Regione Himalayana (PDF file - 59 Kb)
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Città di Torino Fondazione Torino Musei Compagnia di San Paolo In collaborazione con Regione Piemonte Regione Himalayana I bronzi dorati di gDan-sa-mthil di Franco Ricca La piccola sala che sta al centro della galleria dedicata ai Paesi Himalayani contiene un gruppo di opere che sono il frutto degli stretti legami stabilitisi dal XII secolo fra il Tibet e il Nepal. Mentre la prima fase della produzione artistica tibetana si era direttamente ispirata ai modelli forniti dall’India (dal Kashmir per i grandi centri del Tibet occidentale, dal Bengala per i maggiori monasteri del Tibet centrale), dopo il declino del Buddhismo seguito in India alle invasioni islamiche i maggiori apporti estetici e tecnici sono pervenuti dal Nepal1. Ciò è particolarmente vero per quanto riguarda la pratica della fusione e della doratura di statue e decorazioni in bronzo2. Come conseguenza dell’intensa serie di committenze che dai monasteri del Tibet giungeva ai laboratori della Valle di Kathmandu si ebbe l’insediamento (prima provvisorio e poi permanente) di cospicui nuclei di artigiani nepalesi di etnia Newar nelle località in cui il fervore religioso e la volontà di affermazione dei signori del luogo promuovevano la fondazione di templi e provvedevano a rifornirli di statue di metallo e di strumenti rituali. La presenza e l’attività di questi nuclei newar durò per secoli. Importante fra i bronzi dorati esposti in questa sala è un grande frammento di prabhamandala (aureola luminosa che circonda le divinità pacifiche del Buddhismo tibetano), dell’altezza di 88 cm, in rame sbalzato e dorato con turchesi incastonati, che mostra i caratteri tipici della produzione degli artigiani Newar operanti in Tibet alla metà del secolo XV e presenta, racchiuse nei viluppi di un vegetale rampicante, le figure di un nagaraja (re dei serpenti e protettore dei tesori contenuti nelle profondità delle acque) e di Manidhara (il Portatore del Gioiello). Un altro brillante esempio è rappresentato da una piastra di rame dorato del XVI secolo, della larghezza di 63 cm, che raffigura Jambhala, dio della ricchezza e re degli Yaksha (esseri semidivini degli alberi e delle foreste), ritratto seduto in posizione regale su un trono decorato di fronde. Tiene nella destra un cedro e regge con la sinistra la mangusta sputa-gioielli. Il trono è affiancato da due pilastri vegetali, nascenti da vasi dorati, con il fusto che fiorisce aprendo all’apice una corolla di loto. Ai lati si trovano due leoni di foggia cinese con folte code e criniere. Ma il nucleo fondamentale delle opere esposte in questa sala è rappresentato dagli oggetti che provengono dall’area di gDan-sa-mthil. È questo il monastero fondato nel 1158 da rDo-rje-rgyal-po, centro religioso e politico dei Phag-mo-gru-pa (una sotto-scuola della setta bKa’-rgyud-pa) che nel corso dei secoli XIII e XIV divennero la forza dominante nel Tibet centrale, contrapponendosi all’egemonia Sa-skya-pa e opponendosi al dominio mongolo3. All’inizio del XIV secolo i Phag-mogru-pa, saldamente installati nella valle dello Yarlung, videro il loro insediamento Museo d’Arte Orientale via San Domenico 9 /11 10122 Torino www.maotorino.it convalidato da Khubilai Khan che ne fece una miriarchia gravitante intorno al seggio abbaziale di gDan-sa-mthil e alla capitale politica di Nédong. I monumenti di gDan-sa-mthil fiorirono in un momento storico in cui si dispiegava in Tibet l’egemonia dei Phag-mo-gru-pa che produssero uno sforzo tenace, anche se vano, per sottrarsi all’influenza politica e culturale di Mongolie Cinesi. Fu questo uno dei pochi momenti nella storia del Tibet in cui si manifestò una reale aspirazione all’indipendenza e si sviluppò un’azione conseguente per riaffermare le tradizioni dell’antico impero tibetano. Travolti in seguito da lotte interne e da aggressioni straniere, i Phag-mo-gru-pa rappresentarono comunque un punto alto nella vita politica e culturale del Tibet, di cui le meraviglie di gDan-sa-mthil parlarono a lungo ai pellegrini che da ogni parte del paese si recavano a visitare il monastero. Dal 1351 al 1481 il monastero di gDan-s-mthil fu la principale sede del potere temporale e spirituale in Tibet. I suoi tesori artistici erano famosi in tutto il mondo buddhista e particolarmente famosi erano i suoi diciotto grandi stupa rivestiti di piastre e statue di rame dorato che contenevano le salme dei grandi signori e dei grandi abati Phag-mo-gru-pa. Oggi, dopo le distruzioni della Rivoluzione Culturale, restano soltanto rovine a testimoniare l’antica presenza di quello che fu uno dei più importanti gruppi di sculture in metallo della regione himalayana. Alcuni pezzi salvati dalla distruzione hanno raggiunto i musei e le grandi collezioni private e di questi fa parte la statua del lokapala Virudhaka, il Re Guardiano del Sud, venuta in possesso del nostro Museo ed esposta al centro della sala4. Le qualità estetiche della scultura si manifestano nel volto potente ed espressivo, nel modellato del corpo, nell’articolazione delle mani, nel trattamento della capigliatura, nei valori plastici della corona. Tre analoghe statue di lokapala della stessa provenienza sono state finora pubblicate (una appartenente al Musée Guimet di Parigi, altre due finite in collezioni private): sfortunatamente sembra che non ne siano sopravvissute altre. Tutte queste sculture presentano dimensioni simili e mostrano strette analogie iconografiche e stilistiche. Del tutto simili sono i dettagli della corazza, i medaglioni con turchesi e coralli incastonati, le acconciature e le corone, gli stivali di tipo mongolo e cinese, le teste di leone sulle spalliere. Pur trattandosi di un’iconografia tipica della Cina e dell’Asia Centrale che i Tibetani trassero dal periodo del loro controllo sulla Via della Seta e sulla zona di Khotan, la scultura rivela tipici caratteri stilistici importati in Tibet da quegli artisti newar della Valle di Kathmandu che avevano contribuito in modo fondamentale alla creazione di un’arte nazionale tibetana. Oltre alla statua di Virudhaka il Mao possiede alcuni altri frammenti decorativi in bronzo dorato che provengono da uno stupa di gDan-sa-mthil. Ne fanno parte due rilievi di pregevolissima fattura che ritraggono gruppi di dakini in atteggiamenti che accennano a un movimento di danza, una piccola dakini fusa in rame, essa pure dorata, che leva le braccia sopra al capo a reggere una doppia corolla di loto ad apparente sostegno di un cornicione aggettante, e un prezioso fregio ornamentale che nasce dal vaso dell’ambrosia come un rampicante nelle cui volute sono rappresentate varie piccole figure di divinità con diversi attributi. Celebre è il caso del giovanissimo artista Aniko che, giunto a Sa-skya per erigervi uno stupa, vi raggiunse una tale fama da venire poi chiamato alla corte cinese dove finì con l’assumere un ruolo di direzione di tutti i laboratori imperiali dediti alla produzione di opere d’arte buddhiste. 2 È abitudine diffusa nel campo dell’arte himalayana indicare genericamente con il termine “bronzi” una serie di manufatti metallici in diverse leghe di rame che possono variare dal rame puro al bronzo vero e proprio (lega rame-stagno) e all’ottone (lega rame-zinco) e possono altresì comprendere diversi additivi metallici in varie proporzioni. I bronzi vengono spesso dorati ricorrendo all’amalgama di mercurio (doratura “a caldo”), ma talvolta applicando sulla superficie una sospensione di finissima polvere d’oro (doratura “a freddo”). Molto raro nell’area himalayana è il ricorso all’applicazione di sottili foglie d’oro, che è invece dominante per esempio nei paesi del Sudest Asiatico. 3 Giuseppe Tucci: Tibetan Painted Scrolls, Roma 1949 (passim); Tsepon Shakabpa: Tibet. A political History. New York 1984, pp. 73-91; Laurent Déshayes: Histoire du Tibet. Paris 1997, pp. 114-123. 4 Insieme con Vaishravana, Virupaksha e Dhrtarashtra, Virudhaka fa parte dei Grandi Re Guardiani preposti alle quattro direzioni dello spazio secondo la cosmologia buddhista. L’esempio più antico di divinità guardiana è fornito dai Guardiani dello stupa di Rawak (IV secolo) nella regione di Khotan la cui armatura sembra riprodurre l’armatura difensiva di cuoio laccato rivestita dai soldati cinesi nel Turkestan orientale e presenta grandi somiglianze con le armature dei guerrieri sogdiani. L’origine di questo costume sarebbe nell’Asia Occidentale e rivelerebbe l’influenza della Persia Sasanide. 1