In viaggio con Brunilde e Rosamunda

Transcript

In viaggio con Brunilde e Rosamunda
Gli assilli di un inviato speciale
In viaggio
con Brunilde e Rosamunda
GIORGIO TORELLI
Chiamavo così le due supreme macchine
fotografiche tedesche che mi hanno
accompagnato lungo il profilarsi
del mondo. Allora, ogni immagine
era a rischio perché diventava impossibile
averne immediato riscontro, magari al 72°
parallelo in Groenlandia, quasi a Capo Horn
nella Terra del Fuoco, nella pampa,
tra i Masai o sul Rio delle Amazzoni.
Custodivo i rullini impressionati come un
bottino di caccia grossa al bello e al vero.
E adesso non smetto di stupirmi al vedere
foto comparire in silenzio sul computer,
trasmesse col telefonino in tempo reale,
da vicino o da lontanissimo, come se un
miracolo appartenesse all’ovvietà.
NOTIZIARIO
Elzeviri
C
on la stessa sgranata
stupefazione che m’irretiva quando mio padre – io
bambino – ingigantiva sul
biancore dei muri di cucina le coloratissime figure a lastra della lanterna magica di famiglia, vedo
adesso dilatarsi dentro il bocca-
Travelling with Brunhilda and Rosamund
The world is no longer a place for heroic and pioneering
journalism where a correspondent was also a photographer who
was anxious to capture a fleeting moment that would never return
with his trusty reflex cameras. Nor was there any possibility of
making sure that one shot, amongst the hundreds he had taken,
would be worthy of a magazine page. Other times,
other temperaments, other partners in adventure. For example,
a pilot that might have taken you soaring over a mountain top in
search of an exclusive photograph, who years later you find in one
of those newspaper to which he himself had contributed,
the victim of a fatal accident. As always, life and death are always
an amazing adventure.
116 ELZEVIRI
scena del computer le fotografie
che gli amici hanno appena ripreso
e spediscono in prima visione, da
vicino o da lontanissimo. Tutto
avviene con morbida naturalezza
come se un clamoroso evento fiorisse dall’ovvietà e non dovesse –
sempre – convocare le piccole
estasi della meraviglia.
Le immagini sono perfette e
scorrono in punta di scarpette fin
quando il computer, a un tattile
sollecito dello sgonfietto chiamato
mouse, rintana le foto e le tien
pronte per ogni successiva esibizione. È fatta: l’arte spicciola della
fotografia digitale (camere-piuma
con tutto prepensato) ha ormai
prevalso sull’arte pensosa di quello che fu l’esercizio vocazionale del
testimoniare – a scatti – il circostante col rigore monastico del
bianco e nero o con l’eccitazione
dei colori.
Noi di allora (non molto poco
fa); noi delle pellicole da sviluppare
dentro claustrali laboratori dalle
penombre rosse e in bagnarole
d’acidi rivelatori; noi dei negativi
appesi ad asciugarsi (un prudente
bucatino di celluloide) e poi sbirciati controluce uno a uno così da
selezionare la stampa su carta dei
soggetti e prospettarsi gl’ingrandimenti del caso; noi siamo diventati pittoreschi padri pellegrini dell’obiettivo, quelli – per dire – che
navigavano ancora a vela, affrontando ansiose e calibrate procedure di rotta per arrivare al dunque
delle fotografie finalmente pronte,
squadrate, e a progressiva, lenta
degustazione.
Nel mio far giornalismo per
decenni fin dove il mondo si restringe, ne ho attraversate tante di
ansie fotografiche prenatali («Saranno venute tutte le foto del rulli-
Sopra, a sinistra: Isole Figi.
Giorgio Torelli racconta la storia
di Ratu Tevita Mara, capo
dell’isoletta di Serúa. Ratu e la
moglie sono amabili nipoti di
cannibali.
A destra: reportage dal Kerala:
incontro con l’italiana Lauretta
Farina che vive tra i pescatori di
Marianad per mutarne le sorti.
A fianco: Egedesminde,
Groenlandia, estate. Giorgio
Torelli al sole di mezzanotte.
Above, left: the Fiji Isles. Giorgio
Torelli tells the story of Ratu
Tevita Mara, chief of the island
of Serúa. Ratu and his wife are
the friendly grandchildren of
cannibals. On the right:
reportage from Kerala: a
meeting with the Italian Lauretta
Farina who lives with the
fishermen of Marianad to
change their fate. Alongside:
Egedesminde, Greenland,
summer. Giorgio Torelli in the
midnight sun.
ELZEVIRI 117
Giamaica, reportage
sulla hospital ship
“Hope”, arrivata in
porto a Kingston per
aggiornare medici
locali e praticare
interventi chirurgici
decisivi.
Jamaica, reportage
on the hospital ship
“Hope”, which docked
in Kingston to
update local doctors
and perform decisive
operations.
Argentina, Torelli va
a vivere coi gauchos
della Pampa per
raccontarne i giorni
e le avventure.
A fianco:
il giornalista con gli
incuriositi eschimesi
della Baia di Baffin.
Argentina, Torelli
goes to live with the
gauchos of the
Pampa to relate their
days and adventures.
Alongside:
the journalist with
the curious Eskimos
of Baffin Bay.
118 ELZEVIRI
no? Le immagini risulteranno nitide? Saranno a fuoco? Avrò interpretato bene la così esigente apertura dell’obiettivo? Avrò calcolato a
modo i giusti tempi d’esposizione
in eventuale contrasto intimo con
l’esposimetro ben temperato?»).
Volavo in luoghi estremi dove
non avrei potuto e, se possibile,
mai osato, far sviluppare come
test di conforto almeno uno dei
tanti rullini impressionati e così
cavarne un sospiro di sollievo professionale. Partivo sempre con le
armi fotografiche di cui mi dotavo:
due Leica, raffinate creature dell’ingegno ottico tedesco; talora portavo anche la madre nobile della fotografia, la Rolleiflex 4 per 4; e poi
teleobiettivi, filtri, esposimetro da
tenere al collo come una bussola
di pronto impiego per far cabotaggio nella luce. Possedevo una borsa inglese da caccia stipata, invece che di cartucce, di rullini a diversa sensibilità. Altri pacchi di rullini
li tenevo, di scorta e al riparo,
dentro la valigia da pilota americano con cui m’inoltravo. I settimanali a grande diffusione per cui lavoravo da inviato speciale mi chiedevano anzitutto di “vedere con la
penna” le cose e le persone. Ma,
essendosi confermata la possibilità di illustrare io stesso i miei reportages senza che un fotografo
dello staff redazionale dovesse
farmi da compagno e moltiplicare
la spedizione (a me, poi, piaceva
viaggiare da solo e parlare con me
stesso di quel che scoprivo), avevo
un solo mandato (la frase è di
Montanelli): «Tornare col carniere
pieno di belle storie».
Accadeva dunque che il mio
impegno sui luoghi del bersaglio di
lavoro, raddoppiasse: testo e foto
in armonia sponsale.
Mi preme anche dire che non
ho mai rappresentato guerre o rivoluzioni, ma sempre fisionomie di
luoghi attraverso i ritratti di personaggi individuati col sesto senso e
delibati con calma e sincero desiderio di dialogo e di intreccio. Tutto
quel che volevo raccontare andava
scovato con passione, disciplina,
lucidità d’intenti e piccole perizie
tecniche perché la pariglia delle
Leica, un bel momento entrate in
scena, mi secondassero con amichevole docilità: pronte, instancabili, rigorose, belle e altere. Il resto
toccava a me: impiegare a modo
Rosamunda e Brunilde (così le
avevo battezzate) per esserne corrisposto a dovere.
Supponiamo che io partissi
da Milano con duecento rullini in
bianco e nero e altrettanti a colori.
La malizia tecnica per riportare
veramente a casa fotografie indispensabili era questa: «Fai molti
scatti per uno stesso soggetto,
qualche scatto con l’esposizione Undici metri di neve
che ti sembra indovinata e altri attorno all’ospizio
del Gran San
scatti di supporto, sottoesposti o
sovraesposti. Nel mazzetto degli Bernardo, raggiunto
col pilota delle vette
aggiustamenti, fiorirà l’immagine
Hermann Geiger.
che esigi».
Il proposito: far
I fotografi professionali – vec- Natale insieme ai
chie volpi con l’occhio aduso ai monaci sciatori e
mirini – ribadivano la praticità del con i loro cani da
valanga.
concetto, che – di converso – sul
campo, si rivelava banale e perfino
Eleven metres of
supponente. Le fotografie – contisnow around the
nuavo a pensare – devono carpire hospice of the Gran
l’attimo principe perché ogni frazioSan Bernardo,
reached with the
ne di tempo diverge da quella
precedente. Come d’incanto, il pilot of the summits
Hermann Geiger.
soggetto si sbilancia magari di
The aim: to spend
pochissimo, la situazione si cor- Christmas with the
rompe, l’insieme non trasmette skiing monks and
più il richiamo per cui volevi, assoavalanche rescue
lutamente volevi, la foto di quel
dogs.
preciso, tassativo e irrinunciabile
momento.
Così, andavo alla ventura seguendo l’istinto. E continuavo a
fotografare di getto e per immediatezza, senza le preoccupazioni del
fare e rifare. In una parola: azzardavo, sperando che Brunilde e
Rosamunda si confermassero così virtuose da supplire ogni mia
disinvoltura.
La sera, dovunque fossi, nelle tante camere d’albergo dove
ponevo quartiere, pulivo con rigore
le due Leica rientrate dal lavoro. E
lo facevo con la stessa cura che
dovevo riservare al fucile in dotazione (un ottimo Enfield britannico,
reduce dalla guerra in Italia) quando vestivo i panni della recluta di
Fanteria (1954-55) e la consegna
per chi fosse colto con l’arma bistrattata era tassativa e urlata.
Tutto in ordine, mi dicevo, la
sera e la notte in hotel, tutto a
posto; ma fingevo, perché nel retropalco della mente, ancora e di
nuovo, si disegnava in bodoni l’interrogativo senza immediata risposta: e se le immagini non fossero
state impresse nella pellicola, se
– che so io e non potevo saperlo
– le due Leica avessero subìto un
inciampo interno, una ritenzione di
pellicola o una balbuzie meccanica? Bisognava soffrire e sperar
bene, ridirsi: vedrai che sarà tutta
gloria.
Faccio il caso di un viaggio
perché il lettore intenda le mie
rinnovate apprensioni e se ne faccia cortesemente partecipe. Ero
alle isole Samoa occidentali, smeraldi a galla sull’immensità del
Pacifico. Dovevo raccontare con
calma , da Apìa, il trasognato vivere degli isolani ignari e felici in
bungalow spalancati ai sentori e
alle brezze dell’oceano e con i
frutti dell’albero del pane pendenti, rigonfi e carnosi, appena davanti alla cerchia dei pali di sostegno,
tutti rampicati dal tinteggio fluorescente della botanica tropicale.
Mi aggiravo nell’eden di una
piccola società discinta, appartata, curiosa, culturalmente intatta,
ospitale e feconda. Le sabbie delle
riviere, di un rosa-corallo accecante, stordivano la vista. Samoa è il
luogo dove trovò estremo rifugio e
pace lo scrittore Robert Louis Stevenson , il celebrato autore dell’Isola del tesoro. Costruì a Vailima, per
se stesso e i suoi, una splendida
dimora vasta e ariosa, tutto legno
isolano con voluti cedimenti all’aristocrazia del colore blu. I samoani
lo chiamavano Robert Tusitala, che
significa: «Colui che racconta belle
storie».
A sua volta, Stevenson definiva i samoani come «i più felici
della Polinesia, semplici, allegri,
amanti del piacere. I loro canti non
hanno mai fine». Quando Tusitala
morì, nel 1894, il suo volere fu
onorato: esser portato da un corteo di duecento samoani fin sul
picco del monte Vaca, ripido, fangoso ed elevato 340 metri. E lassù
dormire il sonno eterno dentro una
tomba di pietra chiara, preciso sigillo nel verde unanime della vegetazione d’altura. Il viscido e ostile
sentiero che i samoani percorsero
con la bara di Stevenson, retta a
più spalle, venne poi chiamato: «La
strada dei cuori che amano».
Bene, allora. Decisi che avrei
fotografato ad ogni costo la tomba
di Stevenson, ma come? Le piogge avevano dilavato il monte Vaca
e il tracciato per appetire la vetta
si svelava abbruttito da tre palmi
ELZEVIRI 119
In alto, a sinistra: Umanaq, Groenlandia, il
villaggio con la montagna “a cuore di foca”.
È estate, gli icebergs con un rombo si
frantumano. La domenica, gli eschimesi
vestono il costume nazionale.
A destra: Kenya, riserva Masai oltre la Rift
Valley. In missione col Piper Cherokee della
dottoressa-pilota Anna Spoerry dei Flying
Doctors. Ambulatorio all’aperto vicino a un
termitaio abbandonato, 50 gradi.
A fianco: Terra del Fuoco, Ushuaia, quasi
Capo Horn. Il campanile più a sud della
Terra tra selve, dighe di castori e monti
innevati.
Above, on the left: Umanaq, Greenland, the
village with the “seal heart” mountain.
It’s summer and the icebergs break up with
a rumble. On Sundays, the Eskimos put on
their national dress.
On the right: Kenya, a Masai reserve beyond
the Rift Valley: in mission with the Piper
Cherokee of the doctor and pilot Anna
Spoerry of the Flying Doctors. An open-air
surgery near an abandoned anthill,
50 degrees.
Alongside: Tierra del Fuego, Ushuaia, almost
at Cape Horn: the southernmost bell tower
in the world, amid forests, beavers’ dams
and snow-topped mountains.
di limo succhioso. Non c’era che
una soluzione: convincere il pilota
dell’attempato DC3 presente sulla pista di Apìa, un bimotore di
fusoliera argentea, vecchio di
trent’anni ma impavido, il solo
aeroplano che collegasse le isole
circostanti con l’insegna ambiziosa Polynesian Airways, persuaderlo, coi dollari alla mano, a decollare per me e compiere, a più virate, ripetuti passaggi sopra la
cima del Vaca.
Il comandante era un canadese con la pipa tra i denti, capelli fulvi. Anche io avevo la pipa. Ci
scambiammo il tabacco. Per una
cifra ragionevole l’accordo fu sottoscritto. Decollammo con quel
magnifico rombo che i DC3, veterani di guerra, rilasciavano generosamente. Fatta quota, principiò il
torneo, passare e ripassare sulla
tomba di Tusitala, io di fianco al
pilota, il vetro del finestrino tirato,
ancora io a sporgere la Leica e
premere, premere, riuscendo appena ad inquadrare cima e tomba,
rimaste subito indietro per la velocità del DC3.
Altro passaggio: «Più basso,
più basso comandante!», gridavo.
Il pilota faceva il massimo, ma la
regola della sicurezza gl’imponeva
di tenere la quota corretta. In fine
atterrammo. Il pilota era divertito,
volle brindare al possibile risultato
con una birra neozelandese. Il DC3
era stato bravissimo. Chissà se io
avevo fatto altrettanto bene la mia
parte di mitragliere-fotografo. Il
rullino restava al sicuro nel buio
fondo della Leica – Rosamunda o
Brunilde – con cui m’ero cimentato, il vento in faccia e i tremiti altisonanti dei motori indosso. Rovello, però. Il solito rovello: e se le
fotografie fossero sfuocate, mosse, alterate dalle cavalcate a fior
di monte e dagli sbalzi inevitabili
del pur glorioso aeroplano? Di certo non avrei potuto far sviluppare
in Samoa il rullino a colori. Ancora
una volta, dovevo attendere il rimpatrio via Figi, Hawaii, California,
New York, Londra, Milano, mezzo
giro del mondo a farla breve.
Consolazione: a Milano, affidati i molti rullini al tecnico e rimanendo appostato accanto alla
porta del laboratorio come un
Oceano Pacifico,
Isola di Samoa:
padre che aspetti notizie di una
la tomba dello
nascita, contavo i minuti smisurascrittore Robert
ti fino alla voce liberatoria dal di
Louis Stevenson,
dentro: «Tutto okay!». L’impresa, fotografata da un
così remota ormai, era andata a DC3 in volo radente
segno. Il settimanale per cui lavosul monte Vaca.
ravo, partivo e ripartivo, era servito – come s’usava dire – di barba The Pacific Ocean
Island of Samoa:
e di parrucca.
the tomb of the
Le pagine a colori erano gaRobert Louis
rantite. L’articolo – molte pagine writerStevenson,
– l’avevo già in canna e adesso photographed from a
non c’era che disporsi davanti alla hedgehopping DC3
Olivetti e raccontare. Particolare:
on Mount Vaca.
un anno dopo ero a Roma per
un’intervista e andavo di fretta
verso l’aeroporto. A un semaforo
comprai un giornale del pomeriggio da uno strillone. Tra i titoli ce
n’era uno: «DC3 delle Polynesian
Airways perde un’ala e s’inabissa
nel Pacifico».
Era lui, il mio DC3 di Samoa,
la nostra freccia sul monte Vaca, il
pilota di cui mi tornava il sembiante scanzonato, quell’argentarsi della fusoliera all’antica. La commozione dilagò. Mi venne solo da
pregare, poche parole, adagio.
ELZEVIRI 121
Davide Marcolli
Tortura per
adolescenti
LUCA GOLDONI
R
itrovo su un vecchio taccuino queste note
sull’“apparecchio”. Stamattina sono uscito
con lo scopo preciso di guardare la bocca
e possibilmente i denti della gente pressappoco della mia età. Chi li aveva più fitti, chi più
radi, forse non erano tutte chiostre smaglianti da
réclame di dentifricio, ma comunque non ho scoperto nulla di sconvolgente. Eppure la mia generazione
è cresciuta senza “apparecchio”, croce senza delizia
dei nostri figli.
Tutto comincia quel giorno in cui il bambino
torna da scuola con un avviso che invita i genitori ad
accompagnarlo all’istituto dei denti. Si crea subito
uno stato d’allarme, il ragazzo non ha carie, spacca
le noci con i denti, di cosa può trattarsi? Si va all’ambulatorio e dopo lunga attesa tra file di bambini che
hanno avuto lo stesso invito, si è ricevuti dal professore, famoso mago dell’ortognatodonzia (vocabolo
conturbante che ci ha fatto sfogliare il dizionario).
Circondato da uno stuolo di assistenti, il maestro inizia la visita, apri, chiudi, e si rivolge ai discepoli in gergo scientifico. Quando la madre è sul
punto di svenire, convinta che quel linguaggio grave
ed indecifrabile riguardi un caso senza precedenti, il
professore si decide a concludere la lezione e a rivolgersi con parole comprensibili agli interessati:
l’arcata è stretta, la parte superiore sporge rispetto
a quella inferiore, ci vuole l’apparecchio per tre anni.
A casa si discute, è meglio l’apparecchio, a
costo di creare dei complessi, o lasciamo perdere?
Nessuno di noi è diventato un mostro anche se ab-
Torture for teenagers
When two sensitive parameters such as health and fashion appear
together, there can be paradoxical and unforeseeable
consequences. Indicative of this situation is the blessed or cursed
“dental braces”. For some years now, this has been a source of
torment for all parents who have the smile of their offspring at
heart and one of joy for doctors specialized in orthognathodontics.
The whole family is mobilized for the period of treatment, so that
not even one minute of the precious applications is wasted.
Sometimes the precautions veer on the paradoxical but, above all,
for the unlucky “patient”, they can become a form of real torture.
It’s true that you have to suffer to be beautiful, but in some cases
the intervention can be exasperating.
122 ELZEVIRI
biamo qualche capsula. Ma è chiaro che si decide per l’apparecchio
(se ci dicessero che nostro figlio
ha il mignolo leggermente curvo, lo
faremmo ingessare subito fino
all’omero).
Così la nostra vita comincia
ad essere condizionata dall’apparecchio che ci segue ovunque,
d’estate al mare, d’inverno in montagna; si torna indietro, dopo cento
chilometri d’autostrada, perché la
madre s’è accorta con un urlo di
avere dimenticato l’apparecchio.
Bisogna litigare con le nonne che
insorgono, “povero cocco è una
tortura”; bisogna arrabbiarsi col
bambino che, dopo un trimestre,
pretende di avere già sistemato
l’arcata superiore: “I denti sono
tuoi, non miei, mettiti subito l’apparecchio”. Il bambino tenta di
eccepire. Cosa dice?, chiede il
marito alla moglie che, miracolo
della maternità, riesce anche a
decifrare il gorgoglio emesso dal
figlio con lo strumento in bocca.
Questi apparecchi sono più o
meno allucinanti, vanno dal più
semplice – cioè il calco di plastica
rosa che il bambino ha imparato
ad applicarsi sotto il palato e a
togliersi per immergerlo nel bicchiere sul comodino – all’archetto
d’acciaio da applicare con gancetti
ed elastici e qui ci vuole l’intervento della madre, polso fermo come
quando s’infila l’ago.
Ogni due o tre giorni bisogna
cambiare gli elastici, il padre ha
scoperto una cartoleria dove vendono quelli della misura giusta,
soltanto uno sprovveduto può illudersi che gli elastici raccolti via
via in casa, e conservati nel vecchio samovar, vadano bene per le
arcate.
Il bambino va a letto con
tutti i suoi tiranti, qualche volta di
notte ci sveglia, grida che gli è
partito un elastico; accorriamo e,
a vederlo con quel morso in bocca
– gli mancano soltanto le briglie –
ci assale un’ondata di tenerezza.
Mi viene da sorridere alla tesi che
le nuove generazioni siano ribelli
e ribalde; abbiamo delle generazioni di martiri.
Talvolta l’apparecchio si perde, la vita familiare si paralizza,
tutti cominciano a cercarlo incolpandosi reciprocamente di negligenza; un giorno lo strumento salta fuori, incastrato nel cassettone
del letto e resta (insolubile) il dubbio se c’è finito per caso o se ce
l’ha sistemato il bambino con l’arcata superiore eccetera.
Passano gli anni, ogni tanto
viene lanciato un nuovo apparecchio e le madri si telefonano subito, se lo consigliano, se lo spiegano, basta avvitare un piccolo bullone. Al “complesso” ormai non ci
pensa più nessuno. Se mai il complesso viene a quei poveri bambini
che hanno le arcate banalmente
regolari, non hanno bisogno di
nessun apparecchio e non sanno
cos’è l’ortognatodonzia.
GAVINO MANCA
Immanuel Kant
La pace della ragione
L
a guerra è la cosa più facile del mondo, osserva Immanuel Kant; non così la
pace, che è una conquista
della ragione e quindi un atto di
volontà dell’uomo. Il pamphlet kantiano Per la pace perpetua non è
tra le opere più note del grande
filosofo tedesco ma è molto utile
per inquadrare compiutamente
quel movimento di pensiero a favore della pace, fiorito nei secoli XVI,
XVII, XVIII, che va sotto il nome di
irenismo; inoltre può aiutarci a cogliere il senso più profondo dei
movimenti e dei progetti impegnati a evitare il ripetersi delle grandi
tragedie del passato.
Se la pace autentica, “perpetua”, si può conseguire solo attraverso l’esercizio della ragione, allora è chiaro che la pace appartiene
all’uomo solo in quanto egli saprà
essere capace di un giudizio autonomo al di fuori e al di sopra di
ogni condizionamento. Da ciò appare evidente che il messaggio
kantiano sfugge alla critica facile
rivolta al mito di un mondo arcadico e idillico, com’è quello descritto
dagli antichi poeti e filosofi – da
Esiodo a Platone – che presuppone una trasformazione completa
degli esseri umani, un capovolgimento totale della loro natura.
Esso è invece saldamente radicato su una visione reale e “politica”
della società, su una visione “storica”, che peraltro non gli impedisce di assumere un atteggiamento costruttivo per la fiducia nell’uomo, o meglio nel prevalere della
ragione dell’uomo.
La prova di questo realismo
kantiano è fornita dalla premessa
agli “articoli definitivi per una pace
perpetua tra gli Stati” dove si rivela che «lo stato di pace tra gli uomini non è certo uno stato di natura, quanto uno stato di guerra,
nel senso che, sebbene non vi
siano ostilità continuamente aperte, tuttavia c’è sempre una minaccia che esse vi siano. Bisogna
dunque renderlo stabile...». E a
questo fine tre sono le condizioni
fondamentali:
1) la costituzione civile di ogni
Stato deve essere repubblicana;
2) il diritto internazionale deve
fondarsi su una federazione di
Stati liberi;
3) il diritto cosmopolitico deve
essere limitato alle condizioni di
un’ospitalità universale.
Quanto alla prima condizione,
bisogna far presente che Kant intende per “repubblicana” una costituzione basata sul principio della libertà dei membri di una società (come uomini), sul principio
della dipendenza di tutti da un’unica legislazione comune (come
sudditi), sulla legge dell’eguaglianza (come cittadini); quanto noi
chiameremmo oggi più propriamente una costituzione democratica. Non è difficile comprendere
perché sia questa una condizione
fondamentale (la prima) per una
pace perpetua: «Se (né in questa
costituzione può essere altrimenti)
si richiede il consenso dei cittadini
per decidere se la guerra debba o
non debba essere fatta, niente di
più naturale dal pensare che, dovendo far ricadere su di sé tutte le
calamità della guerra (combattere
di persona, sostenere di propria
tasca le spese della guerra, riparare le rovine che essa lascia dietro
e, infine, per colmo di sventura,
Per Immanuel Kant
(1724-1804), grande
filosofo tedesco,
la diffusione della
democrazia è la
prima condizione per
la pace perpetua.
For the great
German philosopher
Immanuel Kant
(1724-1804),
widespread
democracy is the
first condition for
perpetual peace.
assumersi il carico di debiti mai
estinti – a causa di sempre nuove
guerre –, amareggiando così la
stessa pace), essi ci penseranno
sopra a lungo prima di iniziare un
gioco così malvagio».
Diverso discorso vale naturalmente per quei regimi nei quali «il
suddito non è cittadino» e la forma
di governo non è quella rappresen-
Immanuel Kant. The peace of reason
The Kantian idea of “perpetual peace” as an objective for civil
society is not a casual invocation of an idyllic world. Reason must
be applied in the very best way in order to achieve this
undertaking. This political goal requires several inevitable
elements: a republican form of state, a federation of free states,
an international idea of universal hospitality. In this direction,
it would be very opportune that permanent armies disappear, as
they pose a continuous threat to peace. Furthermore, there can be
no contrast between politics, the practical doctrine of law,
and ethics, theoretic doctrine. Its message begins with the
consideration that honesty is the best policy.
ELZEVIRI 123
tativa; laddove «il sovrano non è
membro dello Stato, ma ne è il
proprietario». In tal caso, rileva
Kant «la guerra è la cosa più facile
del mondo ... perché chi la dichiara
nulla perde dei suoi banchetti,
delle sue cacce, castelli, ecc.».
Quanto ciò sia – purtroppo – vero,
la storia lo prova ampiamente.
Se l’affermazione che la diffusione della democrazia è la prima
condizione per la pace perpetua
costituisce un fatto estremamente
importante sul piano della dottrina
politica, il secondo “articolo definitivo” – anch’esso determinante –
presenta un significato ed un’attualità del tutto particolari. Kant
sostiene infatti che, per evitare la
guerra, è altresì necessario che il
diritto internazionale si fondi su
una federazione di Stati “liberi”,
cioè democratici. Analogamente
agli individui che hanno superato
lo stato di natura sottomettendosi
ad una legge comune, così gli
Stati, pur conservando la loro sovranità, dovrebbero costituire una
federazione in cui risolvere, senza
conflitto, i loro rapporti.
124 ELZEVIRI
«Per gli Stati che stanno in
relazioni reciproche non vi è altra
maniera razionale di uscire dallo
stato di natura senza leggi, che
comporta sempre guerre, se non
rinunciando, come gli individui singoli, alla loro selvaggia libertà (senza leggi), sottomettendosi a leggi
pubbliche coattive e formando uno
stato di popoli (civitas gentium) che
si estenda sempre più, fino ad
abbracciare alla fine tutti i popoli
della terra». E che si possa aspirare a giungere a questa civitas gentium lo fa pensare, rileva Kant,
l’omaggio che ogni Stato (almeno
a parole) rende al concetto di diritto, che dimostra l’esistenza nell’uomo, «benché ancora latente..., di
una disposizione morale più grande destinata a prendere un giorno
il sopravvento sul principio del
male che è in lui (cosa che egli non
può negare), e a fargli sperare che
ciò avvenga anche negli altri».
Un’accentuazione profondamente umana traspare dalla terza
condizione fondamentale che Kant
pone per la pace perpetua: il riconoscimento del diritto cosmopoliti-
co ad una ospitalità universale. E
ciò sulla base del «possesso comune della superficie della terra
sulla quale, essendo sferica, gli
uomini non possono disperdersi
all’infinito, ma alla fine debbono
rassegnarsi a coesistere». Coesistenza che darà la forza agli uomini per vivere pacifici.
La terribilità degli
Purtroppo la realtà era (ed è)
ordigni bellici
diversa da quella auspicata dal
moderni ha reso
sempre più necessari grande filosofo il quale, del resto,
progetti di disarmo e ben se ne rendeva conto; il comdi “non
mento alla proposizione enunciata
proliferazione”.
condanna apertamente la politica
Nella foto,
di espansione imperialistica dei
l’esplosione della
Paesi civili europei che, trovato il
bomba atomica su
massimo sviluppo nell’Ottocento,
Nagasaki del 9
agosto 1945.
doveva poi clamorosamente fallire. Ed altrettanto profetico doveva
The awfulness of
mostrarsi il rilievo che «in fatto di
modern war bombs associazione di popoli... si è prohas made projects of
gressivamente giunti ad un punto
disarmament and
tale che la violazione del diritto
“non proliferation”
compiuta in una parte della terra
increasingly
viene risentita in tutte le parti...».
necessary. In the
photo, the explosion Di quanto sia valida tale affermaof the atomic bomb zione la storia della nostra epoca
on Nagasaki on
offre, purtroppo, una continua con9th August 1945.
ferma.
Questi i principi fondamentali
cui Kant aggiunge (anzi premette)
delle condizioni “preliminari” tra le
quali alcune presentano anch’esse una notevole attualità. Ad
esempio quella che nessun trattato di pace può considerarsi tale se
stipulato con la tacita riserva di
argomenti per una guerra futura; e
l’altra che gli eserciti permanenti
(miles perpetuus) devono col tempo scomparire, perché essi rappresentano una continua minaccia
alla pace e sono incompatibili con
la dignità dell’uomo cui si addice
«l’esercizio alle armi volontario e
periodico» ma non il mercenarismo. Esigenza quest’ultima che
ha trovato riconoscimento anche
presso i “pratici” della politica,
com’è provato dalla lunga serie di
progetti per il disarmo o per lo
meno la “non proliferazione”, resi
sempre più necessari dalle terribilità degli ordigni bellici moderni.
Ma forse il più significativo di
questi “articoli preliminari” è quello che afferma che «nessuno Stato
si deve immischiare con la forza
nella costituzione e nel governo di
Photo Oilime
un altro»; non vi è giustificato dalla
scusa di corruzione (scandalum
acceptum), poiché «il cattivo comportamento di uno Stato serve
piuttosto da ammonimento che da
scandalo»; e nemmeno da discordie interne perché l’intervento sarebbe «una violazione dei diritti di
un popolo che non dipende da
nessuno e che combatte contro
un male interno... e renderebbe
insicura l’autonomia degli altri».
Si è accennato all’inizio al rigore razionale che domina l’esposizione kantiana e mediante il quale è possibile cogliere – nella sua
perfetta unitarietà – il modello logico sottoposto; la stessa matrice
è alla base dell’affermazione, che
costituisce forse il merito maggiore del grande filosofo tedesco,
circa la necessaria identificazione
(o meglio subordinazione) della
politica alla morale. È questa, come è facile intendere, un’appendice essenziale a tutto il discorso,
perché il verificarsi di comportamenti come quelli auspicati è La scultura pacifista
strettamente in funzione di un Non violence dello
svedese Carl
convinto impegno sul piano etico.
Frederick, posta
L’argomentazione kantiana offre
probabilmente uno degli esempi all’ingresso visitatori
del “Palazzo di
più raffinati di logica (naturalmente
vetro”, sede delle
inquadrata in un certo “sistema” Nazioni Unite a New
filosofico): «La morale è già di per
York.
se stessa una pratica in senso
oggettivo, come insieme di leggi The pacifist sculpture
Non-violence by
che comandano incondizionatamente e secondo le quali noi dob- Swedish artist Carl
Frederick stands in
biamo agire, ed è evidente l’assur- the
visitors’ entrance
dità, dopo aver riconosciuto a queto the UN
sto concetto l’autorità che gli spetheadquarters
ta, voler affermare che però non lo
in New York.
si può attuare... Con ciò non può
esservi alcun contrasto tra la politica, quale dottrina pratica del diritto, e la morale, quale dottrina
teorica».
Al contrario, vi deve essere
identificazione, meglio subordinazione: «Sebbene la massima:
“L’onestà è la migliore politica”,
contenga una teoria che la pratica
purtroppo molto spesso smentisce, tuttavia la massima: “L’onestà è migliore di ogni politica”, è di
gran lunga superiore ad ogni obiezione, anzi è la condizione indispensabile di ogni politica». Siamo
di fronte ad uno degli insegnamen-
ti più alti che siano stati offerti, in
nome della ragione, agli uomini;
insegnamento spesso disatteso
ma che il profondo travaglio che
attraversa la nostra civiltà rende
particolarmente attuale. È sempre
più diffusa e viva la convinzione
che, in società che basano sul
principio di eguaglianza ogni rapporto di convivenza, il comportamento della classe politica sia
strettamente vincolato ai principi
della morale sociale.
Morale, politica, libertà: ecco
il necessario anello di congiunzione che costituisce anche qui la
chiave di volta del sistema: «È
certo che se non esiste nessuna
libertà e nessuna legge morale
fondata su di essa, ma tutto ciò
che accade o può accadere è puro
meccanismo della natura, allora la
politica è tutta la sapienza pratica
e l’idea di diritto è priva di senso.
Ma se si riconosce indispensabile
collegare tale idea alla politica,
elevandola anzi a sua condizione
limitatrice, allora si deve ammettere la conciliabilità delle due. Io
posso immaginare un politico morale, cioè uno che intende i principi
dell’arte politica in maniera tale
che essi possano coesistere con
la morale, ma non posso immaginare un moralista politico che si
foggi la morale a seconda della
convenienza dell’uomo di Stato».
È su questa base, in conclusione, che si fonda tutto il discorso
per la pace perpetua, sulla questione se «nei problemi della ragion pratica si debba iniziare dal
principio materiale, dallo scopo, o
dal principio formale che dice:
opera in maniera tale che tu possa
volere che la tua massima debba
diventare una legge universale». E
per Kant non può esservi che una
risposta. Egli distingue così tra
compito “tecnico” e compito “morale” che si differenziano l’uno
dall’altro come “il cielo dalla terra”;
e afferma che il secondo compito
richiede la sapienza politica che
«porta direttamente allo scopo...
pur senza dimenticare la prudenza... che avverte di non voler giungere al traguardo affrettatamente
e con la forza, ma di avvicinarsi di
continuo ad esso approfittando
delle circostanze favorevoli». È il
principio del gradualismo delle riforme, che non significa però immobilismo!
Cosa dire a oltre due secoli
dal messaggio di Kant, dopo aver
attraversato le esperienze tragiche
della guerra totale? Che veramente la “pace perpetua” costituisce
non già un’utopia, ma un’inderogabile esigenza per l’umanità. La
storia ci narra l’avvilimento, il disprezzo dell’uomo, la sua abiezione; noi storicamente siamo impegnati a negare questo disprezzo, a
non dare mai tregua e a non consentire mai la benché minima giustificazione alla violenza. Credere
nell’uomo e nel suo dono più grande, la ragione; essa – dice Kant –
«ci illumina sempre abbastanza
chiaramente su ciò che dobbiamo
fare per restare nella linea del dovere (secondo le regole della saggezza), e con ciò ci indica anche la
via verso il fine ultimo».
VITTORIO MATHIEU
Tra “puristi” e “anarchici”
Accademico dei Lincei
La lingua italiana si trasforma
II.
I.
The Italian language is transforming itself
A language is naturally a living system, subject to changes which
may also be consistent. Whilst in modern Italian journalism saying
“gli” or “i” for the plural of the masculine definite article before a
word beginning with “pn” arouses general indifference, we can
remember that Boccaccio, the father of Italian prose, was subject to
harsh criticism because by calling one of his characters Philostratus
he had mixed a Greek root with a Latin one. At times, it is caution
induced by respect that creates particular euphemisms: Jesus is
called the fruit of the breast, not of the womb, of the Virgin Mary.
The Commission for the Defence of the Italian Language at the
Ministry for Cultural Heritage still has a lot of work to do.
126 SOCIETÀ E COSTUME
nulla di solenne. L’uso ormai è
così diffuso che ai dizionari non
rimane che sostituire “verbo neutro” a “verbo attivo”.
L’uso è sempre decisivo? Su
ciò si battono due scuole estremistiche, i puristi e gli anarchici. Questi osservano che la lingua non la
fanno i grammatici, bensì i parlanti.
Quelli ribattono che il parlante dice
qualcosa, e non si limita a emettere suoni inarticolati, solo grazie a
una lingua comune, a cui non si
comanda se non obbedendo. Occorre dunque un compromesso.
Solo lo spirito tirannico di
certi grammatici pretende a volte
che si dica “gli pneumatici” o “gli
gnocchi”, anziché “i”, contro l’uso
anche di molti classici. È per contro certamente un errore, ma un
errore tenue, scrivere “le superfici” al plurale, perché la parola latina è della quinta declinazione,
quindi dà “le superficie”. Esempio:
Enrico D’Ovidio, Le superficie di
secondo ordine (1838), o Edgardo
Ciani nelle Lezioni di geometria
proiettiva (1883), dove, data la
materia, il plurale ricorre continuamente. Però l’uso abusivo del plurale in i non può estendersi a tutto:
dire “le speci” anziché “le specie”
è ancor oggi errore da matita blu,
non solo rossa.
Il Boccaccio, padre della
prosa italiana come Dante della poesia, fu rimproverato
ancor vivente dai puristi per aver
dato a un suo personaggio il nome
di Filostrato, nel senso di “abbattuto da Amore”. La colpa era mescolare una radice greca con una
latina (philía con sternere). Il nome
Filostrato è usato anche in greco,
ma per significare un soggetto che
ama l’esercito (stessa radice in
“stratega”). Se però dovessimo
essere pignoli fino a tal segno non
dovremmo dire “automobile”, bensì “sesemobile” o “autokíneton”,
come dicono i greci (con parola
impiegata già da Platone per l’anima, che muove e si muove da sé).
I greci sono più conservatori
di noi. Il risultato è che un greco
colto può leggere Omero con l’ausilio di qualche lessico, come noi
leggiamo Dante. Così i greci hanno
una parola adatta per supermarket: yperagorá. La cosa curiosa è
che da noi qualcuno pensa di far
l’elegantone dicendo “ipermercato” cadendo così nell’errore simmetrico a quello del Boccaccio.
Dunque, compromessi. Io mi
pavoneggio scrivendo “superficie”
Fotolia
Nel corso della mia vita ho
assistito a un mutamento
NOTIZIARIO
della lingua italiana che richiederebbe ormai una correzione dei
vocabolari: il verbo “iniziare” è inSocietà
dicato nel Fanfani (metà dell’800)
e costume
o nello Zingarelli (inizio del ’900)
come “attivo”: tale, cioè, che richiede un complemento oggetto
(ad esempio “iniziare un discorso”;
o “iniziare qualcuno alla massoneria”). Oggi, per contro, si dice “iniziare a parlare” come se fosse un
verbo neutro, che può avere o non
avere un complemento oggetto
(come “cominciare”). L’ultimo
esempio di “iniziare” usato correttamente come verbo attivo l’ho
trovato nella traduzione di Mister
Mulliner, un romanzo umoristico di
P. G. Wodehouse ad opera di Alberto Tedeschi (Bietti 1933, pag.
109): «Al tempo in cui il mio racconto si inizia». Oggi chiunque diSolo lo spirito
rebbe “inizia”, senza l’oggetto.
tirannico di certi
All’inizio lo scambio aveva
grammatici
pretende che si dica ragioni di decoro: “cominciare a
“gli gnocchi” o “gli parlare” va bene per un infante,
pneumatici”.
ma sembra riduttivo per un oratore; e allora si dice “iniziò a parlaOnly the tyrannical re”. Poi, però, la forma aulica ha
spirit of certain
sostituito dappertutto la meno
pedants demands
aulica, che va scomparendo. Si
that we say “gli
legge ad esempio, “inizia a piovegnocchi” or
re”, anche se la pioggia non ha
“gli pneumatici”.
al plurale, ma mi astengo dal toscaneggiare scrivendo “superfice”, senza i al singolare; e mi accade di dire “la Venezuela” per ricordare che è una “piccola Venezia”, ma compiango i giornalisti
che, terrorizzati da pseudofilologi,
scrivono “gli pneumatici”. E non è
neppure un compromesso, bensì
una locuzione esatta, dire “due
euro” anziché “euri”, perché le
parole dimezzate non si declinano.
È corretto, infatti, dire “due auto”.
E “bici” non sarà elegante, ma si
capisce che sta per “bicicletta”.
Noi abbiamo la fortuna di
avere una regione, la Toscana,
che, pur storpiando tutto, fornisce
una guida al parlar bene, cioè in
modo appropriato. Anche se è
difficile capire nel toscano arcaico
che “alle guagnele” significa “alle
Evangelia” non c’è dubbio che i La parola “senologia”
usata per indicare
toscani ci insegnano a parlar preil reparto che
ciso: “caffè alto” significa che la
si occupa delle
sua superficie è vicina al bordo
mammelle
è uno
della tazza, mentre “caffè lungo”
pseudoeufemismo
non dice niente.
che la strettoia, le gouffre tra due
prominenze quali le mammelle.
Ma il francese fa molto peggio: è
orrendo, ad esempio, dire che la
cicoria è un “legume”, quasi si
trattasse di fagioli o di ceci.
D’altra parte l’organo femminile destinato all’allattamento è
particolarmente soggetto in tutte
le lingue a curiose trasposizioni:
forse perché si trova poco elegante seguire Dante che alla fine del
Duecento prevede che, tra breve,
«sarà dal pergamo interdetto alle
sfacciate donne fiorentine l’andar
mostrando con le poppe il petto».
Almeno nel parlare scientifico
non si dovrebbe dimenticare mammella. Senonché il petto induce a
volte in eufemismi perfino quando
è maschile: si può ricordare in
cui per la prima volta l’uso è documentato) a indicare lo spazio tra la
veste e il petto. Poi si sposta a
indicare ciascuna mammella
(1786), mentre “tetta” viene dal
germanico (tedesco Zitze). L’inversione probabilmente si spiega con
uno spostamento dalla veste alla
parte del corpo occultata. In origine, ad esempio, il tedesco Schosz
era il bordo inferiore della gonna: il
grembo, che poi passa alla parte
del corpo corrispondente, tanto
che noi diciamo ancora «in grembo
a Giove», o «nel seno di Abramo»
(Luca XVI, 22), come Omero diceva
«en goúnadi degli dèi». Poi Schosz
diviene sinonimo di Busen (ancora
in Goethe, Meister VIII, 9) che poteva indicare anche il petto o Brust
maschile. L’eufemismo francese
piemontese lo “stomaco” nella locuzione scherzosa per lo sparato
inamidato “stomaco di gesso” (stomi ’d giss).
Inammissibile però che il linguaggio medico – che di solito si
rifà al greco – cada, sia pur di rado,
in locuzioni abominevoli. Mi accadde, mentre andavo a sottopormi a
una radiografia, di leggere sulla
porta di uno studio vicino a quello
a cui ero destinato io la parola
“senologia”. Giuro che non capii di
che cosa si trattasse e me lo feci
spiegare: il radiologo che lavorava
in quella stanza, mi fu detto, si
occupa dei “seni”.
Qui lo pseudoeufemismo
adottato è delittuoso. Il passaggio
del latino sinus a significare una
convessità anziché una cavità è
molto meno giustificabile che gorge. Sein comincia in francese
(1150: le date sono dell’anno in
poitrine (dal latino pectorina o corazza) si diffonde per contro molto
tardivamente (1835).
L’indeterminazione della parte del corpo ricoperta favorisce il
rovesciamento. Nel caso del mare,
“seno” conserva il suo significato
giusto: si parla di “insenatura” ad
esempio per Paraggi, non per il
promontorio di Portofino. Una cautela eufemistica induce per contro
a dire il Messia «frutto del seno
della Vergine», per non dire dell’utero; ma si potrebbe meglio rimediare con “grembo” o “ventre”.
Presso il Ministero dei Beni
culturali c’è un’apposita commissione per la difesa dell’italiano. E
affianca la benemerita Dante Alighieri. Occorrerebbe dotarla del
potere di irrogare pene detentive
(non usandosi più, purtroppo, la
gogna) per chi mette in circolazione mostri come “senologia”.
delittuoso.
The word “senology”
used to indicate the
hospital ward that
deals with breasts
is a criminal
pseudo-euphemism.
Dire “due euro”
anziche “euri”
è locuzione esatta
perché le parole
dimezzate non
si declinano.
Fotolia
Saying “two euro”
instead of “euri”
is correct because
shortened words are
not declined.
Photo Oilime
III.
Lo slittamento di significato è tipico per contro del francese. Il soutien-gorge
(diffusosi a partire dal 1900, quando entrò in uso quell’indumento)
non sostiene affatto la gola. La
genesi della locuzione tuttavia si
capisce: gorge, come “gola” è an-
SOCIETÀ E COSTUME 127
Cos’è la buona medicina?
ALESSANDRO BERTOLINI
Direttore Oncologia Medica
Azienda Ospedaliera Valtellina e Valchiavenna
www.alessandrobertolini.it
L
a tentazione che più mi
assale di questi tempi
NOTIZIARIO
sarebbe scrivere di questioni morali: moralità della politica, della comunicazione,
Salute
della giustizia, della società e dello
sport. Sarebbe una tentazione
molto semplice da esaudire, basta
un riassunto della semplice lettura
dei giornali, tuttavia sarebbe tempo perso. Ormai vivo in una sorta
di pessimismo cosmico e dissertare di questioni che il tifo della politica interpreterebbe come pro o
contro la realtà, bollandomi di positività o peggio di avversione a
qualcosa o qualcuno, mi impone
un’opportuna riservatezza.
“Se dovessi dire
Viviamo un’epoca decadente,
cos’è una buona
squadra di calcio siamo tutti d’accordo credo, dove la
coscienza della società segue l’innon avrei dubbi,
la risposta sarebbe: dirizzo del variabile e il singolo non
Inter”.
è da meno. Impera la non cultura,
la cultura omologata al minimo co“If I had to say what mune denominatore dal messaga good football team
gio mediatico, studiato per produrre
is, I wouldn’t have
ricchezza con la pubblicità.
any doubts,
Io ritengo che questo modo di
the answer
governare la vita sia diretta consewould be: Inter”.
guenza della nostra “coscienza
elastica”. Si approva e si disserta,
anche pontificando, quanto dovrebbe essere sottomesso al giudizio di un valore assoluto, fatto
salvo che è insita in ciascuno di
noi la capacità di essere tolleranti
e permissivi per prima cosa con
noi stessi, ogni qual volta ci troviamo a infrangere le regole che l’etica ci imporrebbe di osservare.
Un esempio che non offende
nessuno e non scatena il tifo della
politica? Non si può sorpassare se
lungo la via qualche stradino ha
dipinto sull’asfalto la striscia continua, questa non è una regola di
destra o di sinistra, non si deve e
basta. È motivo di bocciatura
all’esame di guida e di grossa
multa con penalizzazione sulla
patente.
Ebbene, quanti tra noi non
l’hanno davvero mai fatto? Una
coscienza elastica sa che il sorpasso in questione è cosa da non
fare, ma proprio perché ragiona in
modo duttile, giustifica il proprio
sorpasso illegale ribaltando la responsabilità dell’infrazione su chi
percorreva la stessa via con un’andatura non consona ai nostri appuntamenti. Pensate a qualsiasi
altra cosa, nella società, nel vivere, nelle leggi e nella politica e
vedrete quanto la nostra fragilità
sia giorno dopo giorno sottomessa
all’elasticità di una coscienza opportunista. Mi piacerebbe proseguire su questo modo di considerare il nostro approccio alle questioni dell’oggi, ma i tempi non
sono maturi e il malinteso non
gioverebbe a nessuno. È opportuno che ciascuno di noi rifletta su
quanto accade nel mondo, guardando i fatti non con gli occhi della
nostra caducità o partigianeria,
ma secondo le regole della morale
e dell’etica, che dovrebbero avere
sempre un valore assoluto e non
elastico.
A questo punto mi viene più
semplice dissertare di medicina e
lo spunto lo prenderei dal quesito
su cosa sia la “buona medicina”.
Questo argomento non è poi così
semplice da riferire, anzi esso
stesso è pure delicato e parlare di
sport sarebbe molto più semplice.
Per questo se dovessi dire
cos’è una buona squadra di calcio
non avrei dubbi, la risposta sarebbe: “Inter” e in occasione di un
convegno nella Bergamasca, l’anno passato, dove mi era stata
Good medicine is something that is beneficial to the health
of the ill. But this objective is not easily defined. It is fundamental
to decide what is the best way to respect the pain of those
suffering from illness. Respect, dialogue and comfort were the
simple tools used by the family physician. Today, those tools have
been replaced by protocols, tests and statistics that raise many
doubts as to what is truly better, when working in difficult
conditions. In order to be a good medicine, the ill person must
always feel that someone is at his side, to help him fight his
battles, without automatically imposing what the deontological
procedure dictates. You can look down on a person only
when you are helping him to get up.
128 SALUTE
Olycom
What is good medicine?
A sinistra, un punto denunciata dai media provo semdi vista e, a destra, il pre un senso di profonda amarez“mio” punto di vista. za e dolore, che va oltre il mio
Due esempi di “buona
medicina”: lo sciroppo
che mi somministrava
mia madre, “buono”
solo perché era lei a
darmelo, e la borsa
del buon medico di
famiglia.
Two examples of
“good medicine”: the
syrup my mother used
to give me, “good”
only because she
gave it to me, and
the good GP’s bag.
senso civico e interessa il mio
essere medico.
Facendo anche altro nella vita, mi considero un intellettuale
che cerca di osservare i fatti del
mondo nel modo meno elastico
possibile, vorrei raccontare un mio
punto di vista, che non discende
solo dalla professione che svolgo
e che non deve avere un valore
assoluto, ma potrebbe rappresentare il mio modo d’intendere l’argomento, che deve prescindere dalle
risorse a disposizione e dalle conoscenze.
Ovvio che facendo l’oncologo
medico quando mi riferisco alla
buona medicina nelle spiegazioni
intendo esclusivamente la buona
medicina oncologica, cioè quella
Fotolia
On the left, one
point of view and,
on the right, “my”
point of view.
Fotolia
chiesta una riflessione sul tema
“La buona medicina”, l’ho dichiarato pubblicamente, facendo anche
vedere l’immagine della mia squadra del cuore.
All’opposto, se dovessi dare
una risposta altrettanto immediata alla domanda su cosa sia la
“buona medicina” oggi, non avrei
la stessa spavalderia. Questo succede perché io per primo non so
cosa essa sia e non so neppure
se sia dotato delle credenziali
adatte per spiegarlo o se essa
esista davvero, in questo periodo
di esplosiva modernità scientifica.
Oggi sono solo in grado di
elencare una serie di riflessioni
per tentare di avvicinare l’ideale
della “buona medicina”, anche se
sono più consapevole di cosa essa non sia, piuttosto che certo di
ciò che essa dovrebbe essere.
Per prima cosa penso, da
medico ospedaliero, inserito a pieno titolo nel sistema sanitario nazionale e parte di questo mondo,
che la buona medicina dovrebbe
coincidere con quello che facciamo
noi tutti durante le giornate di lavoro. Se così fosse il discorso sarebbe chiuso: buona medicina è quella fatta negli ospedali e negli studi
dei medici di medicina generale.
Tuttavia questa risposta non
mi accontenta, perché ciascuno
di noi lavora usando le proprie
conoscenze, le proprie capacità
professionali e le risorse che ha
a disposizione. Non tutti siamo
omologati allo stesso livello nella
professione.
La malasanità, tanto cara alla stampa, non è mai esempio di
buona medicina e quando viene
attività specialistica medica dedicata alla cura dei malati di cancro.
Lungi da me offrire spiegazioni che
non discendano da una mia diretta
responsabilità professionale e lo
dichiaro perché non vorrei essere
frainteso. Quello che vale per l’oncologia medica potrebbe non valere per la buona ortopedia o la
buona cardiologia e ritengo non si
debba fare confusione nei punti di
vista o nelle generalizzazioni.
«Per essere buona la medicina – dice Sandro Spinsanti, docente di bioetica ed esperto di medical
humanities – deve procurare un
beneficio alla salute di chi è malato.
È una condizione che si misura con
gli standard della scienza. Ma non
basta».
La nostra è una professione
che cammina lungo un filo in equilibrio precario, in modo non dissimile da chi faccia il funambolo. Ci
sono fatti, conoscenze, miti e
idee, che condizionano il nostro
modo di porci nei confronti della
professione e dei pazienti.
Se penso alla buona medicina mi viene in mente quella che mi
dava mia mamma da piccolo, lo
sciroppo per la tosse, il lassativo
o l’antibiotico, che erano buoni
perché me li dava lei, anche se
avevano un gusto orrendo. In questo caso il sostantivo medicina
assume due significati differenti,
da un lato è un prodotto dell’industria farmaceutica, dall’altro diviene una professione.
Ho nostalgia di quei ricordi, di
quando lei mi diceva: «Prendi la
medicina, è buona e ti farà bene»,
ma ho anche rimpianti per il nostro
caro medico di famiglia, dottor
SALUTE 129
Il dottor Gannon di Medical Center, il dottor
Tersilli de Il medico della mutua e Patch Adams,
tre storie incentrate sulla figura dei medici e
sulla sanità in generale.
Dr. Gannon of “Medical Center”, Dr. Tersilli of
Il medico della mutua and Patch Adams, three
stories built up around the figure of doctors
and health in general.
Romei, scomparso da anni, che
era pure padre di un mio compagno d’università. Egli, quando veniva a casa nostra per curarci, mostrava una dedizione che negli
anni di professione ho ritrovato a
fatica. L’unica sua stranezza era
che chiamava mia sorella Mariarosa, sviato dalla pubblicità del lievito che porta il mio cognome, che
aveva un cartone animato e una
canzonetta di una certa Mariarosa
come testimonial. Noi in famiglia
tutte le volte tentavamo di correggerlo, ma lui imperterrito aveva
quel nome nella memoria e non
rinunciava al Mariarosa. Alla fine
desistemmo.
I ricordi della mia infanzia
passano attraverso fiction in bianco e nero, che spopolavano a quei
tempi: dottor Welby e dottor Gannon di Medical Center. In questi
telefilm degli anni Sessanta i medici erano perfetti, ben vestiti, facevano diagnosi azzeccate, salvavano vite o scoprivano magagne,
che parevano esercizi di buona
medicina applicata alla giallistica.
Il mondo degli ospedali era bello,
accattivante, non erotico ed in
ogni modo avvincente. Non esclu-
do che la pletora medica della mia
generazione abbia subìto il fascino
del mondo della televisione per la
scelta universitaria. Non è un
esempio di sana vocazione, quanto piuttosto il plagio per un ambiente di successo dove la medicina investigativa dei telefilm non ha
mai avuto nulla a che fare con la
realtà di tutti i giorni.
Gli esempi del passato arrivano alla saga di Mash, storie
immaginarie e ironiche di un ospedale da campo in zona di guerra,
durante il conflitto in Corea, dove
un certo eros si dava da fare per
creare vocazioni nei futuri studenti
universitari. La capo infermiera
aveva un soprannome molto invitante: labbra di fuoco e molti cedettero a quel mito più che al testo
di Anatomia Umana.
In Italia nello stesso periodo
usciva il più genuino Medico della
mutua di Alberto Sordi, che mostrava le contraddizioni insite in
una professione che al cinema
perdeva il fascino e la dedizione
Mash: in un ospedale che toccavo con mano ammirando
militare da campo, il caro dottor Romei.
tre ufficiali medici,
Io iniziai l’università nel 1978,
pur prestando la loro
oltre
trent’anni fa e per questo
opera di chirurghi
motivo dovrei sentirmi vecchio.
con bravura e
Quello fu un anno memorabile e a
dedizione, sono
ripensarlo nei fatti salienti esso è
insofferenti alla
disciplina.
ormai consegnato alla storia. La
storia è quella di Giulio Cesare o
Mash: in a military Napoleone e il pensare che ho
field hospital, three iniziato l’università in un anno che
medical officers,
whilst exercising as è storia, questo colloca la mia vita
professionale in qualcosa che parsurgeons with skill
and dedication, are te da lontano, che sa d’antico.
intolerant of the
Nel 1978 ci furono tre papi,
discipline.
l’elezione a presidente della Repubblica di Sandro Pertini, il delitto
Moro e l’attacco terroristico alla
Repubblica nata dalla Resistenza.
In quell’anno l’Italia arrivò pure
quarta ai mondiali di calcio argentini, i primi che vidi a colori e che
ricordo con forte tensione sportiva. Si svolgevano in un Paese
preda di una feroce dittatura militare e ricordare tutte queste cose,
un po’ in bianco e nero e un po’ a
colori, dà il senso della lontananza
dall’oggi.
Il giro nei reparti era ancora
caratterizzato dal primario pontefice, attorniato da uno stuolo di ca-
mici bianchi dalle differenti attitudini e competenze. Era un mondo
baronale, che ho intravisto all’università ma che oggi è stato del
tutto spazzato dalla differente educazione di quanti sono cresciuti al
mito di Mash. Capita che certi insegnamenti nella vita, mutuati dalla celluloide, servano per decidere
cosa non si dovrà mai fare da
grandi, piuttosto che per sapere
cosa fare davvero.
Il passato vissuto o visto al
cinema non aiuta nell’arrivare a
capire cosa possa essere la buona medicina e neppure i tempi
nostri sono d’aiuto. Oggi siamo
plagiati da un illusorio bonario,
dove un ospedale fasullo è interpretato in modo dissacratorio dal
mondo di celluloide con la storia
controcorrente di Patch Adams, dal
Medico in famiglia dell’istrione Lino
Banfi, oppure ancora da ER o da
un certo Dottor House, un pazzo
vestito neppure troppo bene da
medico. Sono tanti stravolgimenti
della vita ospedaliera di tutti i giorni, che mi auguro non trainino altri
giovani a una professione che in
quella maniera non è davvero mai
esistita.
Rifuggendo da queste nuove
storie televisive io sono più che
certo che questo mondo alle volte
buonista e più spesso falsamente
scientifico, non ha nulla a che fare
con la buona medicina.
Tutto quanto raccontato finora ci aiuta a capire cosa non sia la
buona medicina e in questo senso
c’è addirittura dell’altro.
Nel mondo d’oggi, come sosteneva mia nonna, a pensar male
non si sbaglia mai e, dopo l’irreale
raccontato nei film, il nostro cammino prosegue lungo una realtà
funambolica.
Se uno fabbricasse carrarmati, per vendere il proprio prodotto, avrebbe due sole possibilità:
sperare in una guerra o provocarla
egli stesso.
Per questo domando, chi ci
ha guadagnato dal gettare panico
sociale per un virus, l’H1N1, che
non ha fatto tutto lo sfacelo previsto?
È buona medicina quella di
investire soldi in un vaccino che
poi non è stato neppure usato,
perché la virosi si è dimostrata
tutt’altro che virulenta, ma solo il
frutto di una speculazione mediatica? Quanti carrarmati sono stati
venduti dietro il mito illusorio di un
virus fasullo?
A pensar male come la nonna, mi viene da dire che qualcuno
ha fomentato ad arte il panico
sulla virosi per commerciare vaccini inutili. Non è buona medicina
questa, è solo il mondo degli affari, né più né meno che vendere
pignatte in televisione, perché i
vaccini sono stati acquistati sotto Ciò che si vede al
cinema o in
la pressione involontaria del piaztelevisione non
zista del telegiornale.
sempre aiuta
Gli spunti critici all’insegna di nell’arrivare a capire
cosa non sia la buona medicina cosa possa essere la
proseguono. Mettere i medici alla “buona medicina”.
berlina su internet, dichiarando
pubblicamente i loro stipendi, ser- What we see at the
cinema or on
ve a migliorare le prestazioni del
television is not
servizio sanitario nazionale? No di
always of help in
certo.
being able to
Mettere su un sito di un’istiunderstand what
tuzione un banner pubblicitario “good medicine” is.
che recita “because they saved my
life”, chi incanta? Non è buona
medicina il mercificare la propria
opera con motti che promettono il
nulla e danno ben poco.
Gli slogan di questo tipo cosa
lasciano nei pazienti? L’illusione
che in quel luogo siano in grado di
salvare la loro sorte, ma anche
quando chi scriveva che la libertà
sarebbe arrivata dal lavoro, scriveva inganni e prometteva menzogne e sappiamo tutti com’è andata
a finire.
Alla fine la nostra coscienza
elastica approva motti fasulli,
perché l’interesse non è esercitare l’arte medica ma promuovere
affari.
Il caro dottor Romei era un
gran medico, faceva della medicina di famiglia un’arte e non aveva
cartelli posticci che denunciavano
la sua capacità scientifica o il suo
reddito.
«Un medico, diversamente da
un politico o da un attore, viene
giudicato soltanto dal suo paziente
e dai suoi più prossimi colleghi, cioè
a porte chiuse, da uomo a uomo».
Questo è forse un indizio di buona
medicina, secondo Kundera. Io
pure, nella vita intellettuale, ho
scritto cosa ritengo significhi fare
bene il medico (Il Novecento d’Annetta).
– Che ne pensi del professore? Chiese mentre erano nell’attesa
del tram.
– Devo dirti che mi ha impressionato, non aveva quel tono punitivo e saccente che hanno gli altri
dottori. Parlava in modo comprensibile…
– Ha dato la stessa impressione anche a me.
– Era come se volesse dedicarmi il suo tempo a capire e spie-
SALUTE 131
Paola Cusin
scenza della biologia molecolare
che sta sempre più arricchendosi
di informazioni e diviene sempre
più difficile e incomprensibile. Catene metaboliche spiegate con
dovizie di particolari cui si deve
dare fiducia cieca, perché quelli
che vedevano il dottor Gannon alla
televisione non le avevano nel loro
piano di studi, anche se oggi si
trovano a usare molti farmaci che
interferiscono con queste vie metaboliche cellulari.
Siamo vittime anche del creIl fenomeno del
gare quello che secondo lui mi sta
scere delle informazioni mediatiaccadendo. Non si è limitato a visi- “primario-pontefice” è che, che fanno da cassa di risonantarmi, come farebbe un meccanico stato debellato dalla za a notizie su presunti successi
differente educazione
con un’automobile.
di quanti sono
– Con il suo aiuto e la sua sa- cresciuti al mito di
pienza torneremo a vivere. È senza
Mash.
dubbio un brav’uomo.
Al centro: la nostra
Come dice Sandro Spinsanti coscienza elastica è
«fare medicina in epoca di moderni- vittima di informazioni
mediatiche che
tà è diverso» e credo possa dipenandrebbero filtrate.
dere dalla coscienza elastica che
In basso: aver
pervade la società.
fomentato ad arte il
Innanzitutto nella medicina panico sull’H1N1 non
è certo “buona
moderna adottiamo il modello delmedicina”.
le scelte condivise, cercando di
definire il programma terapeutico The phenomenon of
col malato, spiegando in modo the “pope-head of
semplice e comprensivo a chi ne hospital department”
ha bisogno il perché di un percorso has been eradicated
by the different
di cura. L’accettazione della proposta è siglata ufficialmente con il education of those
consenso informato, che dovrebbe who grew up in the medici e che andrebbero filtrate
myth of Mash.
per non ingenerare false attese.
essere una garanzia per il paziente
In the centre: our
I nostri successi terapeutici
per una maggiore partecipazione elastic conscience is
alle decisioni che lo riguardano. the victim of media in campo oncologico riguardano
information which
soprattutto un allungamento della
Non so se esso serva per fare una
should be filtered.
vita del malato, a costi non sembuona medicina o una medicina
Below: having
pre sostenibili. Avere una sopravsicura, comunque è un atto formadeliberately created
le siglato da due persone, il medi- panic over H1N1 was vivenza nella malattia metastatica
co e il paziente. Oggi il nostro sa- certainly not “good che passa da sei mesi a quasi tre
anni nella media dei malati affetti
pere passa attraverso una conomedicine”.
da tumore metastatico del grosso
intestino appaga la nostra professionalità ma non può accontentare i pazienti e non dobbiamo considerare questi successi come
vera buona medicina.
Fare buona medicina vuol
dire tener conto delle caratteristiche cliniche del malato, seguendo
linee guida internazionali, non fomentate da campagne mediatiche che portino ad acquistare
vaccini inutili, anche se certe stranezze del passato le dobbiamo
ancora scontare. Abbiamo dato
132 SALUTE
per anni chemioterapia ai pazienti
affetti dal cancro della prostata,
perché un questionario di qualità
di vita compilato da loro stessi
dava credibilità a una cura solo in
termini di benessere clinico, pur
senza dimostrare mai un vantaggio nella loro sopravvivenza (Tannock, 1996). Oggi per fortuna la
situazione è mutata e i nuovi
chemioterapici hanno un impatto
concreto sull’allungamento della
sopravvivenza dei malati trattati.
La verità è che negli ultimi
cinquant’anni, lo ha scritto nel
2009 un editoriale del The New
York Times, abbiamo fatto una
serie di errori fondamentali nel
combattere la guerra al cancro,
perché non sempre è stata fatta
ricerca con l’intento di far avanzare la scienza ma solo per inseguire interessi di parte in un normale
mondo a coscienza elastica. Negli
ultimi cinquant’anni la mortalità
per ragioni cardiache è diminuita
del 64%, mentre per cause oncologiche solo del 5%. È dato noto
che solo uno su cinque trials arriva a pubblicazione con dati che
indichino un reale beneficio per i
futuri pazienti.
Riflettere su queste cose,
mentre si esercita la professione,
è come vivere in un incubo permanente ed è difficile scegliere il
meglio con il paziente e fare buona
medicina. «Guai a sognare: il momento di coscienza che accompagna il risveglio è la sofferenza più
acuta. Ma non ci capita sovente (Se
questo è un uomo, Primo Levi) e
Curare non è solo
un esercizio di
conoscenze
farmacologiche, così
come la salute non è
solo benessere fisico.
non sono lunghi sogni: noi non siamo che bestie stanche».
Oggi sono sicuro che la buona medicina non si può fare da
soli ma è un atto complesso di
sistema, dove tutti hanno una
parte attiva nella filiera della cura,
perché «curare il tumore – Claudio
Magris – è come uccidere una vita
che ci assale».
Curare non è solo un esercizio
di conoscenze farmacologiche ma
passa attraverso la comprensione,
il dialogo e l’informazione. «Fatti non
foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza».
La comunicazione al paziente
è importante nell’esercizio di una
buona medicina, perché «una diagnosi di cancro è come un 11 settembre». I pazienti vogliono vivere
con dignità, cioè nel modo migliore
e noi da tecnici del sapere medico
questo desiderio lo chiamiamo
qualità di vita. «L’oncologia medica
– Rosy Bindi, 1998 – è un’arma
strategica indispensabile nella lotta
contro i tumori, non già perché
guarisce sempre, ma perché sempre si prende cura del malato».
L’oncologo in fondo ha questa doppia missione, cerca di far
vivere più a lungo possibile i malati nel rispetto della loro qualità di
vita e quest’idea di lavoro può
essere un tassello di un più ampio
progetto incasellato dall’acronimo
“buona medicina”. Noi stessi
«...dobbiamo smettere di dare ad
un bisogno sempre e solo una risposta chemioterapica...» ma dobbiamo pensare alto, essere con il
paziente, considerare le sue vere
esigenze e staccarci dalle mille
tentazioni elastiche dei nostri tempi. Mi chiedo spesso “che farei se
fossi io dall’altra parte?”. Non lo
so, ma le poche volte che sono
stato paziente ho delegato ogni
decisione al collega che mi curava, che in quel momento ritenevo
essere in grado di proporre il meglio per me.
Oggi facciamo largo uso del
sostantivo “umanizzazione”, come
concetto e come termine più che
come atto pratico, nell’illusione
che umanizzare un percorso di
cura sia sufficiente per dire che
stiamo facendo buona medicina.
In questo modello terapeutico, che
condivido, è importante «...non ri-
durre le humanities alle amenities...», perché queste non servono
al malato ma al medico.
Il malato desidera solo vivere
e avere un rapporto di privilegio col
proprio curante e noi facciamo
Healing is not only buona medicina quando siamo in
grado di essere con i malati.
an exercise of
pharmacological
Alla fine di questo lungo diknowledge, just as
scorso credo sia inevitabile tornahealth is not only
re al mio medico di famiglia d’un
physical well-being.
tempo, il caro dottor Romei, perché la buona medicina oncologica
la si fa quando si è in grado di
dare all’arte medica quanto dava
lui ai suoi pazienti di sapere, attenzioni e stima. Ripensando al suo
modo di operare e alle volte in cui
sono stato oltre la barricata, ritrovo a pieno questa frase di Sandro
Spinsanti: «Ho un sogno, che nelle
decisioni mediche ogni persona
possa proiettare la sua ombra».
Da tutte queste riflessioni
discende la mia proposta di Decalogo della buona medicina. Esso,
se non riguarda la stessa al cento
per cento, perlomeno si avvicina:
1) disponibilità totale al paziente (ascoltare, visitare, dialogare,
esserci, capire, consolare);
Per il paziente una 2) offrire cure che derivino da
diagnosi di cancro solide conoscenze scientifiche e
è come un 11
attuali;
settembre.
3) grande capacità di comunicazione;
For the patient,
4) condividere le scelte terapeua diagnosis of
cancer is like a 9/11. tiche con il paziente;
5) pensare sempre alla persona
e non solo alla sua malattia;
6) indirizzare con umiltà il paziente dove possa essere meglio
curato;
7) superare i “livelli essenziali di
assistenza” con progetti di umanizzazione;
8) condividere programmi di ricerca clinica con il paziente;
9) interrompere le cure, senza
fare accanimento, nell’interesse
del paziente e non della struttura
dove si lavora;
10) non usare la medicina difensiva.
«Ho imparato che un uomo ha
il diritto di guardare dall’alto in basso un altro essere umano, solo
quando lo aiuta a sollevarsi» (Gabriel Garcia Marquez).
SALUTE 133
Il senso del non senso
REMO BRACCHI
Ordinario di Glottologia presso
l’Institutum altioris latinitatis Università
Pontificia Salesiana in Roma
Fotolia
D
ivinità dell’aria e dei
campi, degli ammassi
rocciosi e dei fiumi, erano considerati in anni
lontani, forse troppo, dai nostri, gli
animali, specialmente i più grandi
e feroci, talora in carne e ossa,
annidati nelle foreste e improvvisamente protagonisti di incursioni
cruente, altre volte fantastici, ma
non per questo temuti di meno.
Piccole bestie e insetti erano fatti
prigionieri dalle mani dei bimbi per
essere inviati come intermediari
tra il regno dei beati e quello dei
mortali, e venivano sospinti con
formule cantilenate a mettersi in
cammino o a prendere il volo per
portare a termine la loro ambasciata. Una serie di filastrocche
risulta rivelatrice della segreta missione un tempo a loro riservata. La
struttura eucologica dei ritmi delle
nenie, ancora leggibile nel frammento, riconduce a un sottofondo
culturale assai arcaico, concludendosi in genere con la promessa di
un dono sacrificale (un granello di
frumento, pane, latte, cacio, vino,
una monetina) o, in caso di rifiuto,
con la minaccia di una sanzione
estrema, spesso della decapitazione o della condanna al fuoco.
In Brianza si invita la lucciola
a calare in volo sulla mano, pro-
The sense of non-sense
Nonsense rhymes are a synthesis of archaic wisdom.
Animals, considered to have remarkable abilities, often appear
in these simple songs. They are chosen according to particular
characteristics, which seemed to be the seal of divinity on their
body, or some unusual behaviour which was interpreted as
responses. For example, in Samolaco, in Valchiavenna, the ladybird
is considered a divinatory animal: the direction it takes is the one
that leads to a sweetheart. In addition, the very etymology of
“ filastrocca” (nonsense rhyme, nursery rhyme) refers to the activity
of spinning or weaving, which are typically feminine:
this shows, with the reference to the ancient Goddess-Mothers,
the intervention of the supernatural in human life. In mythology,
the three Fates would spin and weave human existences,
then cutting them like thread.
mettendole come ricompensa latte e vino o una custodia accogliente e sicura nel proprio nido, dove
sarà protetta come la pupilla dell’occhio: lüsirö vegn de bas, / te
daroo un cügià de latt, / te daroo
un cügià de vin, / te metaroo in del
mè ninìn. L’invito a posarsi è rimasto fissato per sempre in mariposa, “Maria, posati”, la denominazione spagnola più nota della farfalla. Uno dei sinonimi trentini che
ne riverbera l’eco in territorio italiano è baśatèra “bacia terra”. In
aragonese paniquesa è un curioso
composto che qualifica la “donnola”. Non è difficile scorgere, al di
sotto della sequenza, i due segmenti compositivi, pane e cacio, i
due doni degli antichi campagnoli
offerti alla bestiola, temuta per la
sua crudeltà e per la sua astuzia,
allo scopo di ingraziarsela, in modo che passasse a randa del pollaio, senza insinuarvisi a fare strage. Una variazione sul medesimo
tema, rintracciata nei Bassi Pirenei, è panlet, ossia pane e latte.
La semplice tabella sinottica
qui sotto riportata ci aiuta a collocare a fronte alcuni elementi comuni, per ricavarne i nessi dall’insieme.
La scelta degli animali chiamati in gioco si rivela fatta sulla
base di qualche loro caratteristica
emergente, capace di attirare l’attenzione, ingenuamente intesa dai
nostri lontani avi come il sigillo di
una divinità sul loro corpo (la signa-
Coccinella
(Montagna)
Maggiolino
(Nembro BG)
Formicaleone
(Sondalo)
Formicaleone
(Poggiridenti)
Formica rossa
(Montagna)
Polidòru, gùla in cél,
ca l te sc’péccia san Michél;
san Michél nu sa vegnì:
gùla, gùla da per tì.
Balóres chi gùla,
al ta ciàma la tò murùśa,
al ta ciàma ol tò Michél.
Gùla, gùla fin al cél.
Mónega, mónega del terén,
l’é serén, serenénto:
fam troàr li mìa càura
e li mìa féda in un momént.
Trìpa, trìpa,
cinch curtèi a la tu vìta:
ün de scià, ün de là.
Sòlta fò dä lä tu cà.
Vén, vén,
maiapàn,
che te dò
n tuchèl de pan.
134 PROVINCIA IERI E OGGI
L’invito a posarsi è
rimasto fissato per
sempre in mariposa,
“Maria, posati”, la
denominazione
spagnola più nota
della farfalla.
Nella pagina a
fianco: in Brianza si
invita la lucciola a
calare in volo sulla
mano con la
promessa di latte
e vino.
On the facing page:
in Brianza the firefly
is invited to land
on the hand with
the promise of milk
and wine.
NOTIZIARIO
Provincia
ieri e oggi
Il chiamare in causa
una bestiola
rientrava in
quell’arcaico quadro
nel quale i confini
fra i tre regni della
natura non
conoscevano ancora
barriere
inequivocabilmente
incompatibili fra loro.
Calling into question
an animal was fully
part of that archaic
picture where the
borders between the
three kingdoms of
nature did not yet
have those
unequivocally
incompatible barriers
between them.
Fotolia
The invitation to
“touch down”
(“posarsi”) has
remained forever in
mariposa, “Maria,
posati”, the best
known Spanish word
for the butterfly.
rie, si è indotti a spiegarlo come
un composto dall’appellativo comune pula “pollastra”, ripreso
dall’animale domestico, ma a
buon conto ritoccato col ricorso
alla terminazione affettiva in -i (si
veda per esempio il trepallino barbi-róca “diavolo”, composto col
parentelare bàrba “zio”, definito di
famiglia, per difendersi dallo spirito del male), e dalla qualifica
“d’oro”, che polarizza intorno a sé
tutto ciò che di positivo si può immaginare. L’insetto è invitato a
prendere il volo da una filastrocca
ripetuta in coro dai fanciulli: Polidòru, gùla in cél, / ca l te sc’péccia
san Michél; / san Michél nu sa vegnì: / gùla, gùla da per tì, “coccinella, vola in cielo, che ti aspetta san
Michele; san Michele non sa venire: vola, vola solitaria”. A pochi
chilometri di distanza, a Ponte, si
riecheggia in modo simile: Pòla,
pòla, gùla n cél, / che l te ciàma san
Michél, / san Michél l’è andàc’ a
Pavìa, / pòla, pòla, gùla vìa.
Come sinonimo a Mazzo è
tramandata la variante puàza, nella quale si riconosce una rimessa
in campo, a causa di intersezioni
fonetiche e di tangenzialità spesso
misteriose nelle conoscenze entomologiche, del tipo puàza “maggiolino”, che si incontra altrove.
Dal punto di vista strutturale, ci
troviamo di fronte a una formazione suffissata, rispetto a pó(i)a
“coccinella” attestata a Teglio nella sua forma semplice, a Castionetto póla, con l’attesa vocale tonica stretta, a Chiuro pùla “coccinella”, a Premana polalìin dol Segnóor “coccinella”, “pulcino del
Signore”, con la quale i bambini
giocavano, lasciandosela correre
sulle mani e giocare a rimpiattino
tra le dita. A Grosotto incontriamo
la variante pòna, forse per il riecheggiamento di un antico nesso
con Madòna. La bestiola è qui
chiamata sulla palma per essere
inviata verso il regno dell’azzurro:
Pòna, pòna, van in cél, / che l te
ciàma san Michél. / San Michél l’é
śgià nàc’ lè: / pòna, pòna, van a
chè, “San Michele se n’è già andato via: coccinella, torna a casa”.
Nel villaggio che ha dato il nome
alla Valtellina, la cantilena recitata
per inviare l’insetto come messaggero dei mortali a coloro che abitano sopra le tempeste non si discosta di molto dal copione: Puàza,
puàza, van al cél, / che l te ciàma
san Michél. / San Michél al völ
mìga vegnì. / Puàza, puàza, van de
per tì! La variante loverina è pòla e
la filastrocca per invitarla a volare
oltre la cortina delle nuvole suona:
Pòla, pòla, va n del cél, / che l ta
mànda san Michél; / san Michél l’è
già partì, / pòla, pòla, van par tì.
Quasi identica quella di Tresivio:
Pòla, pòla, göla in cél, / che l te
ciàma san Michél; / san Michél nu
m sa vegnì, / göla, göla da per ti.
Con attribuzione più specifica
alla sfera sacrale, ad Albosaggia la
“coccinella” è definita galinèla,
galìna del Signór, a Campo pégura
de la Madòna, “pecorella della
Madonna”, a Tàrtano fràa, “frate”,
nel dialetto di Surselva bàu Niességner, bàu Nossadùnna “coccinella”, in senso letterale “insetto del
Signore, della Madonna”, nel gen.
induvinellu, “indovinello”, probabilmente nel senso agentivo di “piccolo indovino, piccolo mago” o
anche in quello risultativo di “pronostico”. Un frammento di filastrocca riverbera la propria striatu-
Fotolia
tio rerum), o in considerazione di
qualche comportamento insolito
che poteva essere interpretato
come un responso. Entrano in
questa categoria la lepre, la lince,
la donnola, l’ermellino, la lontra, gli
uccelli notturni, il cuculo, i rettili in
genere, la farfalla, la cavalletta, la
mantide religiosa, il cervo volante,
la cetonia, il maggiolino, l’elaterio,
la lucciola, la coccinella, l’onisco, il
formicaleone, la forbicina e numerose altre specie.
Il chiamare in causa una bestia, quasi fosse in grado di comprendere il linguaggio umano, rientrava pienamente in quell’arcaico
quadro nel quale i confini fra i tre
regni della natura non conoscevano ancora barriere inequivocabilmente incompatibili fra loro. Perciò
dagli animali ci si attendevano reazioni simili a quelle manifestate
dagli uomini, di simpatia o di ostilità, ed era necessario trattare con
loro secondo codici di comportamento improntati a grande rispetto. In modo ancora sufficientemente diafano le filastrocche, quando
non ci siano pervenute del tutto
frammentarie, rappresentano
spezzoni consistenti di antiche
preghiere, inserite un tempo come
sezioni irrinunciabili di rituali che
noi dobbiamo limitarci a presupporre, dal momento che nessuno
di essi ha avuto l’avventura di
giungere fino a noi in questa veste
sacrale e nel suo contesto liturgico. Per la Valtellina e la Valchiavenna, come per ogni altro angolo del
villaggio globale, se ne potrebbero
citare diversi esemplari, a commento dei motivi che hanno determinato l’assegnazione a tassonomie funzionali per noi assolutamente enigmatiche di numerosi
animaletti che furono capaci di
suscitare l’interesse dell’uomo primitivo per qualche loro caratteristica, ma qui ci troviamo costretti dal
tema scelto ad attenerci a quelli
soltanto a carico dei quali traspaia
qualche venatura di sgomento o di
timore reverenziale come sintomo
di tabuizzazione.
A Montagna il nome con il
quale si è voluto designare la “coccinella” è pulidòru. Dal confronto
con altre denominazioni confina-
PROVINCIA IERI E OGGI 135
136 PROVINCIA IERI E OGGI
l’amore”, volando dalla palma verso la direzione che l’insetto indovino soltanto conosce, dipende assai probabilmente anche l’abr. cëcamóre, “coccinella”, “cerca amore”. Lo confermano le strofette
popolari propagginatesi nei giochi
dei ragazzi, quando sollecitano
l’insetto catturato a prendere il
largo sul filo della brezza che scorre loro incontro: Catarënèlla, catarënèlla, / vann’a truvà l’amóra
bèllë, / ggìrë dë llà, ggìrë dë nguà:
/ va vvëdé addónna sta, “Caterinella, Caterinella, va’ a scoprire l’amore bello, gira di là, gira di qua, va’
a vedere dove sta”; Ciavëlarèllë
Fotolia
ra anche nelle singolari denominazioni tabarchine dell’insetto: a Calasetta minindé, in modo più diafano
a Carloforte duminindé, da Domine
Deus, invocazione alla divinità. A
Lanzada si è ricorsi alla personificazione, assegnando al piccolo
coleottero il nome di caterìne, forse come spezzone iniziale superstite di un’antica cantilena, intesa
a evocare il piccolo messaggero
delle altezze. In alcuni dialetti settentrionali l’insetto appare infatti
con il significativo designante di
marìa vola.
A Samòlaco, all’imboccatura
della Valchiavenna, anche il maggiolino era considerato una bestiola divinatoria. I ragazzi legavano
alle loro zampette un filo e sollecitavano il rumoroso coleottero a librarsi nell’aria. La direzione che il
messaggero avrebbe presa sarebbe stata interpretata come indicazione del percorso da seguire per
muoversi alla ricerca della futura
fidanzata. Il nome assegnatogli di
filamùur è probabilmente da decifrare come un composto imperativale, l’inizio del comando di partire, srotolando il filo magico: “Fila
(il perfetto) amore!”. Una conferma
indiretta ci è fornita da una cantilena bergamasca (raccolta a Nembro, dove la Valseriana sfocia al
piano): Balóres chi gùla, / al ta
ciàma la tò murùśa, / al ta ciàma
ol tò Michél. / Gùla, gùla fin al cél,
“maggiolino che vola, ti chiama la
tua fidanzata, ti chiama il tuo Michele. Vola, vola fino al cielo”.
L’arcangelo san Michele, così ricorrente nelle filastrocche, era raffigurato nelle chiese della valle con
una bilancia in mano, intento a
pesare le anime. Egli stesso, come psicopompo, le avrebbe poi
guidate verso le dimore eterne.
Il Garbini ha raccolto a Chiavenna filamóra nell’accezione di
“mantide religiosa”, concetto ricorrente nella definizione dell’ortottero in varie località e spiegato dalla
nenia che ripetono i ragazzi siciliani: Filannera, chi fa tò mamma: fila
o tessi?, arguendo poi se fili o
tessa dalla maniera in cui la bestiola, tenuta in mano, muove le
zampe anteriori per divincolarsi e
difendersi. Dall’invito a “cercare
[composto probabilmente con “uccello” e “volare”, “volarello”] vólë,
vólë, / sàccëm’asddìcë addó sc’tà
l’amóre: / o da cquà o da llà, /
sàccëm’addicë addónna sc’ta, “Uccello volarello, vola, vola, sappimi
dire dove sta l’amore: o di qua o di
là, sappimi dire dove sta”.
A Mazzo, per spingere il coleottero a levarsi in alto, si ripete
la filastrocca: Puàza, puàza, van al
cél, / che l te ciàma san Michél. /
San Michél al völ mìga vegnì: /
puàza, puàza, van (de) per tì, riecheggiando una formula applicata
anche ad altri ambasciatori delle
soglie di ametista. Il tipo puàza
“maggiolino”, diffuso pure a Lovero, rappresenta molto probabilmente un compromesso tra pùla
“pollastra” e cugàza, ossia “codaccia”, attributo scorrente dal displuvio demonizzato. A Novate Mezzola si segnala infatti pòla come nome del “maggiolino”, con la vocale
tonica larga, presumibilmente per
esigenze di rima più perfetta nell’inserzione in qualche filastrocca,
mentre altrove, come si è visto
sopra, lo stesso appellativo si
presenta come designazione della
“coccinella”.
Un composto imperativale
del tutto trasparente compare in
saltamartìn, la denominazione delAnche il maggiolino la “cavalletta” più diffusa in enera considerato una trambi i bacini imbriferi dell’Adda e
bestiola divinatoria, della Mera e vastamente trabocfatta prigioniera
dalle mani dei bimbi cante nelle aree contermini: borm.,
piatt. saltamartìn “cavalletta, locuper essere inviata
come intermediaria sta”, gros. saltamartìn “cavalletta”
tra il regno dei beati e “trottola”, Valle Olona saltamare quello dei mortali. tén “locusta, mantide, grillo”, vares. saltemartìn, saltemartìtt “caThe ladybird was
valletta”, mil. saltamartìn, salalso considered a
tamàrt, pav. saltamartei “cavalletdivinatory animal,
ta, locusta”, bresc. saltamartì
captured in the
“locusta, cavalletta”, tic. saltamarhands of children
tìn, saltamartégn, saltamartìgn, salto be sent as an
intermediary between temartìn, sautramartìn, soltamartìn
the kingdom of the “saltamartino, cavalletta e altri inblessed and that
setti affini; formicaleone”, per traof mortals.
slato “ragazzo, individuo piccolo,
magro, agile, irrequieto, volubile;
persona che cambia spesso lavoro, che manca di parola, che parla
in modo sconclusionato, saltando
di palo in frasca; tipo di giocattolo
per bambini; mazzeranga, pestello
usato per comprimere e rassodare
il selciato”, trent. (Roncone) saltamartìn “cavalletta, locusta, Locusta viridissima e congeneri”, ver.
saltamartìn “cavalletta; gambalunga, saltabecca; larva dello stiantino”, regg. Seltamartèin “cavalletta,
locusta”, valenz. saltamartí.
A differenza degli insetti alati,
la cavalletta si muove al suolo per
lo più balzando. L’invito a partire le
viene perciò rivolto adattandosi
alle sue preferenze. Talora il secondo segmento compositivo muta, in considerazione del luogo di
partenza, o sotto l’influsso di altre
suggestioni, mentre il comando
rimane identico, sia che venga
Fotolia
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espresso col medesimo verbo, sia
che venga affidato a un suo sinonimo: tic. saltafén, saltefén “cavalletta”, “salta fieno”, friul. saltapayusk “salta pagliuzze”, Cabbio,
Muggio saltabósch “cavalletta, locusta”; béarn. saltaprat, astur. saltapraos, spagn. saltamatos, saltamontes; abr. jundamartìnë “cavalletta” (dal lat. *iǔncta-re “saltare a
piedi giunti”); it. saltacavalla “cavalletta”, con ritorno alla metafora
dell’equino, folign. saltamula, appenn. bol. saltabécco “cavalletta”
per sostituzione dell’animale preso come paragone, fr. mer. saltabuk; Mergoscia saltabèca “specie
di cavalletta”, reinterpretato come
“salta (e) becca”, it. saltabecca;
Gandria saltamartèla “cavalletta”,
forse “salta e martella”; Assisi,
Amelia salta picchio, march., tic.
(Bruzella) saltamósch “cavalletta”;
umbro saltalippo, probabilmente
composto in seconda sede coll’ipocoristico del personale “Filippo”,
ancon. salippo, perug. cont. saléppico “cavalletta”, Terni saltazìppuro
(DEI 5,3323); picc. grãper sotö
“cavalletta”, “nonno saltatore”,
con risvolto parentelare.
differenza degli
Lo stesso composto è tra- A insetti
alati, la
smesso per osmosi ad altri insetti cavalletta, come la
salterini, in primo luogo al metalli- mantide, si muove al
co “elaterio”. Ne troviamo testimosuolo per lo più
nianza nel sondal. saltamartìn, con balzando. L’invito a
partire le viene
la variante agionimica sanmartìn
perciò rivolto
“elaterio”, nel chiav. (Gordona) soadattandosi alle sue
latamartìn “elaterio”, nello zold.
preferenze.
sautamartìn, nel friul. saltemartin
“coleottero”, nel guastall. saltaUnlike winged
martìn “elaterio”, nel sen. e tosc.
insects, the
saltamartino “elaterio”. A Monte grasshopper, like the
praying mantis,
sopra Morignone è apostrofato
come sanmartìn, mentre a Tola, moves on the ground
mainly by jumping.
poco sotto, nella valle, porta il Inviting
it to leave is
nome di santacaterìna, l’inizio therefore made by
dell’invocazione, con la quale lo si
adapting to its
inviava verso il solito varco tra i
preferences.
nembi, ripetendo cadenzatamente
a più riprese: santacaterìna, ´sg’gòla in cél, / che l te c(h)iàma san
Michél. Tanto la personalizzazione,
quanto il ricorso all’agionimo sono
sintomi di una considerazione di
privilegio riservata all’insetto, consultato pure per conoscere dal suo
balzo, quando è rovesciato, un responso su un interrogativo dai due
esiti, come si fa quando si sfoglia
una margherita. A Sonogno il piccolo coleottero è chiamato chessì,
perché i fanciulli, giocando, mettevano alla prova le sue capacità divinatorie (cf. palerm. anniminagghia
“elaterio”, voce che vale anche “indovinello”, dal lat. tardo *indivīnare “leggere nel pensiero degli
dei”, perché i ragazzi traevano
pronostici dai movimenti della bestiola sul ritorno dei padri dalla
pesca), osservando le affermazioni del capo, interpretate come una
sua risposta di conferma: che sì.
Gli si deve probabilmente affiancare anche il verz. cìco di sì “specie
di coleottero”, “insetto del sì”.
Nel gergo dei magnani di Lanzada soltomartìn è la “pulce”, a
Revine saltamartìn il “martin pescatore”.
Ricorrendo alle due componenti rovesciate nella loro successione, si è plasmato a Bianzone,
oltre Tirano, il nome del “formicaleone”, martin-scéśa, da interpretarsi, in modo parallelo, come un
invito alla bestiola personificata:
“Martino, arretra”. Il segmento
verbale è desunto dal lat. cěssa-re
“ritirarsi”. Dopo aver scavata la
propria buca, ammonticchiando
su un lato il cumulo dei granelli in
bilico, pronti a franare al più piccolo urto come il contenuto di una
clessidra, l’insetto si ritira in fondo
alla fossa in attesa della preda. La
forma imperativale appare come
una sollecitazione ad acquattarsi
nel suo nascondiglio per non lasciarsi scoprire dall’eventuale vittima, mandando a vuoto l’insidia.
L’animaletto viene così blandito
col porsi dalla sua parte, per accondiscendenza empatica. I piccoli bianzonaschi infilavano uno stecchino nella buca dell’insetto, ripetendo a intervalli cadenzati:
martinscéśa, scéśa indré “ritirati,
retrocedi”. Alle bestiole sparute
che si rintanano nella terra erano
commissionate ambascerie indirizzate alle divinità ctonie, delegandole quali intermediarie verso il regno
dei morti. L’invito a retrocedere
poteva costituire un mandato di
discesa verso il gorgo delle ombre.
A Poggiridenti per definire la
“larva del formicaleone” è stato
segnalato l’appellativo trìpa. Per
farla uscire dalla tana, anche qui
si riteneva che fosse necessario
ricorrere a una filastrocca di velata
minaccia (l’amputazione del capo),
ritmicamente scandita, quasi certamente sopravvissuta come momento culminante di un antico
formulario magico: Trìpa, trìpa, /
cinch curtèi a la tu vìta: / ün de scià,
ün de là. / Sòlta fò dä lä tu cà.
Forse anche in questo caso bisogna presupporre alla base dell’etimologia una motivazione analoga,
partendo dal verbo germ. *trippo-n
“saltare”, che ha lasciato numerosi continuatori nell’Italia settentrionale e altrove. Nella parlata di Samòlaco trépa è il “segno tracciato
nell’erba strisciando il piede, prima
di iniziare lo sfalcio, al fine di evidenziare il limite di proprietà per
prevenire involontari sconfinamenti”. L’alone magico che si addensa
intorno all’insetto è comprovato
anche dalla personalizzazione rilevata dal ricorso al nome proprio
caterinèta con il quale esso è conosciuto a Grosio, caterinéta a
Grosotto, caterìn(n)a o anche caterinnadelavàl a Montagna, “Caterina della valle”, incipit decapitato di
una diffusa cantilena, e da quello
più generico di mónega “formicaleone” con cui lo si definisce a Sóndalo. Qui è sfuggita all’oblio una
sequenza che si cantillava, per
farsi indicare dal piccolo indovino
la direzione verso la quale ci si
sarebbe dovuti muovere alla ricerca delle bestie smarrite al pascolo: Mónega, mónega del terén, / l’é
serén, serenénto: / fam troàr li mìa
càura e li mìa féda in un momént,
“monaca, monachella del terreno,
è sereno, sereno limpido. Fammi
trovare in un attimo le mie capre e
le mie pecore” (Dario Cossi). Assai
più inquietante si rivela la raffigurazione presupposta dal pav.
PROVINCIA IERI E OGGI 137
138 PROVINCIA IERI E OGGI
ripetuta una cantilena,
intesa a chiamarla vicino per predisporla all’invio: Vén, vén, maiapàn, /
che te dò n tuchèl de
pan, “vieni, vieni, mangiapane, Dopo aver scavata la
propria buca,
che ti darò un tozzo di pane”. Con
il latte e il vino, l’impasto di fru- ammonticchiando su
di un lato il cumulo
mento compare tra i più diffusi dei
granelli in bilico,
doni sacrificali messi in serbo per
il formicaleone si
le divinità dei campi o per i loro ritira in fondo alla
messaggeri. Potrebbe rivelarsi fossa in attesa della
preda.
analoga la combinazione dei due
segmenti che formano il composto tresiv. pizaséghel “luì”, “becca After having dug its
hole, piling up on
segale”.
one side the grains
Nella variante furbeśìna della
in precarious
Val Gerola (IT 27,54) sembra di balance, the antlion
cogliere, al di là della normale
withdraws to the
evoluzione della vocale pretonica, bottom of the trench
un’allusione larvata a furba. A waiting for its prey.
Montagna vi fa eco furbeśéta e le
si canta una filastrocca simile a
quella che circola altrove per l’arrotino, invitandola ad affilare le
sue forbici: Źin, źéta, / furbeśéta, /
cinch quatrìn, fàla mulà: / ün de
préda e ün de sas / e l galét l’é a Anche per la “grossa
remulàz, “il galletto è (a pascersi) formica rossa” viene
ripetuta una
di foglie di ravanello”. In alta Valcacantilena.
monica il ritocco fonetico investe
la concezione stessa dell’insetto,
A lullaby is also
presentandosi addirittura nella
sung for the
forma fùria “forfecchia”. Si dovrà
“ fat red ant”.
tener presente tuttavia che qui il
verbo furà significa “pungere, bucare” (Goldaniga 1,409-410).
Una constatazione conturbante si affaccia con evidenza
a chi, mentre li va collezionando, ponga attenzione agli ingredienti delle filastrocche. La citazione della morte è ricorrente in
più di una di queste cantilene, che
pure a prima vista si direbbero
giocose. È probabile che la conce-
Fotolia
diàvol di formìgh “formicaleone,
larva del Myrmeleon formicarius”
(Gambini 81).
Il composto imperativale
gros. pe´sasàs per identificare la
“larva della friganea, Phryganea
rhombica” rappresenta probabilmente una voce di importazione,
mediata dal linguaggio dei pescatori, che la usavano come esca. La
motivazione del nome si ritrova nel
rivestimento intessuto di piccoli
frammenti di pietra, saldati tra loro
a forma di astuccio protettivo, entro il quale si rintana. La struttura
della voce sembra riecheggiare, al
suo inizio, l’incipit di una filastrocca, indirizzata alla bestiola per invitarla a misurare il proprio carico.
Il termine autoctono dovrebbe invece essere rappresentato dal
gros. gaśòtul “portasassi”, dato il
suo riaffioramento quasi identico
a Villa di Chiavenna nella variante
ca´sòtul “involucro sabbioso del
portasassi” che, tanto per la sua
oscillazione fonetica, quanto per la
puntualizzazione semantica, invita
a indirizzare senza eccessive esitazioni l’indagine etimologica verso il lat. casa “capanna, abitazione, rifugio”.
Forse anche nel tipo “trottapiano” si rifrange un originario comando rimasto privo di altre indicazioni, rivolto a uno dei parassiti
dell’uomo, ritenuti più fastidiosi e
più umilianti: livign. trotaplàn generalmente al plurale “pidocchi”,
borm. trotapiàn. L’imposizione a
muoversi lentamente potrebbe
rappresentare, in questo caso,
uno scongiuro, la richiesta cioè di
rimanere lontano, di tenersi alla
larga. Il risvolto demoniaco si riscopre attraverso l’evoluzione semantica affiorante nel trep. trotaplàn
“spauracchio evocato per spaventare i bambini”.
Al contrario, nel composto
montagn. maiapàn, mangiapàn,
imbastito per definire la “grossa
formica rossa che nidifica nel tronco dei castagni”, potrebbe profilarsi la cristallizzazione dell’invito a
presentarsi per ricevere il dono in
vista di una commissione ad essa
affidata, da far giungere nel regno
silenzioso del sottoterra. Anche
per questa bestiola viene infatti
zione dei piccoli protagonisti come
messaggeri tra gli uomini e le divinità della natura li ritenesse anche
in grado di varcare liberamente la
soglia che divide noi dal regno dei
trapassati per raccogliere dalla
loro bocca una conferma di quella
sopravvivenza della quale godono
presso Dio e per portare loro la
testimonianza del ricordo da parte
di chi, durante il cammino verso il
definitivo congiungimento con loro, continua a nutrirsi di pane.
«A nessuno può sfuggire che
tra fila, filatura e filastrocca c’è un
[tema] a testimoniare la loro affinità profonda. Non si filava soltanto
la lana, ma si filavano anche i
pensieri, le idee, le storie, oppure
le rime, le filastrocche, le ninne
nanne. Se la fila deriva dall’attività
di filatura delle donne durante la
veglia, può darsi che la filastrocca
discenda, linguisticamente, proprio dall’operazione iterata di queste api operose che si affaccendavano con gesti rapidi e millenari
intorno al lavoro dei fusi (canapa,
lino, lana) ma, contestualmente,
percorrevano anche gli itinerari
della comunicazione. Il fuso torna
spesso… Le tre antiche Parche (o
quattro, a seconda dei riaffioramenti) mantengono significativamente una presenza costante e
millenaria nelle filastrocche. Ormai
sono state trasformate dal lavorìo
culturale della stratificazione in figure meno suggestive, dalle qualità meramente umane o animali,
ma noi sappiamo che questo
“spostamento” non ne ha avvilito
il senso profondo. Il bulino culturale, in particolare quello religioso,
non le ha annientate anche se le
ha indotte ad assumere vesti meno sgargianti, o a ripiegare sull’analogia animale. Così Clotho,
Lachesis e Athropos hanno vestito
i panni delle filatrici impegnate,
delle pulzelle che filano, avvolgono
matasse, tagliano (o impastano) o
delle civette [o scimmiette] arroccate sul comò. La loro matrice è
comunque persistente e trasparente. Le donne della fila costituiscono anch’esse una dinastia ulteriore di Parche. Anch’esse
filano, avvolgono, recidono. Anche
loro hanno potere di vita e di mor-
tra questi due fili forma una croce
di cui la linea verticale rinvia al
principio attivo, maschile, e la linea orizzontale a quello femminile.
La filatrice è padrona del movimento circolare e dei ritmi come
la dea Selene è signora della luna
e delle sue fasi. La luna che muore e ritorna allude alle potenze
femminili che governano il destino
in un ambiente concettuale che
ruota intorno all’idea della rinascita. Il movimento circolare del fuso
è generato da quello alternativo e
ritmico prodotto da un archetto o
dal pedale del filatoio. La circolarità è sempre simbolo di totalità
temporale e del ricominciamento.
Nella filastrocca vediamo che una
delle tre pulgetis… fa pupazzi di
pasta, insomma impasta, azione
anche questa che rientra nel carattere trasformatore dell’archetipo
del femminile per cui diventa “signora della trasformazione”. InolFrancesco Salviati:
Le tre Parche.
tre il riferimento al marito, al matriFirenze, Palazzo Pitti. monio inteso come integrazione,
Le tre divinità
come coniunctio, è sempre preromane del Destino,
erano preposte alla sente quando, nella versione cattolica, si prega san Martino forse
nascita, al
perché il cavaliere, come narra la
matrimonio e alla
morte.
leggenda, frazionando il suo mantello per proteggere il mendicante,
Francesco Salviati:
appare come colui che porta con
The three Fates.
sé una possibilità di rinascita. Il
Florence, Palazzo
mantello, infatti, oltre a essere
Pitti. The three
Roman divinities of emblema della regalità, è simbolo
Fate were responsible della metamorfosi che l’uomo deve affrontare, nonché delle diverse
for birth, marriage
and death.
personalità che l’uomo può assumere» (Lavaroni, 148-149).
Ciò che senz’altro si può dire
è che l’imbricazione tra filastrocca
e morte non è né sporadica né
casuale. Ce lo ricorda una cantilena bormina, richiamata alla memoria dal rintocco delle campane a
morto. Din dòn, campàna marón, /
campàna di fra; / l’é mòrt un A, /
un A de Pavìa; / l’é mòrt Lucìa, /
Lucìa de Milàn; / l’é mòrt un can, /
un can rabiós; / l’é mòrt un tós, /
un tós debén: / l’é mòrt sul fén,
“Din don, campana marrone, campana dei frati; è morta una A, una
A di Pavia; è morta Lucia, Lucia di
Milano; è morto un cane, un cane
rabbioso; è morto un fanciullo, un
fanciullo per bene: è morto sul
fieno” (Marcello Canclini).
Alinari
te, inconsapevolmente, nelle formule che filano sommessamente
da generazioni. Il senso di quelle
rime era oscuro, incomprensibile,
ma sicuramente quei suoni accordati da compositori arcaici suscitavano brividi di suggestione e di
piacere» (Lavaroni, 28; cf. inoltre
48, n. 37, 59, 60-61, 112-113).
«Nelle filastrocche compaiono anche le divinità lunari che sono notoriamente tre: le Moire greche, le Parche latine o le Norne
nordiche. Esse vengono identificate come le dee del destino, del
fato superiore e ineluttabile. Sono
rappresentate come delle filatrici
che misurano a loro piacimento la
vita degli uomini e indicano gli
stadi temporali di ogni divenire:
nascita-vita-morte, passato-presente-futuro. Sono tre sorelle, una
delle quali presiede alla nascita,
l’altra al matrimonio avvolgendo il
filo [ecco il perché del cappello da
sposa e dell’invocazione per avere
un bel bambino], la terza alla morte, tagliandolo: [friul.] Din-don, / tre
pulgetis sul balcòn: / une’a file,
une’a daspe, / une’a fas pipin di
paste [“din don, tre pulzelle sul
balcone: una fila, una avvolge, una
fa pupazzi di pasta”]. Le tre pulgetis (Moire, Parche, Norne) sono
comunque collegate all’archetipo
del Femminile e al mistero della
filatura e della tessitura che viene
esperito come proiezione della
Grande Madre che tesse la vita e
fila la matassa del fato. È questa
la ragione per cui l’azione del filarefuso è un attributo di tutte le dee
Madri, delle dee lunari e delle dee
che tessono il destino anche nel
loro aspetto terribile; figura, questa, che può essere assimilata a
quella del ragno. Il significato del
tessere – al pari di tutto ciò che è
archetipo – comprende un aspetto
positivo e uno negativo. L’arte del
tessere è un’azione tipicamente
femminile e rappresenta un atto
creativo che si manifesta come un
intervento del sovrannaturale nella
vita dell’uomo e che si richiama a
un disegno superiore a cui egli
deve adeguarsi. “Tessere non significa soltanto predestinare (sul
piano antropologico) e riunire insieme realtà diverse (sul piano sote-
riologico), ma anche creare, far
uscire dalla propria sostanza, come fa il ragno costruendo da sé la
propria tela” (Eliade, Storia, 188).
Quest’immagine evoca, da un lato,
quella negativa di Aracne, di colei
che imprigiona le persone nelle
maglie della sua rete, dall’altro
quella di Penelope, la tessitrice
ciclica che di notte disfa il suo lavoro per rinviare eternamente la
scadenza… Fuor di metafora, la
tessitura è un lavoro di creazione,
una sorta di parto. Il filo è ciò che
unisce i diversi momenti della vita
e li riconduce al loro principio. Il
taglio del filo pertanto corrisponde
alla rottura del cordone ombelicale
del nascituro e il distacco della
madre. Inoltre, l’incrocio dei fili è il
simbolo dell’unione sessuale e
l’incrocio dei sessi è la modalità
fondamentale con cui l’archetipo
del femminile “tesse” la vita. Ma
non bisogna dimenticare che la
tessitura rinvia anche all’immagine
della “vestitrice”, di colei che veste
gli uomini confezionando i loro indumenti. Del tessuto l’ordito, formato dai fili tessuti sul telaio, rappresenta l’elemento immutabile e
principale, mentre i fili della trama
che passano tra quella dell’ordito
in virtù del movimento della navetta, rappresentano l’elemento variabile e contingente. L’inserzione
PROVINCIA IERI E OGGI 139
I T I N E R A R I
Il giro della
Valle Poschiavina
Testi e foto di
LUISA ANGELICI
E ANTONIO BOSCACCI
L
Località di partenza:
parcheggio di Campo Moro
(2.000 m)
Dislivello:
600 m
Tempo di salita:
ore 5-6
Si risale la Val Malenco e,
passando per Lanzada, si
raggiunge prima la località
Franscia e infine il parcheggio
di Campo Moro (2.000 m),
posto poco a monte del lago
artificiale che porta lo stesso
nome. Qualche metro sopra il
parcheggio si trova il rifugio
Giuseppe “Popi” Miotti
a prima parte di questo
giro, la salita al Passo
di Campagneda, è un
itinerario ricco di
curiosità e sorprese, come
quelle che riservano i numerosi
laghi di Campagneda, ognuno
diverso dagli altri per forma,
dimensione e colore.
140 PROVINCIA IERI E OGGI
Zoia. Passando al suo fianco,
si percorre l’antica mulattiera
che collegava l’alpeggio di
Campo Moro (ora sepolto dalle
acque della diga) con quello di
Campagneda.
La mulattiera sale
“girovagando” tra grandi
blocchi e rocce levigate, alcune
delle quali sono state
trasformate in palestre per
l’arrampicata. Dopo un breve
tratto pianeggiante, si scende
alle baite dell’alpeggio di
Campagneda (2.145 m).
Seguendo le indicazioni, si
sale tra i pascoli e ci si trova
sulla sinistra di un grande
piano paludoso sede di un
antico lago, ora scomparso,
ma che un tempo era il più
grande tra quelli di
Campagneda.
Passando sulla destra (o sulla
sinistra) della conca che
racchiude il primo vero lago di
questa area, si arriva alla base
del complesso pendio che
porta al Passo omonimo. Qui
si incontrano le indicazioni
dell’Alta Via della Valmalenco
(sulla destra il sentiero
attraversa i pendii del Pizzo
Scalino verso il Rifugio Cristina
a Prabello).
Risalita una corta vallecola, si
incontra sulla sinistra il
secondo lago di Campagneda.
Poco sopra, dopo aver
superato un breve tratto ripido,
si passa accanto al terzo lago
e infine si costeggia la sponda
sinistra del quarto lago, il più
piccolo tra quelli incontrati.
Di fronte, verso ovest,
appaiono inconfondibili i
ghiacciai e le creste del Monte
Disgrazia.
Dopo pochi minuti di salita, il
sentiero passa vicino al quinto
lago e, poco sopra, voltandosi,
si può ammirare anche il sesto
lago di Campagneda, che si
stende, lungo e stretto, a
destra del quinto.
Superato un piccolo salto con
l’aiuto di alcuni gradini di
ferro, il sentiero si infila sul
fondo di due vallecole e arriva
al Passo di Campagneda
(2.601 m, ore 2,30).
È qui che da qualche anno
transitano i numerosi atleti
della bella gara di corsa in
montagna che congiunge
Lanzada a Poschiavo.
Discesa. Si scende in
direzione di alcuni laghetti e,
superato il torrente che
raccoglie le acque del
ghiacciaio dello Scalino, ci
s’imbatte nel confine tra l’Italia
e la Svizzera (2.517 m, cartelli
con le indicazioni sulla destra
per la Quadrada e Poschiavo e,
sulla sinistra, per la Valle
Poschiavina e la diga di Alpe
Gera, oltre che per il Passo di
Ur). Costeggiato un piccolo
lago, il sentiero lascia il vasto
e movimentato Passo di
Canciano (2.498 m) e si infila
(attenzione) tra le rocce
levigate dall’azione del
ghiacciaio dello Scalino che un
tempo occupava anche l’intera
Valle Poschiavina.
Lasciata la deviazione per il
Passo di Ur sulla destra e
raggiunto il fondovalle, lo si
percorre in tutta la sua
lunghezza (ora accostandosi,
ora allontanandosi dal
torrente, ma rimanendo
sempre alla sua destra), fino
alle baite dell’Alpe Poschiavina.
Da qui si scende lungo una
stradicciola alla diga di Alpe
Gera e si ritorna facilmente al
parcheggio di Campo Moro.
(La discesa qui descritta è
assolutamente sconsigliabile
in caso di nebbia, non
infrequente in questi luoghi).
Dida, dida, dida,
dida, dida, dida,
dida, dida, dida,
dida, dida, dida,
dida.
Dida, dida, dida,
dida, dida, dida,
dida, dida, dida,
dida, dida, dida,
dida.
A tour
of Valle Poschiavina
The destination is the Campoagneda
Pass, going up Val Malenco, and after
Lanzada and Franscia stopping at
the Campo Moro car park. After the
Zoia refuge and the Campagneda
mountain grazing ground, follow the
indications for the Alta Via of the
Valmalenco. After this, you reach
the second, third and fourth lake;
you are facing Mount Disgrazia and
immediately after that you reach the
Pass. Special care must be taken in
the descent, especially if there is mist.
PROVINCIA IERI E OGGI 141
PIACENZA
a fianco del Po
Fotolia
Antica colonia romana, ha attraversato
la storia, da libero comune a membro
della Lega Lombarda, dal dominio delle
nobili casate milanesi sino ad assumere
la dignità di ducato insieme a Parma.
Oggi, Piacenza è una città ricca di
industrie, di attività agricole, di una
intensa vita culturale e di un’atmosfera
particolare e davvero gradevole.
Piacenza, alongside the Po
Piacenza deserves to be visited leisurely. It is the only way to
discover the city’s authentic and ancient soul. Its extensive history
features many players: Hannibal, Odoacer’s Goths, Barbarossa,
Frederick I Barbarossa, Charles of Anjou, the Viscontis, the Sforzas
and Pope Paul III Farnese. These diverse experiences have indeed
painted the historic centre’s “puzzle” with history. The Duomo
dates back to 1233; the Gotico or Comunale Palace (Town Hall) is
dated 1281; the Farnese Palace was built at the end of the 16th
century. But the great Po River played the leading role in the life of
this region. There is agriculture with vineyards, orchards and
vegetable gardens on the banks of the Po. Yet behind the façade
of this unique yet normal city lies a mystery, of course: The “Liver
of Piacenza”, an archaeological finding of Etruscan origin a few
kilometres from the main town.
142 PAESAGGI SENZA TEMPO
GIGLIOLA MAGRINI
P
iacenza è una città particolare, che pretende d’essere scoperta e non “vista per caso”. Infatti, l’Autostrada del Sole, che corre a
breve distanza, nega alla massa di
turisti di poterla attraversare, di
doverla attraversare per proseguire il viaggio. Ma forse è meglio
così: andarla a conoscere senza
fretta e secondo il nostro consueto suggerimento; l’auto parcheggiata in periferia e poi, passo dopo
passo, sino in centro, evitando
magari le vie importanti, dai bei
negozi, per svicolare in certe strade dove gli antichi palazzi sembrano invitare al silenzio.
Ma torniamo alla periferia di
Piacenza per documentarci un po’
meglio sulla sua storia, sul suo
passato. Anzi, riprendiamo dal Po,
percorrendo il bel ponte che sovrasta il fiume e spalanca una porta
ideale sulla città.
Un po’ di storia
L’antica origine di Piacenza è
chiaramente documentata dalla
sua struttura urbana a “scacchiera”, tipica della città romana. Anche il suo nome ne è la prova: infatti Piacenza è la traduzione letterale di Placentia, i cui primi segni
risalgono ad epoca preistorica, cui
seguì la presenza dei Liguri, degli
Etruschi e dei Galli Boi. Nel 218
a.C. Placentia diventa colonia romana, assumendo appunto questo nome; nello stesso anno le
sue truppe oppongono fiera resistenza all’esercito di Annibale sulle sponde del fiume Trebbia. Del
resto, l’anno precedente, ossia nel
219 a.C., i soldati della futura Placentia avevano già misurato le
proprie forze contro gli uomini di
Asdrubale, scontro che si ripeterà,
ancor più cruento nel 207 a.C.
Qualche anno di tregua e poi,
nel 200 a.C., cala sulla piccola
città la furia devastatrice delle orde di Amilcare, che devastarono e
saccheggiarono ogni cosa.
Poi la storia assunse una
piega diversa, grazie alla nascita
di una strada, ancor oggi importantissima: la via Emilia. Era il
187 a.C. quando Piacenza venne
collegata a Rimini. Nel 90 a.C.
Placentia ottenne la cittadinanza
romana e Augusto la iscrisse
all’VIII Regione.
NOTIZIARIO
Paesaggi
senza
tempo
A sinistra: il duomo
di Piacenza e un
particolare del suo
portale.
A destra: la
cattedrale di
Sant’Antonino.
In basso: la chiesa di
San Sisto inquadrata
da una suggestiva
angolazione.
Sembrava che la sorte della
città si fosse indirizzata verso un
definitivo destino di pace e di indipendenza e, invece, con la caduta
dell’Impero Romano, Piacenza fu
occupata da Odoacre, dai Goti e
poi dai Longobardi che la eressero
a capoluogo di “ducato”.
Dopo il Governo vescovile,
durato dal 997 al 1120, la città,
con libera decisione, aderì alla
Lega Lombarda contro Federico
Barbarossa che, nel 1161, le impose un podestà imperiale.
Fu proprio nella cattedrale
piacentina di Sant’Antonino, che
furono firmati i preliminari della
Pace di Costanza, nel 1183.
Una pace che non collimò
con quanto sarebbe avvenuto
nell’antica Placentia coinvolta in
una serie di contrasti con Parma,
Cremona e Pavia, tanto che nel
1254 Oberto Pallavicino, signore
lombardo di fede ghibellina, pretese il comando sulla città, impose
un governo di assoluto rigore e di
buon assetto urbanistico.
Mauro Lanfranchi
Mauro Lanfranchi
Mauro Lanfranchi
Left: the Piacenza
duomo and its portal
in detail.
Right: the
Sant’Antonino
cathedral.
Below: the San Sisto
church photographed
from an interesting
angle.
PAESAGGI SENZA TEMPO 143
and elegant.
Un’impronta medievale
Sorvolando Piacenza non si
può non restare stupiti dalla sua
planimetria. È come guardare una
144 PAESAGGI SENZA TEMPO
Mauro Lanfranchi
Sei secoli di alterne vicende
Come spesso succede per le
città di media dimensione poste
lungo le più importanti direttrici
viarie, e magari a due passi da un
grande fiume, anche per Piacenza
fu così. Dal XIII al XIX secolo essa
attraversò un periodo che definire
intenso, sotto il profilo storico, è
puramente riduttivo. Per non dilungarci eccessivamente descriveremo questa serie di eventi con lo
scarno stile della cronaca, a partire dalla fine del 1200, quando
Piacenza venne occupata da Carlo
d’Angiò (1271), da Alberto I Scotti
(1290), per passare nel 1317 sotto il dominio di Matteo Visconti.
Passarono soltanto cinque
anni e risuonarono richiami di
trombe e rulli di tamburi per annunciare l’arrivo delle truppe di Galeazzo Visconti e Obizzo Landi che la
cedettero quasi subito al legato
pontificio Bertrando del Poggetto.
Nel 1335 una rivolta popolare cacciò da Piacenza i Guelfi (sostenitori del Papato) e l’anno dopo
la città passò ad Azzone Visconti.
Ma non era certamente finita: dopo i brevi domini di Ottobono Terzi
(1404-06) e di Facino Cane (140612) tornarono i Visconti. Una breve
parentesi repubblicana nel 1447,
anche grazie alla mediazione di
Venezia, quindi furono gli Sforza a
impadronirsi del governo di Piacenza, che passò poi a Luigi XII di
Francia dal 1499 al 1512. Un intervallo molto breve, tanto che nel
1512 la città finì allo Stato Pontificio, dapprima in via transitoria, ma
dal 1521 definitivamente.
Senonché, nel 1545, Papa
Paolo III Farnese decise di donare
Piacenza e Parma al figlio Pier Lui- Il Palazzo Gotico o
gi, fondando il Ducato di Parma e Comunale, esempio
di architettura
Piacenza.
sobria ed
Con quest’ultima annotazio- medievale,
elegante.
ne, un po’ singolare, siamo arrivati
all’epoca di Napoleone, quando
The Gotico or
Piacenza venne insignita del grado
Comunale Palace
di “Dipartimento del Taro”. Il 15
(Town Hall), an
aprile 1860 venne inclusa nel Re- example of medieval
architecture, austere
gno d’Italia.
distesa di vecchi mattoni incisi da
una rete di stradine che si affiancano come un puzzle. Del resto, la
storia di questa simpatica città è
la più autorevole conferma a tale
impressione: la breve durata di
ogni signoria ha impedito che si
attuassero successivi programmi
di sistemazione urbana. La “pianta” medievale ha così conservato
la sua struttura e la città si è sviluppata e ha mutato volto soprattutto attorno al nucleo centrale.
Questo non toglie che la parte più
antica di Piacenza non possieda
monumenti degni di nota, come il
Duomo, pregevole esempio di stile
romanico lombardo risalente al
1233, dalla caratteristica facciata
“a capanna”, spartita orizzontalmente da lesene e aperta nella
parte inferiore da tre portali ornati
da pronao, ossia da un atrio a colonne che precede la cella del
tempio. L’interno, a tre navate,
conserva affreschi (dal XIV al XVII
secolo) firmati da L. Carracci, da C.
Procaccini, da P. F. Morazzone e
dal Guercino. Il campanile risale al
1333.
Palazzo Farnese,
tipica dimora di una
grande famiglia
nobiliare.
Mauro Lanfranchi
The Farnese Palace,
a typical residence
of a grand noble
family.
La chiesa di
San Francesco, dal
profilo insolito
sottolineato dai tre
piccoli campanili.
The San Francesco
church, with its
unusual profile
embellished by three
small bell-towers.
Mauro Lanfranchi
Altrettanto interessante l’antica cattedrale, oggi chiamata
chiesa di Sant’Antonino, fondata
nel IV secolo, ricostruita nell’XI
secolo e trasformata nel XIII secolo. Nel 1350 alla chiesa fu aggiunto un atrio in stile gotico, chiamato
“il Paradiso”, progettato da Pietro
Vago.
È giusto ricordare anche la
chiesa di San Savino e quella gotica di San Francesco, iniziata nel
1278.
Il maggior edificio medievale
di Piacenza è il “Palazzo Gotico” o
comunale, datato 1281, coronato
da merli ghibellini e aperto inferiormente da un portico e cinque archi
acuti.
Nel Cinquecento, Piacenza
ha conosciuto un particolare risveglio architettonico e ne rimane testimonianza con la chiesa di Santa
Maria della Campagna, del 1528,
su progetto di A. Tramello, affrescata nella cupola dal Pordenone
e dal Solero. Sempre al Tramello
si deve la ricostruzione della chiesa di San Sisto, fondata nell’874;
a proposito di questa chiesa, si
ricorda che la Madonna del suo
altar maggiore, dipinta da Raffaello, oggi si trova a Dresda.
Di notevole bellezza e valore
anche il Palazzo Farnese (158893) forse eseguito su disegno di F.
Paciotti e a cui lavorò anche il Vignola.
Per restare nel centro, nel
cuore dell’antica Placentia non
possiamo trascurare la piazza dei
Cavalli dove sono ambientate le
due statue equestri di Alessandro
e Ranuccio Farnese, opera di F.
Mochi (1580-1654). Di notevole
rilievo anche il Palazzo del Governatore (1781) e il Teatro Comunale, entrambi del piacentino L.
Tromba. Vi è poi il Museo Civico,
dove sono conservati dipinti del
Botticelli, del Pordenone e del
Campi, stupendi arazzi e resti archeologici importanti. Fra questi
ultimi reperti è famoso il Fegato di
Piacenza, che descriviamo a parte.
Concludiamo questa rassegna delle maggiori “bellezze” piacentine con la Galleria Alberoni
dove si ammirano opere di Antonello da Messina, Guido Reni,
PAESAGGI SENZA TEMPO 145
Mauro Lanfranchi
DALL’ARCHEOLOGIA ALLA STORIA
Nel Museo Civico di Piacenza è visibile un reperto che gli archeologi conoscono come il Fegato di Piacenza. È un oggetto davvero singolare, di origine etrusca, in bronzo, rinvenuto a Gossolengo, un centro
che dista nove chilometri dal capoluogo. Si tratta di un modellino di un
fegato di pecora che, con ogni probabilità, serviva agli aruspici, incaricati di formulare divinazioni attraverso l’osservazione di particolari
organi degli animali. Il Fegato di Piacenza è suddiviso in sedici caselle,
in ciascuna delle quali è inciso il nome di una divinità etrusca. Inutile
dire che a questo modellino si attribuisce notevole valore, anche perché
testimone di un periodo storico di grande interesse.
A proposito di storia, la città di cui ci stiamo occupando viene ricordata anche per il Concilio di Piacenza, convocato da papa Urbano II
(1-7 marzo 1095) con lo scopo di prendere severi provvedimenti in
materia di eresia, simonia (peccato di chi intende commerciare i beni
spirituali) e anche per ottenere maggiore disciplina nel quadro della
Riforma ecclesiastica e della lotta per le investiture. Al Concilio partecipavano i messi dell’imperatore bizantino Alessio I Comneno, venuti in
Occidente per cercare aiuti contro i Turchi, sottolineando le sofferenze
patite dai cristiani nei Paesi occupati dai musulmani. I discorsi di questi
messaggeri destarono grande preoccupazione nel Papa e nei vescovi
circa la sicurezza dell’intera cristianità. Questa preoccupazione e l’implicito dovere di soccorrere i cristiani così minacciati, sono stati la
premessa del movimento da cui prese origine la Prima Crociata, che
Papa Urbano II predicò nel novembre 1095 durante il Concilio di Clermont.
146 PAESAGGI SENZA TEMPO
La lunga teoria dei
portici e le vie del
centro raccontano
le quieta atmosfera
della Piacenza più
antica.
Poussin e molti altri, mentre i dipinti italiani dell’Ottocento e del
Novecento sono esposti nella Galleria Ricci-Oddi.
Fra industria e agricoltura
Abbiamo cercato di ricordare
The long procession
of porticos and the il valore architettonico della Piacentre’s streets evoke cenza di ieri, giusto per rendere più
the quiet atmosphere intenso il fascino discreto e gentile
of an older Piacenza. delle sue vie, dove il tempo ha lasciato lame di luce e profili d’ombra, dove si è trasformato in uno
scrigno di ricordi. Ma Piacenza è
anche qualcosa di diverso, è anche espressione di attività imprenditoriali e artigianali molto apprezzate. È anche una città dove si rispetta al massimo l’ambiente; la
pianura, intorno, non è soltanto
sinonimo di “paesaggio”, bensì il
risultato di un’agricoltura all’avanguardia pur senza dimenticare la
nobile tradizione del “lavoro dei
campi”.
Cominciamo col precisare
che la provincia di Piacenza comprende 48 comuni, su una superficie di 2.589 kmq, con una popolazione di 282.000 abitanti circa.
Con quest’ultimo dato che può
subire qualche variazione. La sigla
automobilistica di Piacenza è PC.
A parte queste precisazioni, puramente statistico-geografiche, possiamo commentare l’ambiente che
circonda Piacenza, pianeggiante,
di natura alluvionale, con una corona di colline verso Nord, con una
zona centrale che si può definire
montuosa per la presenza dell’Ap-
Fotolia
pennino Ligure con la vetta del
monte Lesina che raggiunge 1.724
metri.
Il clima è tipicamente continentale con piogge intense in autunno e in primavera; molti i corsi
d’acqua a carattere torrentizio, ma
è il Po il grande interprete della
“vita” di questo territorio.
L’agricoltura è senz’altro l’attività-base di questa zona, dove si
alternano tratti “a vigneto” a coltu-
re prative, frutteti e ortaggi; vasta
Il Palazzo del
Governatore e il
la coltivazione di barbabietole da
Teatro comunale,
zucchero, senza scordare la zoodalle linee classiche
tecnia e la produzione casearia.
e severe, completano
La vicinanza con Milano e la il volto di Piacenza
non eccessiva distanza da Bolo- antica e moderna
gna fanno sì che le industrie piainsieme.
centine rappresentino – quasi – un
The Governor’s
bacino di riserva per le due grandi
Palace and the
città, con reciproco vantaggio. L’Autostrada del Sole è come un gran- Municipal Theatre
its classical and
de nastro che guida tutta questa with
severe lines, bespeak
the union of ancient
and modern
Piacenza.
attività, rappresentata da vari settori: abbigliamento, materiali da
costruzione, meccanica, chimica,
petrolchimica, conserve alimentari.
Ci sarebbero poi da ricordare
le molte e svariate “eccellenze” di
tipo artigianale, senza per questo
dimenticare la vita artistica che fa
da corona alla realtà della moderna Piacenza, non dimentica delle
vicende e della storia dell’antica
Placentia.
Banca Popolare
di Sondrio
A PIACENZA
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Fax 0523 61.71.63
PAESAGGI SENZA TEMPO 147
Mauro Lanfranchi
Mauro Lanfranchi
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Primavera al Piano di Spagna. Sullo sfondo campeggia la mole del Sasso Manduino (foto Roberto Bogialli)