Herman Parret La deissi dell`esperienza estetica In: I percorsi dell

Transcript

Herman Parret La deissi dell`esperienza estetica In: I percorsi dell
Herman Parret
La deissi dell’esperienza estetica
In: I percorsi dell’immaginazione. Studi in onore di Pietro Montani, Editore Pellegrini, Collana
“Frontiere”, 2016.
L’esperienza estetica è, con i suoi piaceri e le sue pene, quel privilegio che si iscrive
nel nostro corpo, in rottura con la banalità del quotidiano, distaccandosi da altre sfere esistenziali
come il pratico, il politico, lo scientifico o il religioso. Il fatto che l’esperienza estetica sia autonoma
e debba essere salvaguardata da molteplici riduzionismi, ma che, allo stesso tempo, come direbbe
Kant, l’abisso tra territori esistenziali debba essere oltrepassato attraverso ponti, rimanda a una
duplice esigenza. La presenza densa e abissale dell’opera d’arte ci tocca in modo vitale. Presenza,
tocco, vita sono in effetti i tre termini chiave che scandiscono qualsiasi concezione dell’esperienza
estetica. Il fatto che l’esperienza estetica sia segnata dal piacere e da qualche pena non deve
stupirci. Sono il piacere e la pena dell’amore. Amore, parola di poeta, è un termine che stride sotto
la penna del filosofo. E tuttavia l’ambiente dell’arte è l’amore. La domanda di arte è una richiesta
di amore. E gli amanti dell’arte sono semplicemente dei grandi innamorati: l’amore dell’arte
impegna, genera il noi tutti. Alcuni avranno timore di essere di colpo finiti nella speculazione, nel
sentimentalismo. Tenete però conto almeno del fatto che questa etico-estetica non invoca alcuna
narrazione ideologica. Conviene evitare le grandi parole, i brillanti discorsi di giustificazione.
L’amore è in quelle piccolissime parole che sono i deittici. Bisogna amare i deittici. L’arte è nella
deissi. L’arte è presenza e ci tocca in modo vitale come triangolazione deittica. L’arte è la messa in
relazione amorosa di un Io, di un Tu e di un Noi. Tentiamo di capire.
Deissi
Ecco, guarda questo, guarda qui e ora, non guardami ma guarda e vedi la nostra
triangolazione nella sua contingenza e singolarità: guarda che qui/ora è il questo di un Io/Tu/Noi,
guarda che qui/ora io sono, voi siete noi siamo. Energetica di un gesto d’accoglienza, movimento di
generosità, esteriorizzazione dell’ego: io stesso sono in questo triangolo al pari di voi; e voi e io in
quanto noi. E voi siete coloro ai quali il mio gesto si rivolge, tu sei qui/ora, sulla punta delle dita
!1
della mia mano, tu sei il correlato singolare della mia motivazione ostensiva. Nella deissi accade
che non ci sia referente stabile, eterno, trascendentale, trasparente. Le posizioni deittiche non hanno
sostanza semantica. La grammatica dei deittici comporta una sola regola formale: colui il quale
dice/indica Io, Tu, Noi, dice/indica l’opacità e la contingenza di un essere-insieme triangolare,
evento senza durata, presenza effimera. Non c’è esperienza estetica che non sia singolare e
vincolata alla concretezza del questo triangolare che non si lascia dedurre, né prevedere, né
generalizzare. L’esperienza estetica non è pertanto un giudizio che “determina” la qualità
“oggettiva” di un’opera d’arte – la sua bellezza, la sua utilità – ma piuttosto la valutazione in vivo di
un questo singolare. È naturalmente Kant ad averci condotto a una simile affermazione copernicana.
Benveniste, il linguista della deissi per eccellenza, colloca il triangolo deittico nel cuore del
linguaggio. Non è che l’opera d’arte “parli”; ci arriveremo tra un instante. È che la triangolazione
dell’Ecco artistico è perlomeno analoga a quella della deissi enunciativa. Solo una parola in
proposito. Conserviamo della teoria delle “istanze di discorso” di Benveniste il fatto che i deittici
sono segni mobili, liberi, nomadi, i quali possono essere assunti da ciascun locutore a condizione di
rinviare esclusivamente all’istanza del suo discorso. I deittici hanno così per vocazione quella di
aprire nel muro, nella prigione del linguaggio una finestra sul mondo. Aprendo questa finestra
soggettivata sul mondo, il soggetto enunciante assume per proprio conto il linguaggio nella sua
interezza; proprio come l’opera d’arte, presentandosi come un Io, assume in effetti l’arte in
generale. Altra similitudine: l’Io dell’enunciazione si proietta dinamicamente verso un Tu, lo
interroga, si rivolge a un Tu in una situazione in vivo contingente e singolare. Benveniste esclude
che l’Egli del sistema enunciativo, essendo Egli o Essi il “dominio della terza persona o della nonpersona”1. Il Noi si radica infatti nella relazione di Io e Tu. Bisognerà soffermarsi a lungo su questo
anello d’importanza cruciale per una etico-estetica. In breve, la teoria delle istanze enunciative di
Benveniste ci è sembrata essere un’euristica interessante per la comprensione di cosa sia in gioco
nella triangolazione artistica.
Se c’è analogia, un caveat ne mostra nondimeno i limiti. Il fatto è che l’opera d’arte non
parla, non enuncia nulla, non racconta nulla. Sebbene l’opera d’arte, presentificandosi, “faccia
segno”, punti ostensivamente verso un Tu, essa non articola alcuna parola. È vero che i trittici
medievali raccontano a puntate delle storie, così come David e Delacroix esibiscono una diegesi
storica o mitologica. Tutto cambia evidentemente con l’artista con cui ha inizio l’arte della
1
Cfr. E. Benveniste, Struttura delle relazioni di persona nel verbo, in Id., Essere di parola. Semantica, soggettività,
cultura, tr. it. a cura di P. Fabbri, Milano, Bruno Mondadori, pp. 128-137.
!2
modernità. Anche se Manet è il “pittore della vita moderna”, secondo la celebre definizione di
Baudelaire, egli non ne è il narratore. La rottura modernista mette un punto definitivo alla linearità
discorsiva, al debito narratologico, all’impatto testuale sulle arti. Applicando l’adagio
wittgensteiniano: l’opera d’arte non enuncia nulla, non parla, non dice nulla, ma mostra.
L’interrogazione, l’invito, il rinvio a un Tu è un gesto più che una parola. Non che così si sfugga
all’antropomorfismo. L’opera d’arte modernista non è dotata di parola e di voce; e tuttavia è dotata
di vita e di gesto. Il rispetto per l’oggetto d’arte – l’ammirazione, l’amore – lo umanizzano. Anche
l’orinatoio di Duchamp, in quanto opera d’arte, è dotato di vita e richiede amore. Il fatto che
l’orinatoio, dal momento in cui Duchamp ha stabilito che “Questo è arte”, non è un Egli, una terza
persona, una non-persona, nei termini di Benveniste; ma un Io che carica la forza del suo gesto
d’interrogazione nella sua stessa relazione triangolare con un Tu e con un Noi. L’opera d’arte sfugge
allo statuto della non-persona costituendosi come una prima persona, un Io, a partire dalla seconda
persona, un Tu. Il Noi è allora l’intreccio, per dirla con Merleau-Ponty, di un Io e di un Tu. Se si
accetta una simile organizzazione della deissi artistica, si capirà meglio l’antropomorfismo a prima
vista ingenuo di espressioni come “la vita dell’opera d’arte”, o “l’arte ci tocca”. C’è una relazione
di rispecchiamento, riflettente e reversibile, tra l’opera d’arte che si presenta come Io e il soggetto
che ne è toccato, questo Tu interrogato. Lo specchio, il quale fa riflettere la persona di fronte a sé,
può così essere detto vivente di una vita “prestata” al soggetto rispecchiato. L’intensa produttività
deittica degli specchi è dovuta al fatto che lo specchio fa cortocircuitare la terza persona: gli specchi
rinviano a noi se noi rinviamo loro. In fin dei conti tutte le opere d’arte sono specchi. L’intreccio
dell’opera d’arte, la quale si presenta come un Io che rispecchia un Tu interrogato e rispecchiato,
questo intreccio narcisistico non genera mai alcuna autotrasparenza del soggetto. Il maestro di
Vienna ce lo ha insegnato: abbiamo un inconscio. Questi specchi che ci guardano sono offuscati,
opacizzati. Tuttavia è soprattutto sullo sfondo disforizzante di un’opacità di principio, della
minaccia di una non-relazione dell’Io e del Voi, che noi siamo invitati a operare triangolazioni.
Come iniettare amore e pace in questo intreccio dell’Io/Tu oscurato e offuscato? Occorre
completare la triangolazione e sottomettere l’intreccio dell’Io/Tu al potere del Noi. Quale Noi?
Quale potere?
Per prima cosa, brevemente: quale potere? Presentarsi enunciando Ecco, anche con il gesto
dell’accoglienza, la mani aperte in segno di offerta, è certamente meno respingente che enunciare
Eccolo, deittico del distanziamento. Evitiamo però ogni malinteso: anche Ecco si enuncia a partire
da un luogo di potere, una posizione di autorità che instaura un’asimmetria nel triangolo deittico. Il
!3
filosofo americano Donald Davidson ha analizzato in profondità come qualsiasi interazione
comunicativa sia dominata dal principio della First Person Authority. Ciò è evidente per tutti gli atti
di discorso la cui semantica dipende dalla cosiddetta formula performativa: io affermo che p, io
desiderio che p, io credo che p, io prometto che p. Io prende necessariamente l’iniziativa strategica;
è Io a organizzare il mondo dei fatti, delle credenze e dei desideri, invitando l’altro, con la
persuasione, la manipolazione o la seduzione, a partecipare del dono che Io fa enunciando ecco.
Una certa critica delle ideologie si sforza di smantellare questa pretesa dell’Io stratega mai
innocente. Queste critica sottolinea come nella cultura dominante Io sia maschile e Tu femminile; e
come Ecco si enunci necessariamente a partire da un desiderio di sottomissione. Enunciare Ecco è
allora un atto di violenza, addirittura una violazione. L’opera d’arte, presentandosi come Io, ha la
medesima autorità perché dietro la presenza dell’opera d’arte si ha il diritto di sospettare l’esistenza
del Potere dei curatori2: l’istituzione, il sovrintendente, lo stesso artista. L’autorità dell’opera d’arte
che si presenta come Io non è sui generis: essa riposa sull’onnipotenza dei curatori. Marcel
Broodthaers aveva compreso bene questa logica quando si è dichiarato direttore del suo stesso
Museo d’Arte Moderna sotto il patronato dell’Aquila, perfetto simbolo dell’onnipotenza. Il
ragionamento era di buon senso: tanto vale che sia l’artista il curatore dell’opera d’arte, piuttosto
che un qualsiasi altro individuo o istituzione. È evidente che questa nobile strategia, in fin dei conti,
non abolisce sul serio l’asimmetria deittica tra l’Io e il Voi. Affinché ci sia tra Io e Tu amore senza
asservimento e pace senza sottomissione, c’è una sola strada maestra: indebolire l’Io e rafforzare il
Tu. Cosa facile a dirsi ma difficile a farsi.
Riprendiamo fiato perché l’impresa è ardua. Si tratta di comprendere come la presenza di
un’opera d’arte ci tocchi in modo vitale. Solo la triangolazione può fornire una qualche soluzione.
Come coordinare la domanda d’amore di Io e il dono d’amore di Voi e fare in modo che non ci
siano slittamenti? Prima di Nietzsche, il prete aveva la chiave del problema nella tasca della sua
sottana. Dio, terzo termine del triangolo, attraverso la sua mediazione porta pace ed è fonte
d’amore. Era limpido; questo tipo di triangolazione è però divenuto definitivamente inattivo. “Dio è
morto”. In questi tempi post-nicciani, affinché ci siano amore e pace tra Io e Tu, occorre Noi come
terzo termine della triangolazione. Ci si ricolloca così dal fondamento religioso del sostrato
2
Présentateur nell’originale, dove si gioca un complesso gioco di rimandi tra présence (presenza), présentation
(presentazione), présentification (presentificazione), présentoir (espositore) e appunto présentateur, che non è stato
possibile rendere in modo letterale. “Presentatore” rimanda infatti in italiano esclusivamente al mondo dello spettacolo
e non rende l’idea di una professione (intesa in senso ampio) che garantisce l’accesso e la fruizione dell’opera d’arte in
specifici contesti culturali e istituzionali. Per questa ragione si è scelto di tradurre liberamente con “curatore”. [NdT]
!4
antropologico verso il fondamento artistico. Come pensare questo Noi, senza il quale – o
bisognerebbe forse dire: senza la qual cosa? – non ci sarebbero né esperienza estetica né opera
d’arte? Questo Noi non è Essi o Me. Questo equivarrebbe a una collettività: Noi, i filosofi del
mondo… Noi è Te e Me, vale a dire una comunità: Noi, gli amanti… Questo statuto comunitario del
Noi esige di conseguenza la contingenza di un faccia-a-faccia, la singolarità di un intreccio
sensibile, un ecco che impegni la presenza carnale di un Noi e di un Me. Affinché ci sia un Noi,
bisogna che esso sia incarnato nell’essere-insieme di una prima e di una seconda persona. Ma
questo Noi appare spesso nel suo formato minimo: Noi-due. Il passaggio al Noi-tutti è estremamente
difficile da pensare ed è tuttavia essenziale per poter completare la triangolazione. Chi o cosa è il
Noi-tutti? Kant pone, nella Critica della facoltà di giudizio, un Noi trascendentale, un Noi che
funziona come Idea, perfino come Ideale, invocato in ogni esperienza estetica che il soggetto
concepisce come universalizzabile. L’idea del Noi è così una necessità che guida e orienta l’animo
nella sua ricerca di bellezza e di sublimità. Ma un Noi trascendentale non può essere progettato
dagli artisti. Il Noi che suggella il triangolo artistico non può che essere un Noi “empirico”. Si tratta
del Noi come effetto di un patto sociale, di una negoziazione, di una razionalità argomentativa, di
un consenso, un Noi nello stile della Scuola di Francoforte? Assolutamente no. Ricordiamoci che
nella triangolazione artistica non si parla: si vive, si tocca, si mostra. Di conseguenza c’è bisogno di
silenzio, non di argomentazioni e di chiacchiere. Clement Greenberg, punto di riferimento
indispensabile della dottrina modernista, vede il Noi come il puro risultato di un patto
convenzionale. Il patto tra gli esseri umani non genera però un Noi convenzionale, non è un accordo
su convenzioni “tecnico-estetiche”. La contingenza del patto tra gli esseri umani non ha niente a che
vedere con la contingenza delle convenzioni tecnico-estetiche costantemente abbandonate e
rinegoziate. Se il patto comunitario è contingente, è perché esso riposa sulla singolarità carnale
dell’essere-insieme politico degli esseri umani. Il Noi comunitario non è un Noi convenzionale. Ci
vuole qualcosa di più affinché il Noi sia comunitario. Ma cosa? Il Noi non può che essere carnale,
carnalmente affettivo, affettivamente fusionale. Fusione in cui però il dissidio non è eliminato;
utopia la cui topologia deve essere deromanticizzata. Ma questo è già lo scopo del nostro sforzo di
triangolazione. Pur restando prossimi a questa logica, bisogna riconoscere che ce n’è un’altra,
sovrapponibile alla prima, che muoverà da qui in avanti il nostro interesse: presenza, tocco, vita.
L’opera d’arte attraverso la sua presenza ci tocca, in modo vitale.
Presenza
!5
Un’opera d’arte ha presenza. Essa giunge a presentarsi nell’incantamento, è in permanente
resurrezione. Un’intera gamma di “tecniche”, nel senso nobile e greco del termine, realizzano la
presenza di un’opera d’arte. Il termine espositore ha d’altronde portata variabile. L’espositore può
essere una “tecnica” materiale o immateriale di focalizzazione sul punctum. Una “tecnica” senza
dubbio meno nobile, dal momento che essa può portare a uno slittamento etico, è quella del
curatore. L’artista, il museo, il commissario d’esposizione sono curatori. La presentazione – o
meglio la presentificazione: la messa in presenza, o presentificazione, la dinamica mostrativa del
rendere presente – è essenzialmente distinta dalla rappresentazione. Evidentemente è solo per
astrazione che si giungerà a isolare la sfera della presenza dagli altri poli della triangolazione (il
tocco, la vita) dato che la presenza di un’opera d’arte è allo stesso tempo causa ed effetto del tocco
vitale. La presenza vi tocca; e inversamente la qualità di presenza è generata dall’intensità del tocco.
Sono stato toccato, questo è presenza. Cosa ne è della presenza, non tanto delle sue
“tecniche” (espositori, curatori, presentificazioni) quanto della sua essenza? Permettetemi di fare un
po' di filosofia in merito.
Il campo semantico della “presenza” si organizza attorno al senso di origine: è presente colui
che è là, in vivo, hic et nunc, in una costellazione deittica, ostensivamente afferrabile. La presenza è
così osservabile, sensibile, essenzialmente per la vista ma in egual misura per l’udito e per i sensi
interni, l’odore, il gusto e il tatto. La presenza si dice sia di una persona sia di un frammento del
mondo, oggetto, stato di fatto, evento. E si dice anche dell’opera d’arte: di una sinfonia di Bruckner,
così come di un video di Gary Hill. Questo senso d’origine si disperde tuttavia in tutte le direzioni.
Una presenza divina, mistica o spirituale non è osservabile: essa è reale ma non materiale. Una
presenza fantasmatica o onirica non è né reale né materiale. Se la presenza di Dio connota la sua
esistenza, la presenza di un’immagine illusoria o di un’entità fittizia – il liocorno, ad esempio – non
dipende da alcun predicato esistenziale. La virtualizzazione di una “presenza” può essere ancora più
radicale: si può presupporre la presenza del carbone o del petrolio in una certa regione senza che
questa presenza sia stata determinata de facto. In un certo senso si tratta di una presenza nonpresente, così come ci sono “presenze troppo presenti”, quali sono le opere d’arte: ecco presenze
che segnano un andamento, una prestanza, una qualità che consiste a impossessarsi dello spirito, a
imporsi fortemente all’attenzione, a toccare in modo vitale. Le presenze sono così patemizzate e
non sono mai i correlati di stati puramente cognitivi. Se il mondo è popolato di presenze, è perché il
nostro animo proietta la sua soggettività e le sue modalizzazioni sul mondo, fabbricando così
!6
ontologie che non sono vincoli della funzione d’esistenza. Ci sono presenze senza esistenza e in
ogni caso ci sono gradi di presenza – presenze intrecciate con assenze – mentre non c’è un grado di
esistenza. La presenza comprende la carenza, l’errore, la mancanza, l’assenza; spesso, o bisogna
dire necessariamente? La presenza di un’opera d’arte copre e disvela allo stesso tempo l’assenza. E
una determinata temporalità. Il senso di “presenza” comporta tutto a un tratto la dimensione
temporale: presente è il questo che è ora. Presente è ciò che si produce al momento del tocco, nel
momento in cui lo si vive. Presenza e presente sono intimamente collegati, tenuto conto che il
presente è un tempo limite che svanisce costantemente e non ha autentica estensione. Questa
tensione tra presenza e presente è una grande preoccupazione per i filosofi; la posizione che
difenderemo consiste nel dire che è attraverso il tempo che si pensa la presenza, non l’inverso.
Inoltre, il fatto che “la presenza sia presente” discende da una soggettività già pienamente
temporalizzata. Ciò ci porterà a meditare il tempo del tocco nel corso della “visita” dell’opera
d’arte, della sua interrogazione di Voi; allo stesso modo mediteremo la temporalità della vita del
Noi comunitario e politico.
Per una fenomenologia canonica, quella di Husserl, la presenza è un noema preso di mira da
un’intenzionalità. Per Husserl, il noema è sempre una presenza visibile e la noesi uno sguardo.
Merleau-Ponty, che seguiamo in materia, riformula radicalmente la concezione della struttura
noetico-noematica. Non è più l’intenzionalità che congiunge noesi e noema, ma la carne
partecipativa, la quale li confonde. A questa “confusione” Merleau-Ponty dà il nome di intreccio.
Questo scivolamento della congiunzione noetico-noematica verso la confusione, verso l’intreccio, è
reso possibile da un rovesciamento nella gerarchia dei sensi: dal visibile al tangibile, dalla vista al
tatto, dallo sguardo alla carezza. Intreccio dei toni, dei timbri, delle forme e dei colori dello
spettacolo pittorico, e del mio corpo sensoriale, sotto il segno del Sensibile in sé che chiamiamo
carne.
Tale confusione delle carni che risulta dall’incarnazione dell’incarnato non esaurisce però
tutte le virtualità della presenza che rinvia attraverso il tocco al Te. La presenza di un’opera d’arte è
soprattutto “vissuta” come un evento. L’emergenza del C’è [Il y a], la provocazione dell’evento, è
essenziale all’esperienza estetica e alla sua temporalità. Basta scrutare i delicati momenti di
sorpresa che abbiamo tutti vissuto quando siamo stati toccati da un’opera d’arte. Conviene aprirsi
alla qualità dell’evento, essere aperti all’Accade [Il arrive], piuttosto che a ciò che accade [ce qui
arrive]. Quando Cézanne scruta la montagna Sainte-Victoire, nell’attesa che nasca “la piccola
sensazione”, egli attende che arrivi come un evento la presenza della Sainte-Victoire. È l’esperienza
!7
estetica di tutti gli amanti dell’arte: l’opera d’arte cessa di essere un oggetto per la vista per divenire
un evento nel campo visivo. Il controllo delle forme cessa di essere una preoccupazione: si tratta di
mettersi sotto la dipendenza di una materia. Captare l’evento nella sua singolarità non richiede la
sintesi delle forme per opera dell’immaginazione, ma presuppone piuttosto il fallimento delle
sintesi. Materia significa in effetti presenza. La materia non espone messaggio né significazione.
Quando c’è presenza-evento, quando l’evento ha luogo, c’è cesura nello spazio-tempo. Il tempo di
questa presenza-evento non è più il tempo del mantenersi della presenza, ma il tempo della
donazione che libera la presenza.
Le “tecniche della presenza” – gli espositori, i curatori, le presentificazioni – rischiano in
qualche modo, prese nella loro globalità, di assorbire la presenza. Ci sembra tuttavia che l’autentica
presenza sia nell’evento che fa sorgere i piani colorati di Mondrian, i fiori di Richter, la Scultura
morta di Duchamp. Il giallastro, il bianco, il grigio e lo scuro delle nature morte di Morandi,
l’achrome di Manzoni sopravanzano il nostro animo, tale è la presenza. Quello su cui bisogna
sforzarsi di riflettere è la singolarità pura di un sapere, di un balenare, di un tono, di un timbro, in
breve il tocco del presente, la sua grana carnale. Il tocco furtivo non è pienamente un toccare –
torneremo su questo punto – ma il colpo che libera una modulazione, una sfumatura. Un’estetica
dell’evento dovrebbe escludere il tempo astratto, il tempo fisico, il tempo dell’uso e tutti quei tempi
che ci permettono di formulare giudizi determinanti, tanto teorici quanto pratici. Una simile estetica
dell’evento dovrebbe rispettare la temporalità che non è l’ambiente, il contesto degli eventi, ma è la
presenza stessa in quanto tempo presente vivente. La Presenza, di conseguenza, accade come un
evento. E l’opera d’arte, risultato di questo lavoro, è allora materia. Si tratta di assumere il fatto che
il miracolo può sorgere, il miracolo delle opere. L’irruzione dell’opera è drammatica: non sappiamo
come e perché si erge l’improbabile evento dell’opera, artefatto capace di evocare la presenza
assoluta. L’opera apre un buco nello spazio-tempo delle percezioni e nella ragione dei discorsi.
L’inesplicabile stupefazione davanti all’opera, benevolmente chiamata “esperienza estetica”, è una
prova vissuta ai confini della singolarità, in piena sottomissione alla Presenza-evento. Se l’arte non
ci procurasse il privilegio di un simile piacere e di una tale sofferenza, non ne varrebbe davvero la
pena.
Tocco
!8
La Presenza ci visita, ci interroga, ci tocca. Questa interrogazione si rivolge al Tu. È il Me a
interrogare: questo corpo e il suo blasone dalle cinque porte sensoriali totalmente aperte. La
richiesta dell’opera d’arte è di lasciarsi toccare, di abbandonarsi all’evidenza di una presenza.
L’amore dell’arte è la disposizione a lasciarsi colpire dal tocco. Non conviene rinnegare il fatto di
avere parimenti un rapporto intellettuale con l’arte, il quale arricchisce la nostra esperienza: è
sempre meglio avere qualche conoscenza enciclopedica quando si visita un museo. Questo bagaglio
intellettuale può associarsi sincreticamente all’emozione estetica immediata. Il rapporto amoroso è
tuttavia primario: qui siamo nel regno carnale del tocco. Il rapporto con l’arte è e resta amoroso:
occorre lasciarsi toccare esteticamente per poter giudicare se questo qualche cosa, che vi tocca,
merita di essere chiamato “arte”. Il tocco per prima cosa, poi il giudizio.
Occorre dire una parola qui della rimozione di Clement Greenberg, grande difensore della
piattezza (flatness) e dell’otticità. Questa assiologia ha dominato come un mito il discorso
modernista, conducendo ai peggiori giudizi. Rifiutare lo spessore in funzione della piattezza
assoluta significa rifiutare l’incarnato e la sensualità dei materiali. Sottomettere la pittura
all’esigenza di una pura otticità significa escludere dogmaticamente il tatto, la tattilità, il tocco. Il
modernismo di Greenberg è così di ostacolo a qualsiasi triangolazione: l’arte greenberghiana non
può che essere un’arte in terza persona. Fortunatamente Greenberg non ha potuto fermare le
conquiste dell’arte triangolare, l’arte del tocco. Tocco è senza dubbio divenuto un termine-feticcio:
gli artisti che lo applicano in modo esemplare come Alberto Burri sono tra i più grandi. Burri
pratica l’incarnazione in seconda persona. Gloria del tatto e della tattilità nella materialità, nella
sovrapposizione degli strati, nell’esperienza sinestesica: Burri ci fa sentire l’untuosità dell’olio, la
viscosità dello smalto. Tatto infinito del gesto che stira e accumula, pittura a misura del tocco.
Si tratta di conseguenza, per triangolare di più e più adeguatamente, di comprendere in cosa
consista il tocco. Tutto comincia con il tocco come colpo di pennello, pressione e trattenimento del
gesto di una mano che si prolunga attraverso la protesi che è il pennello. C’è qualcosa dell’enigma
nel tocco pittorico, in questo transfert del rinvio, in questa intercorporeità, tatto reciproco, contatto
della mano prolungata in pennello e del corpo della tela vivente. C’è tutto un gioco erotico di
aggiustamento dei desideri in questo ambiente tattile, un rovesciamento costante tra la richiesta e il
dono, il questuante che si trasforma in donatore, il donatore in questuante. Alcuni potrebbero temere
un possibile scivolamento concettuale per quanto riguarda la natura del destinatario del rinvio. Io in
una prima triangolazione è l’artista e Voi il suo medium, senza tener conto del supporto dell’opera
d’arte, mentre in una seconda triangolazione Io è l’opera d’arte e Voi il pubblico degli amanti
!9
dell’arte. Bisognerebbe meditare sull’omologazione di questi due tipi di triangoli, ma ci sono delle
buone ragioni per accettarla. L’ipostasi del medium in Greenberg nasconde una verità prima: il
medium è l’Altro e, se l’artista si accanisce contro o con il medium, è perché la tela è vivente come
un corpo capace di richieste e di doni. È propriamente un duello tra l’artista e il suo medium, in
somma di una tenzone amorosa. Greenberg ne parla in termini apertamente polemologici: il pittore
capitola (surrenders) davanti alla tela, si dichiara vinto dalla resistenza fisica e materiale del
medium. Kandinskij, illustrando fin troppo bene la posizione greenberghiana, gioca con dubbio
gusto virile su un doppio senso fallico dichiarando: «Così che ho imparato a lottare con la tela, a
conoscerla come un essere ribelle al mio desiderio […] e a piegarla a forza a questo desiderio»3.
Greenberg e Kandinskij pongono così, senza volerlo sapere, la questione del rapporto etico con
l’altro. Te nei due triangoli è strutturalmente l’Altro, che si incarna la prima volta nel medium e la
seconda nel pubblico dei questuanti e dei donatori di cure, d’attenzione e d’amore. Nei due casi si
tratta del tocco, colpo di pennello, colpo di martello, colpo di fulmine, colpo, insomma, che non
lascia mai indifferenti, colpo che ci ferisce nel corpo.
Occorre intendersi: se lo specchio e lo sguardo realizzano il rinvio, ciò accade in virtù del
fatto che lo specchio e lo sguardo sono carnali e a misura del tocco. Lo sguardo, così come è
definito da Merleau-Ponty, «avvolge, palpa, sposa le cose visibili»4. Vuol dire che lo sguardo tocca.
È quanto si presume di uno sguardo attento e amoroso. Dobbiamo semplicemente abituarci a
pensare che ogni visibile è ritagliato nel tangibile, che c’è sconfinamento, scavalcamento, tra il
tangibile e il visibile. Non discuteremo qui il filosofema che Merleau-Ponty, facendo seguito a
Husserl, ha trattato in modo rimarchevole. Si tratta infatti di una fenomenologia del tatto e della sua
corporeità, ma il tocco non è il tatto. Ecco perché occorre risolversi a cessare di fenomenologizzare:
il tocco è l’esodo del tatto. È a questa proposizione che dovevamo arrivare.
L’esperienza estetica è la traccia del tocco. Il tocco è l’esodo del tatto. Il tempo del tocco è
quello del batter d’occhio (Augenblick). Husserl e Merleau-Ponty ci parlano in modo eccellente
della mano del tatto, della mano che accarezza e lascia così tracce durevoli. L’altra mano, la quale
carezzando è la mano come stylos, come pennello, al modo delle figure della danza cinese, al modo
del dripping di Jackson Pollock. Per il gesto del pittore Lacan impiega il termine di sospensione.
Dipingere è un movimento che produce atti “sospesi”. Le tracce del tocco sono sempre sospese,
3 V.
Kandinskij, Sguardo al passato, in Id., Tutti gli scritti, vol. 2, tr. it. Milano, Feltrinelli 1974, p. 165.
4
M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, a cura di C. Lefort, ed. it. a cura di M. Carbone, tr. it. Milano, Bompiani,
1994, p. 149.
!10
mentre le tracce della carezza si accumulano fino a divenire linea e superficie, costituendo un corpo
pieno e omogeneo. Pienezza della carezza, choc del tocco. La carezza incorpora il toccato; il tocco
lo rigetta. La carezza tende alla massima fusione; il tocco alla giunzione minima. La carezza è una
sorta di scivolamento, di ricoprimento (Husserl parla di Deckung) sul fondo del puro flusso
temporale che unifica i momenti presenti successivi in una sola linea continua e in una superficie
omogenea. È vero che nella carezza la carne non è mai integralmente costituita. La carne carezzata
è fonte di eccedenza, eccedendo se stessa, dato che la sua costituzione è sempre incompleta. Negli
abbozzi di una simile carne c’è sempre l’appello del soprasensibile, di quel che non è ancora sentito
o che non lo è già più, di quel che forse non sarà mai sentito in questo scivolamento, in questo
ricoprimento del toccato, infinito, della carezza. Il tocco è un altro tipo di incontro tra la mano e il
suo toccato, un incontro che si limita allo choc, al colpo, dove l’evento non giunge mai a costituirsi
come un noema stabile, affidabile, durevole. La tendenza all’eccedenza vi è neutralizzata. La carne
si identifica allora nella pura contingenza, impresentabile e votata alla sparizione. Il tocco è cesura
improvvisa, taglio, ferita viva, instaurazione della materia più “presente”, senza arretramento o
pretesto per una messa in forma. È esattamente quel che accade quando si ha l’enorme privilegio di
essere visitati dalla presenza di un’opera d’arte, di vivere nel brivido della sua carne il colpo del suo
tocco.
C’è, insomma, il tatto della mano che carezza e il tocco dello stylos, del pennello che graffia.
Una carezza dura un’eternità, il tocco un batter d’occhio. Il tocco è una questione di estrema
finezza: ha la qualità di un evento. Questo Accade [Il arrive] arriva [arrive] “su zampe di colomba”,
secondo la celebre espressione di Nietzsche a proposito della verità. La colomba si posa, in silenzio,
in un batter d’occhio. Cézanne di fronte alla montagna Sainte-Victoire era sempre in attesa che si
posasse la colomba, che nascesse la “piccola sensazione”. Trasposto sul registro dell’ascolto, il
tocco è il suono stridente, una nota acuta, intensa, breve. Lo stile (stylos) del grido che eccede
l’udito e scava l’udibile fino al suo limite. Il suono stridente del grido è questo tocco che graffia
nell’orecchio, fino a ferire: vibrazioni che il timpano non può che rifiutare. Lo stridore ci informa
perciò sull’idea del tocco e del suo tempo. Lo stridore di una voce tocca il limite di ciò che può
essere ascoltato, perfino di ciò che può essere inteso, con la sua frequenza ultrasonora che perfora
l’orecchio, squarciando il timpano, senza che lo si senta se non nel dolore. Stridore e tocco: due
modalità dell’esodo del sensibile
È in questo luogo della dimostrazione che la corda metafisica comincia a vibrare. È che la
Presenza assoluta dell’opera d’arte, questa Cosa-maiuscola, è lavorata da cima a fondo dall’assenza
!11
radicale, da un certo al-di-là del sensibile. Esodo del sensibile: con il tocco si esce dal sensibile.
L’Accade si presenta come un “fatto notturno”, afferma con toni poetici Jean-François Lyotard:
presentazione dell’Altro del sensibile, esodo del sensibile. L’opera d’arte tocca il nostro corpo, entra
nel corpo attraverso il blasone della sua carne. Il tocco dell’Accade rinvia alla carne penetrata
attraverso i suoi cinque estuari: l’occhio, l’orecchio, la narice, la lingua, la pelle. È senza dubbio
una grazia, un incantamento, ma anche un’angoscia. L’evento supremo dell’arte sta sulla soglia
della presenza/assenza. L’amore dell’arte, che genera l’amore tra gli esseri umani, si installa sul
bordo di un abisso metafisico: l’assenza, il vuoto, la mancanza, perfino l’errore. Bisognerà tenerne
conto svolgendo il compito che ci è rimasto, il più duro: quello di chiudere il triangolo e di
completare la triangolazione attraverso l’inserimento del terzo termine, il Noi qui.
Vita
Come può l’arte far dischiudere l’amore tra gli esseri umani e instaurare la pace sulla terra?
Non è facile credere né a questa potenza dell’arte né evidentemente all’amore tra gli esseri umani. Il
nichilismo avrebbe potuto inondare gli animi nel secolo della Shoah, di Hiroshima, di Chernobyl e
di tutta la misera del mondo. E tuttavia, se il dubbio è giustificato, la perdita di fede non lo è mai.
Bisogna guardarsi dal rischio che il dubbio divenga una nuova credenza. Il dubbio è metodico,
come in Descartes: la sua negatività è benefica senza essere utopica. È il dubbio come filtro magico
delle vere avanguardie, quelle che distrussero la tradizione per ricostruirla. Mai nichilismo, sempre
umanesimo. Non un umanesimo ingenuo, che esclude la morte e la crisi delle rivoluzioni, che
esclude il dissenso costitutivo dell’essere-insieme. Non un umanesimo utopico, che di fatto è
sempre un umanesimo ideologico, ma un umanesimo senza credenze, che resta comunque un atto di
fede. Noi facciamo in questo modo atto di fede verso il Noi comunitario come progenie dell’amore
dell’arte. Questo atto di fede è in più un atto etico, atto di fede non in questa o in quella grande
narrazione giustificatrice, ma atto di fede nella libertà e nella solidarietà umane.
Come concepire questo Noi di libertà e di solidarietà? I nostri tempi post-nicciani mal
sopportano che si completi la triangolazione attraverso una messa in scena di Dio. Evitiamo la
“maledizione teologica”. Se c’è del “religioso”, esso è ovunque ci sia entusiasmo, trance e pulsione,
negli stadi, nella sublimità dei cieli stellati, nell’estasi amorosa. Scegliamo perciò di parlare di qui
in poi di politica… e vita. “Politica” nel senso nobile del termine, quello che Aristotele introduce
proprio all’inizio della sua Politica: affinché ci sia polis, o essere-insieme degli uomini, occorrono
!12
leggi e amicizia (philia). Non contestiamo il fatto che l’isotopia religiosa sia un’eccellente euristica
per comprendere che cosa è in gioco nel politico. Un certo discorso religioso ci può servire come
buona strategia di scoperta. Evitiamo di fraintenderci: insistere sul valore dell’isotopia religiosa
significa semplicemente scegliere a favore di un’euristica forte che ci consente di circoscrivere
meglio il sostrato etico-antropologico del Noi comunitario. Questo caveat dovrebbe essere
sufficiente per scoraggiare i “teologi” dal recuperare un discorso che non è veramente affare loro.
Tre termini-maiuscoli potrebbero essere usati per caratterizzare la dialettica estetica:
Annunciazione, Incarnazione, Resurrezione. Ci sarebbero senza dubbio state altre modalità di
circoscrivere gli stessi filosofemi. A ogni modo, Resurrezione, Incarnazione e Annunciazione
caricano la loro semantica a partire dalla loro relazione con la Vita. La resurrezione è il ritorno alla
vita; l’incarnazione l’esteriorizzazione della vita; l’annunciazione la donazione della vita. L’arte e la
vita si intrecciano: questa grande verità ci permette di completare la triangolazione attraverso il Noi
comunitario. Presentarsi significa trasporre la morte nella vita, l’Assenza nella presenza. Significa
allo stesso tempo presentificare l’Assenza, salvaguardare, risparmiare il Nulla o il Vuoto, com’è
chiamato dalla nostra tradizione speculativa, il Nulla o il Vuoto metafisico. Risparmiare il Nulla nel
cuore stesso della pienezza, la morte nel cuore della vita, questo è la resurrezione; ed è così che la
Resurrezione fa segno verso una teoria della presenza molto suggestiva. Il discorso della
Resurrezione non è un’apologia dell’immortalità, pur comportando un atto di fede nella vita. Si
sarebbe potuta costruire una teoria della presenza insistendo di meno sul diapason metafisico e di
più su una certa “realtà” psicologica. Si sarebbe ancora potuta prendere in prestito da Aristotele la
sua teoria psicologica dell’anamnesi per evitare in questo modo il vocabolario biblico e la sua
trasposizione metafisica. Presentarsi, ad esempio rendersi visibili, sarebbe allora una anamnesi del
presente, una anamnesi del visibile. Idea contemporanea che ha la sua verità psicoanalitica. Ritorna
all’anima ciò che è stato “dimenticato”, o meglio rimosso, come il gusto della piccola madeleine in
Proust. Se la presenza può presentificare l’assenza, è perché l’assenza è una dimenticanza che
l’esperienza dell’arte riconverte in presenza.
L’analogia della resurrezione illumina la teoria della presenza. L’opera d’arte incarna
l’amante dell’arte: affermazione che occorre comprendere come se una sola e identica carne
partecipativa, il Sensibile in sé, confondesse l’opera e l’amante nel momento altamente patemizzato
del tocco. L’incarnazione, a nostro modo di vedere, dev’essere compresa come la confusione
partecipativa al tocco finale, quello che integra la carne dell’amante nella carne dell’opera. La tripla
analogia che l’euristica comprende secondo la provocante isotopia religiosa, curiosamente rovescia
!13
il racconto biblico, come se si cominciasse dalla fine: resurrezione, incarnazione, annunciazione.
L’euristica culmina nel fatto che le tre analogie disvelano il rapporto essenziale con la vita:
donazione della vita, esteriorizzazione della vita, ritorno alla vita questa volta nell’ordine del tempo
vitale. Ciò dovrebbe finalmente permetterci di chiudere il triangolo.
A guisa di conclusione ci permettiamo di ricostruire la deduzione nella sua semplice
architettonica. L’arte è questuante d’amore; noi siamo amanti dell’arte. L’arte ha così presenza ed è
per questo tramite che ci tocca. Noi dobbiamo mantenere l’anima abbastanza aperta da lasciarci
colpire dalla presenza dell’opera d’arte, perfino dopo Duchamp e nonostante il cinismo economico
dell’artworld. Da quando l’estetica, culminata con Kant, ha proposto una filosofia del rapporto
amoroso con il bello e del puro piacere che l’accompagna, molte cose sono cambiate. L’arte resta
questuante d’amore e noi siamo sempre amanti dell’arte. Ma l’amore non è più un valore religioso:
esso è divenuto un valore politico. Philia, l’amore/amicizia, costituisce la polis, la città. C’è un Noi
tutti soggiacente all’amore dell’arte. Noi tutti significa Te e me, questo Noi comunitario fa da
cornice al tocco che la presenza dell’opera d’arte fa sentire nel mio corpo che soffre e gioisce. La
deduzione ci porta così a una tappa che richiede finezza di comprensione. Questo sofferenza e
questa gioia, la mia esperienza estetica vissuta nella sua singolarità e nella sua concretezza, in vivo,
questo tocco che è a me e a me solo, non può essere vissuto se non c’è un compatire, una convivenza. Tutto è nell’in vivo, nel vivere: in questo caso vivere il tocco di una presenza assoluta. Il
sentimento della vita è un sentimento universalizzante: esso implica e genera un Noi come comunità
di vita, un Noi di con-passione, di con-vivenza. La vita non mi appartiene: essa è di noi tutti. E il
tocco dato dalla presenza dell’opera d’arte mi fa sentire che la vita, la quale culmina nel mio
sentimento proprio di vita nel corso di un’esperienza estetica, non è mia ma di tutti. Questa
trascendenza implica un’etica, la sola possibile in questi tempi post-nicciani. Questa etica non è
vitalista o naturalista, dato che la morte, il vuoto e l’assenza vi sono iscritti. Soprattutto questa etica
si rivolge a noi attraverso oggetti di cultura: le opere d’arte, questuanti d’amore. Questo sostrato
etico-antropologico fa sì che estetica e politica siano per sempre legate, che non ci sia amore vitale
dell’arte senza accettazione della libertà vitale dell’altro. Questa vita che mi percorre, ma non mi
appartiene. La vita di tutti noi, ha la temporalità di un’oscillazione, quella del ritmo del nostro
corpo, del battito dei nostri cuori, della contrazione delle viscere, della vibrazione delle corde del
nostro animo nel corso della “visita” dell’arte, del tocco della sua presenza. La deissi non è più
allora essenzialmente una questione di discorso. È un restare a bocca aperta. E in ogni modo
!14
l’esibizione dell’opera d’arte è un tocco senza parole. In questo territorio delle arti e del loro
impatto i poli della deissi oscillano come la vita e l’animazione vitale del nostro corpo. Si compie
così la dialettica che ci ha condotti dal Me attraverso il Te fino al Noi, dalla presenza alla vita
attraverso il tocco.
!15