dunwich. «Non ti ho mai visto.»
«Sono agli approvvigionamenti, tu negli incursori» rispose prontamente Denor.
«Raccontami come te la passi, vivi ancora con Lisea?»
420
Denor si rabbuiò e guardò altrove.
«No. C’è stato… un incidente.»
«Di che tipo?» chiese distrattamente Dunwich. Stava cercando di ricordare il
suo viso. Pazzesco come avesse tagliato i ponti con la sua adolescenza a Cambria, si disse dispiaciuto. Quel momento di debolezza lo irritò. Mentre era al Terrapieno aveva problemi ben più concreti da affrontare.
«Qualcosa di grave…» sibilò Denor «non mi piace molto parlarne. Tu invece?
Pensavo che ti avrebbero fatto partecipare al canto di Lungo Inverno.»
«No, sono stato escluso» rispose imbarazzato Dunwich. Si chiese cosa fosse
successo a Lisea, ma evitò di tornare sull’argomento. «I cantori dell’Arcana stanno facendo tutto da soli.»
«Escludere un esecutore come te, beh… un gesto insano.»
«In realtà non mi dispiace particolarmente, non sono un grande estimatore di
quello che stanno facendo…»
Non erano argomenti da portare avanti ad alta voce, pensò Dunwich. Ma stava
parlando con un’altra Lancia, per giunta sottoposta. Denor era un vecchio amico,
e non gli era mai parso un uomo malizioso. «Lungo Inverno sta facendo danni
gravi anche da noi. Non era stato previsto, direi.»
«Forse hanno scelto un posto sbagliato per allestire il coro, magari le risonanze
non si manifestano sufficientemente vicino ai territori di Eldain…» propose Denor. Dunwich negò dubbiosamente. «Non direi, la residenza estiva dell’Arcana è
a due passi dai confini del Terrapieno… dev’essere qualcos’altro.»
«Nella villa abbandonata? Non credevo che venisse ancora utilizzata» esclamò
Denor fissando Dunwich.
«Il posto è buono, anch’io avrei scelto quello» rispose lui schioccando le labbra
mentre pensava a cosa stesse andando storto. Forse l’area da portare in risonanza
era talmente elevata da non sortire il massimo effetto sperato. «Ho sempre detto
ad Asaeld che il modo migliore per aggredire il Terrapieno sarebbe stato un attacco decisamente più mirato. Con Lance e cantori insieme.»
«Mh, sì…» mormorò Denor. «Probabilmente hai ragione, Asaeld cosa ne pensa?»
«Appoggia Lungo Inverno, anche se non è altrettanto accondiscendente con i
piani strategici che ci giungono dal circolo dell’Imperatore. Ma che si può dire,
questi sono gli ordini.»
«Non c’è dubbio» concluse Denor stringendogli ancora la mano. «È stato un
piacere incontrarti di nuovo, Dunwich. Ora torno in caserma. Parlare con te mi
ha sollevato il cuore…»
«Anche a me ha fatto piacere…» rispose Dunwich spiazzato dallo slancio della
giovane Lancia. Si salutarono e Denor se ne andò a passo molto svelto.
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Dunwich stava pensando a quel fortuito incontro nella notte, quando sentì
scattare il chiavistello della porta. Qualcuno in casa si era svegliato per iniziare a
lavorare. Abbandonò il cortile e bussò, lanciando di tanto in tanto un’occhiata
alla strada deserta alle sue spalle.
422
XXVII
Asaeld aspettava in piedi di fronte allo scranno dell’Imperatore. Loralon stava
confabulando con un messaggero. Diede un’occhiata fuori dalla grande vetrata
che dava sui tetti della città vecchia. Era tutta la mattina che non pioveva. Un
evento raro. Unico, in tutti quei mesi di tormenta.
«Vorrei buone notizie dal fronte, comandante.»
«Ne porto, signore» rispose Asaeld con un breve inchino. Il messaggero corse
via. Loralon si alzò e si avvicinò a lui. Erano alti uguale, ma l’Imperatore sembrava meno della metà di lui. Magrissimo, il collo lungo e sottile, il mento affilato
quanto il naso. Asaeld sorrise con fare accondiscendente. Negli occhi, un gelo
che nemmeno Lungo Inverno poteva uguagliare.
«Dimmi allora, fammi felice.»
«Abbiamo condotto un attacco all’interno del Terrapieno, riportando un successo clamoroso.»
«Ottimo!» esclamò Loralon. Si accostò al lungo tavolo dove era distesa la cartina dei confini imperiali, e puntellò il dito sul Terrapieno.
«Quanto siamo penetrati? Abbiamo conquistato qualche roccaforte?»
«No, siamo di nuovo arretrati.»
«Stai scherzando, vero?» Loralon picchiò il dito furiosamente sul piccolo simbolo della muraglia ribelle. «Abbiamo vinto, ma siamo tornati indietro?!»
«Esatto. Fa tutto parte della nostra strategia di vittoria, signore» rispose Asaeld
senza scomporsi. «Abbiamo devastato le loro strutture, ormai sono spacciati.
Dobbiamo solo aspettare ancora qualche mese.»
«Non possiamo aspettare più!» gridò indignato Loralon. La fronte era curiosamente impallidita, in contrasto con le guance scavate e venate di rosso.
423
«Il popolo è in rivolta. I magazzini sono vuoti e i campi sono ormai inutilizzabili. Dobbiamo farla finita con Lungo Inverno e attaccare direttamente, è un ordine.»
«Vedete, mio signore…» Asaeld si avvicinò all’Imperatore e, con fare umile ma
risoluto, gli indicò sulla mappa la linea che segnava l’estensione del Terrapieno.
«Stiamo già lavorando per un attacco. Ma ci vuole tempo a spostare le truppe nei
posti giusti. Qui, qui… e qui…» Asaeld gli mostrò punti sulla linea che non richiamavano a nulla di segnalato. L’Imperatore faticava a seguire le indicazioni di
Asaeld, tanto erano frettolose.
«Sono i punti in cui sto accentrando le nostre forze. Dopodiché, passando di
lì…»
In una svirgolata, Asaeld tracciò un arco che tagliava a metà il Terrapieno. Fu
un gesto estremamente convincente. Un atto di forza e di sicurezza incrollabile.
«Passando in questo modo, conquisteremo non solo il Terrapieno, ma direttamente Eld. Lungo Inverno ci serve ancora, purtroppo… ma c’è solo da portare
un altro po’ di pazienza, signore.»
«Mi assicuri che siamo alla fine di tutto questo?! Che siamo pronti per vincere?!»
«Certamente. Nessun dubbio.»
Loralon si raddrizzò perplesso, tolse il dito dalla mappa e si incamminò verso
la finestra. Non solo non pioveva, il cielo si stava anche schiarendo. La luce attrasse l’Imperatore fino al vetro. Asaeld fece per andargli dietro, quando la porta
della sala si aprì di schianto. Entrarono due Lance estremamente trafelate. Asaeld
li fermò, mentre Loralon si voltava infastidito da quell’intromissione.
«Che succede?! Non potevate attendere un momento più opportuno?!» sibilò
infuriato Asaeld.
«Comandante, all’orizzonte...» ansimò uno dei due. «Abbiamo visto l’alba stamattina…»
«E allora?! Siete impazziti? Io vi faccio frustare a sangue, idioti…» mormorò
Asaeld.
Ma si fermò subito dopo. Non disse altro. Guardò l’Imperatore, che ciondolava perplesso in attesa di una spiegazione. Le due Lance continuavano a fissarlo
terrorizzate.
L’alba. Avevano visto il sole alzarsi a Est.
«Signore, devo subito partire. È un’emergenza.»
«Di cosa si tratta?! Voglio saperlo!» esclamò costernato Loralon. Asaeld si voltò verso di lui trattenendo un ghigno rabbioso.
«I ribelli di Eldain potrebbero aver individuato i nostri cantori.»
***
424
«Piove…»
Mordraud aprì la mano e sentì le pesanti gocce impattargli sulle spalle appesantite dalla brina. Guardò il cielo stupito. Il tempo era cambiato improvvisamente.
Poco prima stavano arrancando in una tormenta, e di colpo invece la temperatura si era alzata, e la neve si scioglieva prima di toccare terra. La pianura era macchiata a chiazze di bianco, ma si intravedevano isole di erba nera e marcia. Alle
loro spalle, l’Est era avvolto dalle sfuriate di Lungo Inverno. Davanti a loro invece il tempo era cambiato.
Erano entrati nei territori di Cambria.
«Quanto manca?!»
Saiden guardò l’orizzonte e ciondolò il capo.
«Mezza giornata a piedi.»
«Soltanto?!»
«Sì, il coro non si è disposto molto distante dalla zona tracciata dal canto.»
«Ma lo sai perché riesci a sentirlo?!» gli chiese Mordraud. Il clima più mite, per
quanto orrido fosse, gli aveva rallegrato l’umore. Gwern era al suo fianco, assorto nel tentativo di ascoltare qualcosa che non c’era nell’aria gonfia di pioggia.
«È un insieme di cose» rispose Saiden. «Hai trovato la concentrazione giusta,
Gwern? Ormai siamo vicini. Dovrebbe esserti più semplice.»
«No, maledizione! Non sento ancora niente! Non riesco a entrare nel giusto
stato d’animo, non so cosa cercare…»
Saiden, invece che rimproverarlo, sorrise brevemente. Come se fosse già certo
che lui non potesse farcela. Ma subito dopo gli diede una pacca sulle spalle per
fargli coraggio. «Anche se non ce la farai, vedrai che ti sarà stato tremendamente
utile provarci. Ne sono certo.»
«Se lo dite voi, maestro…»
«D’ora in poi tieniti pronto, Mordraud» gli disse Saiden. Lui portò la mano
all’elsa e si guardò intorno deglutendo preoccupato. Era giunto il momento di
vedere se era ancora in grado di combattere. «Spiegaci cosa dobbiamo fare.»
«Quando saremo lì, lo valuteremo. Non sappiamo dove si nascondono. Io riesco a vedere solo il punto.»
Saiden non se ne accorse, ma Gwern inclinò sorpreso la testa. Vedere, pensò
lui. Non aveva detto sentire. Lui pensava che fosse necessario entrare in risonanza
con il canto dell’inverno, invece forse c’era altro che il maestro non gli aveva mai
detto.
Ripresero a camminare spediti, con Mordraud che si teneva in testa spada alla
mano, e spalle chine. Ma quando la neve svanì del tutto, lasciando spazio alla
strada lastricata e ai campi abbandonati, Mordraud si fermò pensieroso.
425
«Forse è meglio aspettare che sia sera, così raggiungeremo i cantori a notte
fonda» propose facendo due conti veloci con le dita. «Siamo troppo visibili qui,
in piena luce.»
«Un’ottima idea, Mordraud» annuì Saiden. «Nascondiamoci finché siamo ancora lontani. Copriremo l’ultimo tratto con le tenebre.»
Si fermarono nei pressi di una conca ai lati della strada. Non accesero il fuoco.
Non volevano farsi notare a distanza, e anche se avessero voluto farlo, non c’era
legna secca da nessuna parte. Era tutto fradicio e cadente. «Sembra che l’inverno
stia dando dei bei problemi anche a loro…» sogghignò Mordraud. «Più di quelli
che sperassi.»
Passarono qualche ora a sonnecchiare tormentati dalla pioggia. Saiden finse solo di appisolarsi, troppo concentrato a tenere d’occhio i comportamenti del Flusso di Gwern. Anche mentre lui dormiva, la luce non si fermava mai. Cercava
sempre di legarsi con il fratello. Mordraud non si accorgeva di nulla. Era inquietante vedere la sua sagoma perfettamente vuota di Flusso, come un ritaglio nel
telaio di luce che, agli occhi di Saiden, delineava il paesaggio e l’orizzonte. Fra
poco, pensò, sarebbero arrivati all’obbiettivo di quel viaggio. Aveva già pensato a
cosa fare. Voleva sfruttare l’occasione per spingere Gwern a mostrargli di più.
“Quante guardie ci saranno? Devo comunque tornare indietro insieme a
Gwern, incolume… meglio essere pronti a ritirarsi insieme a lui.”
In fondo, non era assolutamente necessario che Lungo Inverno finisse. Era più
importante scatenare la reazione di Gwern. Non doveva essere particolarmente
difficile.
Era sufficiente cacciare quei due in un pericolo mortale.
“Devo stare attento a tenermi una via di fuga.”
Ripartirono al momento stabilito. L’ultimo tratto di viaggio fu comodo e semplice, rispetto all’incubo di neve che avevano oltrepassato. La notte era buia e
impenetrabile. Avanzarono sulla strada finché Saiden non ordinò loro di imboccare un sentierino defilato fra macchie di rovi e un canneto tagliato da un ruscello straripante. La colonna di Flusso che rappresentava il punto da cui agiva il coro, era finemente intrecciata. Ai suoi occhi, abbagliava quanto una colata fusa di
stelle. Loro non vedevano niente. Gwern stava ancora tentando di trovare la cantilena giusta per entrare in risonanza con la fonte di Lungo Inverno. Era meglio
che tentasse a vuoto, si disse Saiden. Finché non sapeva cosa davvero si trovasse
davanti, preferiva che quel piccolo mistero ambulante non diventasse troppo potente. Anche Mordraud gli interessava molto, ma doveva darsi delle priorità, e
Gwern rappresentava una forma di Flusso un po’ meno impossibile. A qualcosa
doveva pur rinunciare, pensò, per progredire nell’osservazione.
Dopo una breve camminata lungo il sentiero, raggiunsero uno spiazzo su cui,
in fondo, si ergeva la muraglia di una proprietà terriera.
426
«Nascondiamoci e vediamo se è presidiata da qualcuno.»
«Sono nascosti qui?!» chiese Mordraud stringendo nervosamente l’elsa della
spada infoderata.
«Sì, dentro quella villa.»
Mordraud scambiò uno sguardo con Gwern. Lui alzò le spalle. Non aveva ancora sentito né visto niente. Si chiese se potesse fidarsi solo delle parole di Saiden. E se fosse stata una trappola, si domandò preoccupato. Forse non sarebbe
riuscito a proteggere Gwern. Meglio lasciarlo fuori, si disse.
«Non ci pensare neanche. Entro anch’io.»
«Non è uno scherzo, Gwern» ribadì Mordraud sibilando. «Tu resti fuori.»
Erano sdraiati in terra. Mordraud cercò di dare un’occhiata alle basse mura della villa. Nessuna guardia in vista. Notò però delle feritoie. Erano certamente presidiate. Vide Gwern alzarsi leggermente e rotolare a fianco di Saiden, ma lui lo
bloccò all’istante.
«Sta giù, maledizione!»
«Maestro, riuscite a sentire la risonanza lì dentro?» chiese ansiosamente Gwern
a Saiden. Era buio, aveva preso a cadere una pioggia molto fine. Diversa dalla
solita colata d’acqua martellante. La villa era immersa in un silenzio fradicio.
«Sì…» mormorò lui perplesso.
«Provo ad avvicinarmi…» esclamò Mordraud. Fece per alzarsi, ma Saiden lo
fermò. «Aspetta. Aspetta un attimo…» sussurrò.
Mordraud si gettò di nuovo in terra imprecando. Dovevano fare qualcosa.
Non potevano restarsene lì fermi fino all’alba. Oltre quelle feritoie, Mordraud
avvertiva la presenza di minacciose guardie imperiali. Lui era solo. Avevano puntato tutto su Saiden, che sapesse cosa fare per interrompere il canto di Lungo
Inverno.
Aveva sperato fino all’ultimo di non dover rischiare la pelle da solo.
Fece un cenno a Gwern di restare tranquillo. Avrebbe escogitato qualcosa per
tenerlo fuori dai guai.
Doveva provare a entrare da solo, per distrarre le guardie. Forse in quel modo
Saiden sarebbe potuto intervenire.
«Vado.»
«No Mordraud, aspetta qui!» esclamò angosciato Gwern. «Sentiamo cosa vuole
fare il maestro…»
I due fratelli si voltarono verso Saiden. Non si erano accorti che si era alzato.
Stava velocemente camminando verso il muro. Le mani riposte placidamente in
tasca.
«Sta per fare qualcosa!» sbottò Mordraud. Spinse la testa di Gwern nel fango e
si acquattò al suo fianco. «Resta giù!»
427
Suo fratello mugolò qualcosa con la bocca piantata nella terra. Mordraud socchiuse gli occhi in attesa del canto. Aveva visto il potere delle armonie in battaglia, ne era assolutamente terrorizzato. Si aspettava da un momento all’altro il
boato, e il lampo di fiamme dalle mani di Saiden.
Il maestro raggiunse la porta chiusa sulle mura, in silenzio. La spinse senza fatica. Non stava cantando assolutamente niente.
Si stava consegnando.
«NO!»
***
Nector sfilò una chiave dalla tasca del giaccone di pelliccia, la lucidò sulla manica e aprì la grossa serratura di bronzo. Con la mano guantata di pelle nera,
spinse la porta ed entrò nell’immenso salone. Fu travolto dalla pienezza del coro.
Un pastone di voci che si muovevano in un ritmo perenne, vagamente ossessivo
e tragico. Non era una bella melodia. Era estrema, troppo schiacciata verso i bassi, senza una linea solista che ogni tanto interrompesse la sua monotonia. Nector
si accostò alla parete e si sedette su una delle tante panche che definivano il perimetro del salone. Appoggiò la schiena sull’enorme lastra di lana compressa. Era
stata attaccata alle pareti di pietra attraverso complicati cunei di legno. Il tetto
della sala era stato foderato allo stesso modo. Il pavimento era stato rifatto con
assi di ulivo spesse un palmo.
Dall’esterno, nessuno poteva sentire il coro cantare. E per gli esecutori, era
molto più semplice restare intonati e a tempo in un ambiente ovattato al punto
giusto. Il pavimento in legno esaltava la profondità dei bassi, la lana attutiva il
riverbero. Perfetto, pensò Nector. Era un fottuto coro perfetto.
Sebbene l’idea fosse stata espressa da Dunwich, l’Arcana già lavorava da tempo
a migliorare l’efficacia delle armonie in guerra. Nector e altri maestri erano stati
incaricati dall’Imperatore di trovare nuove soluzioni tattiche, e loro avevano
concentrato i loro sforzi sulla necessità di colpire i ribelli da distanze maggiori. Se
fossero riusciti nel loro intento, Cambria avrebbe potuto attaccare Eld cantando
da casa propria. Un piano ambizioso, che aveva portato qualche risultato interessante. Ma quando Dunwich aveva espresso il suo pensiero all’assemblea generale, era stato Asaeld a far comprendere ai cantori il valore di quell’opportunità. Ed
era stato sempre lui a consigliar loro di puntare sull’inverno. Era poco risaputo,
ma il comandante delle Lance era un raffinatissimo conoscitore dell’armonia. Era
anche uno dei pochi a saper come usare le risonanze per comunicare silenziosamente. Sapeva come portare i propri pensieri in sintonia con le menti intorno a
lui. Un potere generato da armonie che solo lui conosceva, e di cui custodiva gelosamente le composizioni. Aveva contattato il Gran Maestro Raelin e gli aveva
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spiegato tutto. Lui aveva poi riferito ai suoi fedelissimi, fra cui Nector. Uno degli
anziani più esperti dell’Arcana.
Se Asaeld in persona non avesse collaborato con loro, non sarebbero mai riusciti a sviluppare Lungo Inverno in tempi tanto stretti. Nector sorrise battendo
debolmente il piede a tempo con il coro. Quella era un’occasione d’oro per legare indissolubilmente le fortune dell’impero con la scuola dell’Arcana.
I maestri cantori avevano sviluppato un insieme di melodie che potevano plasmare il tempo, e concentrarne gli effetti soltanto in una determinata zona. Un
canto che ridefiniva completamente la scienza delle armonie. La storia era cambiata in modo radicale, dopo che Nector e i suoi avevano dato il via a Lungo Inverno. Era un nuovo punto secolare.
Nector si alzò eccitato e raggiunse di nuovo la porta. Diede un’occhiata al coro
e salutò i colleghi con un cenno. Qualcuno rispose. A breve c’era il cambio turno. In tutto, gli esecutori erano trenta. Dieci per linea di toni. Ogni ora, altri
quindici cantori si univano al gruppo, e contemporaneamente quindici smettevano di cantare per potersi riposare. Un meccanismo che andava avanti da mesi,
ora dopo ora, giorno dopo giorno. Per riuscire a mantenere perfettamente inalterato il canto primordiale, era necessario che molte squadre fossero sempre pronte e riposate.
In tutto, la grande villa di campagna ospitava un centinaio di esperti cantori.
Nector si diresse verso le cucine. Voleva vedere che fosse tutto a posto. Sebbene l’inverno iniziasse a un giorno di distanza da lì, il freddo era comunque notevole e le piogge battevano insistenti. Per mantenere tutto in sincronia era necessario uno sforzo organizzativo non da poco. Nector passò vicino a una delle
finestre che davano sul cortile. Si fermò per controllare. Fuori, il prato era marcito e invaso di erbacce. I muri erano stati ripristinati, ma erano anche stati invecchiati con polvere e calcinacci gettati a mascherare gli interventi. La villa era stata
lasciata mezza diroccata. I camini accesi erano pochi, e i fumi venivano dispersi
nel grande solaio che copriva l’intero tetto, per poi uscire da cannette più sottili.
Era un ottimo sistema per non farsi notare, ma era anche terribilmente pericoloso. Tre guardie avevano il compito di controllare che non si sviluppassero incendi, altre dieci erano di piantone fuori, per coprire tutte le feritoie che davano sulle campagne intorno.
Nector se ne andò soddisfatto. Aveva ricevuto l’incarico di gestire
l’operazione, e stava riuscendo alla grande nel suo lavoro. La vita era scomoda e
difficile, la villa era troppo piccola per contenere così tanti ospiti, ma tutto stava
filando liscio. Trenta soldati sempre pronti stazionavano nella rimessa esterna
per i carri, riadattata a caserma temporanea. Non molti, di certo non sufficienti
se i ribelli avessero attaccato. Ma Asaeld e Nector avevano puntato tutto sulla
segretezza del loro piano. Eldain non poteva sapere come funzionasse Lungo
429
Inverno, né da dove potesse scaturire. Se restavano defilati e ben nascosti in casa, i ribelli non avevano alcuna possibilità di trovarli.
“Ribelli…” ridacchiò fra sé Nector. “Ormai li chiamiamo semplicemente così,
ribelli… di cosa? Sono decenni che si combatte, ormai è diventata una fissazione
dell’impero. Potrebbero anche scendere a patti e via.”
La famiglia Loren aveva tentato di formare un impero che coprisse l’intero
Est, ma chiaramente non era riuscita nell’intento. L’espansione si era fermata
quando Eld aveva opposto più resistenza del previsto. Anche chiamarlo impero
era leggermente fuori luogo, pensò divertito Nector. Chissà le risate che si erano
fatti a Telatias, sui monti centrali, o a Calhann a Sud sull’incollatura. “L’impero
contro i ribelli. Sembra un romanzo da due ramette.”
La situazione era talmente sfuggita di mano da creare una magnifica mostruosità come Lungo Inverno. Ora, i vicini avevano sicuramente smesso di ridere, si
disse con cinico gusto.
“Un paio di mesi ancora e la congeliamo intera, quella misera baracca di Eld.”
E dopo, si chiese Nector. Cosa avrebbero potuto fare, dopo?
“Congeliamo il fiume Hann e strozziamo quelle merde di Calhann… faremo
gustare un po’ del nostro freddo anche al Sud.”
Era più probabile che si scendesse a patti, pensò Nector. I territori confinanti
con Cambria avrebbero colto l’antifona e, piuttosto che subire ciò che stavano
soffrendo i ribelli di Eldain, avrebbero trattato istantaneamente la resa.
Se non ci fosse stato quel fastidioso effetto collaterale della pioggia, Lungo Inverno sarebbe stato maledettamente perfetto.
“Dobbiamo trovare una soluzione in fretta.”
Loralon faceva molte pressioni in quella direzione, ma l’Arcana non sapeva ancora esattamente come fare. Avevano provato con altri canti, ma non avevano
ottenuto nulla di incoraggiante. I venti e le piogge che si generavano dal gelo di
Lungo Inverno sembravano ingovernabili con le armonie. O forse non avevano
ancora avuto il tempo necessario per trovare un modo, si disse convinto.
L’Imperatore doveva avere pazienza. Avrebbero superato anche quell’intoppo. Si
trattava solo di tenere duro, si disse. “Cosa vuoi che sia un po’ d’acqua… si lamentano per nulla. Popolino rompipalle.”
Nector passò in rassegna le cucine, il magazzino e la servitù pronta a una nuova sessione di pulizie. Tutto doveva essere perfetto, per non interferire con il
sottile equilibrio di concentrazione che il coro stava faticosamente sostenendo.
Mentre si trovava di fronte all’ingresso, sentì qualcuno bussare alla porta. Non
c’erano servi nei paraggi da chiamare. Si avvicinò per aprire di persona. Si fermò
solo per sentire l’eco soffocato del canto. Era tutto nella norma. Aprì la serratura
con un’altra chiave, e diede una sbirciata aprendo di un dito la porta.
Cinque Lance Imperiali. Non aspettavano visite, pensò.
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«Buonasera signori. Siete qui per recapitare un messaggio?» chiese Nector.
Non le riconobbe. Di solito, Asaeld mandava sempre le stesse Lance quando
doveva comunicargli qualcosa. Cinque facce nuove.
«Asaeld sta incontrando qualche difficoltà inaspettata al fronte. Ha dovuto
chiedere un appoggio a noi che siamo di stanza a Cambria» rispose il più giovane
e grosso di loro. «Mi chiamo Denor, maestro. Ho con me un’importante missiva
di Asaeld, firmata dall’Imperatore in persona. Abbiamo ricevuto l’ordine di consegnarvela con estrema urgenza.»
«Firmata da Loralon?!» chiese stupito Nector. «Di cosa si tratta?»
Il cantore si rese conto di essere ancora nascosto dietro la porta. La aprì del
tutto e fece entrare i cinque soldati. Le armature cigolavano per l’umidità. I loro
mantelli puzzavano di pioggia vecchia.
«Scusate la mia cautela… dobbiamo mantenere la nostra riservatezza.»
«Non c’è dubbio» rispose Denor mentre si guardava intorno. Le altre quattro
Lance avevano fatto un passo indietro allontanandosi fra loro. «Vi eravate nascosti proprio bene. Per trovarvi, ho dovuto chiedere a un vecchio amico inconsapevole…»
«Cosa?» chiese perplesso Nector.
«Non importa…» rispose Denor sorridendo. Con uno scatto fulmineo gli
strinse le mani al collo. Nector crollò atterrito in terra. L’enorme Lancia lo
schiacciò con il suo peso e gli piantò i pollici dentro la gola.
«Ora la facciamo finita.»
Il collo di Nector si spezzò fra le sue dita. Denor si rialzò schiacciandogli lo
sterno sotto il tacco d’acciaio.
«La mia Lisea è morta per colpa della vostra pioggia» mormorò al cadavere. Le
altre Lance scattarono verso il fondo del corridoio, seguendo il basso mormorio
soffuso del coro chiuso nel salone. «Morte alle Lance» mormorarono all’unisono.
«Lunga vita all’Imperatore…»
Denor invece tornò alla porta, canticchiò sommessamente a mani giunte e plasmò una fiamma dai palmi. Si piazzò di fronte alla porta aperta e prese a ondeggiare le braccia verso le campagne. La punta della fiamma armonica lambiva in
altezza l’orlo delle mura. Sperò che da fuori avessero visto il segnale e tornò dentro. Tutti gli altri stavano solo aspettando che loro prendessero il controllo della
villa.
Lisea si era ammalata ai polmoni per colpa di quella pioggia letale. Era morta a
causa delle conseguenze di Lungo Inverno. E lui, che aveva sempre sognato di
essere una Lancia, era impazzito di rabbia. Non approvava, come tanti altri, quel
modo terrificante di combattere. Uccidere il popolo con il gelo, fiaccare la propria gente fottendosene degli effetti collaterali. Il dolore lo aveva spinto a cercare
conforto fra chi credeva fermamente che le Lance al comando di Asaeld non
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stessero più servendo l’impero, che fossero tutte traditrici di Cambria. Asaeld era
dietro a Lungo Inverno, l’aveva costruito con le sue mani insieme ai cantori
dell’Arcana. Stava corrompendo le ambizioni dell’impero piegandole e adattandole al suo volere.
Denor si era unito a chi credeva che Loralon fosse in pericolo, accusato dal
popolo come ingiusto mandante di Lungo Inverno, minacciato dalle stesse Lance che gli avevano prestato giuramento eterno. Aveva appoggiato la causa degli
stessi che avevano attentato alla vita degli uomini di Asaeld direttamente nei
campi del fronte, o in battaglia. Non erano traditori, bensì lealisti all’Imperatore.
Volevano spurgare il marcio che covava nell’esercito, dalle fondamenta ai vertici.
Erano loro i colpevoli delle sparizioni di giovani Lance dalla città, e degli attacchi
compiuti contro Dunwich, il pupillo di Asaeld. Non erano più in pochi. All’inizio
erano solo cospiratori, ma dopo tutti quei mesi di agonia umida la loro influenza
era cresciuta. Fino ad abbracciare gente come Denor, che prima aveva seguito le
parole di Asaeld senza mai fiatare.
Lungo Inverno era una sua idea per ottenere più potere, pensò Denor affannato dalla tensione. Doveva darsi una mossa. Sentiva che i suoi compagni stavano
tentando di forzare l’ingresso al salone delle armonie. Le voci dei cantori si erano
smorzate. Qualcuno stava chiedendo aiuto. Fuori, i soldati della guardia di
Asaeld stavano convergendo verso la villa.
Il canto di Lungo Inverno si era concluso in una melma di urla stonate.
***
«NO!»
Mordraud vide Saiden raggiungere il portone delle mura. Lo aveva spinto senza fatica, in silenzio. Decise di agire, e scattò verso di lui. Alzò involontariamente
le braccia per pararsi il volto, come se si aspettasse una frecciata da una delle tante feritoie che crivellavano la parete. Non accadde nulla. Mordraud, disorientato,
entrò a seguito di Saiden, che stava camminando tranquillamente verso
l’ingresso. Il sentiero di ghiaia era appesantito da una nebbiolina densa. Fra la
bruma, Mordraud notò qualcosa. Portò la mano alla spada e la sguainò. Saiden si
voltò verso di lui ridacchiando.
«Non serve a niente. Ci ha già pensato qualcun altro.»
Mordraud si chinò verso la massa scura fra le ombre. Era la testa di un uomo,
attaccata al resto del corpo solo per un filo di carne sanguinolenta. Era morto da
un giorno al massimo. Forse meno. Mordraud tenne la spada in mano. Chi
l’aveva ammazzato poteva essere ancora nei paraggi.
«Ne vedi altri?» chiese a Saiden.
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«Dappertutto» disse il maestro guardandosi intorno. Lui invece non vedeva
quasi niente per colpa della nebbia. Gli occhi di Saiden avevano qualcosa di inquietante. Neri, ma allo stesso tempo curiosamente trasparenti. Dentro galleggiavano, o almeno così parve a Mordraud, sottili bavette di luce che si attorcigliavano in piccoli gomitoli fluidi. Cosa stava vedendo di preciso, si chiese disturbato.
“La morte?” pensò.
Non era sicuro di volerlo sapere.
Mordraud tornò indietro per fare un cenno a Gwern di alzarsi e seguirli. Lui lo
aveva già fatto, ma non era passato attraverso la porta sulle mura. Stava aspettando che suo fratello gli desse il via. Non ce l’aveva fatta a restarsene sdraiato ad
aspettare, ma allo stesso tempo non aveva la minima idea di quello che avrebbe
potuto fare, se ci fosse stato da combattere. Non sapeva fare niente. Non era
nemmeno riuscito a imparare come Saiden avesse fatto a sentire la risonanza di
Lungo Inverno.
«Non c’è più nessuno?!» gli chiese perplesso.
«Sembra di no» rispose Mordraud, più confuso di lui.
«Cosa può essere successo?!»
«Eldain deve aver scoperto dove si nascondevano i cantori…»
«No, non credo» esclamò Saiden da dentro la casa. Era sull’uscio, a cavallo di
un cadavere in armatura disteso su un altro più magro. Mordraud corse da lui lasciando Gwern sul vialetto.
«Una Lancia…» esclamò Mordraud tirando, dentro di sé, un sospiro di sollievo. Se fosse toccato a lui attaccare la villa, si sarebbe dovuto inventare un modo
piuttosto elaborato per non crepare. Chiunque fosse stato ad anticipargli, probabilmente aveva salvato loro la vita.
«La porta era aperta» mormorò Saiden sorridendo stupito. «Qui non ci sono
segni di barricate, nessuno ha provato a sfondare dall’ingresso. I cantori devono
aver aperto di loro iniziativa.»
«E com’è possibile?! Non credo che siano tanto stupidi…»
Saiden scostò con un piede il cadavere. Un uomo parecchio grosso, belloccio.
Morto trafitto da una fiammata in piena schiena. Gli aveva perforato i polmoni
cauterizzando una voragine circolare perfetta.
«Chiunque ha attaccato questo posto, si è fatto prima riconoscere come alleato.
Come una Lancia… o come tante…»
«Eldain non darebbe mai un ordine simile. I nostri ragazzi non saprebbero
come comportarsi» ribadì Mordraud. Saiden annuì perso nei suoi ragionamenti.
«Prima hanno fatto breccia senza combattere, poi hanno preso il controllo
dell’ingresso e hanno fatto entrare i rinforzi. Per questo motivo, il prato è una
carneficina. Ma qualche cantore deve aver opposto più resistenza del previsto…»
Saiden indicò la tremenda ferita. «Pazzesco, Cambria si è fottuta da sola…»
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«Pensi che sia stato qualcuno… dall’interno?!»
«No, è improbabile» rispose stupito Saiden. «Credo che sia stato qualcuno del
popolo. In fondo, la situazione qui non sembra più rosea che da voi al fronte.»
«Loro non hanno la neve!» esclamò indignato Mordraud.
«Ma hanno la pioggia. E fa altrettanto male ai campi, fidati…» rispose Saiden
ridacchiando da solo. «L’Imperatore ha esagerato.»
«Dobbiamo controllare che non ci siano ancora cantori all’opera» esclamò
Gwern. Mordraud annuì e lo anticipò lungo un corridoio che terminava in una
pesante porta blindata. Saiden li seguì restando indietro, fissando attentamente le
loro schiene. Ancora nulla di nuovo, pensò. “Peccato… speravo di ottenere di
più.”
Mordraud controllò la serratura. Era stata rotta. Qualcuno doveva aver richiuso la porta dopo averla forzata. Fece arretrare gli altri e caricò un calcio. Tempestò la porta lanciandosi contro con tutto il suo peso. Alla fine saltarono via i cardini, e lui ruzzolò dentro una grande sala buia. Ogni rumore era ovattato, soffocato dalla lana compatta che era stata inchiodata alle pareti. Non vedeva niente.
Sentì soltanto un debole fruscio di piedi. Suo fratello, pensò. Gwern lo raggiunse
e lo aiutò a rialzarsi. Saiden restò defilato indietro, sull’uscio aperto. I suoi occhi
brillavano di bianco. Lui era in grado di scorgere perfettamente ogni dettaglio
della stanza, anche se le tende erano tirate e le candele si erano consumate in larghe pozze rosse.
C’era qualcun altro con loro, chino in un angolo. Un uomo di mezza età, fisico
molliccio e stempiato profondamente. Per terra, vicino a lui, tutti gli altri coristi
di Cambria sventrati e sbudellati. Era talmente buio che i due fratelli non si erano
ancora resi conto di essere circondati da corpi massacrati.
Saiden non fece e non disse nulla.
«Meglio aprire una finestra» disse Mordraud.
«Vado io…»
Gwern si irrigidì a fianco del fratello. Sentirono nitidamente entrambi le prime
note di una melodia faticosa, sanguinolenta. Mordraud lo abbracciò e si tirò indietro. Saiden sorrise estasiato. Il cantore di Cambria si era tirato su in ginocchio
e stava completando la breve armonia di morte.
Una bolla di fuoco bianco esplose dalle sue mani e si schiantò su di loro.
«Magnifico!» mormorò Saiden coprendosi il volto con le mani. Il calore era assurdo. E lui non era stato nemmeno coinvolto nella risonanza. Tenne però gli
occhi fissi sui fratelli. Mordraud, senza dire una parola, aveva abbracciato Gwern
e l’aveva ribaltato verso la porta. Il fuoco divampò tutt’intorno a loro e incendiò
la lana alle pareti. Il boato incrinò i vetri delle finestre, che deflagrarono schizzando di vetro il prato invaso di cadaveri fradici.
Quello che vide Saiden andava oltre ogni sua esperienza secolare.
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Il Flusso gli mostrò quello che accadde veramente. Dal petto di Gwern schizzarono istantaneamente fuori miriadi di fili di luce, che si chiusero a scudo dietro
entrambi i fratelli. Loro non li videro, non si accorsero di nulla. Il fuoco si scontrò contro il Flusso e venne annichilito dalla sua potenza. Fu letteralmente divorato, consumato in una nube di leggere scintille bianche.
Mordraud e Gwern volarono contro la parete carbonizzata, sospinti dal pauroso urto fra la bolla di fuoco e lo scudo di Flusso.
«Forte… meravigliosamente forte…» sospirò Saiden.
Il cantore si era rialzato in piedi. Sanguinava dalla pancia e in faccia. Era stato
ferito, probabilmente era svenuto e gli assalitori non si erano accorti che fosse
ancora vivo. Il baccano che Mordraud aveva fatto per entrare doveva averlo svegliato dal suo torpore. Saiden approfittò del momento. Fissò malevolo il cantore,
e dai suoi occhi sgusciarono due trecce di luce che si avvolsero intorno al collo
dell’uomo ferito. Lui stava già tentando di cantare di nuovo, ma il Flusso lo
strozzò senza scampo. Le sue mani strinsero il vuoto, quando tentarono inutilmente di afferrare le trecce bianche e opalescenti.
In pochi istanti, Saiden riversò dentro il cantore una fiumana di luce, passando
dai pori della pelle, dalle orecchie, dalla bocca aperta in un sogghigno di stupore.
Poi, prima che i due fratelli avessero modo di vedere quello che stava facendo,
abbandonò la presa del Flusso intorno al collo del malcapitato, e le trecce svanirono.
Il cantore restò immobile in piedi. Gli occhi totalmente svuotati di volontà. La
pelle tirata e pallida. Era ancora vivo solo perché non aveva avuto il tempo di
raggiungergli il cuore. Ma era soltanto un inganno di sangue e respiro inconsapevole.
«Cos’è successo?!» gridò Gwern stordito dall’urto. Mordraud non rispose. Si
voltò di scatto, e grazie alla luce che filtrava dalle finestre sbriciolate, vide il cantore in piedi, minaccioso e con la bocca aperta pronta per cantare. Urlando inferocito gli saltò addosso. Lo trascinò in terra e gli piantò i pollici negli occhi. Lui
non oppose alcuna resistenza, nemmeno la minima tensione dei muscoli.
Mordraud ebbe modo di brutalizzargli il volto in tutta tranquillità, piantandogli le
unghie nei bulbi oculari, sfondandogli il cranio per terra con forza bestiale. Non
si fermò neppure quando in mano non gli restava altro che cartilagine e pelle cascante. Saiden dovette strapparlo di forza dal cadavere maciullato.
Ma non riuscì a tenerlo fermo a lungo.
Mentre Gwern si tastava scosso le braccia e il collo, incredulo di essere ancora
vivo, Mordraud sembrava uscito di testa. Sfilò la spada e prese a impalare tutti i
cantori morti. Li trapassò uno a uno, in bocca. Sorrideva feroce mentre la sua
lama segava via i denti e le mascelle serrate dei cantori scomposti in terra. Li ribaltava con un calcio quando erano supini. A volte strappava via la spada con
435
una forza tale da far ruzzolare lontano parte della testa staccata di netto dal filo
d’acciaio.
«Io… vi odio… BASTARDI!»
«Basta Mordraud! Fermati!» urlò Gwern. Saiden si fece di nuovo indietro. Non
tentò di bloccarlo. Era più interessante osservare quello che stava succedendo. Il
gomitolo di Flusso nel petto di Gwern era incredibilmente rimpicciolito. Era diventato microscopico, una lacrima di luce che si agitava mollemente dietro il suo
sterno. Entrambi erano illesi, non erano stati sfiorati nemmeno alla lontana dal
calore estremo e dalle fiamme concentrate della bolla d’armonia.
Doveva essere stato un sforzo notevole contrastare quella risonanza, pensò
Saiden portandosi una mano al mento.
«Mordraud!» gridò ancora Gwern. Afferrò la mano del fratello, ma lui finì di
sfigurare l’ultimo cadavere prima di dargli ascolto. «Siamo stati maledettamente
fortunati, fratello» ansimò lui, madido di sudore freddo e con gli occhi sgranati
dal panico. «Ci ha mancato, altrimenti a quest’ora saremmo morti!»
«Ci ha mancato?!» esclamò Gwern stupito e confuso. Lui aveva avuto
l’impressione netta di essere stato travolto in pieno. Era la prima volta che gli
capitava di scontrarsi con un armonia di guerra. Mordraud gli aveva raccontato
quanto fossero letali, ma ne erano usciti entrambi senza un graffio.
«Ci ha mancato di sicuro, non c’è altra spiegazione» ribadì lui. Mollò un ultimo
calcio al primo cadavere che ebbe a tiro, e solo allora rinfoderò soddisfatto la
spada. «Passiamo in rassegna la casa. Tutta. Dobbiamo essere sicuri che non ne
sia rimasto vivo uno. Nessun cantore deve più intonare qualcosa qui dentro.»
Mordraud corse verso la porta. Si imbatté in Saiden e si fermò perplesso. Era
come se si fosse dimenticato della sua presenza. Pazzesco, pensò. Erano ancora
tutti vivi, dopo un’esplosione violenta come quella.
«Non hai fatto in tempo a intervenire?»
«No, l’ho notato solo all’ultimo momento. State tutti bene?» chiese Saiden. La
sua voce non tradì la minima preoccupazione.
«Sì… almeno credo…» rispose Gwern tastandosi di nuovo le braccia. Si sfiorò
anche il petto, un gesto che non sfuggì a Saiden. Lui sorrise e si chinò per fissarlo dritto negli occhi.
«Complimenti…» mormorò sogghignando divertito. Mordraud si guardò intorno spaesato. Anche Gwern non riusciva a capire cosa volesse intendere il suo
maestro. Perché fosse così soddisfatto di lui.
«Complimenti per cosa?! Non abbiamo fermato noi Lungo Inverno! Non sappiamo nemmeno chi sia stato!» esclamò Mordraud.
«Oh, non importa… complimenti lo stesso…» concluse Saiden avviandosi verso l’uscita della sala. Lì avevano finito. Potevano tornare a casa, pensò.
Quello che voleva vedere, ora l’aveva visto.
436
***
Larois era china a terra per raccogliere un secchio di neve da sciogliere sulla
stufa. Le mani spaccate dal freddo le facevano un gran male, ma era l’ultimo dei
suoi problemi. Tutto il suo corpo era a pezzi, sfibrato dalla fame e dagli stenti. Le
ginocchia quasi non la reggevano più, ed era una fortuna che la taverna fosse
chiusa da mesi. Non sarebbe stata in grado di lavorare. Aveva finito la legna da
un pezzo, e ormai la stufa restava accesa solo grazie alle assi che aveva staccato
dalle pareti della taverna. Ne aveva ancora due o tre al massimo. Un paio di giorni, poi sapeva già come sarebbe andata a finire. Una bella notte non si sarebbe
più svegliata. Iniziava a sperare che quel momento non si facesse attendere. Non
ce la faceva più a tirare avanti in quel modo.
Mentre raccoglieva la neve con le mani, Larois si guardò intorno. Eld era un
cimitero a cielo aperto, un vecchio sepolcro abbandonato nelle campagne che il
mondo intero aveva dimenticato. Dai comignoli non si alzava il fumo, dalle finestre non giungevano le voci delle famiglie raccolte intorno alle tavole imbandite.
I morti non si contavano più, e non venivano nemmeno seppelliti. Era una fatica
inutile. Arrivava il turno per tutti, e mancavano le persone con ancora le forze
necessarie a scavare.
“Chissà come stanno i ragazzi…” pensò amareggiata. Ormai non li vedeva da
tanto tempo. Sapeva che Mordraud stava facendo carriera nell’esercito, e che un
paio di volte aveva sfiorato la morte. Di Gwern invece non sapeva più nulla.
Quel pensiero non fece altro che peggiorare il suo umore. Non avrebbe voluto
morire da sola. Era la cosa peggiore che le sarebbe potuta capitare. Fu proprio
mentre cercava di ricordare il volto sorridente del suo caro Gwern, che le capitò
di incrociare con lo sguardo i gradini di pietra spaccata che portavano all’ingresso
di casa sua.
Fra le crepe, un sottile stelo verde ondeggiava nella brezza.
«Non è possibile…» mormorò senza fiato.
Era un filo d’erba. Uno stupendo, strepitoso, divino ciuffo di erbaccia.
Larois restò per lungo tempo in ginocchio a contemplare quel miracolo. Non
vedeva un colore diverso dal bianco e dal grigio da così tanto tempo che i suoi
occhi non erano più abituati a sopportarne l’intensità. Sembrava irreale,
un’allucinazione dovuta alla fame. Si alzò e sfiorò la piccola piantina. Era tutto
vero.
La neve stava cedendo. La natura lottava per tornare alla luce dopo mesi di
vergognosa clausura.
«La primavera!» gridò fuori di sé.
«Arriva la primavera!»
437
Larois corse come mai aveva fatto in vita sua. Attraversò le vie silenziose di
Eld scalpicciando nelle pozze di ghiaccio che stavano perdendo consistenza, ridendo a squarciagola e urlando come una malata di mente.
«Arriva la primavera!»
Facce scarne spuntarono dalle finestre rattoppate di stracci. Come bestie dopo
un lungo letargo, uomini e donne sopravvissute uscirono di casa a passo timoroso, incredulo. Fra le nubi fece capolino, timidamente, un pallido sole. «Arriva la
primavera! Arriva la primavera!» ripetevano in coro, prima solo per imitazione,
poi con sempre maggior foga.
«Arriva la primavera!»
Quelle parole passarono di bocca in bocca, e ben presto tutta Eld risuonò di
grida e canti festosi. Larois continuò a correre ebbra di gioia. Non poteva crederci. L’inverno stava sfumando a velocità innaturale. Raggiunse a rotta di collo
la grande villa di Adraman. Mancava solo una voce al canto del feudo ferito. La
trovò nel cortile, immobile di fronte a un albero spoglio. Dai rami piovevano
gocce di neve disciolta. Cadevano sui suoi capelli, sulle sue spalle piegate sotto
un cumulo di pellicce rinsecchite.
Deanna stava guardando rapita una piccola gemma verde e oro, aggrappata a
un ramo nel disperato tentativo di vivere. Si teneva le mani raccolte sulla pancia,
e stava piangendo.
«Arriva la primavera, Deanna! È finita! L’inverno è finito!»
Larois le corse incontro incespicando fra la neve fradicia. Deanna si voltò verso di lei, ma i suoi occhi erano da un’altra parte. Assenti.
Spenti da una patina di follia.
Le sue mani si strinsero ancora di più sulla pancia. Deanna si piegò digrignando i denti, squassata da conati brutali. Vomitò china sulla neve, tossendo debolmente.
Larois la raggiunse e la aiutò a risollevarsi. Deanna era senza forze, pallida e
tremante. Solo la sua bocca sorrideva. Tutto il resto del suo viso era una maschera di dolore.
«Per gli Dei, piccola mia…» le sussurrò accarezzandole i capelli arruffati e
sporchi «perché non me l’hai detto prima?! Oh, Deanna…»
Larois la strinse forte a sé, reggendola pietosamente in piedi.
«Sei incinta…»
438
XXVIII
«La nebbia si sta diradando.»
Asaeld scostò le falde della tenda e osservò l’orizzonte oltre il campo. La neve
aveva smesso di cadere, da ben tre giorni. Era più di un anno che non succedeva.
Qua e là, macchie di terra nera spuntavano dall’infinita coperta bianca, portando
alla luce i corpi mezzi congelati di tutti i morti che nessuno si era preso la briga
di seppellire dignitosamente. Il vento portava un vago odore di decomposizione,
di carne esposta al caldo e piante dissepolte. Il cielo era sgombro di nubi, carico
di un azzurro tanto intenso da far girare la testa. Poteva esserci una sola spiegazione. Asaeld abbassò il capo e sorrise debolmente, senza farsi notare dalle tre
guardie che aspettavano un suo comando. L’esercito era confuso, disorientato.
Ormai erano tutti abituati all’idea che il freddo non se ne sarebbe mai andato.
Invece era svanito. Per sempre.
Lungo Inverno era finito.
«Avvisate i capitani di reparto. Gli uomini devono iniziare a smontare il campo, e che tutti si tengano pronti a combattere!»
«Ma come, signore?! È in programma un attacco, e poi la ritirata?»
«Oh, proprio no… noi non attaccheremo. Saranno i ribelli ad attaccarci.»
Le tre guardie si guardarono piene di stupore e sgomento. «Ma… non attaccano da mesi, spetta a noi aggredire!»
Asaeld richiuse le falde della tenda e si avvicinò alla rastrelliera delle armi. Prese la sua spada, la sfilò dal fodero e controllò la qualità del taglio. Da quando era
un generale, non la usava molto spesso.
Quel giorno si sarebbe rifatto del tempo perduto.
439
«Sapete cosa fa un orso non appena si sveglia dal letargo?» chiese alle guardie,
che lo seguivano confuse e in silenzio.
«No, signore»
«Mangia. Divora tutto quello che trova…» concluse trattenendo a fatica una risatina compiaciuta «e oggi saremo noi il pasto dell’orso.»
«Pensate quindi che…»
«Sono assolutamente sicuro. Fate allestire i carri, mandate via tutto ciò che si
può. Caricate anche i feriti e rimandateli a Cambria. IN FRETTA!»
«Sì, signore!»
Le guardie corsero fuori dalla tenda borbottando fra loro. Asaeld tornò a controllare la sua spada, la sguainò e menò due fendenti nel vuoto, solo per sentire
se il filo d’ottone dell’impugnatura fosse ancora solido. In realtà, si era chiesto
fino all’ultimo se fosse il caso di avvisare gli uomini dell’attacco imminente. Forse no. Tanto, gli uomini di Eldain li avrebbero fatti a pezzi comunque. La corda
era stata tirata troppo, e si era spezzata.
Come aveva immaginato sin dall’inizio che sarebbe successo.
«Era ora… e dire che per poco non funzionava… proprio per poco…»
Asaeld sorrise di nuovo. Da più di un anno sopportava il freddo, il cibo scadente, i problemi insulsi dei soldati, i continui attacchi inconcludenti al Terrapieno. Una lunga e fastidiosa seccatura. Non gli interessava nemmeno sapere chi
fosse stato a fermare il suo piano di Lungo Inverno. Potevano essere stati gli
uomini di Eldain, o addirittura una rivolta interna. Meglio ancora, pensò. Un
movimento popolare sarebbe stato l’ideale. Avrebbe avuto il tempo per riflettere
sui complici inconsapevoli che avevano fatto il suo gioco, fermando Lungo Inverno.
Stava per avere inizio un incubo orrendo per il glorioso esercito
dell’Imperatore.
«Grazie, Loralon… non dovevi darti tutta questa premura… così è troppo
semplice» sussurrò inchinandosi al vuoto. Lungo Inverno non era servito a nulla.
Se non a esasperare nemici e amici allo stesso tempo, e a far odiare da tutti la dinastia imperiale.
«Così è tutto troppo facile.»
***
Casa dolce casa.
Era notte fonda quando Mordraud varcò la tenda della sua squadra. Era stato
via per più di due mesi, e per lui fu un sollievo strepitoso ritrovare il Terrapieno
ancora in piedi. Non era passato un giorno senza che il suo pensiero non corresse ai ragazzi della squadra, a tutti gli uomini rannicchiati sotto le coperte in attesa
440
dell’ennesimo attacco di Cambria, e aveva temuto tante volte di non fare in tempo. O ancor peggio, che tutti i suoi sforzi potessero non servire a niente. Aveva
lasciato l’esercito in condizioni pietose, e l’aveva ritrovato in condizioni pietose.
Ma almeno esisteva ancora, solo quello contava.
La tenda era inspiegabilmente vuota. La stufa era spenta e i giacigli in ordine.
Le piccole cose dei suoi compagni c’erano tutte: i due pugnali logori di Pietà, il
ferro di cavallo che Maglio usava per segnare il suo cuscino, anche il fiasco vuoto
portafortuna del povero Rosso non era stato toccato. Sul coperchio di un barile
in un angolo, erano ancora disposte le tessere di una partita di Torre di Spade abbandonata a metà. Non vedeva l’ora di farsi una partita con Maglio, pensò
Mordraud.
L’aria era tiepida, una sensazione piacevole che gustava da giorni ma a cui ancora non si era abituato. La neve si stava sciogliendo rapidamente e aveva smesso di cadere da diversi giorni. Il paesaggio non era dei migliori. La maggior parte
delle piante era morta congelata, l’erba faticava a spuntare e una quantità mostruosa di carcasse di animali e uomini intasava la terra, ovunque. Aveva attraversato diversi villaggi durante il viaggio di ritorno, e non aveva trovato altro che
case vuote e gente morta nel proprio letto. L’inverno era finito, ma aveva lasciato
strascichi pesanti.
Gwern era tornato a casa con Saiden. Si erano separati per accorciare i tempi,
Mordraud voleva tornare dai suoi ragazzi per dar loro una mano. Anche se non
aveva partecipato alla fine di Lungo Inverno, sentiva comunque di aver vinto.
Era una faccenda personale. Anche se Cambria avesse tentato di nuovo quel
trucco infame, lui aveva capito come fossero in grado di farlo. Aveva intenzione
di spiegare tutto a Eldain, così da approntare squadre pronte a setacciare i confini più prossimi al fronte, per tenere d’occhio ogni possibile covo sospetto. “E
poi, almeno uno l’ho ammazzato io…” pensò sogghignando. “Spero che Lungo
Inverno sia morto con quella merda schifosa.”
Si chiese cosa avrebbe dovuto dire. Tutti sapevano che lui era partito alla ricerca di una soluzione per la maledizione che l’impero aveva scatenato su Eld,
avrebbero di certo dato il merito a lui. Mordraud borbottò fra sé. Anche se si
fosse ostinato a dire il contrario, probabilmente nessuno gli avrebbe creduto.
Non aveva ancora incontrato gli uomini del campo, a parte un paio di sentinelle del perimetro che però non l’avevano riconosciuto. Aveva dovuto insistere
perché lo facessero passare. Aveva elencato tutti i nomi delle persone che conosceva nell’esercito, i loro nomignoli, le loro storie. Non si era mai reso veramente
conto, prima di quel giorno, con quanta gente avesse stretto un rapporto da
quando combatteva per Eldain. Era una bella sensazione. Come essere parte di
una famiglia molto allargata.
441
Tutto era tranquillo. Un silenzio assoluto pervadeva l’accampamento, rotto
soltanto dai bagliori di qualche focolare incustodito. Il suo giaciglio era lì, pronto
ad accoglierlo. Avrebbe voluto sentire i suoni dei dadi sbatacchiare nelle casse
vuote, il ciarlare dei soldati di turno, magari anche il frastuono caotico di una rissa. Ma per quella notte si sarebbe dovuto accontentare del silenzio.
Mordraud si sdraiò assaporando il morbido sacco riempito di paglia, si sfilò gli
stivali e slacciò la fibbia della cintura, facendo scivolare a terra la spada. Non
aveva ancora deciso cosa dire, si sarebbe tenuto il più possibile sul vago. Non
amava l’idea di prendersi meriti non suoi, ma in fondo, era lui che aveva rischiato
la pelle sua e di suo fratello per la causa. Era soltanto preoccupato di come
avrebbero potuto chiamarlo gli altri ragazzi. E il brutto era che non poteva farci
niente. Anche se ne aveva ucciso soltanto uno, nessuno avrebbe dato peso alla
cosa.
Il Terrore di Cambria.
Oppure lo Strozzacantori.
«Brr… che schifo…» mormorò chiudendo gli occhi «ci manca solo che mi
chiamino…»
«PRIMAVERA!»
La tenda vibrò come sotto le percosse di una bufera. Mordraud si avventò sulla
spada seguendo un riflesso incondizionato, e si tirò su in piedi. Si era appisolato?
Era un sogno, oppure aveva sentito veramente quel nomignolo, l’orrore degli orrori, la cosa che più temeva, più della morte stessa. Tutto, ma non…
«PRIMAVERA!»
Una marea di gente si riversò nella tenda, facce nuove e sconosciute, tutte impegnate in un unico grido corale.
«PRIMAVERA!»
«No, vi prego… no…» balbettò Mordraud con lo stomaco contratto.
«Bentornato, Primavera!» Maglio si fiondò su di lui e lo sollevò da terra come
un sacco, e così facendo, i pantaloni di Mordraud sfilarono giù fino alle caviglie.
«Mettimi giù, bestia idiota che non sei altro!» blaterò lui rosso in faccia.
«METTIMI GIÙ!»
«Niente da fare, capo! INIZIA LA FESTA!»
Mille braccia lo strapparono fuori dalla tenda, e Mordraud si ritrovò di fronte
l’intero esercito di Eldain. Altro che silenzio. Il campo era una bolgia spaventosa.
Sui fuochi giravano i porcelli a cuocere, decine di botti erano sparse ovunque e la
gente si accalcava per bere direttamente dal foro stappato, inondandosi la faccia
e i capelli di vino invecchiato. Qualcuno stava suonando una danza popolare con
i corni delle cariche. I capitani di reparto erano più scalmanati dei propri uomini.
Tutti, nessuno escluso, urlarono ferocemente il suo nome nella notte quando
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venne trascinato fuori dalla tenda. Il suo nome, seguito da quel nomignolo terrificante.
«Ecco Mordraud! È tornato Primavera!»
«Ma… chi ve l’ha detto… come facevate a saperlo…» chiese Mordraud stordito dalle grida e dal frastuono.
«Quando abbiamo visto riapparire il sole, abbiamo capito subito che ce l’avevi
fatta!» rispose Maglio mollandogli una pacca sulla spalla che quasi lo fece volare
in terra. Mordraud si tirò su i pantaloni imbarazzato.
«E chi vi ha detto che sono stato io?! Potrebbe non…»
«Potevi essere solo tu!» lo interruppe Maglio.
«Ma ecco io…»
«Su forza non fare il modesto, hai soltanto fermato Lungo Inverno!»
All’esclamazione di Maglio seguì un boato che si alzò dalle truppe svaccate in
festa.
«Devo riferire… devo parlare con Adraman!» gridò Mordraud per sovrastare
gli ululati.
«Non c’è! È tornato a casa!»
Mordraud si ritrovò un fiasco davanti alla faccia. Qualcuno glielo rovesciò in
gola. Vino ottimo, molto più buono del solito aceto che si beveva al campo.
«E questo? Avete imparato a fare il vino in mia assenza?» chiese pulendosi la
bocca con la manica della casacca.
«Un regalo dei porci di Cambria! Avevano le tende piene, quei maiali ingrassati!» rispose uno dei soldati. Per un momento, Mordraud pensò di trovarsi di
fronte Rosso in carne e ossa. Ma era solo un giovane che gli assomigliava molto.
«Adraman è tornato per avvisare Eldain della fine dell’inverno?» gridò a Maglio, mentre la folla li stava separando per continuare i bagordi.
«No! La sua mogliettina è gravida!»
Mordraud non riuscì a cogliere bene le sue parole. Oppure le aveva capite, ma
avrebbe preferito non farlo.
«Cosa?!»
«ASPETTA UN FIGLIO!» urlò Maglio prima di tracannare la sua dose di vino
dal fiasco. «ASPETTA UN EREDE!»
Mordraud sentì le gambe cedergli di schianto. Se non ci fossero stati i suoi
compagni a reggerlo, sarebbe crollato a terra senza un gemito.
«Ehi capo, abbiamo appena iniziato! La serata è ancora lunga!»
Il vino sembrava piovere dal cielo, a secchiate. Poteva solo bere e bere, senza
sosta. Un turbinio di mani lo stringevano, palpeggiavano, schiaffeggiavano con
affetto. La musica era sempre più forte, e in tanti stavano già ballando, strafatti di
vino. Cinque o sei baldracche si stavano dando da fare vicino a una tenda.
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L’odore di carne di porco si mischiava al profumo dolciastro delle erbe bruciate
sui bracieri. Erbe che annebbiavano la vista, e rendevano folli.
«Deanna aspetta un figlio…» mormorò in una pausa compassionevole fra un
fiasco e un altro. Lo trascinarono in una danza sfrenata, ma lui cadeva a ogni
passo. E ogni volta, qualcuno lo rialzava buttandolo di nuovo nella mischia.
«Mordraud! Primavera!»
Deanna era incinta. Impossibile, perché lui, e solo lui, sapeva quante volte
Adraman aveva tentato di avere un erede. Per anni. Decine, e decine di volte.
A meno che.
«Mordraud! Primavera!»
Deanna aspettava un figlio.
“Un figlio mio” pensò morendo dentro.
«Mordraud! Mordraud!»
“E nessuno lo potrà mai sapere.”
Il vino salì con la violenza di un pugno in faccia. Ma fu un bene. I soldati lo
tennero su, gli infilarono la testa in un secchio d’acqua, lo fecero bere di nuovo.
Ballare di nuovo. Mordraud non capiva più niente. L’accampamento sembrava
precipitato in una battaglia furiosa. Urla, gemiti, lampi di luce rossa che salivano
dai fuochi. Nubi di scintille a ogni ciocco di legna fresca che veniva gettato nei
bracieri. «Come hai fatto?!» gli chiedevano tutti. «Come hai fatto?!» era l’unica
cosa che ancora era in grado di cogliere da quella tempesta di voci fuori di senno.
Si ritrovò senza neanche sapere come fra le braccia di una puttana, con i pantaloni calati, e tutti che urlavano intorno a lui. Sembravano belve.
“Come ho fatto?” pensò.
“Semplice. Me la sono scopata.”
Mordraud scoppiò miseramente a piangere.
***
«Abbiamo perso le retrovie.»
Dunwich non aspettava altro che sentire quelle dolci, melodiose parole. Quando aveva saputo che l’esercito si stava ritirando dal Terrapieno, i suoi sospetti
avevano trovato una risposta. Le piogge erano terminate da qualche tempo,
scacciate via dal sole tanto atteso. Le piante nei grandi giardini di Cambria avevano ripreso a fiorire. Tutta la città sembrava tornata al suo splendore, non più
oppressa dal cielo grigio e gonfio di tempesta. Non poteva essere un caso.
I cantori avevano fallito. I ribelli erano ancora vivi e vegeti, e soprattutto, fuori
di senno dalla fame.
Fu convocato un concilio generale, e Dunwich non era mai stato tanto felice di
poter partecipare. Voleva sentire le ultime novità, vedere la faccia di Loralon
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contrarsi dalla rabbia, sentire la vergogna scorrere a fiumi nella sala delle udienze.
Quella manica di incompetenti se lo meritava, eccome. E le sue aspettative non
furono tradite.
L’Imperatore sembrava sul punto di scoppiare. Bianco di cenere, con le guance
iniettate di sangue in modo grottesco, aveva ascoltato i resoconti della fuga precipitosa, della cocente sconfitta sul campo di battaglia che un pugno di ribelli
cenciosi e affamati aveva arrecato al più massiccio esercito del continente, e non
aveva aperto bocca. I grandi maestri dell’Arcana si erano fatti piccoli nelle loro
camicie strette e scure, e ascoltavano in silenzio. Asaeld aveva lasciato ai comandanti di battaglione la simpatica incombenza di riferire tutto, e se ne stava comodamente seduto sulla sua poltrona, senza mostrare particolare paura o dispiacere.
In fondo, Dunwich sapeva che Asaeld era dalla sua parte. Entrambi avevano
sempre creduto che Lungo Inverno fosse una colossale idiozia. Loralon lo aveva
sicuramente costretto ad appoggiare l’Arcana, ma lui non poteva permettersi di
esternarlo. Questione di posizioni, ovviamente.
«Come hanno fatto?»
I portavoce dell’esercito restarono in silenzio, in preda all’imbarazzo più totale.
Avevano già spiegato nei minimi dettagli come si fosse giunti a un fallimento così imprevisto. I soldati non erano pronti a dover difendere, ormai avvezzi solo a
punzecchiare il nemico per poi indietreggiare. Ogni tentativo di arroccarsi e difendere il campo era stato portato avanti in maniera sconclusionata. I cavalieri
erano inutili in quel terreno marcio e paludoso. La fanteria degli alleati era determinata, incattivita da mesi di sofferenze indicibili. La loro motivazione era stata l’arma vincente di Eldain. Ma l’Imperatore non sembrava voler sentire scuse.
Per lui, esisteva solo il risultato. Una cocente, imprevedibile e vergognosa sconfitta.
«Mi avevate assicurato che il coro sarebbe stato in grado di reggere Lungo Inverno per tutto il tempo che avessimo voluto. Perché si sono fermati?»
«Non lo sappiamo con certezza…» tentò di spiegare il delegato dell’Arcana, un
giovane cantore mandato apposta al macello dai vecchi maestri, che volevano
tutto fuorché bruciarsi la carriera con quel fallimento. «Le Lance inviate a controllare hanno riferito di una battaglia. Gli uomini di Eldain hanno trovato un
modo per individuare il nostro covo, probabilmente per colpa di qualche fuggiasco passato troppo nei pressi della villa. Comandante Asaeld, confermate?»
«Confermo, mio signore» rispose prontamente lui. «È stata una tragica fatalità.»
«Ma mi avevate detto che i ribelli non possedevano cantori, non conoscessero
l’uso delle armonie…»
«Ecco… vedete…» balbettò il giovane delegato dell’Arcana.
«CHI HA AVUTO L’IDEA?! VOGLIO SAPERE CHI È STATO!»
Fra i cantori assiepati dietro di lui si levò istantaneamente la stessa risposta.
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«Dunwich, delle Lance! È stata un’idea sua!»
Asaeld trasalì, insieme a tutte le altre Lance presenti al consiglio. Dunwich invece sospirò di noia. Era tutto così ovvio. Si aspettava quella conclusione dal
primo giorno di Lungo Inverno.
«Chiedo la parola, signore!» disse alzandosi in piedi. Ma in tanti furono più veloci di lui.
«NON POTETE DIRE QUESTO!» urlò una Lancia alle sue spalle. «CANI
MISEREVOLI! CODARDI!» gridò un altro. Asaeld si voltò verso i suoi uomini
tentando di quietare gli animi, ma nessuno badava alle sue parole. Era stata toccata una corda molto, troppo sensibile.
«Fate parlare me, ragazzi! Calmatevi!»
«Capitano, non dovete cedere!»
Uno dei cantori anziani uscì dal gruppo e si avvicinò all’Imperatore. Dunwich
lo riconobbe subito. Era Raelin, il rettore dell’Arcana in persona. Si strofinava le
mani con sguardo mesto, servile oltre ogni vetta di decenza. La sala era in subbuglio. L’esercito intero era con le Lance, come sempre. I cantori avevano il
supporto dei consiglieri di Loralon, degli strateghi, dei funzionari. Asaeld si ergeva in mezzo alla bufera di insulti che piovevano da ogni parte agitando le braccia
verso i suoi uomini. Lui e Dunwich sembravano gli unici ad aver mantenuto ancora un minimo di compostezza.
«SILENZIO! SILENZIO!» chiese a gran voce l’araldo, ma senza successo.
Raelin stava confabulando con Loralon, da solo. I cantori si erano spostati di
fronte al trono e stavano facendo muro contro i delegati dell’esercito. Le Lance
si erano pericolosamente avvicinate ai maestri, alcune con la mano sull’elsa della
spada. Dunwich tentò di raggiungere il trono per dire la sua, prima che Raelin
rovinasse tutto, ma la strada era bloccata. Seneo, il suo primo insegnante, l’uomo
che lo aveva portato a Cambria da bambino, stava uscendo dalla sala in tutta
fretta. Dunwich non riuscì a capire se dovesse esserne felice o meno. Si stava
vergognando dei suoi, oppure aveva paura che la colpa di tutto ricadesse su di
lui, il tutore giovanile della Lancia incriminata? Lasciò perdere, pressato da problemi ben peggiori.
Fu proprio in quel momento che vide Asaeld sussurrare qualcosa a occhi socchiusi.
Nient’altro che un istante, ma per Dunwich fu più che sufficiente per capire.
Asaeld aveva trovato e ghermito al volo una risonanza. Quale fosse però, lui non
poteva saperlo. Intorno a loro la situazione si stava lentamente sgonfiando. Raelin si era allontanato, insieme ai suoi cantori. Le Lance si erano accalcate ai piedi
del trono gridando e ribadendo l’innocenza del loro capitano, e Dunwich si stupì
di quella manifestazione di affetto nei suoi confronti. Sapeva di essere ben considerato fra i suoi uomini, ma non fino a quel punto. Restò sconvolto di fronte
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ad alcune inaspettate esternazioni delle Lance più giovani, che erano anche le più
infuocate: il predestinato, l’immortale, la vera Lancia, erano tutti appellativi che i soldati gli avevano affibbiato.
“Forse per quella volta che mi hanno quasi ammazzato col veleno…” si chiese
stupefatto “ma qualcuno deve aver esagerato con i racconti su come è andata…”
«Tornate tutti ai vostri posti!» disse a gran voce Loralon, sbattendo freneticamente a terra il lungo scettro di legno e ferro. Asaeld riuscì a contenere gli uomini, e così Raelin con i suoi. La sala ritornò alla calma, ma l’aria era ancora molto
tesa. Dunwich aspettava in piedi un verdetto, pronto ad accampare una scusa
qualsiasi.
«Il Gran Maestro mi ha spiegato tutto. L’idea è stata sua, e sempre lui è il diretto responsabile di come Lungo Inverno sia stato sviluppato. L’altro colpevole si
chiamava Nector, ma è morto per mano dello squadrone ribelle che ha spazzato
via il coro.»
Dunwich stava per ribattere, assolutamente convinto di aver sentito tutt’altro
uscire dalla bocca dell’Imperatore. Raelin che si prendeva la colpa. Impossibile,
incredibile. Non aveva alcun senso.
«Dopo il consiglio parlerò con lui e Asaeld in privato, per valutare se e come
sollevare il Gran Maestro dal suo incarico.»
Loralon sembrava più tranquillo, e parlava con voce sicura. Trovare un colpevole era tutto quello che desiderava. Se fosse stato per lui, probabilmente la riunione sarebbe dovuta finire lì, dopo aver assegnato una bella punizione esemplare a chi di dovere. Ma gli argomenti erano ancora tanti, e tutti spinosi.
«Passiamo oltre. Dobbiamo preparare i piani per i prossimi attacchi al fronte»
esclamò con enfasi, sorridendo sornione. La classica espressione che
l’Imperatore di Cambria mostrava quando credeva di aver compiuto un gesto di
grande lungimiranza.
Asaeld prese la parola. A Dunwich non sfuggì il fiato leggermente appesantito,
tipico di uno sforzo armonico mascherato alla meno peggio. Asaeld doveva aver
fatto qualcosa di grosso. Gli balenò l’idea bislacca che potesse aver parlato nella
mente con Raelin, ma la abbandonò subito. Anche se lo avesse fatto, e dubitava
che una Lancia potesse padroneggiare una simile abilità, per quale motivo il Gran
Maestro avrebbe dovuto mettere a repentaglio la propria strepitosa carriera? Cosa avrebbe potuto proporgli Asaeld per convincerlo? Ipotesi senza alcun senso.
«Voglio che il fronte venga al più presto messo sotto attacco. È necessario non
dare tempo ai ribelli di riorganizzarsi!» ordinò Loralon.
«Abbiamo deciso di ripiegare dal Terrapieno per diverse ragioni, mio signore…
non soltanto per sfuggire a ulteriori attacchi.»
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L’espressione compiaciuta di Loralon perse improvvisamente smalto, e
Dunwich colse chiaramente il motivo. Lui non aveva dato ordini se non attaccare,
attaccare, attaccare.
«E… quali sarebbero queste ragioni?!»
«Prima di tutto…» Asaeld si avvicinò allo scranno alzando il tono della voce «i
nostri uomini avevano bisogno di rifiatare.»
«Ne abbiamo tanti di soldati. Possiamo utilizzarli a turno… cosa che Eldain
non può permettersi.»
«Beh… è proprio qui che sta il problema…»
Loralon si sporse dal trono accigliandosi. «Vorresti dire che stiamo finendo gli
uomini a disposizione?!»
Molti in sala mormorarono con disappunto. Finendo era proprio una brutta parola da usare quando c’erano di mezzo degli onesti uomini di Cambria. Dunwich
scosse la testa affranto. Loralon era assai scadente come oratore.
«No, ma i focolai da tenere sotto controllo sono aumentati a vista d’occhio.»
«Non capisco esattamente…»
Asaeld continuò senza mostrarsi turbato dalla poca perspicacia mostrata
dall’Imperatore. «Nei protettorati di Essar a Sud e Nelaria a Nord, sono scoppiati tafferugli fra la popolazione e le gendarmerie. Sapete, Cambria ha preteso, e
continua a pretendere molto cibo per sostenere gli eserciti impegnati al fronte…»
«Non capisco dove sia il problema. Abbiamo sempre preteso una percentuale
dei raccolti!»
«Ecco… i raccolti… diciamo che sono stati un po’ più scarsi del previsto… e
qualcuno ha ordinato agli esattori di ripulire i magazzini dei protettorati, scorte
comprese.»
«Bah!» Loralon agitò la mano stizzito. «I contadini si lamentano sempre, e intascano tutto quello che possono… se gli esattori dovessero credere alle loro fandonie ogni volta…»
Asaeld parlò a voce talmente alta che tutta la sala poté sentire perfettamente
ogni sua parola.
«Forse non sono stato abbastanza chiaro, signore… non abbiamo avuto raccolti, quest’anno.»
«CHE COSA?! IMPOSSIBILE!» gridò Loralon. La sala rumoreggiava sempre
di più, in un crescendo di disappunto collettivo.
«Non ricordate? Abbiamo armato i contadini per arginare il problema delle bestie randagie, poi sono arrivati gli sfollati di Eld… inoltre, non ha mai smesso di
piovere per mesi. I campi sono marciti, fra l’acqua e l’incuria.»
«PERCHÉ NON SONO STATO TENUTO AL CORRENTE?!»
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Fra i consiglieri di corte sembrò cascare un macigno dal tetto. Neppure loro
erano a conoscenza di una situazione così allarmante. Gli esattori erano militari,
per cui riferivano direttamente al comandante dell’esercito. Asaeld, appunto.
«Ho provveduto a inviare regolari comunicazioni, come sempre. Si vede che
qualche burocrate ha svolto male il proprio lavoro.»
«Mio signore, posso dire con certezza di non aver mai ricevuto notizie simili…» tentò di dire il cancelliere, un vecchio alto e asciutto chiamato Parro. Una
persona molto rispettata, che svolgeva quell’incarico da più di trent’anni. Aveva il
compito di gestire le missive in arrivo dai quattro angoli dell’impero. Dunwich
aveva lavorato insieme a lui in diverse occasioni, e gli era sempre sembrato un
brav’uomo, dedito alla causa e molto puntiglioso.
«Non avrei voluto parlarne proprio durante il consiglio, ma…» Asaeld sfilò da
una tasca interna del suo mantello un rotolo di pergamene chiuse da un legaccio
di cuoio. Ne srotolò una e la depose sulle gambe di Loralon, che l’afferrò e la
lesse lentamente. Il cancelliere, che era in piedi al suo fianco, sbiancò paurosamente.
«Questa non è la tua firma, Parro?!»
«Signore, io non ho mai visto questi documenti! Dovete credermi!» balbettò il
vecchio cancelliere. Asaeld si voltò verso la sala e mostrò un’altra pergamena alle
prime file.
«Mi sono permesso di mandare alcuni uomini a spulciare i registri personali di
Parro. Hanno trovato questi…» Asaeld sfogliò uno a uno i documenti. Decine di
pergamene scritte di suo pugno, marchiate dal sigillo delle Lance e firmate da
Parro. Come se non bastasse, ognuna recava il sigillo imperiale in ceralacca, che
solo lui e l’Imperatore potevano avere e usare.
«Asaeld, sei proprio sicuro di aver trovato tutto questo nei registri del cancelliere? L’accusa che muovi è molto grave…»
«Mio signore, ne sono certo. Come sono sicuro che all’interno della corte, si
annidino i traditori che hanno ordito tutti gli attentati verso le mie Lance.»
Il mormorio della sala divenne un boato sconclusionato e rabbioso. Parro era
stato accusato di tradimento, da Asaeld in persona.
Dunwich non poteva credere a quello che stava succedendo. Il comandante
delle Lance era al di sopra di ogni sospetto, ovviamente. Ma anche la fede più
incrollabile poteva vacillare.
“Parro… un traditore? L’uomo più vicino all’Imperatore, così vecchio da aver
lavorato anche con il padre di